I primi due capitoli del nuovo album dei Beach House

10 novembre, 8 dicembre,19 gennaio, 18 febbraio: le quattro date che scandiscono l’uscita dell’ottavo album dei Beach House, Once Twice Melody. Il duo americano, infatti, vista la mole di canzoni prodotte negli ultimi tre anni, 18,ha deciso presentare al mondo il loro ultimo lavoro dividendolo in quattro capitoli.

Due sono andati e ci troviamo a metà del percorso. È suggestivo parlare di questa metà album per due ragioni: perché è ovvio che non si possa parlarne precisamente, essendo solo metà di qualcosa, immaginando quindi quali potrebbero essere gli sviluppi e le direzioni prese dal duo; ma, soprattutto, a questo, andiamo a sommare il fatto che stiamo parlando dei Beach House, gruppo di culto, iper caratterizzato, identificabile con un genere, pionieri di qualcosa che in realtà dobbiamo ancora capire.

Quello che sono stati da metà anni ’00 ai primi degli anni ’10 è cosa risaputa. Con Devotion, Teen Dream e Bloom hanno ridisegnato l’idea di dream pop, seguendo la scia che dagli anni ottanta partiva dal monumento-Cocteau Twins, riuscendo a dare vita a un suono che affondasse le radici in quegli anni  ma che riuscisse a definire un momento del presente ben preciso.

Non indugiamo: Once Twice Melody, ora, ma anche pensandolo in prospettiva futura, è importante. Basterebbero questi primi due capitoli per parlare di album fatto e finito, che ha un’idea ben precisa su cui si poggiano le otto canzoni, teoricamente annoverabile tra i migliori dischi  dell’anno (spostiamo quindi il tutto a dicembre 2022). Tecnicamente ed emotivamente, non ci sarebbe bisogno di altro.

Dagli arpeggi di “Once Twice Melody“, passando per la voce manipolata di “Runaway“, fino all’instant classic “Superstar“, che è già uno dei loro brani migliori di sempre – possiamo dirlo senza paura -,  c’è quell’indefinibile che caratterizza da sempre il duo americano. Ovvero la strana sensazione per cui ti pare di girare sempre attorno alla stessa cosa, trovandoti invece ogni volta in luoghi diversi: lo scarto  è sempre in un particolare non decifrabile, in un’intenzione diversa, in uno spunto a cui non avresti mai pensato. Due capitoli ipnotizzanti, da cui è difficile non rimanere abbacinati. C’è molto della potenza espressiva di Teen Dream.

Cosa aspettarsi, allora, dalla seconda parte? Che senso possono avere altre 10 canzoni dopo questo? 

Qualcosa che segua la scia del secondo capitolo, estremizzando certe idee e andando a battere sull’elettronica? Un suono più cupo, che piano piano si fa claustrofobico, andando a disegnare un’asimmetria perfetta con “Once Twice Melody“? Un suono che riprenda la prima parte senza eccessivi stravolgimenti? Qualcosa di diametralmente opposto, dando vita così a due veri e propri diversi album?

I Beach House sono entrati in un’altra fase della carriera, raggiungendo una maturità e una consapevolezza che potrà portare il loro discorso verso qualcosa di incalcolabile e, allo stesso tempo, di riconoscibile.

Non manca molto al 18 febbraio, bisogna solo aspettare.

Copertina di Caverne di Clemens Meyer

Nei meandri di Eden City

Più di trent’anni fa, con il crollo del Muro di Berlino, si pensava che la Riunificazione tedesca avrebbe portato vantaggi economici e sociali ai Länder della vecchia DDR. A oggi, però, le promesse di stabilità per la ex Germania Est faticano ancora a realizzarsi, creando un forte sentimento di avversione verso l’Ovest e un senso di nostalgia nei confronti del vecchio regime socialista (la cosiddetta Ostalgie): è uno dei fattori, secondo gli analisti, del successo dell’estrema destra tedesca della AfD in quel territorio.

Fra i tanti autori della letteratura tedesca che si sono confrontati con la Germania post-Riunificazione figura Clemens Meyer, scrittore nativo di Halle an der Saale e residente a Lipsia, tornato recentemente nelle librerie italiane con Caverne (Keller, 2021), romanzo del 2013 con cui è giunto alla semifinale dell’International Booker Prize e alla finale del Deutscher Buchpreis.

L’autore sassone, noto per Eravamo dei grandissimi (Keller, 2016) e per la raccolta di racconti Il silenzio dei satelliti (Keller, 2019), ha sempre posto al centro della sua opera narrativa persone ai margini della società e le loro difficoltà nel confrontarsi con la disillusione delle promesse di benessere della Germania Ovest all’alba della Riunificazione. A questo proposito, in un’intervista del 2019 rilasciata per «Alias» a cura di Elisabeth Galvan, Meyer ha dichiarato:

«A mio modo di vedere, l’individuo è in balia della storia. La storia è una macina e l’individuo è uno fra tanti granelli che vengono triturati. I miei personaggi sono spinti avanti dagli avvenimenti: sono semplicemente là, cercano bene o male di vivere la loro vita, ma non si sentono parte di una massa attiva, non si sentono capaci di intervenire e di cambiare le cose, si sentono estranei alla società e provano a tracciare una loro strada».

Individui schiacciati dalla Storia sono anche i protagonisti di Caverne: Lilli, prostituta dal nome d’arte di Babsi; Arnold Kraushaar, conosciuto come “AK”, “Kalašnikov” o “il Vecchio”, immobiliarista prestatosi al fiorente settore della prostituzione in appartamento; Hans Pieczek, detto “Hans Scannaporci” o “il Macellaio”, gestore di un night club alle prese con le rivendicazioni sindacali delle prostitute e con l’arrivo di gang straniere come gli Angels; il conduttore radiofonico Ecki e tanti fra poliziotti, prostitute e immobiliaristi.

I loro destini si muovono nella città immaginaria di Eden City – che assomiglia a Halle o a Lipsia per via dei riferimenti alla linea ferroviaria di City Tunnel – in un arco di tempo che va dal 1993 agli anni Dieci del Duemila, con flashback alla fine degli anni Ottanta. Eden City, però, è una città che di paradisiaco non ha nulla, così come le vite di chi la abita: persone ai margini della società, della Storia, che cercano di vivere dignitosamente nonostante le mancate promesse di benessere che la caduta del Muro portava con sé.

Il romanzo di Meyer ricorda nelle atmosfere il neorealismo italiano, verso cui l’autore ha sempre manifestato un certo debito, e in particolare Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, ma si rifà anche alla tradizione letteraria tedesca moderna e contemporanea. Si sentono echi di Bertolt Brecht, che con L’opera da tre soldi e Santa Giovanna dei macelli ha ben saputo rappresentare il legame fra capitalismo, illegalità e sfruttamento, ma anche, come giustamente scrive la casa editrice nella bandella del libro, di Wolfgang Hilbig e delle sue atmosfere di degrado industriale e di miseria, e di Alfred Döblin e del suo Berlin Alexanderplatz.

Proprio fra quest’ultimo romanzo e Caverne sembrano esserci dei punti di contatto: l’uso della tecnica del montaggio o Kinostil, pratica modernista introdotta proprio da Döblin; dei personaggi alla deriva che, come il protagonista di Berlin Alexanderplatz Franz Biberkopf, vivono da outsider in una società in cui non si riconoscono più; una prospettiva narrativa cangiante dalla prima alla terza persona e l’alternanza di piani temporali, di sogno e realtà; la presenza di riferimenti sociali e culturali dell’epoca.

Il fallito raggiungimento del benessere, la marginalità e il disorientamento sopraggiunti con la fine della Germania divisa sono annunciati già dal titolo del romanzo. Se in tedesco il titolo originale Im Stein, letteralmente “nella pietra”, sembra non rivelare nulla a parte qualche legame con l’edilizia (la parola “Stein” appare, ad esempio, in “Backstein”, ovvero mattone), le traduzioni italiana e inglese risultano più significative. L’inglese Bricks and Mortar, ad esempio, allude alla natura di facciata del business dell’edilizia, in realtà usato per arricchirsi attraverso la prostituzione: brick-and-mortar business è un’espressione usata per quelle attività economiche che comprano o prendono in affitto locali per gestire le proprie attività. L’italiano Caverne, invece, fa più riferimento alla marginalità dei personaggi, che vivono nei meandri della Storia e nella palude del turbocapitalismo globale, oltre che, come spiega Arnold, alla prostituzione e al sex work:

«Milieu. Che cosa sarebbe, scusi? La vagina ha un milieu caldo-umido. C’è scritto così sui libri, libri di scuola, manuali di biologia. Vagina. Vulva. Grotta. Umida in effetti lo è. Meglio ancora se bagnata da paura. “Bagnata da paura, it’s all about tempura”, non lo diceva sempre il giapponese che veniva al locale di Hans?»

Il sex work costituisce una metafora perfetta per raccontare l’evoluzione della vecchia Germania socialista. La riforma sulla prostituzione del 2002, per esempio, doveva permettere maggiori tutele e autonomie per le lavoratrici del sesso tedesche, ma l’ambiguità verso il riconoscimento della prostituzione come lavoro ha comportato l’aumento di illegalità e di sfruttamento, spesso di donne provenienti dall’estero. «Se lo Stato», si legge nell’Intendenza di finanza riportata nel libro, «non può assumere il monopolio per motivi economici, giuridici, organizzativi e morali, allora, cari i miei signori, care le mie signore, la nostra direttiva può essere una sola: che il racket continui a esistere, ma noi dobbiamo battere cassa!»

Il tema del sex work, dunque, rispecchia fedelmente il destino della zona orientale della Germania, abbandonata dallo Stato e in balia di società private come la Treuhandanstalt citata nel romanzo, ente accusato di uso improprio di fondi e liquidazione di attività redditizie, che di certo non ha giovato all’economia della vecchia DDR:

«A sette anni dalla caduta del Muro e sei dalla Riunificazione la città è ancora piena di idioti che non hanno la più pallida idea di come funzionano – e non possono che funzionare – i nuovi giochi. Gente che si fa fregare dagli stronzi che pilotano le privatizzazioni e dagli squali delle immobiliari».

L’ex Germania Est di Caverne è un mondo di sotto, una palude dove bianco e nero si fondono rendendo labile il confine fra legalità e illegalità, e in cui i poliziotti collaborano con gli immobiliaristi e con i nuovi criminali provenienti dall’estero per mandare avanti i propri interessi. La Germania orientale torna a essere quel mondo di confine fra la Germania Ovest e l’estero dove si può agire indisturbati restando impuniti, dove gli interessi di pochi prevalgono su quelli dei tanti che vogliono realizzarsi, distruggendo così i sogni di benessere e stabilità di un’intera generazione post-DDR.

Il tutto viene raccontato dall’autore da una posizione di distanza, la stessa della Storia, per la quale ogni cosa va e viene, come simbolizzano l’inizio e la fine del romanzo, dove due prostitute sono alle prese con i propri clienti cercando di arrivare alla fine della giornata. Per Hans, Arnold e tutti gli altri personaggi è impossibile realizzarsi in una realtà come la Germania Est: a tutti loro, dunque, non resta che sopravvivere e nella sopravvivenza trovare una dignità.

Caverne è, dunque, un poderoso, caleidoscopico e complesso ritratto della Germania post-Riunificazione: una realtà che doveva unire socialmente ed economicamente le due Germanie divise dal Muro fino al 1989, ma che con la speculazione edilizia, il turbocapitalismo e la globalizzazione è tornata a essere divisa, rendendo l’ex Germania Est un sottosuolo torbido di criminalità e sfruttamento che sembra uscito da una pièce di Bertolt Brecht; un posto dove, parafrasando il drammaturgo di Augusta, l’uomo vuole essere buono, avere pace e fraternità, ma in cui «i mezzi sono scarsi e gli uomini cattivi».

 

(Clemens Meyer, Caverne, trad. di Roberta Gado e Riccardo Cravero, Keller, 2021, 680 pp., euro 20, articolo di Alberto Paolo Palumbo)

 

Copertina di Cronorifugio di Gospodinov

Il futuro anteriore dell’Europa

Il nostro secolo, con molta probabilità, verrà ricordato come il tempo delle grandi dimenticanze. In passato raramente si è parlato così tanto dei problemi relativi alla memoria. L’aumento della durata della vita ha portato a un’incidenza crescente di persone che soffrono di Alzheimer o demenza senile. Sembriamo tutti destinati a dimenticare, e il tempo, lentamente e senza alcuna soluzione di continuità, a svanire. Sebbene la scienza abbia spiegato il motivo che soggiace a questi problemi, il pensiero, inevitabilmente, cerca un significato altro, un senso superiore, allegorico, a un male tanto subdolo capace di intaccare la nostra percezione del reale.

Cronorifugio (Voland, 2021), l’ultimo libro di Georgi Gospodinov vincitore del Premio Strega Europeo 2021, è un testo che si muove tra il romanzo politico, quello apocrifo-autobiografico e il saggio narrativo, e sembra voler parlare proprio di questo.

La perdita di memoria per Gospodinov è un monito, un invito alla comprensione. Coloro che hanno la porta del presente sbarrata non possono far altro che rivolgersi al passato, un tempo di ricordi e memorie sospese, composto da attimi, azioni ordinarie e oggetti desueti che diventano presto l’unico riparo sicuro nei confronti della complessità del quotidiano. L’ultimo possibile baluardo di felicità. Ancora di più se quella stessa felicità è fioca nella memoria di una mente in declino. Gaustìn – amico tanto immaginario quanto reale del protagonista, sua emanazione e oggetto della narrazione – è cosciente di tutto ciò: inadeguato egli stesso a vivere in un tempo preciso, decide di creare dei “cronorifugi”, luoghi con l’arredo e le comodità dei tempi passati in grado di far sentire a casa chi nel presente non riesce più a riconoscersi.

L’esperimento ha così inizio. La clinica del passato di Gaustìn nasce a Zurigo, grazie all’investimento di un emigrato bulgaro trapiantato in Svizzera, terra neutrale e quindi senza tempo: perfetta per accogliere ed essere popolata da tutti i tempi. Anche il narratore, che poi coincide con l’autore, collabora con la clinica: fa ricerche di archivio, crea storie, indaga sui colori e gli odori di decenni ormai trascorsi, tutto per ricreare un passato identico a quello che fu.

La prima parte del romanzo è particolarmente delicata: la voce narrante ripercorre le vite degli anziani che popolano la clinica e ci si immerge così nel loro passato, si soffre per le ingiustizie di un tempo non troppo lontano dal nostro, e allo stesso tempo si gode per delle felicità fatte di piccoli gesti, felicità forse solo sfiorate ma capaci di dar senso a una vita intera.

C’è una domanda però che si legge da subito in filigrana tra le pagine di Cronorifugio, e che con sempre maggiore intensità si fa largo nel corso della narrazione: fin quanto è giusto dedicarsi al passato dimenticando il proprio tempo? Il passato infatti è ammaliante, tutti vorrebbero viverlo, anche chi magari per questioni anagrafiche non può averne memoria, e così le cliniche si diffondono in tutta Europa. Le persone, anche quelle che non soffrono di alcuna patologia, cercano un comodo rifugio dal presente, ma per loro non si ha più il compartimento stagno dettato dalla malattia; i tempi si mischiano, la storia si fa quotidianità, e inevitabilmente le epoche fuse tra loro rievocano il caos che nel Vangelo di Giovanni annuncia l’apocalisse, in cui la fine del mondo viene identificata con la fine del tempo. Le città, adesso, si popolano di individui vestiti con abiti tradizionali: ognuno sceglie e vive la propria epoca, una nuova personalissima medicina al presente. Persino i nazionalismi europei pensano di appropriarsi di un passato splendente, fatto di memorie altisonanti solo immaginate, alla ricerca di un potere da rafforzare in un fulgido ma fantasmatico ricordo. Tutto si confonde dunque, la situazione politica si complica, e diventa difficile gestire città e nazioni dilaniate da tempi tanto diversi.

La banalità della vita si combatte attraverso le minuzie concrete di periodi astratti. La paura del futuro porta chiunque a rifugiarsi in quel mostro discreto che si rivela essere il passato, che conquista tutti e tutto come un virus. Il passato, tuttavia, quando scansa il presente e viola le altrui dignità, diventa pericoloso. I costumi popolari si impongono, e chi resiste, ostinato nel vivere il presente, viene preso di mira e disprezzato. La morbida tirannia della maggioranza non accetta defezioni, così l’Europa corre ai ripari e dispone un referendum generale per poter decidere il tempo da adottare per ogni nazione.

Cronorifugio è un libro impegnato, solo tangenzialmente autobiografico, un romanzo complesso per l’articolata struttura narrativa e le speculazioni storico-filosofiche che il lettore più attento troverà al suo interno; allo stesso tempo è un testo veloce, nostalgico, che si contraddistingue per la sua scrittura intimistica e leggera. Gospodinov scompone con grande qualità autoriale l’io, ricomponendolo attraverso la forzosa ripresa del passato inteso come memoria. Passato che, se non ragionato interiormente ma collettivizzato come fenomeno di massa, corre però il rischio di diventare nostalgia, fuga dal presente, oblio del male e quindi, infine, eterno ritorno del dolore.

Il protagonista del romanzo, un nostalgico che vive di ricordi, si rende presto conto che l’insicurezza di vivere il nostro tempo può ubriacare le facoltà razionali nell’esecuzione di una romantica fantasia restauratrice. E il pericolo reale è che se nessuno ricorda, allora, tutto diviene possibile. La dea del tempo, come un serpente che si morde la coda, restituisce oggi quello che aveva avuto luogo ieri; se rivissuto, il passato è destinato a culminare negli errori e nei dolori già provati dai nostri avi. Lasciarsi andare a fantasie nostalgiche non può che portare a un’apocalisse esistenziale, una corsa all’indietro verso un territorio dove non c’è nulla. Una spasmodica ricerca di un luogo nel tempo, un luogo però ormai vuoto, pieno di ragnatele e cose dimenticate, un luogo solitario che fa comprendere che in fondo è vero: l’uomo senza presente e senza memoria non può che sfumare.

 

(Georgi Gospodinov, Cronorifugio, trad. di Giuseppe Dell’Agata, Voland, 2021, 320 pp., euro 19, articolo di Giuseppe Maria Marmo)

 

Il lavoro logora chi non ce l’ha

Nel flusso continuo di nuove uscite cinematografiche, tra recuperi Covid, novità ed esclusive streaming, è facile lasciarsi sfuggire qualcosa di interessante. È il caso per esempio di E noi come stronzi rimanemmo a guardare, titolo orribile del nuovo film di Pif arrivato a fine novembre direttamente nel palinsesto Sky dopo una presentazione alla Festa del cinema di Roma

Personaggio televisivo di culto con Il testimone, Pierfrancesco Diliberto detto Pif aveva catturato l’attenzione anche sul grande schermo nel 2013 con l’ottimo La mafia uccide solo d’estate. In seguito si era un po’ perso con l’opera seconda del 2016, In guerra per amore, e si ritrova ora come autore al film numero tre con tutta l’intelligenza che ci vuole per capire che era opportuno fare un passo indietro per prendere meglio la mira

In un futuro non troppo lontano ogni aspetto della vita è regolato da applicazioni e algoritmi. Arturo è un manager che finisce vittima del sistema che lui stesso ha contribuito a creare. Dopo aver progettato un software per determinare l’effettiva produttività e utilità dei dipendenti della sua azienda si ritrova bollato come superfluo e di conseguenza licenziato. La sua ragazza, nel frattempo, lo ha lasciato a un party nazi-glam perché un’applicazione ha determinato la loro incompatibilità di coppia. Solo, disoccupato e quasi cinquantenne, Arturo si trova a combattere per rientrare in un mondo del lavoro che sembra sbarrare le porte a chiunque abbia più di 40 anni. Finisce per impiegarsi come fattorino – o rider per essere contemporanei – per Fuuber, piattaforma multifunzione che tra le altre cose consegna pasti a domicilio. La sua vita è scandita da corse in bici, conversazioni con il suo coinquilino Raffaello, professore di filologia romanza costretto a fare l’hater di professione per arrotondare, e la compagnia di Stella, un ologramma generato dalla app Fuuber Friend che sembra incarnare tutte le caratteristiche della sua compagna ideale, alla modica cifra di 199 euro a settimana

E noi come stronzi rimanemmo a guardare è una metafora amara della contemporaneità mascherata da plausibile fantascienza. Pif ha diretto e scritto il film in compagnia del suo storico sodale Michele Astori e ha avuto la buona idea di lasciare il posto da protagonista a Fabio De Luigi e ritagliarsi il piccolo ruolo di Raffaello.

Sarebbe incorretto definire sorprendente l’interpretazione dell’attore romagnolo. Già in passato aveva fatto intendere in altri film un registro più ampio rispetto al comico a cui comunemente è associato, da Come dio comanda di Salvatores al recente Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri, passando anche per il suo film da regista Tiramisù. Nei panni di Arturo, però, De Luigi riesce a comunicare tutto l’amaro disagio di chi fallisce per concrete ingiustizie e non si arrende. Come lo zaino termico che il protagonista porta sempre sulle spalle, l’attore si fa carico del film e lo porta su di sé con dignità e impegno

Grazie anche a De Luigi, E noi come stronzi rimanemmo a guardare riesce a strappare sorrisi dolorosi con una visione credibile della realtà, priva di eccessi ideologici o di retorica antisistema. Con uno sguardo che unisce Black Mirror e la filmografia di Elio Petri passando per Her di Spike JonzeBlade Runner 2049 e altri amori improbabili tra umani e (forse) macchine, Pif riesce a riflettere sulla nostra società in forma di commedia, con disincanto e grandissimo affetto per i suoi personaggi, vittime ed eroi ogni giorno

Intendiamoci, E noi come stronzi rimanemmo a guardare non è un film perfetto. Ha momenti di debolezza e cliché narrativi in cui risulta troppo facile rifugiarsi. Piccoli difetti senza importanza per la riuscita finale, però. In un panorama cinematografico nazionale sempre troppo pronto a svilire ogni iniziativa che devia dallo standard della commedia e che allo stesso tempo non aspetta altro che elogiare qualsiasi intuizione straniera, E noi come stronzi rimanemmo a guardare meriterebbe ben altra considerazione. Meriterebbe la sala e il famigerato dibattito.

Se fosse un film in lingua inglese, del resto, staremmo qui a magnificarlo e a chiederci perché in Italia non si fanno film simili.

(E noi come stronzi rimanemmo a guardare, di Pierfrancesco Diliberto, 2021, commedia, 108’)

Pavese e Dowling al premio Strega

Pavese e la scoperta dell’America

Verso la fine del dicembre 1928, al cinema Borsa di via Roma a Torino viene inaugurata la rassegna “Cinema d’eccezione”, fondata dal ventiseienne Giacomo Debenedetti, allora membro del circolo culturale La Saliera. Il grande critico si propone di educare il pubblico al film d’arte, anticipando di almeno vent’anni l’attenzione italiana al cinema d’essai. In quei giorni, un giovane Cesare Pavese, a quel tempo studente di lettere, si aggira tra le sale di periferia. È interessato alle produzioni della Fox, affascinato dall’offerta cinematografica ignorata dagli interpreti illustri, insegue le locandine sprovviste di titoli e nomi d’eccezione. Non rinuncia a porsi in aperta polemica con i critici e gli esteti del cinema, come in questo caso: «Non è che gli artisti siano stupidi, ma siete voi deficienti. Critici rompicoglioni che vivete solo di libri e, se andate al cinematografo, cercate la cerebralità e, se andate in giro, cercate l’interessante e non vivete la vita come gli operai o i bambini: la guardate da lontano».

Il debito della letteratura italiana nei confronti del poeta piemontese è enorme, ma quello dell’editoria è forse maggiore. Pavese si è proposto come importatore della letteratura americana, esordendo con la traduzione di Moby Dick e tracciando un percorso inesplorato verso una nuova scoperta dell’America, quella popolata da autori indigeni come Sinclair Lewis e Sherwood Anderson. Della vocazione di Pavese per la tradizione letteraria d’oltreoceano si conoscono il quando e il dove. Accade alla fine degli anni Venti, in quei «cinemini da due lire e anche meno, con gli schermi un tantino maculati» che il giovane poeta definisce come «altari dove si celebrano feste d’arte, inaudite in luoghi meno popolari». George O’Brien e Olive Borden sono i volti «dei filmetti giudicati di scarto perché non forniti di un nome famoso d’attore e non rappresentanti eccezioni artistiche».

La seduzione comincia da qui, lo divora negli anni in cui gli assilli sessuali e i sogni di gloria lo rendono un giovane tanto irrequieto quanto introverso. La vitalità del cinema come «arte da folla» lo prepara all’incontro con Walt Whitman, gli offre una visione dell’America dove la schiettezza e la concretezza non lasciano spazio a remore intellettuali. Scrive così in un articolo intitolato Di un nuovo tipo d’esteta (Il mio film d’eccezione): «Il cinematografo è un’arte da folla e la ragione della sua vitalità è appunto questa. E si capisce che i primi frutti di qualche valore sono venuti dal Nord America, il paese che, per la sua giovinezza e per la sua formazione unica al mondo, ha meno divario di bisogni spirituali tra le classi». Lo stesso assaggio di vitalità lo aveva già assuefatto pochi anni prima, quando preparava la tesi su Whitman. Così aveva scritto all’amico Tullio Pinelli, in una lettera in cui inneggia al poeta americano: «Egli non ama questa o quest’altra azione, ma l’azione per l’azione. Ed esalta su tutto le grandi forze del suo mondo moderno: amore di libertà, amore umano, giustizia, energia, entusiasmo. Rigetta la grazia, la debolezza, la sentimentalità, non in nome di una legge divina, ma in quanto “Preferisco la forza”».

Pochi mesi dopo la pubblicazione dell’edizione pavesiana del Moby Dick, la tradizione americana si arricchisce di una nuova prospettiva sottocutanea. Nel 1933, William Carlos Williams pubblica Nelle vene dell’America (Adelphi, 2015), il risultato di studi in cui il poeta del New Jersey ha «riconosciuto nuovi contorni, suggeriti da vecchie parole, e nuovi nomi che hanno così preso corpo». In quest’opera, Williams mostra porzioni storiche del continente che solo ai poeti è dato estrarre. «I tratti di un uomo come Washington, un resoconto letterale dei processi alle streghe, la storia di un combattimento navale» sono «lo strano fosforo della vita» che scorre nelle vene dell’America. Il poeta americano racconta della scoperta del Kentucky a partire dalle vicende di Daniel Boone, l’esploratore «grande seguace dei sensi», al quale la storia americana dovrebbe riservare somme lodi per aver «contrastato la grettezza paralizzante della tradizione puritana», e riconoscere il genio per aver compreso come «la difficoltà di trovare un suolo che potesse prendere il posto dell’Inghilterra [..] non era materiale né politica, ma puramente morale ed estetica». Boone intuì prima di tutti gli altri colonizzatori che la conquista identitaria del Nuovo Mondo era possibile solo attraverso la partecipazione ai misteriosi movimenti della natura selvaggia. Esponendosi allo spiritualismo indiano, Boone riuscì non solo a divenire egli stesso un indiano, ma a «essere se stesso in un nuovo mondo, da indiano».

L’interesse storico di Williams è pienamente compreso da Pavese, la cui conoscenza del Nuovo Mondo è così profonda che quel Mondo gli appartiene tanto quanto a Williams. Due anni prima della pubblicazione di Nelle vene dell’America aveva scritto: «l’arte ci commuove soltanto finché conserva per noi un interesse storico [..] risolvendo per noi un bisogno di vita pratica». Riteneva oltremodo necessario, al fine di «capire i moderni romanzieri americani», trovare un «parallelo storico che riporti a termini noi noti quegli atti di vita d’oltreoceano che ai più piace immaginare come tanto esotici». Il parallelo individuato da Pavese risiederebbe nella personalità e nell’esperienza di Boone, delle quali non c’è però traccia nella storia d’Italia: «Dall’Alfieri attraverso il D’Azeglio [..] e più giù, non abbiamo mai avuto quell’uomo e quell’opera che raggiungessero quell’universalità e quella freschezza [..] Questo è il nostro bisogno non ancora soddisfatto. Mentre, nella loro terra, sono appunto bastati i romanzieri americani di cui parlo. Da questi noi, dobbiamo imparare».

La scoperta del Nuovo Mondo letterario galvanizza lo spirito antifascista di Pavese. Cresciuto in un ambiente gobettiano, come lo era la classe di latino del liceo D’Azeglio tenuta da Augusto Monti, e destinatario di una rigorosa educazione all’impegno civile, nutre il sospetto «che non tutto nella cultura del mondo finisce coi fasci». Le traduzioni di Lewis e Anderson, di Steinbeck e Caldwell, vanno intese come una forma di gioiosa rivolta che «indigna la cultura ufficiale». All’America appartiene il primato artistico mondiale un tempo appartenuto alla Grecia, all’Italia e alla Francia. Pavese si entusiasma della sapienza tutta americana di racchiudere l’innocenza, la giovinezza, la rissosità e la dissolutezza dentro uno straordinario assortimento di slang che fanno di Anderson il sommo volgarizzatore. «Sono quanto di meglio c’è al mondo! Non solo per ricchezza e livello di vita materiale ma proprio come vitalità e forza artistica, il che significa pensiero e politica e religione e tutto». L’amore per l’America è un amore di gioventù, che gli è d’ispirazione durante gli anni della formazione letteraria. Scosso da La folla di King Vidor, concepisce il racconto autobiografico Un uomo da nulla. (v. anche “Cesare Pavese, i luoghi di una vita in Il mestiere di vivere” di Ulderico Iorillo). La sua esperienza cinematografica è vivida, nutrita a tal punto da plasmarne la sensibilità su una visione piena del dolore: «La poesia è l’immagine chiara di ciò che nell’esperienza ci è parso oscuro».

Il rapporto di Pavese con l’America comincia con il cinema e finisce con il cinema. Alla fine degli anni Cinquanta, la critica è alle prese con il Neorealismo, impegnata a misurarne l’influsso sugli intellettuali italiani. Alcuni di loro passano alla contraerea, rifiutando di essere associati al fenomeno, altri ancora preferiscono vederci chiaro prima di valutare la propria compatibilità neorealistica. È il caso di Giuseppe Berto, che in appendice al suo Male oscuro intende il neorealismo come «reazione al fascismo e alle tendenze letterarie che avevano avuto fortuna sotto il fascismo», stilisticamente interpretabile come «rabbiosa adesione alla realtà». Pavese guarda invece al termine “neorealismo” come un talloncino applicato impropriamente dalla critica alle opere letterarie considerate per il loro «deprecato influsso nordamericano».

In un’intervista rilasciata nell’estate del ’50, il poeta ricorda preliminarmente ai critici il «senso cinematografico» del termine, che definisce le pellicole italiane che «hanno stupito il mondo, americani compresi». La scuola Rossellini-De Sica-Visconti ha rivelato uno stile che nulla o quasi deve a Hollywood. Si chiede allora come sia possibile che «la stessa etichetta definisca con lode una cinematografia e con biasimo una narrativa, che pure sono nate contemporaneamente sullo stesso terreno intriso di succhi nordamericani». E ancora: «si è mai provata questa critica a definire lo stile, la maniera narrativa nordamericana, ricercandone le radici e i modelli storici? Lo sa questa critica che senza Kipling non si spiega Hemingway, senza l’espressionismo tedesco non si spiega Faulkner, senza Maupassant non si spiega Fitzgerald? Non occorreva affatto uscire dall’Europa per diventare neorealisti. Potremmo sostenere con ragione che furono gli americani a imparare in Europa il realismo narrativo, così com’è adesso stanno di fatto rimparando da noi quello cinematografico». Circa due mesi dopo aver rilasciato questa intervista, Pavese abbandonò stancamente la postazione alla contraerea, e ritiratosi in una stanza dell’Albergo Roma ingerì una ventina di bustine di sonnifero. Come accaduto a John Sims, protagonista de La folla, l’estraniamento dalla società lo aveva intrappolato il un vicolo cieco. John era stato portato in salvo dagli affetti, Pavese era invece rimasto isolato nella condizione di infelicità che nulla più aveva da dare alla poesia.

Giorgio Poi si conferma con Gommapiuma

Giorgio Poi è il pioniere di un itpop sofisticato e credibile che non è mai accaduto. Il suo terzo album, “Gommapiuma“, lo conferma. Cambia qualcosa, oggi, nell’approccio, ma si può dire che i Phoenix ci avevano visto lungo portandoselo in tour nel 2018.

In Fa niente e Smog, la psichedelia pop/rock stile Demarco e per estensione Tame Impala andava a mischiarsi con melodie e sensazioni alla Battisti. “Gommapiuma” si lascia alle spalle certe suggestioni  e gira in maniera più canonica, meno sperimentale, più incentrato sulla scrittura di canzoni in senso lato. Non è un caso che uno dei brani più significativi, “Bloody Mary“, veda la collaborazione di una come Elisa, in un pezzo che non si perde nel nulla come in “Vivere tutte le vite” fatto con Carl Brave, ma che invece risulta plausibile e in equilibrio tra due mondi solo teoricamente distanti.

Qui sta la bravura di Poi: il non calcare goffamente una certa strada, stagnandosi, rischiando di fare del manierismo semplice e facilmente decifrabile. La sua voce sottile caratterizza i brani, li prende e li fa suoi, li definisce e gli dà spessore.  Anche la sua assenza in “Gommapiuma“, dove il sax disegna traiettorie immaginifiche e potenti, ne conferma la qualità, in un gioco più ampio di pieni e di vuoti.

I testi sono come sempre micromondi, lenti di ingrandimento, piccole storie buffe con cui è difficile non empatizzare, immagini insignificanti che svelano mondi (“Davanti a noi l’enigma delle tasche negli accappatoi”, “Rococò“), che perfezionano la ricerca poetica di Calcutta. Giorgio Poi si conferma estremamente sensibile nel captare sensazioni quotidiane e a inserirle in quella matassa impossibile da sbrogliare che è la vita, le relazioni interpersonali, il capire, i capirsi e il farsi capire dagli altri.

I brani sono otto per trenta minuti di album. Breve, brevissimo. Denso, intelligente. Spicca l’interpretazione di “Barzellette“, la capacità di raccontare dei flash e a farne un universo; la storia d’amore ambientata al supermercato in, appunto, “Supermercato”,  e bisogna capire se è cambiata la simbologia di questi luoghi con la pandemia: “Zombie al Carrefour” dei Coma Cose e “Carrefour Express” di Ditonellapiaga possono essere delle spie; “Bloody Mary” e la voce di Elisa, che si incastra con naturalezza con quella aliena di Poi; “I pomeriggi“, dove viene gettata luce sulle ombre delle cose; “Rococò“, che suona come un piccolo classico italiano di questo decennio agli inizi. In generale, spicca la semplicità con cui sembra esser stato costruito “Gommapiuma“, e come esca dalle cuffie, il che non può che confermare un lavoro coerente e iper ragionato.

Giorgio Poi, in questo dicembre 2021, si conferma un artista di spessore.

 

Copertina di Qui dovevo stare di Dozzini

Il cortocircuito tra luoghi comuni e realtà

Qualche volta la letteratura ci riesce: scatta una fotografia al presente senza sconti, cerca di immortalarlo con le sue contraddizioni e le paure, le incertezze e le convinzioni.

Qui dovevo stare (Fandango, 2021) è un romanzo personale e iperrealista che fa esattamente questo: dopo E Baboucar guidava la fila (minimum fax, 2018) l’autore Giovanni Dozzini ha forse sentito il bisogno di uno stile narrativo diverso e si è calato al centro della storia, raccontando in prima persona due settimane del flusso di coscienza duro e inquieto di Luca Bregolisse, imbianchino di quarant’anni, detto il Brego.

Chi è il Brego lo si capisce immediatamente: ha un lavoro umile, se può lavora in nero, ha una moglie con cui parla pochissimo e una bambina. È cresciuto in una famiglia di sinistra – il padre è un pensionato comunista che ha votato per Occhetto, contribuendo alla “snaturazione” del partito – e ha un passato da ragazzo dei centri sociali. Soprattutto, ha una madre morta troppo presto con cui continua a essere in connessione. «Io non avevo ancora finito di essere il figlio di mia madre, mi serviva altro tempo e mi serviva ancora mia madre»: ha un legame forte con la figura materna, che sente appollaiata tra il sopracciglio e la tempia e rappresenta un po’ la sua coscienza.

Il Brego ha un dipendente marocchino, Nabil, con un figlio, Mohamed, detto Massimino, che combina una serie di guai e conduce un’esistenza sbandata e sarà l’attivatore di una serie di considerazioni e rivoluzioni.

La sua quotidianità, fatta di pranzi e caffè corretti al bar con il suo migliore amico, il Tordo, il lavoro e le sue dinamiche familiari si sgretolano quando un evento che coinvolge Mohamed lo costringe a rivedere le logiche nelle quali si era assestato: perché un conto è agire secondo la realtà che viene fuori dai dati, dai social media, e un altro è farlo seguendo quella dettata dall’esperienza, dalla vita vera.

Benché il paese in cui il Brego vive e che muove le sue scelte non abbia nome, la geografia di molti luoghi è altamente riconoscibile: Qui dovevo stare ritrae infatti un’Umbria malinconica e nostalgica, profondamente cambiata sia demograficamente che sociologicamente.

Il nodo del romanzo è la trasformazione: il passaggio delle ideologie, il cambiamento del proprio paese, contraddistinto da un tessuto sociale complesso che l’autore cerca di tradurre attraverso i pensieri del Brego, l’uomo medio frustrato e pervaso dalla paura.

Dozzini non definisce gli eventi, le azioni che descrive come giusti o sbagliati: il lettore si trova così al cospetto di un ribaltamento delle prospettive e dei luoghi comuni, ascoltati molte volte da tantissimi altri “Brego”.

Irriverente, intenso e ombroso, il flusso di coscienza del protagonista conduce inevitabilmente a riflessioni politiche e sociali: Luca Bregolisse, con i suoi ragionamenti intrisi di razzismo e di intolleranza, è una rappresentazione dello smarrimento politico e culturale che porta a pensare che “i diversi” siano una delle cause del malessere e della precarietà della nostra società. Uno smarrimento che ha portato le ideologie di destra anche in territori “rossi” per tradizione.

Nel corso della narrazione si innesca quasi un effetto domino, e il protagonista è risucchiato in una spirale di eventi che lo conducono a un bivio: scegliere di rimanere indifferente o attivarsi per l’altro, il diverso da sé, divenendo centrale rispetto alle dinamiche sociali che vive. Che dispensano ombre ma anche speranza sia per le vittime che per i carnefici.

 

(Giovanni Dozzini, Qui dovevo stare, Fandango, 2021, pp. 202, euro 16, articolo di Antonella De Biasi)

 

I Nation of Language e il loro primo grande album

Reynolds ci parla di retromania, di assenza di sguardo sul futuro. Di un futuro che non si è realizzato. Nel 2021 esce il secondo album dei Nation of Language, A Way Forward: come la mettiamo?

Riferimenti più o meno palesi a Cure, Kraftwerk, Depeche Mode. I New Order e i Joy Division. Gruppi che sono stati più che una guida per quest’album. La voce di Richard Devaney che riverbera come in Pornography che riverbera in un locale underground a metà anni ’80. Siamo in piena retromania.

Funziona il discorso di Reynolds di un appiattimento – uno stallo – iniziato negli anni ’00. Possiamo far rientrare i Nation of Language in questo discorso. Teoricamente ci siamo.

Quindi ha senso ha senso ascoltare un album del genere, oggi, e valutarlo lo stesso come un grande album? Domanda lecita, perché A Way Forward è un grande album.

Qui non si scimmiottano gli anni ’80, non è stato scritto un album nostalgico, senza ricerca, senza sperimentazione, ricalcando certi stilemi e di fatto copiando. Subordinandosi a un modo di essere.

I Nation of Language ridisegnano l’estetica anni ’80, lo fanno per l’Oggi, filtrano il tutto nell’indie anni 2000 (perché si passa anche attraverso gli Interpol, e non potrebbe essere altrimenti), rendono il suono estremamente fluido e – qui sta la grandezza – estremamente attuale. Gli anni ’80 sono ora nella testa dei tre americani. Non c’è stacco, non ci sono 40 anni di distanza. Non c’è uno sguardo malinconico su qualcosa che non c’è più. Gli anni ’80 sono oggi. Non siamo stati catapultati negli anni ’80: gli anni ’80 sono stati catapultati nel 2021.

L’album quindi scorre che è una meraviglia: la scrittura dei pezzi è intelligente, pensata, preziosa. Scie di synth e un basso sempre in evidenza che sorregge il tutto.  “Across That Fine Line” ha la potenzialità da brano pietra miliare e un ritornello-magia dove underground e stadio sono bilanciati alla perfezione; “The Grey Commute” e “This Fractured Mind” sono pezzi usciti da Computerwelt ma pensati da Robert Smith; “Miranda” ha delle suggestioni alla Simple Minds di New Gold Dreams; “They’re Beckoning” suona come gli U2 avrebbero dovuto proseguire la loro carriera.  La personalità di Devaney  trascina costantemente e ricorda in qualche modo quella di Jarvis Cocker: i National of Language sono carismatici e sanno cosa stanno facendo.

A Way of Language, senza troppi giri di parole, si candida a essere uno degli album di questo 2021.

Copertina di La parte del fuoco

Immagini di emarginazione

«Vivere nella fortezza fa crescere nella paura». Tale affermazione, profferita da una delle protagoniste di La parte del fuoco (TerraRossa, 2020), sarebbe sufficiente allo scopo di cogliere il significato del libro di Marco Rovelli. Il romanzo, come scrive l’autore nella prefazione, intende difatti raccontare, nel tentativo di suscitare la riflessione del lettore, le vicende di due sfortunati, due persone irrimediabilmente emarginate agli occhi dei più: il migrante tunisino Karim e la problematica Elsa, una ragazza afflitta da problemi psicologici.

Una vicenda traumatica occorsa a Nevia, la donna con cui Karim vive, consente di venire a conoscenza, attraverso una lunga analessi, del passato doloroso dei personaggi principali: da una parte, le peripezie attraverso le quali l’uomo è riuscito nell’intento di giungere in Italia e, di seguito, a vivere da invisibile clandestino, sprovvisto dei diritti primari per cui insigni uomini si sono battuti secoli fa; dall’altra, il trascorso di Elsa, immalinconita dalle ricchezze paterne che emarginano i sentimenti, fino a spingerla, in concomitanza con altri eventi sconvolgenti, a reiterati tentativi di suicidio.

Terminato il flashback, le vicissitudini dei due si intrecciano in misura sempre maggiore, interessando marginalmente anche Nevia e squarciando il velo di un’Italia sollecita nell’abbandono dei derelitti.

Peculiare si rivela la scelta di adottare una narrazione in seconda persona: un artificio narrativo raramente adoperato dagli scrittori, che permette di immedesimarsi completamente nei ricordi struggenti e nelle amare riflessioni di Karim, al contempo permettendogli di partecipare con dolce coercizione alle sue afflizioni. In questo modo, Rovelli fa sì che almeno il lettore sia solidale con il protagonista maschile, sostanzialmente emarginato dagli affetti per colpa della propria condizione, quella di migrante clandestino senza alcun diritto.

Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 2012 (con un finale differente), ma ciononostante le vicissitudini di Karim risultano del tutto sovrapponibili a quelle delle decine di migliaia di persone che, con cadenza pressoché quotidiana, attraversano il mar Mediterraneo dall’Africa. Karim viene sfruttato dagli italiani che affittano a caro prezzo bilocali, talora senza servizi igienici, stipandovi più esseri umani rispetto a quanto sia moralmente lecito; è costretto a lavorare con l’obbligo di scappare a un possibile controllo delle forze dell’ordine; non è nelle condizioni di denunciare gli italiani che abusano di lui e dei suoi amici; è accettato, nell’Italia settentrionale, dai “terroni” semplicemente perché essi, grazie alla presenza dei migranti, hanno perso la condizione di “alterità” e non vengono più denigrati. Tante sono le analogie con i clandestini dei nostri giorni.

Numerosi sono gli altri riferimenti a condizioni che si ripropongono oggigiorno: tra gli altri, la bocca cucita dei migranti in segno di protesta o le loro autoflagellazioni curate da sanitari seccati, che portano però a un differimento dell’espulsione dal nostro Paese.

E anche quando si allude a eventi di cronaca coevi alla data di pubblicazione di La parte del fuoco, sembra cambiare rispetto all’oggi meramente la forma, non la sostanza: i CIE, in cui gli immigrati vengono reclusi nel romanzo, hanno cambiato denominazione, diventando CPR, ma pressappoco corrispondente è la loro funzione.

La ripubblicazione del romanzo, dopo quasi un decennio rispetto alla prima versione, evidenzia le affinità col recente passato in modo talmente frustrante, per chi crede nel valore dell’umanità, che l’obiettivo perseguito da Rovelli di far riflettere sul tema bollente dell’accoglienza dei migranti si può definire pienamente raggiunto. L’autore sembra suggerire che la maggior parte dei migranti cerca di integrarsi in Italia, acquisendo la nostra lingua anche tramite la lettura di un classico del secolo scorso e lavorando sodo; implicitamente, fa anche riflettere sulla cultura che non può essere messa a frutto nel Paese di provenienza (Karim è giunto a un solo esame dal conseguimento della laurea in Lettere), sulle motivazioni dei flussi migratori (Karim ha come meta del viaggio l’Italia perché la tratta era già stata percorsa da “mezzi parenti”) e sui dissidi familiari causati dalla decisione di emigrare.

Inoltre, Rovelli rievoca il travaglio del migrante che vede i propri compagni di viaggio morire durante la traversata e che porterà con sé per il resto dell’esistenza questo ricordo traumatico, domandandosi (emerge sommessamente dalle considerazioni del protagonista), in modo simile a quanto scrive Primo Levi in I sommersi e i salvati, la motivazione per cui il destino abbia scelto che alcuni morissero e che paradossalmente, col loro trapasso, salvassero altre vite.

Al contrario, riesce parzialmente la narrazione delle sofferenze di Elsa. La sua vicenda appare più “romanzata” e meno profonda rispetto a quella di Karim; ciononostante, anche la sua storia fa riflettere, specialmente per la considerazione di “pazzi” che la nostra società tende ad avere su coloro che sono stati ospiti in cliniche psichiatriche e per le riflessioni sui luoghi di cura, i quali, lungi dall’essere centri di benessere psicologico, al contrario si rivelano luoghi che non sempre aiutano le persone che vi ricorrono, tanto perché perfusi da un bianco accecante, tale da non aiutare i ricoverati (e la sinestesia con cui tale aspetto è evidenziato, il «bianco silenzio» della clinica, risulta emblematico), quanto per le capacità e per l’empatia non sempre adeguate delle persone che vi lavorano.

Anche il finale sembra eccessivamente romanzato e con ritmi narrativi estremamente rapidi, in particolar modo rispetto alle sequenze riflessive precedenti che catturano l’attenzione del lettore.

Nonostante tali considerazioni, La parte del fuoco merita di essere letto non solo per le tematiche estremamente attuali che inducono alla riflessione. Anche la forma linguistica, infatti, si rivela pienamente adeguata, riuscendo a impreziosire il contenuto del libro grazie alle efficaci figure retoriche e grazie al campo semantico del mare di cui sono piene le riflessioni di Karim, che permettono al lettore di comprendere quanto l’esperienza tragica vissuta della traversata nel Mediterraneo riesca a segnare a vita un essere umano.

Pur con alcuni difetti, Marco Rovelli riesce così pienamente nel proprio intento. Addolora, in virtù di tali considerazioni, che La parte del fuoco non sia riuscito a conseguire il meritato successo nel 2012. La sua lettura, oggi come allora, riesce a squarciare la fortezza entro cui vive l’uomo smuovendone l’empatia, e sappiamo bene quanto essa sia necessaria per capire, anche soltanto in modo limitato, il dramma degli emarginati, degli ultimi.

 

(Marco Rovelli, La parte del fuoco, TerraRossa, 2020, 170 pp., euro 15, articolo di Luigi Buttiglieri)

 

Copertina di Randagi di Marco Amerighi

Predestinati o solo esseri umani

Quella di Randagi, l’ultimo romanzo di Marco Amerighi (Bollati Boringhieri, 2021), è una storia che verte su una promessa menzognera ma narrativamente impeccabile, ovvero che il principio di tutto sia la maledizione che pende sulla testa degli uomini Benati, quattro, destinati a scomparire per un qualche periodo senza che si sappia dove sono stati, o cosa sia capitato loro.

La dichiarazione d’intenti dell’autore mette erroneamente il lettore nella condizione di predisporsi ad accogliere una storia di scomparsi – da questo, forse, il termine «randagi»? – o di misteri irrisolti, e il racconto del primo Benati vittima di quella silente profezia parrebbe confermarlo: Furio, sparito in Etiopia nel 1936 e ricomparso quasi miracolosamente dopo la guerra, è l’emblema di quella maledizione; anche suo figlio, Berto, sembra seguire una traccia già percorsa, seppure in maniera differente. Berto infatti sparisce a sua volta, preda più della dipendenza da gioco che non di un disegno prestabilito. Ma si tratta comunque di sparizioni, l’ultima delle quali lo restituirà a sua moglie Tiziana senza un dito (d’ora in avanti per tutti, figli compresi, sarà il Mutilo). Ma dov’è che l’autore “mente”? Dove si nasconde la verità sui Benati?

Sia chiaro, non c’è qui l’intento di smascherare nessuno, quanto piuttosto di sottolineare come l’apparente principio di una storia possa diventare lo strumento finzionale per raccontarne un’altra, non meno interessante e ben costruita, ma anzi la migliore storia possibile che si possa riservare al lettore.

E quindi i Benati, dicevamo: come abbiamo annunciato all’inizio, sono quattro. Dopo Furio e il Mutilo, ci sono Tommaso e Pietro, i figli del Mutilo e di Tiziana: Tommaso, da primogenito, incarna tutte le speranze che i genitori possono nutrire per la propria prole; è eccezionale in qualunque cosa faccia, dagli sport allo studio. Pietro invece arranca, senza una particolare propensione nei confronti di una disciplina o di un hobby. Ma d’altronde sono giovani, c’è tutto il tempo per trovare la propria strada. Sarebbe così, perlomeno, se non ci fosse quella maledizione ad aspettarli dietro l’angolo, spada di Damocle che condiziona chi ne è destinato molto di più prima che dopo il suo manifestarsi.

Nella Pisa a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, Tommaso e Pietro si comportano come farebbero tutti i fratelli con un padre ludopatico e inaffidabile e una madre ipocondriaca sempre pronta ad accogliere i suoi uomini sulla soglia di casa: fanno squadra, si divertono, crescono. Fino a quando un incidente non compromette la carriera sportiva di Tommaso e non costringe a rivedere i piani per il futuro.

È a partire da questa deviazione imprevista che inizia la vera fase di randagismo, per Tommaso prima, per Pietro dopo. È l’occasione per Amerighi di dare nuovo respiro alla storia, di allargare gli orizzonti narrativi dal racconto del lessico familiare a quello dei figli Benati nel mondo.

Per farlo è necessario inserire nuovi personaggi, nuove sottotrame, che di fatto subentrano prima in sordina, poi prendendo sempre più piede. Il gioco dei contraltari tra vicende primarie e secondarie non inficia però la trama portante, e la arricchisce anzi di nuove sfumature, la potenzia a un livello superiore di narrazione. Il modo in cui le complicate storie di questi personaggi si intrecceranno a quella di Pietro è prerogativa della bravura di Amerighi, che si rivela un grande tessitore. La struttura dell’intero romanzo è infatti perfettamente riuscita e l’impalcatura dei Benati ben costruita, incrollabile.

Così vediamo arrivare prima Laurent, francese temporaneamente trapiantato in Spagna; poi Dora, la seconda rilevante figura femminile, dopo quella di mamma Tiziana. Il passato tormentato dei due si confonde, si sovrappone in varie forme agli scheletri di Pietro, ai suoi dolori, in un ciclico girovagare di uomini e donne in cerca di una meta.

In questo peregrinare continuo tra paesi e continenti diversi, tra tentativi più o meno fallimentari di affermare sé stessi, nel desiderio intimo e profondo di definirsi come esseri umani al di là del legame di sangue, al di là del passato, è l’essenza della storia di Pietro e di tutti coloro che gli graviteranno intorno, anche dei suoi lettori.

 

(Marco Amerighi, Randagi, Bollati Boringhieri, 400 pp., euro 18, articolo di Giovanna Nappi)
Poster della serie Strappare lungo i bordi

È inutile che vivi fuori, se muori dentro

Zerocalcare debutta nel catalogo Netflix con la sua prima serie tv animata. E le critiche non tardano ad arrivare: Strappare lungo i bordi parla troppo romanesco. Come scrive Paolo di Paolo su Repubblica, «nella valanga di commenti entusiastici […], la variabile impazzita (e pretestuosa) ha a che fare con la marcata inflessione regionale dei personaggi: “doppiati” tutti dallo stesso autore, Zerocalcare, con l’eccezione dell’Armadillo, a cui presta voce – impeccabilmente – il romano Valerio Mastandrea».

Una sorta di reazione (inspiegabile) contro una romanità che stride rispetto alle sedi del potere di cui Roma è la rappresentante implicita. La città del governo e dei ministeri non può permettersi di parlare a quel modo. Il ritmo veloce e incalzante dello stile di Zerocalcare – che abbiamo intervistato per la prima volta quasi 10 anni fa – investe la lentezza della politica con tutta la sua forza dirompente, trascinando lo spettatore in un vortice che all’inizio disorienta, ma poi piace fino a sbellicarsi dalle risate. Il suo romanesco, pur così pieno di parolacce, ci porta tra i ricordi di un giovane adulto degli anni Ottanta: «pensavamo che la vita fosse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Però c’avevamo 17 anni e tutto il tempo del mondo».

Ma strappare piano non basta più. La narrazione, irruente e sfacciatamente malinconica nell’intimo, osa fare a brandelli i bordi che ancora ci legano ai canoni dell’arte diplomatica e falsa, capace di nascondere dietro la parvenza delle buone maniere una società senza scrupoli. Zerocalcare decide di non mentire: le sue parole sono veritiere nel raccontare la rabbia e la delusione nei confronti di «un paese che si è incancrenito».

Tutto comincia da una frase appena accennata per pochi secondi su un muro di Roma: «è inutile che vivi fuori se muori dentro». E prosegue col viaggio di Zerocalcare (più l’Armadillo), Sarah e Secco. Un percorso esteriore e interiore insieme, fatto di insicurezza, precarietà, smarrimento. «Il controllo sulla propria vita non è un traguardo che uno raggiunge e conserva, da cui non si torna più indietro. È una battaglia continua e ogni centimetro che ti sei guadagnato lo devi difendere tutti i giorni, sennò è un attimo che abbassi la guardia e si portano via tutto.»

Strappare lungo i bordi non è una serie animata per bambini. Col suo linguaggio scurrile e sfrontato si rivolge ai trentenni di oggi, disillusi sul futuro che li attenderà, spesso senza più speranza, e offesi da una società che non ha risposto alle loro attese di lavoro. Zerocalcare disegna il presente, ricordando il suo passato, senza rimpianti o goffi tentativi di autocommiserazione: «la cicatrice è come una medaglia, che nessuno ti può portare via. Così, quando Zeta è grande e ormai il principe non gli fa più paura, si ricorda che ha vissuto, che ha fatto tante avventure. Che è caduto e si è rialzato. Più che nel film del 2018 – poi rinnegato – basato sul volume d’esordio, La profezia dell’armadillo, dove i protagonisti hanno un corpo vero e una voce reale, è in questa serie animata che Zerocalcare mette in mostra tutto il suo talento, regalando ai personaggi non solo la matita e i colori, ma anche l’accento, l’anima e la vita.

immagine per doppio sogno

Natura e tema del doppio

È sotto l’alba verdastra di una natura livida e in lotta, che nel finale de Il visconte dimezzato di Calvino (1952), le due metà di Medardo si battono in duello: «…i licheni diventavano pietra e le pietre lichene, la foglia secca diventava terra, e la gomma spessa e dura uccideva senza scampo gli alberi. Così l’uomo si avventava contro di sé, con entrambe le mani armate d’una spada». I fendenti dell’una e dell’altra parte, rompendo di nuovo tutte le vene e riaperta la ferita che nella guerra contro i turchi li aveva scissi nel Gramo e nel Buono, è nel prato dove «la bocca del lombrico mangia la propria coda e la vipera si punge coi suoi denti», che rimescolano quel sangue diviso che un tempo era stato uno solo, ricomponendo il cavaliere in un personaggio intero. Il topos del doppio o Doppelgängerparte nascosta di sé, nemico, Perturbante freudiano, Ombra junghiana – che nelle sue diverse forme e modi ha attraversato la letteratura fin dall’antichità classica, a partire dalle complesse trasformazioni scientifiche, etiche e culturali del Ventesimo secolo si intreccia per la prima volta a un inedito, sorprendente quanto  tormentato rapporto con gli elementi naturali.

Se in passato infatti l’ecosistema, nel dipanarsi della vicenda attraverso il conflitto tra il personaggio e il proprio alter ego rappresentava il contraltare della solidità, a monte, di una dimensione materna e protettiva che non sarebbe mai venuta meno, nel corso del Novecento via via vede incrinarsi le fondamenta stesse del suo ruolo. Non più sinonimo di quiete e purezza cui riferirsi idealmente, ne Il visconte la terra si ribella ferocemente contro se stessa alla pari dell’uomo, dismettendo così la  rappresentazione della realtà vista in un’ottica di speranza o serena fiducia.

Sessantadue anni prima, a cavallo tra la fine della rivoluzione industriale e l’epoca nuova che seguirà alla Grande Guerra, quando nel 1890 Oscar Wilde pubblica Il ritratto di Dorian Gray, l’angoscia dello sdoppiamento del protagonista è l’eccezione insana della sua decadenza morale, in contrapposizione al concetto di una natura salvifica e innocente alla quale appellarsi. Dorian pugnala il suo ritratto, uccidendo in questo modo anche se stesso, eppure paradossalmente il nodo ontologico della scissione della coscienza può ancora essere risolto. Diversamente, le due parti dimezzate del Gramo e del Buono di Calvino, anche se ricomposte finalmente in un uomo intero, non ricuciono più lo strappo con la vita perché ormai «è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo».

In sostanza ne Il ritratto, come in altre pietre miliari della produzione letteraria sul tema del doppio tra Ottocento e inizio Novecento – si pensi a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson (1886) o a Il compagno segreto di J. Conrad (1910) – il creato è tutt’ora immagine di un ordine provvidenziale che governa il mondo, e il dualismo da cui sono lacerati i personaggi pur sempre in grado di ritrovare l’unità smarrita. L’anima scissa di Dorian, in guerra contro l’ordine naturale delle cose che sancisce lo sfiorire della sua bellezza, è un’insana anomalia cui si oppongono il rimorso e il rimpianto di un’innocenza perduta tuttavia possibile, non già la rassegnata accettazione dell’ineluttabile condizione umana che l’alba dei nuovi tempi sembra portare con sé. Similmente è per il destino del dottor Jekyll perché, sebbene la natura si vendichi rendendo la sua metamorfosi, da indotta bevendo la pozione di cui è inventore, ad automatica e involontaria, è cionondimeno viva e presente, non ancora quell’eden lontano e ammantato di nostalgia quale diventerà nei decenni successivi nell’immaginario collettivo.

Anche il giovane Legatt di Conrad, proiezione dell’inconscio del capitano che di nascosto all’equipaggio lo issa a bordo, celandolo segretamente nella sua cabina per tutta la durata del viaggio, pur essendo la manifestazione della sua parte oscura non giunge a incrinare l’armonia dell’ancestrale legame con tutto ciò che vive. Mare, sole, vento, gabbiani, nuvole, sono al di qua della frattura inquietante che aleggerà nelle avventure calviniane del visconte Medardo, per quanto il finale aperto de Il compagno segreto, con la domanda se il misterioso naufrago Legatt riuscirà a salvarsi o finirà per morire, in qualche modo sembra sottilmente preludervi.

Nel capolavoro di Virginia Woolf Orlando (1928), l’elemento naturale continua ad accompagnare costantemente e senza traumi la trasformazione del protagonista, individuo nato due volte: la prima bambino maschio, la seconda femmina adulta. Orlando ragazzo compone il poema La quercia, volto a celebrare la bellezza della terra; incantato dal paesaggio avvolto dalla brina e dal ghiaccio, amoreggia con una principessa russa che paragona a «melone, pigna, ulivo, smeraldo e volpe tra la neve»; si ritira in campagna a scrivere; svegliandosi all’ombra di un fico gigante, resta abbagliato dalla nudità del proprio corpo che ha cambiato sesso per, infine, ritrovarsi in giardino a mezzanotte, a seno nudo, dove le perle della sua collana hanno «barbagli, fosforescenze» vivide come la luna.

 

Ma è in Doppio sogno di Arthur Schnitzler (1926) – cui si ispirerà Stanley Kubrick per Eyes Wide Shut, che porterà sugli schermi nel 1999 – che con sorprendente anticipo Gea non appare più entità eterna e immutabile, piuttosto altro da sé estraneo e irreale che, impotente ad aiutare l’uomo, lo lascia da solo ad affrontare il problema dell’identità e della sua perdita, di conseguenza dell’incombente minaccia del proprio duplicato. Per Fridolin, il protagonista, la passeggiata nella bianca notte viennese è una discesa agli inferi, così come perfino il prossimo arrivo della primavera si mostra ingannevole e artificioso, facendogli apparire ogni cosa come distaccata, spettrale. In balìa dei suoi fantasmi interiori, mentre «non provava interesse per nulla e per nessuno», l’alienazione di Fridolin lo inorridisce e al contempo gli dona «una certa calma che sembrava liberarlo da ogni responsabilità, e addirittura svincolarlo da ogni rapporto umano».  Ecco dunque che il patto con la natura è infranto; la verità non esiste, tutto è doppio e vive nel sogno.

Nella ricca produzione letteraria sul tema del Doppelgänger, questo chiaroveggente racconto di Schnitzler è tra le opere che maggiormente segnano il venir meno della comunione mistica con la vita dell’universo. Di fatto, autore fino a pochi anni fa sottovalutato ma via via sempre più considerato uno dei grandi narratori della letteratura moderna, con Doppio sogno Schnitzler anticipa sorprendentemente altri grandi classici sul tema del doppio, relativi alla seconda metà del secolo, quali il Visconte calviniano e Lolita (1955) di Vladimir Nabokov.

Ormai irrimediabilmente distante è infatti quel clone di sé, concreto e tangibile, che nel William Wilson (1839) di Poe assume le medesime sembianze, modi e gesti del protagonista, il quale in un impeto di rabbia arriverà a ucciderlo, rispetto al cupio dissolvi dello sdoppiamento onirico di Fridolin che, immerso in un incanto surreale, lo rende incapace di scagliarsi contro un nemico invisibile. E laddove in Poe persiste il richiamo e la possibile salvezza de «la fresca consolazione di viali ombrosi» in cui il personaggio respira «la fragranza della macchia innumerevole», turbato da «una indefinibile letizia», nulla di simile vi resta in Schnitzler, dove l’ambiente è già simile al paesaggio rabbioso e crudele in cui si muove Medardo non meno dell’alienante, visionaria carrellata del panorama che scorre dai finestrini nella lunga fuga di Humbert, che trascina con sé Lolita da un motel a un altro degli States.

Il lutto della Grande Madre, che già ne Il sosia (1846) di Dostoevskij caricava l’uomo di un peso insopportabile, quello di dare ordine lui stesso alla realtà e di conferirle un senso, trascinando la follia di Goljiàdkin per una via sconosciuta dove «a destra e a sinistra nereggiavano foreste; tutto era ignoto e remoto, deserto», sia pure conservandone il miraggio di forza generatrice di tutte le cose, in Lolita rende vano ogni tentativo di riscatto. La dodicenne di Humbert, doppio della precedente ninfetta Annabelle, amata e perduta venticinque anni prima, se ne resuscita le fattezze fisiche ne ha in compenso smarrito la comunicazione con il ritmo della vita. Non più un mondo «di sabbie pulite, di aranceti, di cani amichevoli, di vedute marine», quello della neo-Annabelle è raggelato da un indifferente distacco. Del fatale viaggio con il patrigno, Lolita è insensibile al paesaggio naturale, piuttosto attratta dai bizzarri cartelli indicanti i gabinetti delle autostrade – “Ragazzi-Ragazze”, “John-Jane”, “Jack-Jill” e perfino “Caproni-Caprette” – così come dalle volgari scritte al neon dei distributori di benzina, nuovi totem della modernità.

Non a caso, per l’omonimo film del 1962 Kubrick sceglie un rarefatto bianco/nero in cui una natura ricostruita in studio, presente solo come sfondo, sottolinea la profonda solitudine e lo smarrimento esistenziale dei personaggi. L’intera storia, onirica e ambigua, si dipana attraverso il ricordo di Humbert analogamente all’allucinata realtà di Fridolin in Doppio sogno che, nella sua trasposizione cinematografica, già dal titolo Eyes Wide Shut indica un occhio sia aperto che chiuso, quello cioè di chi guarda a un cosmo che ha smesso di comprendere e non riesce più ad abitare.

Al pari della madre terra, l’altro da sé ha dunque cessato di essere entità fisicamente individuata per farsi fantasma onnipresente, astratto e inafferrabile. Il Fridolin di Schnitzler, alias il Bill di Kubrick che si aggira in un ambiente cittadino invernale e solitario, notturno, senza cielo né alberi, insieme al contatto con le cose ha smarrito la propria identità. Come Medardo, come Humbert e Lolita, si perde in una ridda di avventure: forse reali, forse fantastiche e sognate, alla ricerca di una verità che non esiste se non nel tentativo di cercarla.