“Humandroid”
di Neill Blomkamp

Siamo in Sud Africa, nel 2016. Johannesburg è una città invivibile con un tasso di criminalità ormai estremo. Per contrastare l’onda delinquenziale il governo si è affidato alla Tetravaal, una società di ingegneria robotica che ha messo a punto gli Scout, poliziotti robot chiamati a sostituire gli agenti umani nel controllo della città. Deon (Dev Patel) è l’inventore degli Scout, un giovane ingegnere che vuole sempre qualcosa di più. Quando torna a casa dal lavoro, la sera, continua a lavorare. La sua ambizione è quella di riuscire a realizzare degli androidi in grado di pensare e di provare emozioni, degli androidi umani, degli Humandroid. Riesce a sviluppare un’intelligenza artificiale, ma alla Tetravaal non sono interessati a sperimentarla. Gli Scout vanno più che bene così come sono e vorrebbero puntare su altri progetti simili, magari il MOOSE ideato da Vincent Moore (un inguardabile Hugh Jackman in bermuda), un ex militare che ha realizzato una macchina da guerra controllata dall’uomo con la forza neuronale. Per portare avanti il suo progetto, Deon prende uno Scout danneggiato su cui sperimentare di nascosto a casa. Solo che si mette in mezzo una gang di criminali che rapisce Deon e il suo robot e finisce per trasformare lo Scout in un gangster.

Tra il 2009 e il 2010 il sudafricano Neill Blomkamp ha ottenuto un inatteso e globale successo con il suo film d’esordio, District 9, che di fatto ha dato nuova linfa al genere fantascientifico riuscendo a contaminarlo con riflessioni sociali e discorsi anche politici sulla storia del Sud Africa e sulla paura del diverso. Arrivarono quattro inaspettate candidature agli Oscar (tra cui miglior film e miglior sceneggiatura non originale) e incassi mondiali di più di duecento milioni di dollari per un film che ne era costato trenta (grazie al contributo in produzione di Peter Jackson). Soprattutto, per Blomkamp si aprirono le porte di Hollywood. Il suo film successivo, Elysium, arrivato quattro anni dopo District 9, poteva contare su un budget da blockbuster e su un cast internazionale con Matt Damon e Jodie Foster in prima fila. Il progetto non andò proprio bene, soprattutto con la critica. Lo stesso Neill Blomkamp si è dichiarato pentito («I F*cked it Up», ha detto di recente). Con Humandroid – Chappie, il titolo originale, come il nome che viene dato all’androide, e ci sarebbe ancora una volta da interrogarsi sulle logiche che guidano le scelte dei titoli in Italia – tenta la via del compromesso tra l’esordio e il (mezzo) flop del secondo film.

Prima di tutto torna a terra, dopo l’escursione nel mondo sospeso di Elysium, e torna in Sud Africa, dopo la Los Angeles di pattume di Matt Damon. In realtà, lo sfondo cambia poco, perché l’immagine del futuro che Blomkamp propone è sempre simile, improntata su una forte negatività, su un pessimismo per la capacità dell’uomo di trovare nuovi equilibri tra povertà e ricchezza. La fantascienza di Blomkamp ha sempre un forte connotato sociale, anche politico, volendo. In District 9 il discorso sul razzismo era evidente con la segregazione degli alieni nel ghetto, così come in Elysium il confronto tra ricchezza onnipotente e immortale e poveri destinati al macello. In Humandroid la chiave sociale è meno immediata e rilevante, ma c’è sempre.

Dietro la maschera della fantascienza action più spettacolare e di intrattenimento, che strizza l’occhio al filone anni Ottanta, soprattutto Robocop, già solo per l’idea dei poliziotti robot, e Corto circuito, la riflessione di Blomkamp si va a infilare questa volta sulle conseguenze della robotica, per le macchine stesse e per gli esseri umani. Da un lato, c’è la consapevolezza della fine imminente di Chappie, costretto in un corpo la cui batteria è in esaurimento nell’arco di pochi giorni, che fa pensare subito a Blade Runner, dall’altro c’è quella ricerca su cosa renda un essere umano tale, se sia il corpo o piuttosto la sua anima – qui chiamata coscienza – a farne una creatura viva e senziente. Su questo aspetto, se lo sviluppo di un’intelligenza possa rendere una macchina simile all’uomo, si sono già spesi centinaia di film da quando esiste il cinema fantascientifico. Sulla possibilità di definire la coscienza, di isolarla ed eventualmente trasferirla su una chiavetta USB, come prova a fare Chappie, c’è stato il recente Transcendence di Wally Pfister, che si prendeva troppo sul serio e finiva per essere insopportabile.

Humandroid ha il pregio di non essere solo riflessione, anche perché la parte di metafisica robotica è senza dubbio quella riuscita meno bene, molto approssimata e buttata lì per dare un livello ulteriore di lettura, con la sindrome di onnipotenza di Deon che vuole essere chiamato «creatore» e Moore che si oppone agli Scout, e a Chappie, in nome di una religiosità che appare solo ogni tanto.

È nella parte dell’educazione di Chappie che Humandroid dà il meglio, grazie al lavoro incredibile al motion capture di Sharlto Copley, l’attore feticcio di Blomkamp che ha animato il robot. Chappie è una specie di cucciolo che deve imparare tutto per stare al mondo. Nelle mani dei gangster – il duo sudafricano rap Die Antwoord – viene cresciuto come un criminale, ma la presenza intermittente del creatore gli garantisce una moralità e un fondo di bontà invincibile. Praticamente nei suoi pochi giorni di vita compie tutta la crescita dall’infanzia ai primi anni dell’età adulta, con tanto di ribellione adolescenziale e ricerca di figure paterne alternative.

Riuscire a suscitare empatia e tenerezza non è cosa da poco, così come riuscire a conciliare un personaggio quasi da cartone animato con un contesto in cui la violenza c’è, eccome, e con un messaggio finale che sa ben poco di speranza per il destino dell’umanità.

(Humandroid, di Neill Blomkamp, 2015, azione, 120’)

Aspettando aprile

Chi non lo ricorda, l’aprile di quell’anno? I «giorni dei garofani», come è diventato ormai quasi d’obbligo chiamarli, in cui quello sparuto gruppo di ufficiali, inviati all’ultimo dei Territori Coloniali – una guerriglia sanguinosa, atroce, da diciotto anni già lo stava devastando –, aveva rifiutato di obbedire, e prendere il mare: poche ore prima che venissero arrestati per alto tradimento, entrarono armi in pugno nella biblioteca privata del decrepito dittatore e lo dichiararono in arresto, «in nome del popolo».
Il vecchio (una veneranda canizie diradava sul capo maculato e lustro, affossati gli occhi da tartaruga nelle orbite, sopra la flaccidità delle guance, e il collo tendinoso) provò a mettere in scena per la duecentesima volta una delle piazzate patetiche di cui era stato maestro per gli ultimi trentacinque anni: stavolta, però, la decina stentata di capitani e i due o tre generali rimasero duri, fermi, ripetendo a voce scandita, con la sola enfasi della irreversibilità, che «era in arresto. In-nome-del-Popolo. In arresto».
E così era esplosa la gioia. Furono ore di delirio, per giorni: gente che correva ovunque, balli nelle strade, cori di canzoni e inni nel vento, ragazze che abbracciavano chiunque incontrassero, militari portati in trionfo dalle pescivendole, al porto, da dove erano sempre partite le navi militari, coi ragazzi di leva mandati a saltare sulle mine interrate dal Flp, il Fronte di Liberazione Popolare di spietato fanatismo, a cui le stesse industrie belliche nazionali vendevano al mercato nero armi al triplo del prezzo.
Come non rallegrarsene, dunque?

Ecco: potrei dirvelo io, come. E non perché io sia stato un sostenitore del passato regime: di cui, in assoluta franchezza, non mi sono mai dato più pensiero che di qualsiasi diverso modo escogitato per pianificare i rapporti tra il genere umano altro che secondo la belluinità naturale. No, non c’era alcuna scelta politica, dietro l’amarezza rabbiosa con cui avevo ascoltato la radio proclamare, fino al parossismo più gracchiante del suo volume, che eravamo liberi, adesso, e che il popolo aveva ora nelle mani il proprio destino.
No, non era questo. Era lei. Era Leonòr; i rapaci, grandi occhi notturni di lei; il profilo volitivo insieme e indifeso nel suo offrirsi alla dolcezza; il peso caldo dei suoi seni appena cadenti, entro la mia mano, e la lieve velatura d’adipe sul ventre marmoreo, la linea gloriosa dei glutei, il loro inarcarsi florido e gemello.
Lo avrete capito: l’ho vista nuda, certo. Nudi siamo stati insieme. Nudi ci ha trovato il mattino – gelido, alle volte, con solo, sull’illividirsi di onde, qualche striatura sanguigna – quando mi toccava svegliarla, insistendo, chino all’orecchio di lei, che era tardi, che non ce l’avrebbe fatta, se no, a ripartire.
Perché non sarebbe potuto esserci un motivo al mondo, per Leonòr – una donna come lei, con sempre un libro da leggere fra le mani, ponderoso di pagine, o certi più smilzi, il dottorato in economia politica, il diploma di conservatorio in violoncello, e chissà che cos’altro –, a venire, in questo immucidito paese di pescatori, aggrumato qui all’estremo confine dell’oceano a farsi frustare dai venti che scatenano ondate di sei-sette metri, sventagliando spuma, fin sopra la spiaggia; dove, appunto, guarda l’alberguccio con cucina e ristorante annessi in cui sono finito a lavorare io, come cameriere, e tuttofare ai due piani superiori, capite, no?
E questo motivo era la prigione: su, in cima allo scoscendersi del borgo medievale (la «Terra», come ancora si chiama da ottocento anni, tutto strade sghembe in salita, scalinate e vicoli di case senza sole, e la Santa Vergine d’Altomare avanti a quel po’ di piazzetta a triangolo), il Forte dagli innumerevoli anditi stillanti umido e fetore, in cui erano state ricavate le celle per gli oppositori politici; primo fra tutti, il marito di lei: leggendario comandante della disubbidienza non violenta, la «Resistenza Gandhiana», ingrigito ormai e piegato dalla prigionia fin quasi ad aver perduto vista, udito, uso delle gambe; solo una larva, insomma, dell’intellettuale fascinoso di cui lei era stata allieva, prima, e subito amante e, alla morte della prima moglie divorata da un cancro alla gola, effettiva moglie.
Invece, ecco, con la libertà, niente più, di questo: più nessun bisogno di permessi di colloquio con i famigliari, al parlatorio del Forte, una volta ogni tre mesi, e non oltre la mezz’ora, e soltanto in premio di buona condotta, ad arbitrio insindacabile dell’autorità carceraria. Più niente; finito, tutto.
Ma io non mi rassegno: vedrete, qualcosa riesco a inventare. Questa primavera già, magari. Per l’anniversario, e lo scoprimento, sull’archivolto del Forte, della lapide con tutti i nomi degli oppositori del regime internati qui, e mai più usciti vivi, dal Forte. Non volete che venga, Leonòr, con quel suo marito, o ciò che ne resta? E dove altro volete che la passino, la nottata? Qui, alberghi non ce ne sono altri, a parte il nostro. Vedrete. Vedrete se ho ragione.
(Altrimenti, come farei ad andare avanti, in questo buco di mondo, eh?)

“Malefica luna d’agosto”
di Cristina Guarducci

Una favola nera, se trasposta in tempi moderni, rivolta all’età adulta e ambientata in un paesaggio realistico, si trasforma per incanto o disincanto, in un romanzo gotico-noir.

Se spinta oltre i confini fatati e oltre la sfera dei desideri e delle paure infantili dentro lo spazio oscuro delle inquietudini e delle turbe degli adulti, si muta in un racconto in cui la psicanalisi fa dell’elemento fantastico, visionario, onirico, una proiezione del mondo interiore.

Allora, sciogliendo questo elementare sillogismo, possiamo affermare che Malefica luna d’agosto (Fazi, 2015) della psicanalista junghiana Cristina Guarducci è una favola a tinte fosche dove, attingendo a un originale bestiario sensuale, anche il mostro più ripugnante ha un suo fascino e una sua complessità psicologica e la natura umana è dipinta in tutte le sue contraddizioni.

Rivisitando in chiave fantastica i luoghi della sua infanzia, la Guarducci immagina che in una ridente località marittima della Maremma Toscana, ombreggiata da una pineta lussureggiante e afosa, viva una famiglia di antico lignaggio e dall’immensa ricchezza, i Guastaldi, segnata da una terribile tara: una sorta di maleficio dovuto a incroci fra consanguinei fa partorire primogeniti mostruosi e animaleschi.

La natura ha un ruolo importante nell’economia del racconto, è un personaggio essa stessa: si sente l’odore del mare, si avverte l’umidità della notte e la luce della luna.

L’intera vicenda si svolge durante tre giorni e tre notti di luna piena nel mese d’agosto di un anno imprecisato.

La storia è quella di una faida familiare per un’eredità contesa. Il peccato originale fu quello della moglie del conte Gherardo, ossia rimanere incinta nonostante la conoscenza della tara e il divieto del marito. Il suo parto gemellare rimarrà nascosto e prima di morire affiderà i suoi figli a dei poveri contadini alle dipendenze dei Guastaldi, consegnando di fatto l’intero patrimonio nelle mani di un mediocre ramo cadetto della famiglia.

Ma soprattutto quello che più interessa è il destino dei gemelli. Ugonotto riuscirà a riscattare la sua misera condizione sposando una bella e ricca fanciulla, donna Marisa, da cui avrà tre figli: Giuliano, dalla bellezza sbilenca e dalla forza brutale, vive rinchiuso in una stanza-bunker avvolto nel suo bestiale autismo; Daria, più virile del fratello; infine la Laurina, una Lolita che farà perdere la testa a un buttero fino ad allora donnaiolo incallito.

C’è poi la nonna, amante dei rotocalchi e chiaroveggente, crede che nel suo cagnolino Piermaria sia trasmigrata l’anima del marito prematuramente scomparso.

Di aspetto insignificante e ripugnante, Ugonotto è però dotato di una strana forza seduttiva: «Il Cavaliere aveva un’aura speciale che non era fatta di niente, né di intelligenza né di sensibilità, neanche di forza o di furbizia, era solo magnetico. Arrivava e le cicale si zittivano, andava sulla spiaggia e il mare si calmava accucciandosi ai suoi piedi. Di sera la moglie si metteva a letto, tutta unta di oli orientali e ricoperta di veli, e lui si addormentava dopo cinque minuti. Aveva un successo simile anche in società dove era considerato un gran personaggio e nessuno sapeva perché…».

La sua prolungata assenza non faceva che accrescere la devozione di donna Marisa che comunque non si negava amanti giocattolo. Finché un giorno dal cielo azzurro d’estate non atterra sulla villa dei Guastaldi l’odiato fratello gemello Gaddo. Non si tratta però di un qualunque distinto signore di mezza età ma di uno strano personaggio alato, un uomo-pipistrello, bellissimo agli occhi verdi fiammeggianti di Marisa ma spaventoso a quelli degli altri, reietto eppure affascinante.

Sotto lo sguardo misterioso e ammaliatore della luna, che sembra risvegliare tutti gli atavici istinti animaleschi, assistiamo a una delle scene erotiche letterarie più riuscite. L’amplesso tra Gaddo e Marisa avverrà in volo, sospeso fra cielo e terra, e inonderà l’universo intero di desiderio.

La scrittura scorrevole, elegante e resa accattivante da punte di ironia, della Guarducci è potenziata dall’uso di un punto di vista estraneo e esterno alle dinamiche familiari, anonimo e distaccato.

La voce narrante infatti è quella della migliore amica della secondogenita di Ugonotto. Tremebonda e patologicamente timida, è tiranneggiata da Daria, vera e propria comandante donna, mascolina e dotata di una esasperante sicumera, che nell’amicizia con quella figlia di piccolo borghesi preferisce alla mediazione la dittatura, al consenso democratico l’autorità indiscussa. Quelle come Daria decidono per sé e per gli altri, acquattati nelle retrovie della sudditanza. La sua apparente solidità e impermeabilità seduce la sua amica occultando il suo inappagato bisogno di attenzione e d’amore.

In fondo, se escludiamo deformità fisiche o mentali inverosimili, ci troviamo di fronte a una famiglia disfunzionale estremamente attuale in cui si annidano amore, odio e rancori.

Malefica luna d’agosto è una favola nera ma non fa paura. È però inquietante perché racconta le nostre paure. E le favole ci piacciono proprio perché parlano di qualcosa che ci tocca profondamente, ci parlano dell’animo umano.

(Cristina Guarducci, Malefica luna d’agosto, Fazi, 2015, pp. 192, euro 16)

“Se Dio vuole” di Edoardo Falcone

Tommaso è uno stimato cardiochirurgo di granitiche e razionali convinzioni. Nella sua vita non c’è molto spazio per eventuali dimensioni ulteriori dell’esistenza. Esiste il lavoro, prima di tutto, la famiglia, subito dopo, formata da sua moglie Carla, dai figli Andrea e Bianca, e dal marito di lei, Gianni, che a Tommaso non piace, ma che si fa andare bene. È Andrea, però, a dargli qualche preoccupazione. Perché un giorno il ragazzo, studente di medicina, nei piani di Tommaso destinato alla stessa carriera del padre, comunica di avere un annuncio da fare alla famiglia. C’è il sospetto che sia omosessuale, ma non sarebbe un problema né per Carla né per Tommaso, moderni e votati alla comprensione in nome del principio per cui l’unica cosa che conta è l’amore. Ma Andrea non è gay: vuole farsi prete. Il mondo di Tommaso si accartoccia e crolla, l’idea del figlio prete è insopportabile per un ateo convinto. Si mette quindi in testa di capire chi abbia fatto il lavaggio del cervello ad Andrea e crede di trovare il colpevole in Don Pietro, sacerdote con modi da uomo di spettacolo e con un passato di delinquenza.

Dopo aver sceneggiato un bel po’ delle commedie italiane degli ultimi anni, spaziando dai Vanzina a Massimiliano Bruno, Edoardo Maria Falcone ha deciso di mettersi dietro la macchina da presa e diventare anche regista. L’ambizione è quella di replicare la grande tradizione della commedia all’italiana, almeno nelle dichiarazioni. Per farlo si è fatto affiancare in scrittura da Marco Martani, altro veterano dei copioni degli ultimi anni, che ha cosceneggiato i film di Neri Parenti, di Fausto Brizzi, ma anche La mafia uccide solo d’estate di Pif, e, soprattutto, si è affidato a una coppia di attori in grado di fare di Se Dio vuole molto più di quelle che erano le intenzioni del regista.

Fare un film sul rapporto tra scienza e fede, o anche più prosaicamente sul rapporto tra uomo e religione o sulla scelta di rinunciare alla vita comune per seguire la vocazione, può essere rischioso. Il pericolo della retorica, di scivolare in un repertorio già visto di situazioni e dialoghi, è difficile da evitare. Si deve essere il Nanni Moretti di La messa è finita per trovare un modo nuovo di parlarne, o il Saverio Costanzo di In memoria di me, si deve avere, insomma, una voce potente e un’idea precisa di quello che si vuole dire, sennò il rischio è la macchietta. Ovviamente, Se Dio vuole è una commedia e non si pone nessun tipo di obiettivo di riflessione trascendentale o  di indagine sul senso della fede oggi, sulla solitudine dell’uomo-prete o qualsiasi altra cosa. Sfrutta solo l’idea del coming out totalmente inaspettato del figlio Andrea per raccontare che tipo di reazioni comporta nella vita di Tommaso e di tutti quelli che gli stanno attorno. Falcone riesce appunto a sfruttare lo spunto per una commedia sulle trasformazioni di una famiglia borghese di fronte all’inaspettato. La deviazione dai binari prefissati dal pater familias Tommaso scatena una reazione a catena in tutti i membri del nucleo.

Di fronte al coraggio della scelta del figlio, Carla capisce che negli ultimi anni non ha fatto niente di sé e riscopre la sua vocazione sessantottina in un rigurgito di ribellione adolescenziale contro il marito e il sistema. Bianca, invece, si fa coinvolgere dall’aspetto esteriore della conversione del fratello per indossare crocifissi e ricercare una spiritualità che la porta a confondersi ma finalmente a capire tante cose, soprattutto nel rapporto con il padre. È Tommaso, però, a cambiare di più, e ad avere più bisogno di cambiamento, grazie alla scelta di Andrea, e soprattutto all’incontro con Don Pietro.

Tommaso capisce la necessità di ascoltare e comprendere gli altri proprio grazie a Pietro, il sacerdote che non fa nulla per convertirlo, ma tanto per aiutarlo a stare meglio. Qui si torna sulla vera forza di Se Dio vuole, che è l’interpretazione di Marco Giallini e Alessandro Gassmann, Tommaso e Pietro (ogni riferimento apostolico è sicuramente voluto) che si confrontano, si capiscono e si aiutano, sia i personaggi che gli attori. Giallini torna dopo Tutta colpa di Freud a fare il padre che si prende il carico della vita dei figli. È una sfumatura diversa del suo consueto personaggio di burbero dal cuore d’oro che gli riesce bene. Il cardiochirurgo Tommaso sembra uno di quei ruoli, per provenienza sociale e arroganza, che ormai interpreta sempre Gassmann al cinema, che invece è un Don Pietro che avrebbe potuto fare anche Giallini, un po’ rozzo, molto alla mano e fuori dagli schemi.

È dalle interazioni dei due che viene fuori il meglio di Se Dio vuole, soprattutto nella parte in cui iniziano davvero a capirsi. Falcone è bravo a non appesantirli nella scrittura. Perché Don Pietro, pur chiamato da una vocazione tardiva, non è un militante della fede, ma al contrario un moderno interprete del cristianesimo di strada, e la trasformazione di Tommaso, nel momento in cui vede con i suoi occhi il vero senso della fede di Pietro, è graduale, non esplosiva né radicale, ma profonda.

Così, pur scivolando ogni tanto in simbolismi che possono essere pericolosi (il finale) e, soprattutto, in una rappresentazione del prete moderno che ha ben poco a che fare con la realtà italiana e strizza troppo l’occhio a una spettacolarizzazione in stile Usa, Se Dio vuole riesce a tenere a distanza argomenti scivolosi e a proporsi come commedia di semplice intelligenza. L’idolo della grande tradizione del cinema del passato è ancora molto lontano, ma siamo ben al di sopra della media delle commedie di oggi.

(Se Dio vuole, di Edoardo Falcone, 2015, commedia, 87’)

“Giordano”
di Andrea Caterini

Giordano è un romanzo ed è anche un fiume.

«Ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. Venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”».

Così il Vangelo di Marco racconta il battesimo di Gesù. Battesimo come nuova nascita, come rito di iniziazione che dal buio del peccato porta alla luce della salvezza. Giordano è un fiume, e un romanzo il cui omonimo protagonista lavora in un garage sotterraneo e lì ci viene lasciato per tutto il tempo della narrazione, chiuso per sempre in una caverna oscura. C’è salvezza per Giordano?

Il figlio, Diego, ne descrive la vita del passato e del presente. Ma cosa sa e può sapere un figlio dei propri genitori? Sa o crede di sapere? Sa perché ha indagato o sa perché qualcuno gli ha dato informazioni? E c’è salvezza per il figlio? Perché Diego, il figlio, e Giordano, il padre, si fronteggiano e pare che l’uno, il figlio, parlando dell’altro, il padre, parli prima di tutto di se stesso.

Diego è un giovane colto e sa «di greco e di latino» e soprattutto di filosofia. Il padre conosce l’intelligenza delle mani che lavorano e aggiustano e guidano le macchine. Teoresi e prassi, arti liberali e arti meccaniche, ragion pura e ragion pratica. Diego, in un relativismo che non può non aver studiato nei suoi corsi accademici, opera con le audacie della retorica gorgiana che convince e seduce, irride e gioca di verità e falsità. Diego conosce Calderón de la Barca e il sogno di Cartesio. I Sette Santi Dormienti (che sono citati più volte nel romanzo e che, secondo un’antica leggenda, si addormentarono miracolosamente per sfuggire al martirio e si svegliarono alcuni secoli dopo quando ormai il Crisitanesimo era stato accettato e riconosciuto) potrebbero solo credere di essersi svegliati ma potrebbero benissimo stare ancora dentro l’illusione onirica.

Certo, non si può escludere la corrispondenza più ovvia, quella tra il garage e la caverna platonica. Però è una caverna, quella di Giordano, che esclude (forse) una qualsiasi liberazione dalle catene e dalla prigionia, è una caverna che non ha una via di uscita né una via di ingresso. Diego oppone Wittgenstein alla proterva ignoranza del padre, e «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» dice il Tractatus.

Può un figlio parlare del padre? E se lo fa cosa succede? Entra nella sfera magmatica del non senso o della perdita di senso? Se parlassimo solo di ciò di cui possiamo parlare, quanta parte di vita ne resterebbe fuori? Tutta?

Diego, il figlio, ci racconta di Giordano, il padre. Verità o immaginazione? Quale il limite? Quando un figlio capisce che i propri genitori hanno una vita che è indipendente da lui e dai suoi problemi, non è più figlio ed è divenuto coetaneo dei propri genitori, amico e\o confidente. Il padre può essere deriso nella sua vana debolezza di uomo e smontato pezzo a pezzo col sarcasmo amaro di un anatomista incapace. Nella Bibbia, Cam e i suoi fratelli sbeffeggiarono il padre Noè, vedendolo ubriaco e addormentato nudo col sesso scoperto. È il destino dei padri che, avendo figli emancipati dal loro ruolo di figli, adesso sono osservati con compassione, con amore, con pietà, con sofferenza, da coloro che furono figli e che, proprio perché comunque si chiedono chi è il padre, permangono essenzialmente nella loro condizione di figli e sono destinati a scontrarsi nella contraddizione.

Il romanzo di Andrea Caterini è grande. Con uno stile aspro e denso la storia procede e si ingorga. Parla di noi, che per forza siamo almeno figli e che per forza abbiamo chi ci generò, e che per forza ci facciamo domande. Uno dei libri più coinvolgenti della narrativa italiana di oggi.

 

(Andrea Caterini, Giordano, Fazi, 2014, pp. 160, euro 15)

“La cantatrice calva”
di Eugène Ionesco

La cantatrice calva è un esempio di quanto, a volte, la realtà possa essere più irreale della fantasia. Si vuole, infatti, che l’autore ebbe l’idea mentre svolgeva alcuni esercizi di inglese e che, di fronte alla banalità delle frasi che ricopiava per esercitarsi, trasse ispirazione per quest’opera sulla convenzionalità e l’insignificanza.

L’anticommedia di Eugène Ionesco, la prima opera teatrale dell’autore rumeno, francese di adozione, e primo esempio di teatro dell’assurdo, ha debuttato nel 1950 al Théâtre des Noctambules riscuotendo un generale insuccesso di pubblico, solo per affermarsi, cinque anni dopo come un enorme successo tanto da venire ancora rappresentata, dal 1957, al teatro de la Huchette a Parigi.

In scena troviamo due coppie inglesi benestanti e borghesi, gli Smith e i Martin, accompagnati e interrotti dalle intemperanze della domestica della prima coppia e dalla visita del capitano dei pompieri. Nello svolgersi dell’azione, il dialogo è costante, quasi serrato, ma completamente sterile, incomprensibile, vieppiù degradato, fino a una situazione paradossale in cui i protagonisti si esprimono solo tramite parole assonanti e versi.

Gli Smith e i Martin, la domestica e il capitano dei pompieri sono parodie di personaggi, insensati quanto i discorsi che fanno. Vuoti, trasparenti, sono figurine che si tengono in piedi solo grazie alle convenzioni sociali e alle formalità. Spettegolano di persone tutte uguali, tanto da avere tutte lo stesso nome, impazziscono di rabbia pur di deformare manicheamente la realtà, si riconoscono gli uni con gli altri solo in ragione delle funzioni che svolgono. Del resto l’intera opera, rispettosa dei canoni, non è che una parodia del teatro tradizionale: snatura la funzione del colpo di scena, svuota la rappresentazione di qualunque tipo di azione e inganna il pubblico con allusioni a personaggi e significati che non esistono.

Nella messa in scena di Massimo Castri in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 4 aprile, l’assurdità è mitigata dalla scelta di conferire al dialogo un sottotesto denso e ricco di emozione, di puntare sull’espressività degli attori che, in progressione antinomica con lo screpolarsi dei dialoghi, perdono le connotazioni fisse che gli sono attribuite nelle prime scene e riescono a modulare con i soli toni vocali un acceso dibattito. Forse questo ritorno al comprensibile rappresenta l’unico difetto di questa Cantatrice calva. Il pubblico si diverte, ride per la mimica eccellente dell’ottimo Mauro Malinverno e per le dirompenti performance vocali della bravissima Valentina Banci, ma rimane un po’ orfano di quel senso di straniamento che lo aiuterebbe a declinare il testo di Ionesco in una prospettiva contemporanea.

La cantatrice calva

di Eugène Ionesco
regia Massimo Castri
in collaborazione con Marco Plini
assistente alla regia Thea Dellavalle
con Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio, Francesco Borchi

Roma – Teatro Vascello dal 31 marzo al 4 aprile 2015

 

“La scelta”
di Michele Placido

Laura e Giorgio si amano, stanno bene insieme, sono contenti dei loro lavori, dei loro amici, dei loro parenti, ma non hanno figli. Ci provano, ma non arrivano. Un giorno, il giorno del suo compleanno, Laura viene aggredita mentre torna a casa dal marito. Sparisce per tre ore. Quando viene ritrovata da un maresciallo dei carabinieri è piena di lividi, ma non dice cosa sia successo. Non lo dice a nessuno, neanche a Giorgio quando torna a casa, non si fa visitare da un medico, non sporge denuncia. La sua reazione è opposta a quella che tutti si aspettano. Diventa sessualmente aggressiva con il marito, è piena di idee e di voglia di fare. Passano le settimane e un giorno annuncia a Giorgio di essere incinta. Per Laura è solo gioia, mentre in Giorgio si fa spazio sempre più il dubbio di poter non essere lui il padre del bambino e di dover crescere il figlio di una violenza.

Quando L’innesto, il dramma di Luigi Pirandello a cui Michele Placido si è ispirato per La scelta, andò in scena per la prima volta nel 1919 suscitò non poco scandalo, come era inevitabile. Era un’opera decisamente in anticipo sui tempi per il modo in cui affrontava il tema della maternità, della violenza e dell’aborto. Oggi, a quasi cento anni di distanza, c’è una maggiore consapevolezza delle tematiche sessuali, più libertà e, quindi, molto meno scandalo, ma quello di La scelta, fra tenere o abortire un figlio che potrebbe essere il frutto di una violenza, è un tema che può essere ancora di dolorosa attualità, se trattato con la dovuta sensibilità.

Michele Placido, che è stato un grande attore prima che si mettesse in testa di essere un autore, decisamente non ha la sensibilità che ci vuole. Le sue incursioni nel cinema drammatico sono state spesso fallimentari. Il suo precedente confronto con Pirandello sul grande schermo (nel 2004 con Ovunque sei, ispirato alla commedia breve All’uscita) ha rasentato il catastrofico, passando agli onori delle cronache più per l’aspra contestazione alla Mostra di Venezia che per qualsiasi merito artistico. Con La scelta conferma di avere concrete difficoltà nel confrontarsi con il registro drammatico, arrivando molto spesso al confine del ridicolo quando tenta di essere intimista e tragico.

È intatti nel momento della violenza, nel momento quindi della rottura drammatica della normalità di Laura e Giorgio, che La scelta precipita. Fino al giorno del compleanno tutto va bene, nel film come nella vita dei protagonisti. Grandi risate, amore, la solarità di Bisceglie. Poi c’è la svolta. Dopo l’aggressione la serenità della vita di coppia, gli equilibri e i rapporti, crollano in improbabili psicologie e reazioni e si trascinano appresso tutto. Marito e moglie, interpretati goffamente da Raul Bova e Ambra Angiolini, del tutto inadatti al ruolo, sussurrano litigi dandosi le spalle, fanno considerazioni sull’amore e l’esistenza che neanche Malick in To the Wonder, si inseguono, alzano le mani, si accoppiano, scambiano dialoghi improponibili, sbigottiscono, passano dal riso al pianto con isterica velocità. Intorno a loro i personaggi secondari spariscono e riappaiono senza criterio e senza struttura. C’è una sorella, Valeria Solarino, che vive inutilmente con due uomini tanto per far vedere che anche Placido è moderno e in grado di scandalizzare (ma chi?), una madre che ogni tanto urla, un collega di Laura che potrebbe diventare amante, ma sono tutti involucri vuoti, figurine. L’unico personaggio al di fuori della coppia a cui è dedicata un minimo di attenzione di scrittura è il maresciallo che soccorre Laura, interpretato da Placido stesso che si riserva il ruolo di custode e guida silenziosa e morale, di accompagnatore della coppia nel dramma.

Si può riflettere sul senso della scelta, oggi di riproporre in una chiave moderna e in un linguaggio diverso un testo come L’innesto e le sue tematiche. I tempi sono cambiati in tante cose, dalla dimensione sociale della donna all’idea della famiglia tradizionale, ma Placido e Giulia Calanda in sceneggiatura hanno tralasciato, o meglio banalizzato in considerazioni di passaggio, qualsiasi discussione di carattere sociale, qualsiasi confronto con il mondo esterno che possa giudicare la condizione di Laura e il suo dramma. Viene riportata – quasi – alla lettera una battuta di Pirandello: «la donna dopo tanti anni, se non si hanno figli, si guasta. E anche l’uomo si guasta», che riconduce tutto all’intimità, al compito principale dell’essere umano nel mondo: la riproduzione. Anche Pirandello, del resto, si concentrava nel suo testo sul momento privato di quello che aveva definito addirittura innesto, riprendendo un linguaggio di natura botanica, ma introduceva personaggi come il dottor Romeri che portavano riflessioni morali sulle possibilità delle scelte della coppia. Il «delirio maternale» di Pirandello ricordato da Placido, cioè quella voglia primitiva di diventare madre a ogni costo oltre il pregiudizio sociale e il dolore del trauma, si appiattisce piuttosto in delirio puro e semplice in La scelta. Delirio di banalizzazione, di approssimazione, di eccesso di confidenza di un regista che non riesce a riconoscere i propri limiti e continua, anzi, a spingersi sempre più in là, perdendosi.

(La scelta, di Michele Placido, 2015, drammatico, 90’)

“Shotgun Lovesongs”
di Nickolas Butler

Shotgun Lovesongs è il titolo che Lee ha scelto per il suo album autoprodotto di canzoni folk. Inciderlo gli è costato seicento dollari, ma è stato qualcosa che va ben oltre lo sghiribizzo a fargli prendere questa decisione: così come i matrimoni riparatori negli Stati Uniti vengono chiamati shotgun marriages perché «il padre della sposa punta un fucile da caccia sulla schiena dello sposo», allo stesso modo Lee è stato spinto da un’urgenza irreprimibile: «Ecco come mi sentivo rispetto a Shotgun Lovesongs. Come se quel disco mi avesse puntato un fucile alle spalle. Sentivo l’incredibile pressione di doverlo fare, di finirlo, di dimostrare […] che non ero un fallito».

Da dove viene il desiderio di riscatto e perché Lee sceglie di cantare canzoni d’amore?

Sebbene romanzo e album portino lo stesso titolo, Shotgun Lovesongs (di Nickolas Butler, Marsilio, 2014) non è la storia di Lee. Lee è piuttosto il centro narrativo propulsore attorno al quale ruotano le vite (e le storie) di altri quattro personaggi: Henry, Kip, Ronny e Beth. Amici di infanzia, si alternano nel raccontare ciò che è rimasto della loro gioventù condivisa, ciò che è accaduto dall’uscita (un clamoroso successo) dell’album di Lee in poi, ormai star della scena folk internazionale. Se Henry è la quintessenza dell’America rurale, l’agricoltore che è rimasto nel proprio paese natio a occuparsi della fattoria di famiglia, ha sposato la sua prima ragazza (Beth), e ha sempre saputo che non avrebbe mai potuto o voluto fare altro, Kip è il non plus ultra del self made man americano, il broker che ha fatto fortuna in giro per gli States ma che torna a casa con in testa il progetto di ristrutturare un vecchio mulino, l’edificio più grande del paese per farne un’attività commerciale. Ronny è invece un ex campione del rodeo, eroe caduto in disgrazia a causa di un brutto incidente, e Beth l’inquieta moglie di Henry, l’unica a sapere del perché (e del per chi) Lee ha scritto Shotgun Lovesongs.

Pretesto narrativo del loro (r)incontro è il matrimonio di Kip a Little Wing (così si chiama il paese del Wisconsin dove i cinque amici sono cresciuti) che, come da copione, diventa il catalizzatore che attrae e lascia scontrare i desideri, le aspettative, le paure di ognuno dei narratori.

Se quando il giovane Lee ha inciso il suo album non poteva affatto immaginare che le sue canzoni avrebbero riscosso un così immediato successo in patria, dubito che il suo creatore, Nickolas Butler, godesse della stessa innocente sventatezza mentre scriveva e decideva di pubblicare Shotgun Lovesongs. C’è tutta la peggiore – e per fortuna anche una parte della migliore – America dei creative writing workshops nel romanzo di Butler: la scrittura piana e avvolgente, la polifonia dei punti di vista – abbastanza diversi da risultare credibili ma non così tanto da essere destabilizzanti–, la (troppa) sapienza nel costruire l’intreccio del plot e nel mantenere la suspense, i dialoghi cinematografici efficaci e utili, se non essenziali, a mantenere godibile il ritmo («Hai una sigaretta?» «Cazzo, sì»; oppure: «Dovresti andartene. Vai, prima di perdere altro tempo. Mi dispiace»), gli scivoloni nel sentimentalismo a stelle e strisce («Quando non ho nessun posto dove andare torno qui […] torno qui e ritrovo la mia voce come qualcosa che mi è scivolato dalle tasche, come un souvenir sepolto a lungo. E ogni volta che ritorno sono circondato da persone che mi amano, che si occupano di me, che mi accolgono sotto una tenda di calore»).

Resta da capire perché, tra i vari meriti del romanzo, che però non fanno altro che proporre variazioni su una tradizione narrativa statunitense più che consolidata, lo strillo del New York Times reciti «Un esordio straordinariamente originale». La misteriosa imperscrutabilità degli strilli decontestualizzati, forse.

(Nickolas Butler, Shotgun Lovesongs, trad. di Claudia Durastanti, Marsilio, 2014, pp. 320, euro 18)

“Di polvere e di altre gioie”
di Giuseppe Truini

Basta un termometro rotto ad avvelenare un lago. Perché un pericolo minuscolo non è un pericolo modesto. Ma a noi basta non vederlo per rassicurarci. E così, impalmati di granelli, portiamo a spasso i nostri nemici. Rintanati tra i capelli, nel presepe di un polmone, siamo pieni di metalli.

Sostanze avverse in microgranuli, succhiate dall’aria, dal cibo che si giura sano, dall’arcipelago ammaestrato dei nostri consumi. Ce li abbiamo addosso. E ci sembra normale. Il campionario inconsapevole di cadmio, piombo e alluminio in crociera permanente sul nostro corpo distrattissimo.

Forse allora, oltre che d’acqua o «della stessa materia di cui sono fatti i sogni» è ancora più vero che siamo fatti di polvere. Lo eravamo e lo saremo. Ma nel frattempo non smettiamo d’esserlo.

Di polvere e di altre gioie (Ensemble, 2015) aggiungerebbe Giuseppe Truini. Perché non tutte sono qui per sabotarci o per farci tossire. E questo romanzo s’impegna parecchio per dimostrarcelo.

Protagonista è Oscar Fiori, assistente specialistico di una bambina disabile, la sua Edera, destinataria prescelta di tutta la storia. Non è un lavoro facile, Edera non parla, non cammina, ha la voce ferrosa di un computer che sonorizza i suoi pensieri e omologa ogni frase con la stessa intonazione. Di catrame binario.

Ma Edera è più del suo microfono e agita altre corde. È un parco sommerso, una girandola di accenti e per Oscar starle vicino è naturale, al punto da non sembrargli un mestiere. Ed evidentemente la pensano così anche alla sua Cooperativa, astenendosi dal retribuirlo da più di un anno. Ma questo dettaglio appartiene più alla cronaca che alla fantasia. La situazione casalinga poi non è delle migliori.

I suoi nipoti Matteo e Silvia sono senza madre, migrata lontano per appassionarsi a lodevoli cause che non contemplino i suoi figli e da quel giorno il primo ha scelto di tacere. Lucia, sorella artista e solitaria, è rimasta incinta ignorandone il motivo.

Non resta che un miracolo, oltre a quello già accaduto a lei, ovviamente.

E l’opportunità piove dalla tv, da un quiz che ricompensa chi indovina ed elettrifica chi sbaglia, senza false accortezze né ricette di facciata. Basta non rispondere e grondano le scosse, mentre un pubblico efferato sbava acclamazione per i suoi circenses. Oscar porta un argomento da tesina liceale, le figure retoriche, sperando che studiare gli procacci la salvezza e ingrassi le sue tasche. Pecca madornale.

Perché, senza saperlo, l’ha combinata grossa. Si è permesso di frapporsi in un gioco minaccioso, molto di più imponente di quella Sedia elettrica. Una penosa serie di omicidi ha estirpato dalle strade parecchie prostitute e tra queste ce n’è una che per Oscar vale più del suo corpo. Inevitabile reagire, impossibile restare incolumi. In questo slalom vorticoso sono in tanti a ondeggiare insieme a lui.

Un canneto farcito di personaggi un po’ fiabeschi: Galatea prima, sindacalista novantenne partigiana capace ancora di assestare colpi persuasivi; Galatea seconda, nipote combattiva innamorata del suo persecutore-poliziotto; Basettoni, commissario stazzonato offerto al suo dovere; Gea, ballerina ipnotica prigioniera di un passato indicibile; Silvia, innocenza veggente, rabdomante di purezza. È lei che conia soprannomi, che ne ha uno per chiunque. È lei che sa leggere la polvere, quella che rivela opacità e grandezze.

Perché appunto, come sostiene Edera «la polvere è leggera, senza peso, si poggia senza far rumore e non dà fastidio. Ti rimprovera quando non fai quel che devi, perché si forma sulle cose che non usi. La polvere segna il passare del tempo. Accompagna, ma non rimane a guardare».

Un po’ come fa questo romanzo. Lieve, ma non evanescente. Rocambolescamente ingenuo, favola amara dove la città è innominata, i cattivi sono perfidi senza pertugi né ricambi di corrente e il protagonista è un buono assoluto, un candido abbagliante sdegnato dal male, di fronte a cui si arrenderebbe ogni varecchina. La sua rabbia spunta solo quando è doveroso e non punge nessuno se non se stesso, quando arriva la Struzzo, creatura totemica del suo disagio. Oscar sopporta il dolore, colloquia con la Madonna. Oscar è comprensivo, accogliente, altruista, immacolato. Forse troppo. Forse con qualche spigolo addosso sarebbe stato più simpatico, oltre che più immaginabile.

Trama ben orchestrata, che sarebbe dannoso anticipare di più, linguaggio puntuale e delicato, affetto qua e là da eruzioni di buonismo. Luminose le pagine dedicate a Edera, alla sua sete d’ossigeno e di parole. Sarebbe stato bello assaggiarne ancora.

È in queste che Truini veicola il meglio, la trasparenza fatata della sua polvere. La stessa che secondo John Fante possiede le risposte, che custodisce i sudori sgualciti, le impronte spellate.

E che qui, nella finestra pulita di questa storia, può suggerircene alcune.

(Giuseppe Truini, Di polvere e di altre gioie, Ensemble, 2015, pp. 314, euro 12)

“A pesca nelle pozze più profonde”
di Paolo Cognetti

Se con Nietzsche abbiamo riconosciuto il tempo dell’esistenza come imperfetto e mancante di presente, potremo ritenere che la memoria abbia una forma irregolare, percorsa da associazioni inaspettate. Ancora: «Siamo camere oscure dotate di una bizzarra lastra fotografica – la memoria – che si rifiuta di obbedire agli ordini, s’impressiona quando pare a lei e ci restituisce vecchie immagini che non le abbiamo chiesto di tenere», suggerisce Paolo Cognetti nel saggio critico, A pesca nelle pozze più profonde (minimum fax, 2014).

Cognetti assembla le voci di un’America letteraria e affettiva in cui ha scelto di riconoscersi, mettendo in scena un apprendistato in cui spiccano, fra i molti autori, Raymond Carver, Ernest Hemingway, Flannery O’Connor e J.D. Salinger. Questa rete di corrispondenze, radicandosi nella convinzione bartesiana secondo la quale il testo è un tessuto, dimostra quanto possa essere fertile la contaminazione narrativa: per farlo, annota Cognetti, c’è bisogno di aggrapparsi alla memoria, alle sue volute e intermittenze, alla sua natura di serbatoio inesauribile di storie. Una memoria individuale, che si estende per esplorare le memorie altrui, e farsi collettiva.

Perché la memoria? È lì che vivono tutte le storie che abbiamo ascoltato fin da piccoli, e l’autore rimarca di sapere a memoria gli incipit dei suoi racconti preferiti. Cognetti attinge le qualità primarie che fanno di loro se stessi: il segreto della voce autoriale è presente in poche righe, in tic che diventano sintomatici di uno sguardo. Dei suoi autori beniamini, Cognetti prova a cercare sottili simmetrie coi personaggi: così Salinger si mimetizza, con qualche refrattarietà, nelle prime narrazioni, come nel soldato del delicato “Per Esmé: con amore e squallore” e ha scelto la reticenza, esistenziale e narrativa, come arma di difesa. Cognetti non nasconde di prediligere il minimalismo: Carver è eletto a simbolo di una moltitudine silenziosa di esistenze fallite, fra mite rassegnazione e scampoli di redenzione (in seguito al fortunato incontro con Gordon Lish). Se il suo sguardo è compassionevole, i toni schietti della O’Connor sbriciolano il perbenismo che protegge le coscienze meschine, come in “Brava gente di campagna”. «Ama i tuoi personaggi e poi fa’ quello che vuoi», ammonisce Cognetti. Se lo scrittore chiede al personaggio di assecondare una tesi politica o una verità morale qualsiasi, inevitabilmente lo priverà della sua autonomia, forzando la natura gratuita e aperta dell’atto narrativo. Pertanto, continua, la terza persona è garante di maggiore distanza narrativa: una forma di rispetto che ripudia l’onniscienza come una chimera limitante.

Grazie alla metafora della pesca, Cognetti sviluppa l’argomento-cardine, ossia che la scrittura è l’ostinata esplorazione dell’ignoto, dettata dalla meraviglia e dall’ascolto degli «altri echi che abitano il giardino», per dirla con T.S. Eliot. Meditare sull’arte di scrivere racconti non significa ricercare l’idea platonica della grazia, ma affinare la capacità di far irradiare di mistero le storie. Nel narrare, non si rintraccia un ordine definitivo, ma un mosaico che custodisce frammenti di realtà, che si riflette in garbate intermittenze narratologiche: è un pregio nel testo, che tuttavia finisce per fagocitarlo. Cognetti pensa al something glimpsed caro a Carver, ai ritagli che agiscono come esplosioni a cui si riferisce Cortázar per le storie. Alle riflessioni di Grace Paley (per la quale il racconto è un punto di domanda). Non dimentica le epifanie cechioviane, e l’istanza di «mostrare come la luce cade sul mondo, anche dove essa non arriva». Una scrittura fatta di sé e di Altro e di molteplici antonimie, fra tutte incontro-solitudine.

Una tale ridondanza di presenze rende il libro stimolante, ma decisamente claustrofobico. Quasi venisse a mancare lo spazio bianco che Cognetti stesso ammira nei racconti: forse la vorticosa girandola di autori e appunti puntuali è solo horror vacui, ma come negare che l’impianto del saggio tende alla dispersione? Un testo assai più narrativo che riflessivo.

(Paolo Cognetti, A pesca nelle pozze più profonde, minimum fax, 2014, pp. 130, euro 13)

“Wild”
di Jean-Marc Vallée

Erano due le nomination agli ultimi premi Oscar per Wild di Jean-Marc Vallée, entrambe per le attrici, protagonista Reese Witherspoon, non protagonista Laura Dern, figlia e madre nella ricostruzione del vero viaggio di Cheryl Strayed, scrittrice che all’inizio degli anni Novanta, poco più che ventenne, decise di percorrere a piedi in solitaria il Pacific Crest Trail. Nel 2012 quel viaggio è diventato un libro di memorie (Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail, pubblicato in Italia da Piemme) di grande successo negli Stati Uniti.

Il Pacific Crest Trail – in Italia noto come Sentiero delle creste del Pacifico – è un percorso di trekking che collega la California con la Columbia Britannica, in Canada, lungo tutta la dorsale pacifica del continente nordamericano. Quando Cheryl decide di partire per il Sentiero non ha nessuno tipo di formazione da alpinista. Ha solo il bisogno, fortissimo, di far ripartire la sua vita dopo quattro anni tutt’altro che facili. C’è stata la morte della madre Bobbi, e prima ancora la sua malattia. C’è stato un lungo periodo di smarrimento tra droghe e avventure extraconiugali, finché il marito non ha perso la pazienza e ha deciso di lasciarla. Prima c’erano stati vari momenti traumatici nell’infanzia. Insomma, una vita molto poco semplice che era ormai arrivata a un momento critico: o la svolta o il tracollo definitivo. È al lungo cammino in solitaria che Cheryl affida la ricerca di se stessa in una prova per cui sente di non essere fisicamente preparata, ma a cui sa di dover affidare tutto.

Difficile non pensare a Into the Wild di Sean Penn avvicinandosi a Wild di Jean-Marc Vallée, sia per i titoli quasi identici, sia per il tema portante della fuga nella natura. Se, però, la storia di Christopher MacCandless era quella di un uomo che abbandonava la società per rifugiarsi in una dimensione altra dal mondo  quotidiano, localizzata idealmente in Alaska, il viaggio di Cheryl Strayed ha un connotato ben diverso, quello del ritiro, più che della fuga, del rifugio dalla vita per un periodo già determinato di tempo, lungo un percorso che è sì solitario, ma noto e condiviso da altri viaggiatori. Perché quello che vuole Cheryl non è perdersi nel viaggio, ma al contrario ritrovarsi.

Nel film di Sean Penn, MacCandless aveva tutta la vita davanti nel momento in cui decide di partire, e il motivo della sua partenza è proprio la rinuncia a quella vita che gli si sta aprendo davanti, alla laurea, alla macchina, ai soldi. Cheryl, al contrario, deve ritrovare delle ragioni per se stessa e per la sua vita, dopo il randagismo sessuale e la tossicodipendenza, senza il conforto della madre e del marito in cui trovare un riparo. Se quello di Into the Wild è un racconto di formazione attraverso la natura, quella di Wild è una storia di rifondazione attraverso il viaggio e la negazione della vita quotidiana.

Jean-Marc Vallée continua a trovare ispirazione per il suo cinema nelle nelle vite di persone che realmente, una volta toccato il fondo, hanno deciso di arrampicarsi per tornare in cima. Sono storie di riscatto morale attraverso la sofferenza, che arrivi da una malattia come in Dallas Buyers Club o da una crisi individuale come in Wild. Nel raccontare la storia di Cheryl Strayed, Vallée si affida allo stesso linguaggio empatico utilizzato per la vita di Ron Woodrow. Lo spettatore è chiamato a partecipare al dolore, allo scempio del corpo, alla spirale della caduta. La fatica e la sofferenza di Cheryl vengono mostrate subito in apertura, con gli scarponi troppo stretti che logorano le dita dei piedi e tutta la rabbia che esplode quando uno dei due cade di sotto e viene perso, per sempre.

Per aumentare il coinvolgimento emotivo, Vallée procede con continui flashback che alternano le varie tappe del cammino, scandite a giorni, a momenti diversi  e non continuativi della vita precedente della Strayed: l’infanzia, l’adolescenza, l’alcol bevuto dal padre e le botte subite dalla madre, la malattia, la morte, la droga, gli uomini, il divorzio. Il dramma, in questo modo, si distribuisce per tutto il film, a mantenere ed elevare di continuo la tensione tragica.  Wild, però, sembra faticare a trovare una propria, specifica dimensione narrativa. Nonostante la sceneggiatura sia stata curata da niente meno che Nick Hornby,  a mancare è soprattutto la brillantezza della scrittura, che è l’elemento più debole di quello che è comunque un film fatto soprattutto dalle immagini e dai paesaggi sconfinati della Pacific Crest Trail (e dalle canzoni, perché c’è un uso intelligente della colonna sonora e di vari classici, da Leonard Cohen ai Portishead, che si intrecciano nella memoria di Cheryl). In questa grandezza paesaggistica, però, Vallée e Hornby hanno fatto fatica a calare Cheryl, che non entra mai in reale rapporto con la natura, che continua conservarsi corpo estraneo ai boschi in cui si immerge, alla neve e al deserto. Non c’è un vero rapporto di scambio tra uomo e natura, non c’è quell’arricchimento reciproco che è invece la forza di MacCandless in Into the Wild. Di conseguenza, senza una vera interazione con l’elemento naturale, quello che rimane è una retorica del dolore e della rinascita che si è già vista tante volte.

Reese Witherspoon è stata candidata per il suo coraggio nel mostrarsi sporca e sfatta in modi e momenti diversi. Le ha fatto compagnia Laura Dern, che come madre alternativa e sempre, ostinatamente, di buon umore, fa da guida morale a Cheryl.

(Wild, di Jean-Marc Vallée, 2014, drammatico, 115’)

“Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli” di Antonio Menna

Mentre cammina in un’alba qualsiasi il giornalista Tony Perduto incontra un orso. Marsicano. Morto. Sarebbe un incontro strano anche in un bosco, figuriamoci a vicolo Speranzella, nei Quartieri Spagnoli di Napoli. Che ci fa lì un orso, come ci è arrivato, come è morto? Non lo sa nessuno, anzi, tutti lo chiedono a Tony che lo ha trovato per primo. La polizia e la procura trovano delle risposte in una faida di camorra aggrappandosi al vecchio soprannome dimenticato di un boss della zona, l’Orso, appunto, ma per Tony c’è qualcosa che non torna, e allora si mette a indagare per conto suo dopo che al giornale gli hanno tolto la notizia relegandolo alle interviste nel quartiere. La verità va cercata altrove, magari sottoterra, nel cunicolo di gallerie che collega i punti più lontani di Napoli.

Antonio Menna, giornalista come Tony Perduto, nel 2011 dopo la morte del fondatore della Apple ha pubblicato sul suo blog il post Se Steve Jobs fosse nato in provincia di Napoli, in cui ha immaginato come sarebbero andate le cose se l’inventore dei computer Mac e dell’iPod avesse fatto partire il suo sogno dalla Campania anziché dalla California. È diventato in breve tempo un grande successo di condivisioni sui social network e di commenti online. Sperling & Kupfer lo ha trasformato in un libro, cambiando di poco il titolo, ed è partita così la carriera letteraria di Menna. Con Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli (Guanda, 2015) è arrivato l’esordio narrativo, preceduto da un racconto, Tony Perduto e i cardellini scomparsi ai quartieri spagnoli, che ha introdotto l’atmosfera dei quartieri di Napoli e il personaggio di Perduto e che si può leggere sul sito di GQ e scaricare gratuitamente dai principali negozi online di ebook.

Titoli a metà tra Lina Wertmüller e il cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, un intero mondo rinchiuso all’interno dei Quartieri Spagnoli, un’identità gialla che si tinge di nero, umorismo che affiora sempre: Menna ha trovato uno stile che funziona, con una lingua che si sporca di napoletano quel tanto che basta per riconoscere in poche sfumature la provenienza senza scivolare nel dialetto.

In un modo completamente diverso ma allo stesso tempo simile, Menna porta avanti con Il mistero dell’orso lo stesso discorso dell’articolo su Jobs che lo ha reso famoso. Perché dietro all’ironia costante c’è una riflessione amara su vari strati della realtà di oggi, sia napoletana – in quello che riguarda la connivenza e la convivenza con la camorra – sia più in generale italiana nelle difficoltà quotidiane del lavoro che manca, della perenne necessità di inventarsi e arrangiarsi.

La vita di Perduto, di suo, non è semplice. Scrive per un giornale che lo paga poco più di una miseria, per fare uno stipendio decente ci deve aggiungere le ripetizioni a un ragazzino che lo chiama «Prussò» e il blog di un vivaio. Nessuno glielo chiede, di indagare sull’orso, anzi, il servizio gli viene pure tolto nonostante sia stato lui il primo a trovare l’animale morto. Eppure sente di dover andare oltre le versioni ufficiali e si trova in un giro molto più grande di quanto avrebbe immaginato che gli costa caro.

Tony Perduto si inventa detective per capire cosa si nasconda dietro quell’orso assassinato – perché di assassinio si tratta, essendo stato ucciso con tre colpi di pistola, due al petto uno alla testa, come un boss di camorra, appunto – di cui lui solo sembra continuare a interessarsi dopo le spiegazioni sbrigative della procura.

Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli si fa bere come un bicchiere d’acqua d’estate, dà quell’appagamento transitorio e sufficiente dell’intrattenimento fatto bene. C’è il margine evidente per un ritorno di Tony Perduto in indagini o avventure future, una serie di personaggi secondari che si affacciano in attesa di essere ulteriormente definiti e un mondo di bassi (intesi come case), anziani, vicoli e misteri che aspetta solo di essere esplorato. Se ci saranno nuovi misteri con titoli lunghissimi sarà un piacere leggerli.

(Antonio Menna, Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli, Guanda, 2015, pp. 253, euro 16,50)