L’educazione sentimentale all’italiano

L’appuntamento è alle 11, davanti al portico d’Ottavia. Ho inseguito Jhumpa Lahiri per giorni e lei questo non lo immagina nemmeno. Prima alla Casa delle Letterature; poi a Libri come, dove ho giusto il tempo di scambiarci due parole e ottenere il suo contatto e-mail; infine alla Dante Alighieri, qualche giorno prima. Finalmente riesco a incontrarla per l’intervista. Chi mi ha parlato di lei me l’ha descritta come una persona timida, a tratti persino schiva, dai modi e dal portamento eleganti. Da parte mia non credo di spiccare per socievolezza o loquacità, ma sono curioso di vedere che cosa ne verrà fuori. Appuntamento al portico d’Ottavia, dunque: so che è il suo monumento preferito a Roma, ma anche una delle similitudini che più ama fare riferendosi all’italiano, lingua che ha deciso di studiare in modo tenace, dopo essersene innamorata una ventina di anni fa, e dalla cui esperienza è nato In altre parole (Guanda, 2015), una sorta di educazione sentimentale all’italiano.

Dopo esserci presentati, infatti, mi racconta del perché si senta così legata a questo luogo: «Ho sempre visto il portico d’Ottavia sorretto dalle impalcature, sin dalla prima volta che sono venuta a Roma e abitavo poco distante da qui. Credo che senza, crollerebbe; nonostante sia un’ostruzione, l’impalcatura aggiunge alla rovina un attributo commovente. Quando scrivo in italiano mi sento un po’ così, sorretta dalle persone che mi seguono, che leggono i miei scritti, che mi correggono e mi danno consigli: senza di loro forse crollerei».

Al momento di decidere dove andare per iniziare l’intervista, azzardo una passeggiata fino a San Callisto e un caffè al bar della piazza, per mostrarle uno dei pochi luoghi con ancora intatta la propria aurea di autentica romanità, lei però preferisce avvicinarsi alla biblioteca dove lavora abitualmente. Ci incamminiamo per i vicoli del Ghetto e dopo pochi minuti siamo seduti nella saletta interna di un bar, in via dei Funari.

Mi è capitato di incontrare altri autori internazionali, da Peter Cameron a Valeria Luiselli; ho parlato con importanti scrittori italiani, senza la minima titubanza, ma l’idea di intervistare Jhumpa Lahiri mi innervosisce un po’. Sarà per il Pulitzer assegnatole nel 2010, sarà per la classifica di Forbes che la annovera tra le narratrici più influenti del panorama contemporaneo, o per quel suo essere all’apparenza impermeabile; ho portato con me una copia di un libro di J.R. Wilcock, La sinagoga degli iconoclasti, da regalarle per rompere il ghiaccio. Ho sentito infatti, durante una delle sue presentazioni, che ha un interesse per quegli autori che decidono di scrivere in una lingua altra rispetto alla propria lingua madre – nomina Conrad, Nabokov, Beckett, persino Cioran – e Wilcock, che ha abbandonato lo spagnolo per scrivere in italiano, è un altro esempio sublime. Jhumpa mi chiede perché questo scrittore abbia scelto proprio l’italiano. Le cito le parole di Wilcock: «Ho scelto l’italiano per esprimermi perché è la lingua che più somiglia al latino […] Un tempo tutta l’Europa parlava latino, oggi parla dialetti del latino: la passiflora in inglese si chiama passion-flower, per me le due sono la stessa parola». So che anche lei ha studiato latino, mi sembra colpita, e io sono pronto per iniziare l’intervista.


Jhumpa, nel libro parli di esilio, di allontanamento dall’inglese, di un tentativo di fuga attraverso la lingua italiana. L’impressione che ho avuto, soprattutto quando citi Storia di una capinera di Verga, è che questo tuo cambiamento di lingua e di paese – l’autrice vive in Italia stabilmente ormai da quasi tre anni – sia in realtà una sorta di ritiro spirituale.

Io non sono religiosa, però sì, è vero, c’è una dimensione spirituale. Storia di una Capinera mi ha colpito molto, come anche un romanzo di Dacia Maraini basato sulla vita di Santa Chiara di Assisi (Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza, Rizzoli, 2013, ndr): mi ci sono ritrovata perché, anche lì, c’è l’idea di allontanarsi per poter raggiungere una parte più profonda dentro di sé, per vivere senza il peso del possesso – possedere una cultura, un’identità. O meglio, il desiderio di possesso rimane ma è diverso, è più profondo.
Sono iscritta a un sito dal quale ogni giorno ricevo per e-mail una nuova parola italiana. Questa mattina mi è capitata una parola che mi ha colpito molto: asintotico. [Prende il cellulare e mi legge la definizione: «Detto di ciò che tende ad avvicinarsi sempre più a qualche cosa senza mai raggiungerla o coincidere con essa». Sorrido perché mi stupisce sempre la modalità con cui certe parole acquisiscono un valore diverso per l’uno o per l’altro individuo]. Questa è la parola perfetta per me, definisce la mia condizione esistenziale, perché c’è tutto lo sforzo della mia giovinezza di diventare americana, di sentirmi accettata, normale. Questo sforzo enorme, alla fine, è rimasto un desiderio inappagato: rimango sempre sospesa e non mi è possibile tutt’oggi identificarmi con quella cultura. Con l’italiano è diverso, essendo una scelta mia, mi angoscia di meno, non c’è un’aspettativa che io diventi italiana, è impossibile, ed è altrettanto impossibile diventare una scrittrice italiana, perché non mi interessa. Quindi mi sono liberata della fantasia di potermi trasformare completamente.


Esilio, allontanamento, ritiro. Metamorfosi. Da scrittrice di successo in inglese ad apprendista in italiano: citi spesso Ovidio e ho letto che Le metamorfosi è uno dei libri che più ti hanno cambiato e ti hanno fatto riflettere.

Ho letto Le metamorfosi per la prima volta venticinque anni fa, in latino e ne sono rimasta ammaliata. Nel mio libro cito la storia di Dafne e Apollo, di come la ninfa si trasformi in albero per fuggire dal dio. Nel mio caso però la metamorfosi non è completa: posso scrivere in italiano ma non posso diventare una scrittrice italiana. Penso a Pessoa e alle quattro versioni di se stesso. Forse quello che sto facendo con l’italiano è simile a ciò che ha fatto lui: non posso diventare un’altra scrittrice, ma forse è possibile esserne due.
Ho scritto un discorso per una laurea che riceverò questo mese a Siena, in cui faccio riferimento al concetto di innesto: un processo, una creazione per far nascere una nuova varietà, un nuovo ramo, attraverso un inserimento. Trovo questa parola bellissima per riflettere sul viaggio linguistico che ho intrapreso.

[Le squilla il cellulare, si scusa, mi dice in fretta che potrebbe trattarsi dell’agenzia immobiliare, col marito stanno pensando di comprare casa a Roma. Un altro passo, dopo il trasferimento in Italia nell’estate del 2012, in pieno agosto. Le sorrido perché percepisco la sua emozione, il suo entusiasmo, benché contenuto. Mi viene in mente una frase di Pavese, altro autore a lei caro, decido di citarlo].


«Amare è desiderio di conoscenza». Il tuo desiderio di conoscenza dell’italiano ha, in effetti, alcuni tratti tipici del sentimento amoroso: il colpo di fulmine a Firenze nel 1994, la prima volta che arrivi in Italia; poi la relazione a distanze quando torni a New York, con le lezioni private; i ritorni e le delusioni, le ossessioni; infine questa sorta di amore materno, delicato e protettivo quando decidi di trasferirti definitivamente nel nostro paese.

Sì, c’è un’evoluzione in questo mio amore. All’inizio, nel 1994, ho provato un desiderio forte di ascoltare la lingua, provare a capirla; poi pian piano è venuto tutto il resto. Nel 2004, dieci anni dopo, ho iniziato ad approfondire, volevo imparare l’italiano almeno in modo elementare. Infine la terza fase, qui in Italia, in cui ho un incontro quotidiano con la lingua, un altro tipo di amore, meno romantico, perché fatto anche di delusione, di sofferenza, di giorni in cui niente va bene, faccio mille errori, mi sento frustrata. Sono venuta qua per avere un rapporto reale con la lingua e il paese. Senza una conoscenza della lingua tu non puoi comprendere un nuovo paese, una nuova cultura, resti sempre fuori, ai margini.
Inoltre, la cosa più interessante dell’italiano è che esiste principalmente in Italia, non si muove facilmente, non è come lo spagnolo o come l’inglese. La lingua italiana rappresenta veramente i suoi abitanti, ecco perché l’altro giorno un signore alla Dante Alighieri mi ha chiesto: «Ma perché ha deciso di studiare la nostra lingua?» Eppure non sentirai mai un americano dire: «Perché tu studi la nostra lingua?» Perché l’inglese è più in astratto, è una lingua ma non è necessariamente un’identità. Invece in Italia è così.


Prima il bengalese come lingua della famiglia, poi l’inglese come lingua matrigna, adesso l’italiano. Che cosa pensi che voglia dire appartenere a una lingua?

Me lo sono chiesto spesso e sinceramente non lo so. È una cosa che viene dall’eredità? Dal sangue? Dall’uso? Dall’amore? Ci sono tanti motivi per appartenere a una lingua. Inoltre la concezione che si può avere di essa è diversa per ogni persona. Mi ricordo di una signora che sempre alla Dante Alighieri insisteva a dire che la lingua madre ti coccola. Penso che questo in realtà sia una sorta di visione mitica: non sempre la lingua madre rappresenta un nido.
Io adesso mi sento radicata a Roma grazie ai legami che sono riuscita a creare e che mi portano completamente in un’altra direzione, per cui sono cambiata come persona. Il fatto di non appartenere a una cultura in particolare, né a quella indiana né a quella americana, sicuramente ha reso più facile questo cambiamento, anche se rimane un atto angosciante.


E in parte anche un atto di umiltà? In qualche modo rinunci all’autorità acquisita in una lingua che ti ha dato la notorietà.

C’è una nuova dipendenza in questo mio percorso: ogni cosa va controllata, corretta, riscritta e ricontrollata da una serie di persone. Mi sento sempre una studentessa e devo accettare questa condizione. Ma mi interessa molto il processo che si innesca: concepisco un testo, lo scrivo in italiano, faccio vedere questo testo a qualcuno, poi c’è un dialogo. Io scrivo in italiano per tanti motivi, ma il motivo principale è poter vedere tutti i miei errori, è proprio attraverso questa “impalcatura” che riesco ad approfondire maggiormente la mia scrittura. La dipendenza mi fa crescere, letteralmente. Ogni tanto penso: come mai faccio questa cosa? Soprattutto quando vedo un testo come questo [mi mostra dei fogli stampati con dei commenti a margine]: ci sono delle ingenuità, come, per esempio, «utilitari» al posto di «funzionali». Questi commenti mi servono per riflettere sulla lingua: qual è la differenza fra utilitario e funzionale? Attuando questo processo, entro in un’altra dimensione dell’apprendimento, più profonda.


E riguardo al tuo stile in italiano? Cosa rimane di te come scrittrice di lingua inglese?

Beckett diceva che la decisione di scrivere in francese gli derivava dal desiderio di liberarsi del proprio stile. In italiano in realtà io ho un altro stile, più semplice, meno grazioso, di cui però non sono consapevole. Non riesco a costruirlo, perché è come se fossi cieca, non riesco a cogliere l’effetto di quello che scrivo, devo rinunciare all’autorità che invece ho in inglese.
Guardare al proprio stile è un po’ come guardarsi in uno specchio: uno può uscire la mattina senza specchiarsi; oppure stare davanti allo specchio per dieci minuti e controllare il proprio aspetto prima di scendere in strada. In italiano scrivo “senza guardarmi allo specchio”, senza un momento per riflettere sullo stile: oggi ho messo questo, ieri un’altra cosa e il senso cambia di conseguenza. Ovviamente bisogna seguire delle regole: se fa freddo metto un cappotto, se fa caldo esco in camicia.
Adesso inoltre devo affrontare la traduzione di In altre parole e trovo la cosa molto interessante per via del confronto tra la voce della mia traduttrice e la voce del mio italiano tradotta in inglese. È una cosa incredibile scoprire una nuova voce dentro di sé.

 

Spengo il registratore. L’intervista è terminata. È quasi un’ora che siamo seduti al bar e io non me ne sono quasi accorto. Mentre usciamo, mi racconta del viaggio che farà in Sicilia con la famiglia, per le vacanze di Pasqua. Penso alle rovine che troverà laggiù. Ci salutiamo con una stretta di mano davanti al portone del Centro Studi Americani: lei scompare nella penombra del cortile, io mi avvio in direzione di Largo Argentina. Ripenso al portico d’Ottavia, alle rovine della Sicilia, a questo nostro paese che continua ad affascinare chi viene da lontano, nonostante si regga ormai solamente su eterne impalcature.

 

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KuTso @Monk Club,
16 Aprile 2015

Reduci dal secondo posto (sic!) raggiunto al Festival di Sanremo nella sezione delle nuove proposte e nel pieno di un tour che li vedrà macinare tanti chilometri lungo tutto lo Stivale, Giovedì scorso i KuTso sono sbarcati a Roma regalando al pubblico della loro città una esibizione perfetta sotto ogni punto di vista.

In questa umida serata romana di metà aprile, la band ha riempito il Monk Club e ha presentato il nuovo album, Musica per persone sensibili. Un concerto a trecentosessanta gradi, una performance non solo musicale ma anche di grande presenza scenica, irriverente e dissacrante come quella del palco dell’Ariston. Ma questa volta i Kutso giocavano in casa e, nonostante chi li conosce bene ci confessi di averli visti un pochino nervosi negli ultimi giorni, riescono a dare ancora di più. Preceduti da Le idi di Maggio e dal loro ska/r’n’b made in Gubbio, alle undici finalmente i Nostri salgono sul palco: un tarantolato Matteo comincia un monologo tragicomico a proposito del tesseramento per l’ingresso al locale, affiancato da un Donatello in versione Obelix e dal resto della band. Le prime file osannano l’istrionico frontman del gruppo e allora sotto con “Elisa” e “Bevo Te”, tra amore contemporaneo e spietato realismo, acuti e danze scoordinate ma estremamente divertenti: nel loro impeccabile punk-rock musicalmente perfetto, la voce di Matteo piace e neanche poco. Il concerto va avanti così, alternando momenti in cui il pubblico interagisce con la band tra aneddoti e riflessioni scanzonate. Molto simpatica anche la permalosa “Io Rosico” e altri pezzi del primo album come “Marzia”, “E Mi Eccito”, “Questa Società”. In realtà, i testi sono superficiali solo in apparenza e quasi sempre nascondo un significato critico ed acuto. Piacevoli anche le due incursioni ‘Vip’ nel corso della serata: si inizia con Alex Britti (co-produttore del disco) e la rivisitazione in salsa rock di “La Vasca” per continuare con un veterano del rap romano e nazionale, Tommaso Zanello “Piotta”.

I KuTso non sbagliano un colpo, divertono e danno vita ad un live esplosivo ed unico nel suo genere, suonano in maniera ineccepibile e fanno ballare tutti i presenti. L’esperienza sanremese ha dato loro grande visibilità, ma rappresenta solo la punta di quell’iceberg fatto di nove anni di carriera e piccoli club dove esibirsi. Di sicuro, il resto del tour sarà altrettanto scoppiettante, compresa la presenza al concerto del Primo Maggio.

“Samba”
di Eric Toledano e Olivier Nakache

Samba è nato in Senegal ma vive in Francia ormai da dieci anni. Lavora nelle cucine dei ristoranti e sta finalmente per ottenere i documenti per richiedere la cittadinanza, solo che quando va a ritirare le carte in prefettura scopre che il suo permesso di soggiorno è scaduto e viene arrestato come clandestino, in attesa di essere rimpatriato. Ad aiutarlo a uscire dal centro di accoglienza ci pensa Alice, dirigente d’azienda che dopo un crollo psico-fisico è diventata volontaria in un’associazione di assistenza legale per extracomunitari. Una volta tornato libero, ma con l‘obbligo di lasciare il territorio francese al più presto, Samba continua la sua lotta per una vita normale cambiando lavoro e documenti ogni giorno, mentre  Alice cerca di ricostruire una normalità in cui non le dispiacerebbe che ci fosse anche Samba.

Dopo Quasi amici i registi e sceneggiatori Eric Toledano e Olivier Nakache tornano a raccontare una storia di diversità e di ricerca di normalità. In Samba, tratto dal romanzo Samba pour la France di Delphine Coulin (edizione italiana Rizzoli, con traduzione di Giacomo Cuva), il diverso è un clandestino senegalese che non chiede nient’altro di poter vivere la sua normalissima vita a Parigi senza doversi nascondere ogni giorno. In Quasi amici l’impedimento che si frapponeva alla piena normalità del miliardario Philippe era l’invalidità, ma l’amicizia con lo spiantato Driss gli permetteva di tornare ad assaporare il piacere delle piccole cose come ormai non era più in grado di fare da anni. In Samba l’ostacolo esterno è la burocrazia che non vuole Omar Sy – ancora protagonista per Toledano e Nakasche – in Francia, ma l’amicizia con l’Alice di Charlotte Gainsbourg gli dà comunque modo di vivere una vita felice, di avere delle attese. Ancora una volta, è un rapporto personale, intimo, la chiave per la vera libertà.

Rispetto a Quasi amici i due registi sbagliano praticamente tutto. Quell’equilibrio tra commedia e dramma, tra leggerezza e tragedia, non si intravede neanche in lontananza. In Samba non c’è omogeneità, non c’è coerenza né chiarezza nelle svolte narrative, c’è una ricerca di colpi di scena che non conduce a niente se non alla perplessità o al previsto. Gli accenni drammatici sono sempre staccati dalla leggerezza generale, tutto quello che è il contenuto più tragico del romanzo di Delphine Coulin, quindi la descrizione degli aspetti più duri dell’immigrazione, dai viaggi della speranza alle perdite personali, è stato messo da parte. Toledano e Nakache hanno deciso di approcciare un tema complesso come quello dell’integrazione, per di più in un periodo di notevole tensione sociale in Francia, con l’avanzata dell’ultradestra e le spinte nazionaliste, spogliandolo di ogni connotazione politica. Rimanendo nell’ambito della commedia, la scelta dei due registi può anche risultare legittima per non appesantire le avventure di Samba di considerazioni fuori luogo, ma proprio per questo il protagonista finisce per muoversi in una specie di mondo ideale scollegato da ogni implicazione con la realtà. Il suo nemico finisce per essere la sola burocrazia che gli impedisce di ottenere i documenti e che dopo dieci anni di lavoro regolare lo fa tornare al punto di partenza. Non esiste il razzismo, non esiste la xenofobia. Allo stesso tempo, però, Samba vuole essere qualcosa di più di una commedia innocua, vuole far riflettere sulle difficoltà di chi non è riconosciuto, sul senso di smarrimento di chi, per poter sopravvivere ogni giorno, è pronto a fare ogni lavoro e a prendere ogni nome, ogni documento gli capiti tra le mani. È come se Toledano e Nakache abbiano cercato di descrivere una Francia che non esiste per non scontentare nessuno, tenersi lontani dalle polemiche dell’attualità e allo stesso tempo mostrare di essere sensibili alla realtà dei fatti.

Il discorso non vale solo per il quotidiano dell’immigrato clandestino Samba. Anche la descrizione del mondo del lavoro spietato di Alice che la porta all’esaurimento – burnout, il termine esatto – è accennato quel tanto che basta per delimitare i contorni del personaggio, senza andare oltre. Funziona meglio la storia d’amore che lega i due protagonisti, all’insegna di una disfunzionalità che è la loro vera forza. Probabilmente, Toledano e Nakache danno il meglio proprio nella descrizione di rapporti di coppia, siano i due protagonisti o il mondo intorno a loro: l’amico algerino di Samba che si finge brasiliano per trovare lavoro più facilmente e rimorchiare di più; lo zio paziente e brusco di Samba; il mondo delle volontarie del centro di assistenza in cui lavora Alice.

(Samba, di Eric Toledano e Olivier Nakache, 2015, commedia, 118’)

Cercando la “poesia” del fatto narrativo: intervista a Mario Massimo

Lo scrittore, quello vero, è uno sfidante. Lo fa perché non può esimersi. E lo fa rischiando. Sempre. Scaglia il guanto contro il lettore, contro se stesso, contro l’oggetto indifeso del suo narrare. Coglie un brandello e lo disattende, anche giurandosi fedele, anche attenendosi ai fatti. Sapendo bene che non c’è alternativa.
L’autore incontrato oggi ci propone un’acrobazia, un doppio avvitamento, un’immersione inaspettata nei suoi Scavi dentro il tempo (Empirìa, 2015, pp. 103, euro 14). È questo il titolo della nuova raccolta di racconti di Mario Massimo: un affresco di epoche e atmosfere distanti, accostate in un pugno di pagine sapienti.

Dieci storie della Storia per disseppellire personaggi e umori di uomini e donne comuni o misconosciuti all’ombra di nomi ben più ingombranti e di eventi che li schiacciano, che appunto, in quanto creature letterarie e umane, li feriscono, li espongono al pericolo. Si parte dai ricordi del Golgota, per proseguire nella casa di Brunetto Latini, attraverso il silenzio creativo di Juana Inés dela Cruz, fino ad approdare al teatro del Novecento. Ogni episodio è un’eco, un passaggio nelle viscere di giorni che Mario Massimo resuscita, con eleganza e maestria. Ma abbiamo l’occasione di chiedere direttamente a lui.

 

Da cosa deriva la sua passione per il racconto storico, comune anche alla sua pubblicazione precedente La morte data? E quindi, da quali scavi è nato questo libro?

Credo si possa far risalire a uno dei miei “primi amori” di lettore, se ricordo bene intorno ai quindici anni, Lucrezia Borgia di Maria Bellonci; poi ci fu la Banti di Artemisia e di Lavinia fuggita, o anche il superbo impasto stilistico del Gattopardo, di cui pure mi aveva deluso quella che mi parve difettività dell’intreccio; più tardi ancora, e meglio, la Yourcenar. Mi affascinava (e forse non è casuale che si sia trattato, per lo più, di scrittrici), proprio il crearsi sulla pagina di una realtà totalmente altra, rispetto alla mia di ogni giorno, e tuttavia non fantastica, arbitraria, ma precisa e rigorosa come i passi di una danza. Quanto alla parola “scavo”, non sta all’inizio del procedimento narrativo: è stato Paolo Di Paolo, per così dire a cose fatte, leggendo il dattiloscritto, a formularla: e, mi sembra, in modo assai calzante.

 

C’è un personaggio o un’epoca a cui è più legato?

Più che un personaggio, direi un tipo di personaggio: quello a cui il rapporto con gli altri, con l’altro-da-sé, sia più facilmente fonte di fraintendimento, di offesa, e non per sadismo, ma perché è da questo che mi sembra nasca meglio la “poesia” del fatto narrativo. Come epoca, forse no: c’è una specie di equidistanza dei tempi e degli spazi, rispetto all’oggi, data dal riviverli con la ragione, e insieme con il sangue.

 

Nella stesura di un testo simile, quanto conta il rigore della documentazione e quanto invece lo slancio d’invenzione?

L’acquisizione di elementi oggettivi – tempi, movimenti, abitudini – è, di per sé, un bisogno della ragione, che si sforza di sapere quante più cose possibili, intorno a quella vicenda umana, svoltasi in quella dimensione di tempo e di luoghi: e certo, quanto più preciso è il quadro, lo sfondo, tanto più agevole diventa l’immersione, se così posso dire, in esso; ed è a quel punto, che “scocca la scintilla”, s’innesca il processo d’identificazione col personaggio, il sentirtelo respirare addosso, pensare attraverso i tuoi pensieri. Insomma, se volessimo buttar giù un recipe come Gadda col risotto, un pugnello, eguale, di entrambi.

 

Paolo di Paolo ha definito questo libro «consapevolmente inattuale», non soltanto per l’elemento contestuale, ma anche per la marcata scelta di un linguaggio e di uno stile dotti, ricercati, distanti dall’uso comune. Qual è l’intento? Ricostruire il “colore locale” o c’è dell’altro? Che funzione ha quindi una parola così colta in un tempo di espressioni asciutte e vocabolari fragili?

Anche qui, Di Paolo ha visto forse dentro di me e dentro questi testi più chiaro di quanto non facessi io, ma non vorrei che il parlare di “consapevolezza” – che pure c’è, né potrebbe essere altrimenti, per chi abbia occhi aperti sull’attuale realtà editoriale italiana – facesse pensare a un voluto, elitario chiudersi in un hortus di montaliane «piante dai nomi poco usati»; l’intento è diverso. Diciamo che c’è, nello stemma da cui discendono queste creature, se non il grande fantasma di Gadda, forse più precisamente quella che fu, nel primo Novecento, la prosa d’arte: la scommessa era però di non limitarsi, come Cecchi o il Gadda dei Mirabilia, a squarci di prosa solo descrittiva, ma provare a stenderla su più ampie campate narrative, sia pure nell’ambito conciso e incalzante del racconto: vogliamo parlare di poème en prose (narrativo, però)? Circa la funzione, non saprei: a meno che non sia scelta merceologicamente avveduta, quella di fare, a un mercato invaso dai prodotti standardizzati e ripetitivi, una proposta di cui non sia facile reperire il doppione.

 

In alcuni racconti ricorre spesso il riferimento al teatro e in particolare all’Opera. C’è un motivo particolare?

Certo, può esserci una componente di gusto personale; ma, se questi racconti nascono tutti come momento in cui un’esistenza umana s’incrocia con l’altro, col diverso da sé, e ne accetta il confronto – per quanto questo possa voler dire riceverne l’urto di un’offesa, o ferita, o malinteso –, ecco forse allora il teatro è, per elezione, il luogo dell’incontro con gli altri noi stessi (e come non pensare alla scena, soprattutto a quella dell’opera lirica, come a una realtà dichiaratamente altra, e tuttavia capace di dare espressioni della più sfolgorante persuasività agli aspetti più chiusi e disarmati dell’animo umano?).

 

Quali sono i suoi progetti narrativi? Un romanzo?

Non vorrei che il racconto venisse sentito come scalino inferiore in un’ascensione verso forme meno “semplificate” e più meritevoli di considerazione: forse deciderà per me – come è stato quasi sempre, finora – la stanchezza della storia su cui sto lavorando.

“Sweet Home Europa”
di Davide Carnevali

«Un Uomo, una Donna e un Altro uomo sono tutti gli uomini, le donne e gli altri uomini protagonisti di differenti storie particolari e allo stesso tempo di una stessa storia collettiva, quella di una famiglia, di un popolo, dell’umanità intera». Così Fabrizio Arcuri, regista di Sweet Home Europa. Una genesi. Un esodo. Generazioni di Davide Carnevali, finalista al Premio Riccione 2011, di nuovo in Italia dopo il debutto in Germania al Schauspielhaus di Bochum.

«A quasi vent’anni dalla nascita della Ue, la Grande Casa Europea è un “cantiere ancora aperto”, come lo definiva Gorbaciov. Ma in che direzione stanno andando i lavori? – si interroga Davide Carnevali – Stiamo costruendo uno spazio privilegiato per la garanzia dei diritti umani, o stiamo solo recintando una proprietà privata per vietarne l’accesso a chi non è desiderato?»

L’Occidente, il resto del mondo e i confini che li separano sono il contrappunto geografico all’alternanza con cui l’Uomo, l’Altro uomo e la Donna, raccontano all’infinito la storia triste, profondamente ingiusta e qualche volta comica di chi, tra scontri e compromessi tra ideologie e identità culturali incapaci di comunicare e comprendersi, cerca di costruire il proprio futuro lontano dalla madrepatria.

I tre personaggi ricoprono una diversa posizione sociale e generazionale a ogni nuovo incontro, ma è un esercizio di stile alla Raymond Queneau: un rappresentante di un paese “debole”, emigrato in un paese “forte”, cerca di comunicare facendosi da un lato latore del portato culturale della terra da cui proviene e dall’altro humus che possa nutrire una nuova, serena, stabile e radicata generazione.

Carnevali usa, per dare universalità ai suoi personaggi, un linguaggio essenziale, nudo, ridotto ai suoi elementi essenziali come i dialoghi, composti di pochi elementi che si ripetono ciclicamente e in maniera ridondante. Allo stesso scopo universalizzante concorrono i richiami ai grandi discorsi pubblici, di Gorbaciov come di Papa Benedetto XVI, resi eterni dai mezzi di comunicazione di massa.

Ci sono molti richiami alla comunicazione, alla contemporaneità, in quest’opera nella quale, mentre piano piano il mondo va in pezzi, al pari della scenografia esplosiva realizzata da Riccardo Dondana (3tolo) e Enrico Gaido, dodici quadri si incidono nella carne dell’Altro uomo come le dodici stelle dell’Europa Unita.

 

Sweet Home Europa
di Davide Carnevali
regia Fabrizio Arcuri
con Matteo Angius, Francesca Mazza e Michele di Mauro.

 

Foto di copertina: Valeria Tomasulo

“The Fighters – Addestramento di vita”
di Thomas Cailley

Ha fatto il pieno di premi ai recenti César, gli “Oscar” del cinema francese, The Fighters – Addestramento di vita (titolo originale Les Combattants, ma i distributori italiani hanno dovuto metterlo in inglese per qualche motivo), film d’esordio di Thomas Cailley che, dopo aver dominato la Quinzaine des Réalisateurs nel 2014 a Cannes, si è portato a casa i riconoscimenti per la migliore opera prima, il miglior attore esordiente per il protagonista Kévin Azaïs e quello per la miglior attrice, in assoluto, per Adèle Haenel.

In un’estate come tante, il ventenne Amaud finisce per partecipare a un’esercitazione di difesa personale organizzata dall’esercito in cerca di matricole. Sulla spiaggia, davanti a tanti altri ragazzi in fila per provare, Amaud dovrà battersi con una ragazza che riuscirà a battere solo barando (mordendola). Qualche giorno più tardi, mentre lavora con il fratello nella piccola impresa familiare di bricolage, Amaud ritrova quella ragazza, Madeleine, figlia annoiata e paranoica della borghesia, convinta che la fine della civiltà sia in avvicinamento e che quindi si sottopone ogni giorno a un costante regime di addestramento in attesa di arruolarsi nel corpo dei paracadutisti. Da quel primo combattimento tra i due si instaura un’amicizia e un’attrazione sempre più forte. Amaud finisce per seguirla allo stage militare di selezione per continuare a vederla, senza credere alle sue paranoie ma assecondandole.

Per parlare di The Fighters bisogna iniziare dagli attori. I due giovani quasi esordienti Kévin Azaïs e Adele Haenel costruiscono il film con la tranquillità dei veterani più consumati. Sono loro, i combattenti, a spingere più in là l’opera prima di Cailley, di suo già piena di intuizioni e spunti originali. Kévin Azaïs, con quella fisicità e quella faccia compassata, sembra Jean-Louis Trintignant. Adèle Haenel, a venticinque anni, si è presa il secondo César consecutivo, dopo quello da non protagonista per Suzanne l’anno scorso, questa volta come migliore attrice  avendo la meglio su attrici come Marion Cotillard (Due giorni, una notte), Juliette Binoche (Sils Maria) e Catherine Deneuve (Piccole crepe, grossi guai).

Sono Azaïs e Haenel che riescono a caricare di tensione erotica ogni momento di rivalità, a riempire con l’attrazione reciproca le distanze. Sin da quel primo combattimento in costume da bagno con i corpi esposti dell’estate, con Amaud messo sotto da una donna che sente qualcosa di molto diverso dall’umiliazione che il ruolo di genere richiederebbe, il legame che si crea è invincibile. La differenza tra i due è tanta, ma allo stesso tempo hanno entrambi bisogno l’uno dell’altra.

Perché la fine del mondo che Madeleine sente avvicinarsi, e che Amaud iconicamente vede avvicinarsi nelle nubi nere all’orizzonte, ha un valore, simbolico, molto maggiore della pura paranoia. È lo spettro di un futuro senza sbocchi per le nuove generazioni, di un mondo, quello del lavoro, in cui non c’è spazio per le ambizioni. In Francia l’esercito è il più grande reclutatore dopo McDonald’s, dicono i due ragazzi a un certo punto, ma non è certo come ultima speranza contro la disoccupazione che Madeleine si rivolge al corpo dei paracadutisti. Anzi, la ragazza rinuncia ai master in economia, alla sicurezza del benessere familiare, a tutti gli agi di una condizione privilegiata. È la ricerca di un sistema di ordine a muoverla, di un’organizzazione in grado di fornirle sempre lo stimolo a dare di più, a impegnarsi e sudare, a lottare per ogni pasto. Amaud le va dietro senza alcun tipo di convinzione, ideologica o personale, ma solo per stare con lei. È un indeterminato, impreparato all’idea di vita come lotta. Dopo la morte del padre a inizio film finisce a lavorare con il fratello per inerzia, non per calcolo. La vita gli scorre addosso come capita, senza che lui la scelga realmente. Poi se la sa cavare durante lo stage, anche di più di Madeleine che è bloccata dal suo intransigentismo.

Nel percorso di addestramento che poi proseguono per conto proprio, ritirandosi in mezzo ai boschi come in una specie di mondo ideale, imparano entrambi quello che manca per affrontare la vita: la fiducia, la collaborazione, la responsabilità. E finalmente iniziano a vivere, a muoversi liberi, e ad amarsi.

The Fighters è il classico esempio di esordio fulminante, per usare formule convenzionali. Con un’ironia costante, sottile e acida, Cailley crea un linguaggio cinematografico che è una fusione di generi, dal romanzo di formazione alla commedia sentimentale, dal film giovanilistico, al catastrofico. In tutto questo riesce sempre a tenere alto il livello della considerazione ulteriore, della riflessione sulla società. La colonna sonora elettropop curata da Philippe Deshaies, Lionel Flairs e Benoit Raul dà una spinta in più.

(The Fighters – Addestramento di vita, di Thomas Cailley, 2014, commedia, 98’)

“L’impazienza del cuore”
di Stefan Zweig

Stefan Zweig scrisse il suo primo romanzo a più di cinquant’anni. Prima si era largamente dedicato a scrivere poesie, novelle, drammi, diverse biografie e saggi storici. Opere che lo resero famoso e che contribuirono a definire il suo stile di grande respiro, la sua scrittura limpida e misurata, capace sì di scorrere con eleganza, ma anche di immergersi senza timore nelle profondità oscure dell’animo umano. Tutte caratteristiche che si ritrovano magistralmente riunite ne L’impazienza del cuore (Elliot, 2014), scritto quando Zweig era da tempo in esilio, tra il 1936 e il 1938, alla vigilia della seconda catastrofe mondiale.

E proprio alla vigilia dell’altra catastrofe mondiale, la prima, è ambientato il romanzo. Un giovane ufficiale di cavalleria austriaco a servizio in una guarnigione di provincia viene invitato a un ricevimento nell’imponente castello dei Kekesfalva, nobile famiglia del luogo. E lì,  mentre il fasto della serata sta dando forma a una meravigliosa parentesi nella sua vita, il tenente Anton Hofmiller commette un’innocente gaffe nei confronti di Edith, figlia prediletta del padrone di casa e ragazzina paralitica.

Da quel momento la sua vita non sarà più la stessa. Infatti, spinto da un sentimento di compassione crescente e irresistibile, inizia a legarsi sempre di più a quella disgraziata famiglia e alla volubile ragazzina, innescando una spirale di eventi di cui perderà presto il controllo e che lo porteranno a smarrire completamente se stesso, fino a fronteggiare la disperazione di una scelta estrema.

La storia tormentata di Anton e Edith esprime tutte le contraddizioni della compassione, dell’altruismo, della pietas; tutto il potere che possiamo esercitare sugli altri e la difficoltà di controllarlo, di arginare l’ondata di conseguenze delle azioni compiute “a fin di bene”, di cui siamo fatalmente responsabili ma che, altrettanto fatalmente, possono finire per travolgerci.

Generosità e repulsione, volontà di fuga e senso di colpa. Dualismi inestricabili nella sottile ‒ a tratti perfino clinica ‒ analisi dei grovigli psicologici tra i due protagonisti, tra sano e malato, libero e prigioniero. La ragnatela tessuta giorno dopo giorno, e perlopiù inconsapevolmente, fatta di tenerezze, promesse, illusioni, ma anche, inevitabilmente, continue menzogne.

Tramite una sapiente costruzione narrativa, che mescola racconto oggettivo e flusso di coscienza, Zweig spalanca una finestra sull’ambiguità intrinseca che ci portiamo dentro, sulla doppiezza del nostro essere, sempre in bilico tra il desiderio di aiutare gli altri e la necessità di salvaguardare la nostra libertà. E, pagina dopo pagina, insiste con grande lucidità a porci la stessa domanda: quanto le nostre “buone intenzioni” sono animate da sincerità, quanto siamo in grado di portarle avanti e soprattutto quanto gli altri possono aggrapparvisi e, al limite, non lasciarle più? Quanto la compassione ci avvicina ai nostri simili e quanto invece può intrappolarci o colpirci come una malattia, se vissuta come un mero obbligo o come un utile escamotage per pulirsi la coscienza?

È il dilemma fondamentale che espone il dottor Condor, medico della giovane Edith e autentica “coscienza critica” del romanzo:

«Ci sono due tipi di compassione. L’una, debole e sentimentale, che è una semplice impazienza del cuore di liberarsi al più presto della pena per la sventura altrui, non consiste nel soffrire con l’altro, ma è un istintivo allontanare il dolore altrui dalla propria anima. L’altra, l’unica che conta, è la compassione non sentimentale ma creatrice, che sa quello che vuole ed è decisa pazientemente e condividendo il dolore a tener duro fino all’estremo delle proprie forze, e anche oltre».

Ma, alla fine, la grandezza del romanzo sta nella sua profonda umanità: quella traboccante di passione, di desideri e di deliri, tanto più autentica quanto distante dall’eroismo o dalla santità.

(Stefan Zweig, L’impazienza del cuore, trad. di Lucia Paparella e Giampiero Dati, Elliot, 2014, pp. 384, euro 14,50)

“Daniel Knox” Di Daniel Knox

Daniel Knox è un ragazzone di Springfield, nell’Illinois, con due album alle spalle, Disaster (2007) e Everyman For Himself (2011). Vanta collaborazioni cinematografiche importanti (David Lynch) e musicali (Andrew Bird, Jarvis Cocker e Swans). Lavora come proiezionista per tre giorni alla settimana al Music Box di Chicago. Nel 2015 esce il suo terzo lavoro, Daniel Knox.

Daniel Knox è un album che sembra esser stato ripescato da un’epoca ormai terminata, una fetta di anni ’40/’50, fino ai ’60 americani, un’estetica che rimanda a Frank Sinatra e Tony Bennett, ma che in realtà non ha mai smesso di svilupparsi – basti pensare a Neil Hannon dei The Divine Comedy: arrangiamenti moderni legati al pop barocco, pop raffinatissimo da camera, una voce da crooner navigato nel corpo di qualcuno che potrebbe essere tutto, ma non un crooner. Una voce da telecronaca per lo sbarco su Marte. In più sensazioni apocalittiche alla Scott Walker di Tilt riviste e ripensate per un pubblico moderno, e sullo sfondo la desolazione dell’America.

Daniel Knox parla di se stesso, dei propri luoghi, e la scelta di usare un suo ritratto (un simil autoritratto alla Van Gogh, opera di Gregory Jacobsen), come copertina, può rimandare a un modo di intendere la produzione artistica come autoanalisi: parlo dei posti e dei luoghi che mi appartengono, quindi parlo di me, e quindi la mia immagine un po’ vintage, un po’ bohèmienne, è lì in copertina a mostrare cosa state per ascoltare. E questo approccio, che potrebbe far pensare a un fare e non essere questo tipo di artista, è coerente e ben strutturato.

Basta il primo impatto con la prima traccia di Daniel Knox, “Blue Car”, confrontata con la prima di Everyman For Himself, “Ghostsong”, per capire che lo scarto non è solo nella qualità dei pezzi – più di un passo in avanti da un punto di vista compositivo -, ma anche nella registrazione, che suona molto più professionale: c’è stato, infatti, un lavoro molto più accurato nella produzione e nella post-produzione di quest’ultimo lavoro.

“Blue Car”, quindi, mette subito le cose in chiaro: Daniel Knox è qualcosa qualcosa di importante. Si inizia con un valzer spettrale che cresce di intensità appoggiandosi alla voce che un po’ alla volta sale fino a un’esplosione struggente e contenuta. Segue “Don’t Touch Me”, brano più disteso dell’album, che richiama “Chicken Bones” di John Grant, dove si manifesta appieno la misofobia di Daniel Knox. Da qui i brani si susseguono con una naturalezza disarmante. Se infatti da “Blue Car” a “Don’t Touch me” lo stacco è quasi straniante, dalla terza traccia in poi sembra che ogni brano finisca precisamente in quello successivo. “By The Vulture” ricorda i migliori The Divine Comedy (soprattutto quelli di Promenade, in particolare “Tonight We Fly”), il pianoforte e gli archi della breve “Lawrence & MacCarthur” fanno da preludio all’arpeggio ipnotico di “Incident at White Hen”, forse il miglior brano di Daniel Knox, dove la batteria in lontananza, la possibile marcia per quello sbarco su Marte, è protagonista in disparte. “High Pointe Drive”, “White Oaks Mall” e “David Charmichael” sono ballate notturne per chi passa le proprie serate nei pressi di enormi centri commerciali nella periferia dell’America (e quindi del mondo). Dopo il ribaltamento strumentale di “Blue Car”, “Car Blue”, Daniel Knox termina con la ballata corale “14 15 111”.

Daniel Knox è un lavoro che può segnare una svolta nel modo di declinare il pop, oggi. Se, di questi tempi, vanno per la maggiori voci e approcci alla musica che sfociano nel new soul (da Bon Iver a James Blake, passando per il nuovissimo Sam Smith), Daniel Knox può essere l’alternativa a un tendenza che con il passare degli anni sta producendo una serie di musicisti, certamente talentuosi, ma alla lunga probabilmente poco originali.

“Gli scaduti”
di Livia Ravera

La vecchiaia uccide più della morte. O almeno così pare. Sicuramente non si accontenta di una volta soltanto; rosicchia quanto può, fingendosi discreta, labile, un fiumiciattolo di crepe senza troppe aspirazioni. E poi presenta il conto, cifrato intorno agli occhi o nelle analisi del sangue.

Sarà per questo che ci piace la plastica, migliore amica dell’uomo molto più di ogni labrador.

Resistente, atemporale, implementabile. Condensata nelle creme o nelle protesi mammarie. Sopra e sotto pelle, per non lasciarci mai, per farci sentire un po’ più immortali.

Protagonista del nuovo romanzo di Lidia Ravera è la vecchiaia. Ma non quella rocambolesca e brillante di Jonas Jonasson nel suo sarcastico Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve o quella eversiva e sgangherata di Fabio Bartolomei nel suo La banda degli invisibili. Qui non c’è niente da ridere.

Qui è la vecchiaia ad essere bandita. Vietata, abrasiva, come un delitto collettivo.

Qui gli anziani non ordiscono attentati, non corteggiano portiere. Qui vengono cortesemente accompagnati all’uscita. Qui sono soltanto Gli scaduti (Bompiani, 2015).

L’autrice plasma una società scattante, un futuro efficiente e ottimizzato in cui il potere non è più di un’enclave ingrigita. A governare sono i TQ, trenta-quarantenni, ripieni del fulgore di un corpo ancora grato, ancora gentile se sputato dallo specchio. L’esistenza umana è ostaggio passivo del suo calendario. Entro i 25 anni bisogna essere madri, a rigor di legge, perché l’utero avvizzito non rende un buon servizio; dai trenta ai quaranta si salta, si corre, s’insegue il massimo possibile, per tracannarne i frutti fino ai sessanta. Quando scocca il gong. La campana del ritiro.

I non più giovani abbandonano il mestiere, la casa, la famiglia per dirigersi altrove, per incarnare la dimensione del riposo. Per scorporarsi da tutto l’apparato di affetti e funzioni che li ha decretati in vita. «Meno crape grigie, curve cifotiche, occhiali spessi, pance flaccide e seni cadenti. […] Si era parlato di deportazione, ma sottovoce e soltanto da parte degli over cinquantacinque, che comunque non facevano opinione. Non più. Nessuno sembrava rimpiangerli. I molto vecchi. […] Cosa c’è di più naturale della crescente debolezza, della progressiva disaffezione per le cose materiali, o intellettuali, che colpisce chi ha vissuto sette o addirittura otto decadi?».

A inframmettersi tra la norma e il suo compimento, però, c’è sempre il singolo. Il singolo in questione si chiama Umberto Delgado, alto dirigente avvezzo al comando. Dispensava carisma lui, coordinava pareri, pilotava energie. E adesso si ritrova deposto, come un invito alla noia. Appoggiato nel suo lussuoso giaciglio termale, in mezzo ad altri ex potenti consegnati alla poltrona. Anche lui, come tutti, ha dovuto congedarsi. Soprattutto da sua moglie, tanto intelligente da non voler capire, da indossare prima un comodo distacco e poi un grembiule di rivolta. Umberto ed Elisabetta decidono di opporsi. Sia prima che dopo.

Se «il grande disordine» aveva incentivato la stagnazione degli anziani, il forziere paludato di un dominio esclusivo per uomini attempati, «il Partito Unico» ha chiesto di «stare dentro il rinnovamento, di interpretarlo e ratificarlo». A un popolo esausto il sogno si vende facilmente e in poco tempo lo si tramuta in un regime, riscuotendo in fretta la tassa di entusiasmo.

L’era dei giovani si è rifatta il trucco e quella che Lidia Ravera tratteggia è una dittatura della giovinezza, che premia lo status e non l’individuo. Non conta l’essere, ma la scadenza incisa, la data intagliata su ogni etichetta. Poi giunge il macero, la rottamazione che non si pronuncia, per non sembrare aggressivi.

Laddove “aggressivi” si traduce “sinceri”.

L’unica forza che può scompigliare il troppo ordine è il legame affettivo, l’eversione dirompente dell’amore che impone di sperare, di essere migliori. Quello tra Umberto ed Elisabetta e quello con Matteo, il figlio in ascesa non ancora consacrato, ancora di se stesso, ancora capace di assaporare il dubbio.

Per questo l’anziano va isolato, perché una monade vecchia è ancora più fragile, più manipolabile, perché nel mondo nuovo, smagliante e potenziato si è sempre più soli nella propria community. Liquefatti in compagnie amniotiche che ci accarezzano soltanto con un clic.

Per questo i bar somigliano a un bancomat, talmente intelligente da erogare il servizio senza bisogno di persone, talmente svuotato da reputare la parola un dolcificante decisamente calorico e perciò non ammesso.

Siamo lontani dal nostro orizzonte? In parte anche parecchio. In parte siamo ancora un Paese di zavorre, transenne e naftalina. Di terre recintate gonfie di privilegiati, di generazioni graziate da anni bulimici al cospetto di altre che non possono crescere.

Siamo il Paese salvato dalle pensioni che restano (sempre di meno), mentre chi lavora lo fa troppo o troppo poco. Lo fa male e senza obiettivi che non siano l’affitto o la fine del mese.

In parte la fame del nuovo si è rovesciata in un altro governo che della “rottamazione” ha fatto un vessillo.

Il Premier è un quasi ragazzo che maneggia social network più dei decreti legge e noi ceniamo amoreggiando con l’Ipad e non con chi ci ha invitato al ristorante.

Ma cavalcare gli estremi porta sempre a cadere. Gli scaduti ce lo conferma in pieno. Iperbole distopica, sfida attraente a pensare il futuro e la sua destinazione. Il finale forse arriva un po’ di corsa, ma il romanzo è scritto con abilità, con la raffinatezza del gioco letterario, del dramma possibile di una società che ha bisogno di un nemico per sentirsi più sicura.

La risposta non è compresa nel prezzo del libro. È sempre in chi legge, in chi rivendica il possesso della propria opposizione. Aveva ragione André Gide. A dire cosa? «La mia vecchiaia avrà inizio quando smetterò d’indignarmi».

(Lidia Ravera, Gli scaduti, Bompiani, 2014, pp. 224, euro 17)

“Mia madre”
di Nanni Moretti

Margherita è una regista impegnata a cui viene chiesto spesso cosa voglia dire sul presente con i suoi film. Ne sta preparando uno su una fabbrica occupata dagli operai per protestare contro l’acquisto da parte di un imprenditore americano. Non va tutto bene: la star del film, un attore arrivato da Hollywood, dimentica le battute e sta facendo ritardare tutto. Non è questo, però, il vero problema di Margherita. Sua madre, Ada, ex professoressa di latino al liceo, sta morendo lentamente in un letto di ospedale e lei prova a starle accanto meglio che può. Non riesce, però, a essere come suo fratello Giovanni, che ha lasciato il lavoro per stare sempre con la madre, che le cucina la cena da portare in ospedale, che conosce tutti gli aspetti della sua vita, che capisce e si rassegna molto prima alla fine. Margherita è diversa. È forte sul lavoro, comanda, impone, ma nella vita è ancora figlia, fragile e impreparata alla perdita.

Dopo La stanza del figlio Nanni Moretti torna a parlare di dolore ed elaborazione con Mia madre, dodicesimo film della carriera del cineasta romano, scritto con Francesco Piccolo e Valia Santella e il contributo al soggetto delle scrittrici Gaia Manzini (La scomparsa di Lauren Armstrong, 2012, Fandango) e Chiara Valerio (Almanacco del giorno prima, 2014, Einaudi).

Un dolore diverso – quattordici anni fa era la morte di un figlio a distruggere il quotidiano della sua famiglia, oggi è il declino inesorabile di una madre a condizionare la vita di due figlie già adulti – che nasce da due bisogni diversi: da una parte esorcizzare una paura, quella di Moretti genitore di perdere il figlio; dall’altra il bisogno di oggettivare la realtà, di porre al di fuori di sé la perdita reale della madre, un dolore più universale e destinato a tutti, a un certo punto della vita, che Moretti ha dovuto affrontare nel 2010, durante il montaggio di Habemus Papam.

C’è un collegamento necessario con l’autobiografia: Mia madre è la sublimazione cinematografica del dolore personale di Moretti, è il racconto privato della perdita e della sua costruzione. Perché, proseguendo il parallelo con La stanza del figlio, qui non si è di fronte a un trauma improvviso, all’incidente che sconvolge l’equilibrio, ma alla discesa graduale, che lascia il tempo – apparente – per prepararsi, per fare i conti con il passato e con il futuro che verrà. È fortemente personale, si è detto, e proprio per questo Moretti ha sentito il bisogno di chiamarsi in disparte. Perché, ancora di più dei suoi ultimi lavori, qui Nanni non è il protagonista, non si ritaglia momenti centrali. È lì, a margine del dolore, in seconda linea, nei panni del fratello Giovanni, probabilmente in una delle sue migliori interpretazioni della carriera. Asciutta, è il termine che viene in mente per definirla subito.

Al centro c’è la Margherita di Margherita Buy (bravissima anche lei), la regista impegnata con i tic e le fissazioni che anche gli spettatori più distratti hanno imparato a riconoscere come propri del vero Moretti, nei tanti momenti di cinema nel cinema e di mostra di sé che sono sparsi nella sua filmografia (da Sogni d’oro alla coppia Caro diarioAprile). Margherita è inadeguata, questo è il concetto chiave su cui Moretti insiste anche presentando il film nelle interviste. Inadeguata a rapportarsi con il dolore della perdita, a rassegnarsi definitivamente, con la malattia della madre, a non essere più figlia, a essere e dover essere lei, la madre, per la figlia adolescente di cui non sa molte cose. La malattia, il dolore, mostrano Margherita per quella che è sempre: una persona fuori posto, che mentre si dedica al film pensa alla madre, che mentre è con la madre parla del film. Non è egoismo, è paura.

Il costante senso di inadeguatezza porta Margherita a confondere i momenti tra di loro, a sovrapporre il sogno con il reale, il ricordo con le paure.

Le certezze della vita stanno scivolando via con il crollo della colonna portante. Margherita è stanca di dover dare un senso alle cose che fa, di dover interpretare la realtà per la stampa, e non è pronta ad affrontare il mondo da sola, anzi. Nel momento in cui tutto inizia a essere portato via dalla marea, quando simbolicamente la casa in cui vive sola, in attesa del ritorno della figlia dalla settimana bianca, si allaga, si rifugia nel grembo della casa della madre, tra le pareti in cui è cresciuta, non ancora pronta a prendere il posto che era stato della madre nel letto ma raggomitolandosi sul divano, impreparata a prendere il suo posto.

Ponendo una donna al centro di Mia madre, Moretti riesce a elevare il suo dolore particolare a dolore universale, a raccontare un momento personalissimo come un fatto oggettivo. Ha raccolto, dopo anni, l’invito di Dino Risi, facendosi da parte e permettendo di vedere il film, o, per dirla come Margherita, è riuscito a mostrare il personaggio e l’attore allo stesso tempo, uno accanto all’altro. Pur apparendo di meno rispetto ai suoi lavori precedenti, pur non ritagliandosi momenti di gloria megalomane come nel finale di Il caimano, Mia madre è il film più personale di tutta la carriera di Moretti, il film in cui la sua presenza è più diffusa.  Il suo cinema, il suo stile, è sempre presente. Ci sono molti degli elementi morettiani che fanno la gioia degli appassionati e il dispiacere degli oppositori. Perché se la Buy è il Moretti regista, la star di John Turturro (anche lui, bravissimo), ha i momenti isterici del primo Moretti/Michele Apicella, quelli a cui tocca il compito di alleggerire, di far ridere, perché in Mia madre si ride anche, e tanto.

Non è solo questo, però. La presenza è nei dettagli, nei libri – i veri libri della vera biblioteca della vera madre di Moretti, secondo una tradizione scenografica che qui assume anche il valore di omaggio –, nella simbologia onirica, nella paura e nella fragilità. C’è la riflessione sul ruolo del cinema e dei cineasti nella società, su se stesso come regista, con un’autoanalisi tra l’ironia e la ferocia, perché «il regista è uno stronzo, non bisogna mai dargli retta» lo dice Margherita, ma poi Giovanni aggiunge, parlando con Turturro: «Fate sempre quello che dice la regista».

E c’è la capacità di scavare nel dolore, senza compiacimento, senza sadismo, senza esibizionismo, con la lucida tenerezza di chi, ancora adesso, pensa di essere inadeguato e solo senza sua madre.

(Mia madre, di Nanni Moretti, 2015, drammatico, 106’)

“Parola di scrittore. Altri studi su letteratura e giornalismo”
a cura di Carlo Serafini

Della vita di uno scrittore, passato alla storia per un numero ristretto di opere, magari solo per pochi versi, si ha spesso una visione errata, approssimativa, distorta. Ma le poche pagine affioranti nascondono, il più delle volte, il lavoro di una vita intera, una produzione spesso sotterranea e dimenticata, cui il lettore comune normalmente non ha i mezzi o la pazienza di raggiungere. Fatto sta che gli scrittori di ogni tempo, e tanto più quelli degli ultimi due secoli conclusi, alle prese con dinamiche a noi forse più familiari, dividono necessariamente il proprio scrittoio in parti non uguali, dedicando nelle varie stagioni della vita un angolo, per esempio, alle traduzioni, uno al romanzo, uno alla raccolta di poesie, e magari uno, come ci racconta Parola di scrittore. Altri studi su letteratura e giornalismo (Bulzoni, 2014, pp. 300, euro 22), agli interventi giornalistici.

La serie di questa nuova raccolta di saggi continua una prima uscita del 2010, in cui allo stesso modo che in questo secondo volume, vari studiosi ed esperti indagavano il rapporto fra le massime personalità della nostra ultima tradizione letteraria e la carta stampata di quotidiani, settimanali e mensili. Periodo cronologico, quello a cavallo fra l’Ottocento e il secolo scorso, con uno sconfinamento finale nei primi dieci anni del XXI secolo con il saggio di Luca Mastranonio “Letteratura e giornalismo negli Anni Zero”, che ci porta alle storie di ieri. Diciotto interventi in tutto, che offrono un lungo e significativo spaccato del “giornalismo culturale” italiano, ovvero di quel giornalismo non di sola cronaca, affidato a intellettuali e letterati di varia vocazione alle prese con la propria contemporaneità politica e sociale.

I nomi di autrici e autori in questione vanno da Grazia Deledda e Anna Banti, redattrici in anni diversi del Corriere e di Paragone, ai due «poeti puri» Ungaretti e Quasimodo, e ancora, fra gli altri, a Comisso, Brancati, Consolo, Bufalino, Tabucchi. Una lunga lista di nomi dal destino diverso, che tramite il lavoro curato da Carlo Serafini si possono recuperare alla conoscenza viva di una produzione più caduca, ma appunto perciò interessante, perché ricca di spunti su cui gli studiosi del Novecento avranno molto da riflettere, e il lettore non specialista potrà ampliare sul vero le proprie cognizioni.              

Parola di scrittore offre molti spunti e motivi di riflessione, giocando sulla contaminazione, o contiguità dell’opera artistica e della forma-articolo, in cui la parola non può beneficiare del respiro ampio, e deve pertanto farsi portatrice di un pensiero attuale, necessariamente invischiato con l’opinione di costume e l’ottica dei tempi che corrono, un punto prospettico all’apparenza squalificante, che costringe lo scrittore ad assottigliare lo sguardo, rischiando qualcosa in più sul piano puramente personale, a fronte di un pubblico di lettori che leggerà e reagirà nell’immediato.

Fra quella che potremmo definire “Scrittura” con la maiuscola, e questa scrittura quotidiana, d’occasione, corre una serie di rapporti che è necessario ricostruire per l’intelligenza dell’opera d’arte, non idea astratta di una mente superiore, ma il fiore di una consuetudine costante.

Il primo ordine di interessi che suscita un lavoro come questo è pertanto teorico. Ma a questo ne segue uno più genuinamente storico, in cui confluiscono la vicenda individuale di uomini e donne straordinarie e la storia patria, per cui Serafini è stato bravo a propiziare una raccolta pluricentrica, sfaccettata, che racconta un lungo arco temporale sui vari piani della migliore cultura nazionale e popolare.

Un lavoro nato in ambiente accademico che, come detto, può interessare tutti, un bel viaggio nel lunghissimo “secolo breve”, attraverso le parole di chi lo ha raccontato giorno per giorno.

“Belushi. In missione per conto di Dio”
di A. Schiavone e M. Manera

Nel romanzo a fumetti scritto da Alberto Schiavone – già autore di La libreria dell’armadillo e Nessuna carezza – e disegnato dal fumettista Matteo Manera – alla seconda esperienza con il graphic novel dopo l’uscita di Fino all’ultima mezz’ora,  troviamo la storia di John Belushi, giovane di origini albanesi, che si dedica al football fino al momento in cui la sua passione per la recitazione lo fa approdare ai più importanti palcoscenici di Chicago, passando poi al celebre Saturday Night Live fino ad arrivare a scrivere la storia del cinema del XX secolo firmando successi cinematografici indimenticabili grazie all’inconfondibile ironia dissacrante e l’irruenza con cui essa viene presentata al pubblico. Ma come cresce il successo di John sul piccolo e grande schermo, cresce anche la dipendenza incontrollabile che inclinerà il suo modo di affrontare la carriera cinematografica e il suo rapporto con Judy Jacklin, sua compagna e poi moglie che gli rimarrà a fianco fino alla fine.

Consacrato come uno dei comici statunitensi più famosi degli anni Settanta-Ottanta, Belushi viene rappresentato dall’esordio fino alla drammatica conclusione della sua carriera attraverso le tavole di Manera che si susseguono (a volte senza una netta distinzione tra l’una e l’altra) per i sette capitoli in cui è diviso questo racconto.

Sfogliando le pagine del secondo lavoro del fumettista troviamo tavole grezze in bianco e nero il cui disegno – poco più di una bozza – riesce nell’intento di rappresentare il tutto senza aggiungere nulla al flusso dei fatti. Il risultato assomiglia all’immagine che ognuno di noi proietta nella propria mente quando pensa a una storia senza lieto fine.

Al netto di ciò e di un’idea originale come quella di rappresentare la storia del genio comico di The Blues Brothers e Animal House, l’opera risulta nel complesso non molto brillante e a tratti contraddittoria, passando da una narrazione biografico-cronologica, interrotta da qualche flashback qua e là, a una riproposizione a volte stucchevole del tema della droga nel tentativo di coinvolgere il lettore nel dramma vissuto da Belushi.

Lo sforzo di creare un contrasto in questo graphic novel (per esempio tra la vita pubblica e privata del protagonista) sfocia quindi in un alternanza di ricostruzione biografica oggettiva e narrazione informale, il che, invece di far avvicinare anche emotivamente il lettore alla storia, rischia inevitabilmente di allontanarlo facendolo restare spettatore di un flusso di eventi o lasciandolo, nel peggiore dei casi, perplesso.

(Alberto Schiavone e Matteo Manera, Belushi. In missione per conto di Dio, edizioni bd, Roma, euro 11,90)