“Lungs” di Duncan Macmillan

Lui e Lei sono all’Ikea quando, senza preavviso, come in un remake a dimensione umana del big bang, due particelle di pensiero si scontrano ed esplodono facendo nascere il pensiero della vita. Questo è l’afflato iniziale, il primo respiro, che gonfia i polmoni – Lungs – di Duncan Macmillan, giovane drammaturgo e regista inglese vincitore di diversi premi tra cui il Best New Play at the Off West End Awards, nel 2013.

Come in una vera cosmogonia, dopo il primo impatto tra le particelle il movimento creativo si fa convulso. Il dialogo serrato, scomposto, tra Lui e Lei è una fucina di spunti ed ecco stelle e pianeti nascere e morire quando l’idea di mettere al mondo un figlio conduce a calcolare il suo impatto ecologico sul pianeta, quando i due iniziano a domandarsi come farà una nuova vita a farsi spazio in un mondo pieno di brutture, quando la coppia si lascia contagiare dall’ansia globale per il terrorismo, la guerra e l’instabilità politica.

Ecco l’era glaciale ibernare la vita sulla neonata Terra quando nemmeno il sesso è più l’espressione calda e passionale dell’amore, ma l’impacciato tentativo di far collimare carne e cuore perché tutto concorra all’alchimia perfetta della creazione della vita.

Ecco la corsa – al fast forward, come nei documentari – dai pesci ai dinosauri passando per il ciclo che salta, il test di gravidanza, la telefonata alla mamma, le nausee.

Ecco la seconda era glaciale dopo l’impatto del meteorite, l’aborto spontaneo che uccide tutti gli esseri viventi, spella la terra come un’arancia tagliata a vivo, ne espone le viscere, la desertifica per ere ed ere.

Ecco la prima pioggia, le lacrime che si versano il giorno in cui Lui e Lei si incontrano di nuovo. E ancora pioggia, ancora acqua, ancora lacrime e umori e sudore quando si torna ad amarsi, ad abbracciarsi. Non sarà l’Homo Sapiens Sapiens, almeno non subito, ma alla fine, il destino della Terra si compie, nasce un bambino, una persona.

L’opera di Macmillan è assolutamente contemporanea. Magistralmente simili al parlato nella traduzione di Matteo Colombo, i dialoghi che tratteggiano questa feroce piccola vita di coppia hanno la forza del pensiero reale, l’odore del sentimento che si respira per le strade, il colore, il suono e il sapore che ha il nostro tempo. Hanno, soprattutto, la capacità di parlare ad un pubblico transnazionale – ancorché occidentale – amplificata dalla regia di Farau che coniuga una scena vuota, pochi gesti essenziali e le capacità di due attori eccellenti.

Si deve fare uno sforzo per scovare la tecnica dietro le lacrime di Sara Putignano o dietro le espressioni basite di Davide Gagliardini. Putignano e Gagliardini vivono, infatti, il testo in maniera emozionante e sono capaci di offrire un’ora e quarantacinque minuti pieni e senza cali di tensione. Lungs rappresenta una rarità, assolutamente consigliato, per credere ancora alle possibilità inattese che la vita offre nonostante le nevrosi della coppia contemporanea e il peso dell’etica ecologica dei nostri anni.

Lungs di Duncan Macmillan

di Duncan Macmillan

traduzione di Matteo Colombo

regia Massimiliano Farau

con Sara Putignano e Davide Gagliardini

Teatro dell’Orologio – dal 17 al 29 marzo 2015

“Ho ucciso Napoleone”
di Giorgia Farina

Dopo il buon esordio nel 2013 con Amiche da morire (globo d’oro per la migliore sceneggiatura, super Ciak d’oro per le tre protagoniste, Claudia Gerini, Cristiana Capotondi e Sabrina Impacciatore), Giorgia Farina torna con Ho ucciso Napoleone, racconto cinico e iperbolico delle difficoltà di essere donna oggi nel mondo del lavoro.

Anita ha apparentemente tutto quello che vuole. Una bella casa, una carriera in un importante gruppo farmaceutico, una promozione in arrivo. Non ha l’amore, ma non lo cerca, non vuole legami, non vuole fare la fine dei suoi genitori che litigavano sempre prima di separarsi e ripartire con nuove famiglie. Quando scopre di essere incinta il suo mondo si accartoccia e crolla nel giro di ventiquattro ore. La promozione salta, per forza, visto che è stata licenziata. Paride, il suo capo, nonché amante e padre del bambino, la lascia e torna dalla famiglia. È troppo tardi per abortire, è troppo sola per andare  avanti. Decide di organizzare un piano di vendetta contro Paride e tutta l’azienda per riavere il suo posto e la giustizia negata. La aiutano un gruppo di donne diversamente disperate che hanno fatto dell’arte di arrangiarsi una virtù, e Biagio, il timoroso legale della ditta che sembra pronto a tutto per far ottenere ad Anita quello che vuole.

Il Napoleone del titolo è un pesce rosso. Anita se lo ritrova tra le mani quando una bambina vicina di casa glielo lascia prima di partire per l’Argentina con la famiglia. Lei non ci pensa su molto prima di scaricarlo nel gabinetto. Non ha tempo né voglia di occuparsi di qualcuno o qualcosa. Tutto sommato è quello che prova a fare anche con il figlio che non vuole, anche se sono scaduti i termini legali per l’aborto. Lo tratta come un qualsiasi problema da risolvere, con la stessa impazienza di chi è sempre di fretta, di chi ha sempre qualcosa di più importante a cui dedicarsi. Solo quando capisce che quella gravidanza può essere utile per riottenere il posto che le hanno tolto – apparentemente proprio perché è incinta – decide di tenerlo. È così l’Anita interpretata da Micaela Ramazzotti: cinica all’inverosimile, pragmatica, concentrata esclusivamente sul risultato. Isterica, iperveloce, sempre in movimento, con le dita che devono tamburellare in continuazione quando è ferma. Ritmo, ritmo, ritmo, sempre.

La cattiveria non fa paura a Giorgia Farina, anzi, è su un personaggio “cattivo” che costruisce Ho ucciso Napoleone. Del resto, che non avesse problemi a uscire dalla consueta rappresentazione femminile del cinema italiano lo aveva già dimostrato all’esordio, armando e unendo in un complotto le sue tre protagoniste contro il maschio prevaricatore. Qui pone Anita come simbolo di ribellione contro il sistema del lavoro, contro l’ingiustizia del licenziamento per gravidanza, e lo fa senza sprofondare nel dramma o affidarsi alla commedia generazionale, ma scegliendo un registro grottesco e nero che appartiene molto poco al cinema nazionale e che guarda molto di più ad altre realtà, la Spagna soprattutto (qualche elemento in comune con Crimen perfecto di Alex de la Iglesia si può trovare senza troppo sforzo). Non solo: ha il coraggio di cambiare identità al suo film in corso d’opera. Perché Ho ucciso Napoleone inizia come una commedia per evolversi gradualmente in altro, in un thriller, ancor più che noir, con non poche sfumature psicologiche.

Sullo sfondo grava sempre il fantasma del peso dei genitori sulle vite dei figli. La famiglia non è il rifugio sicuro in cui trovare conforto dalle difficoltà del mondo. «Ogni volta che esco con un uomo mi chiedo: ma è questo l’uomo con cui voglio che i miei figli passino due fine settimane al mese?”, viene detto a un certo punto. Anita è resa anaffettiva e cinica dal disastro che sono i suoi genitori, narcisi neogiovani egoriferiti persi nei nuovi sentimenti, artisti liberi con cui lei non sente di avere niente a che fare, nonostante i sogni d’infanzia di mettere su una famiglia (ecco, il flashback iniziale con i bambini lo potevano risparmiare) soffocati a colpi di rigatoni in un’adolescenza bulimica. Non è la sola ad essere schiacciata dai genitori, ma non si può dire su chi altro gravi la presenza materna per non rivelare troppo.

Nelle costruzione di Anita viene lasciato libero sfogo alla creatività. Di scrittura, di trucco, di tutto, perfino di casting, perché Micaela Ramazzotti finora ha interpretato sempre personaggi molto simili tra di loro, varie declinazioni della borgatara semplice dal cuore buono, bella ma volgare, sin da quando il poi marito Virzì l’ha costruita così in Tutta la vita davanti. Farina ha avuto il coraggio di mostrarla diversa. Prima di tutto mora, che è già una novità, ma soprattutto sofisticata, algida, lontanissima da come era stata finora al cinema, con occhiali di design, tacchi alti da vamp e un’acconciatura che la pone in un impossibile incrocio tra la strega Malefica e il replicante Rachel di Blade Runner.

Funziona? Fino a un certo punto. Sarà l’abitudine, ma Micaela Ramazzotti non ha l’aspetto da femmina cinica, poco da fare. Va meglio quando si converte gradualmente all’umanità mentre la trama scorre, ma a quel punto le ruba la scena il Biagio di Libero De Rienzo, che non ha mai lavorato abbastanza e ogni volta che fa un film dimostra che è un peccato. Intorno si muovono bene Elena Sofia Ricci, Iaia Forte e Thony (la cantante già in Tutti i santi giorni, ancora Virzì), i “corpi speciali” che aiutano Anita, e Adriano Giannini, Paride, che condivide il nome con il vigliacco di Omero.

(Ho ucciso Napoleone, di Giorgia Farina, 2015, commedia, 90’)

Proviamo anche noi a cavarcela

Un giorno ti dicono: «Domani c’è la presentazione di questo libro. Eccoti il libro». Tu te lo rigiri tra le mani e pensi «Cazzo!». Leggi quel che puoi, in preda all’ansia, ne leggi quasi metà perché per fortuna il libro scorre, poi il giorno dopo, inizi la presentazione e scopri che quel libro, il suo autore e il suo editore, in realtà, si presentano da soli, e va tutto bene e sei felice. Solo quando tutto è ormai alle tue spalle ti rendi conto che l’insoddisfazione che avevi, quell’ansia insopportabile, era dovuta invece al fatto che volevi solo finirlo, quel cavolo di libro, e che non c’entrava proprio nulla la presentazione con la tua ansia. Ti aveva stregato senza che te ne fossi accorto. Così ti siedi e te lo leggi, vorace, in una manciata d’ore, e serenamente, gustandotelo persino di più perché hai conosciuto chi l’ha scritto e chi in esso ha creduto. Così è andato il mio incontro con Alan Poloni e il suo Dio se la caverà (NEO Edizioni, 2014). Questa intervista è il tentativo di regalare ai lettori che avranno la fortuna d’averlo tra le mani la stessa serenità.


Alan, raccontaci brevemente la genesi del tuo libro.

Dio se la caverà è nato in un periodo molto fertile, subito dopo che avevo smesso di scrivere cose autobiografiche o in prima persona (dopo aver letto Céline non me la sono più sentita di incentrare i miei lavori su io artificiosi quanto trascurabili…). Sganciarsi da quella narrazione ombelicale è stato come spalancare una saracinesca e mi sono ritrovato circondato da figure, episodi, storie che si lasciavano raccontare con grande naturalezza.

 

E infatti il tuo romanzo è abitato da decine personaggi, tra i quali sono rintracciabili ben sei protagonisti: ci parleresti un po’ di loro?

C’è una certa geometria, nel senso che abbiamo due coppie, una di adulti e una di adolescenti, costruite in opposizione. I due adulti sono lo Zio e Klaus, protagonisti della riapertura di un cinema porno. Lo Zio è un avvocato divorzista con una dipendenza dal sesso a pagamento. È una persona semplice e diretta, al contrario di Klaus, un dandy col fiuto degli affari, che invece è raffinato e filosofico. I due adolescenti sono invece Nic e Dave: il primo è un ragazzino dislessico che vive con crescente ostilità il suo rapporto con il mondo, imparando piano piano a guardare in faccia la realtà; Dave invece è un genietto costretto dalla madre a studiare Wittgenstein dalla più tenera età (il nome è un omaggio a David Foster Wallace); gli manca uno sguardo oggettivo sul mondo e non riesce a uscire dal bozzolo. A queste due coppie si aggiungono Augusto Loglio, che è la figura “nera” del romanzo (fonda il Franti, il collegio-riformatorio in cui finiranno Nic e Dave), e Antonio Timpano, uno scrittore dimenticato pronto a tutto pur di tornare sulla cresta dell’onda.

 

Tante storie da seguire, dunque, e anche da tenere insieme, oltre al fatto che il libro è pieno di spunti interessanti, per esempio, filosofici con il citato Wittgenstein, ma non solo; ed è proprio questa la cosa interessante di Dio se la caverà, tu “imponi” ai tuoi personaggi, senza intervenire come voce narrante, riflessioni spinose sull’educazione, la sessualità, la religione, la famiglia, la scrittura, ottenendo uno spaccato di un’umanità commovente, puoi chiarire questo punto?

Il mondo narrativo è un mondo ideale, un mondo dove si fanno gli esperimenti, altro che reality. Come diceva Calvino, la narrazione ci fornisce la possibilità di raffrontare il nostro mondo con quello del possibile. Uno dei modi che in Dio se la caverà ho utilizzato per creare un mondo possibile è stato quello di inserire nella testa dei miei personaggi le “riflessioni spinose” che tu dici, e l’effetto che tu riporti, la commozione, deriva dal fatto che il mondo che ci circonda non è quello del mio romanzo, perché quando due maschi adulti occidentali parlano di sesso, quando due insegnanti parlano di scuola, non lo fanno come i miei personaggi. Ho cercato di costruire un mondo possibile capace di mettere in crisi il nostro. La commozione è questa crisi. Poi, insomma, l’effetto prodotto dalla filosofia dentro un romanzo non è quello che aveva nelle canzoni di Battisti, dopo la sua svolta panellesca: il romanzo è per statuto aperto e irregolare, è troppo aderente (o troppo poco) al reale per potersi chiudere in una forma; nella sua tradizione troviamo addirittura il conte philosophique, e se in un romanzo si parla di Spinoza, come nel mio, l’effetto che si produce non è sconcertante come quando Battisti passò dalle calzette rosse a Hegel.

 

Citazione musicale… di questo parleremo a breve. Vorrei rimanere ancora un attimo sulle storie e sui personaggi. Nel tuo romanzo c’è questa sorta di scontro generazionale tra adulti e giovani, se i primi sembrano quasi rassegnati, costretti alle storture della società, lo stesso non si può dire dei ragazzi che invece dimostrano più intraprendenza, sono meno disillusi, ecco: com’è la questione dal punto di vista letterario e con quali personaggi ti senti più a tuo agio?

Tra le cose che ho cercato di raccontare c’è il diverso rapporto che adulti e adolescenti intrattengono con l’idea di fuga. Mi sembra che, da una parte, ci sia un atteggiamento predace e acritico, come se il semplice fatto di avere a disposizione la fuga ne comporti l’utilizzo; dall’altra, dalla parte dei ragazzi, intravedo un approccio più attento, di ricerca se vogliamo. Gli adulti hanno decine di vie di fuga, dispongono di ogni genere di opzione, possono andarsene via un week-end o riempire un qualunque carrello; la fuga fa parte dei loro consumi, prendono e colgono senza pensare. Gli adolescenti invece, non disponendo di tutte queste vie di fuga illimitate, sono indotti a cercare, a coltivare. Ecco: ho l’impressione che gli adulti non sappiano coltivare, in fondo non ne hanno la necessità. A un certo punto del romanzo accade che lo Zio, in vena di redenzione personale (con un tocco di superomismo), rapisca Nic, suo nipote, e lo porti via dal collegio-riformatorio facendogli assaporare la libertà. Ma è una fuga talmente artificiale, da film americano (quei film in discesa, che rotolano verso l’epilogo che tutti si aspettano), che Nic reagisce in modo sorprendente. In generale mi trovo a mio agio con i personaggi che rivolgono alla società uno sguardo critico o comunque non lineare. Adolescenti e borderline rispondono a questi requisiti.

 

E il tuo lavoro di insegnante, concedimi la battuta, ti costringe ad avere rapporti diretti e continui con entrambi, adolescenti e borderline, i genitori…

Esatto. La cosa divertente è che gli esseri umani passano i primi diciotto anni della loro vita sotto un potentissimo riflettore (il pediatra, la famiglia, la scuola…), mai un attimo che questo occhio di bue li lasci soli, mai un attimo di tregua. Poi, all’improvviso, nessuno gli dice più nulla, buio totale. E milioni di borderline inconsapevoli si ritrovano in giro per le città: non avere più il riflettore puntato addosso è così liberatorio che finiscono per sentirsi salvi. Fino a quando arriva il Sert, ovviamente…

 

Fantastico. Veniamo alla musica, ora. Dio se la caverà è infarcito di musica a partire dal titolo, dalla copertina, ed è infarcito di un certo tipo di musica: quale è la sua funzione narrativa e perché quel particolare genere?

La musica riempie il libro perché i personaggi la ascoltano. Hanno un rapporto molto profondo con la musica. Credo sia un modo molto interessante di descrivere un personaggio. Wallace diceva che alla narrativa contemporanea basta dire la marca di abbigliamento per descrivere un personaggio. Da un lato è un immiserimento narrativo, ma dall’altro è la constatazione dell’immiserimento interiore degli esseri umani. Molte persone non sono altro che la maglietta che indossano. Credo che nominare canzoni sia qualcosa di più profondo, perché le canzoni sono qualcosa che non ci limitiamo a indossare: ci entrano dentro, le portiamo sempre con noi, ci abitano. Pensa anche solo ai tormentoni che ci accompagnano per una giornata intera, a volte fino all’esasperazione, senza che riusciamo a liberarcene. Con una felpa non succede nulla di simile: quando ce la leviamo, non ci viene ancora di cantarla.
Il genere predominante nel mio romanzo è il rock, perché è il genere che conosco meglio, avendolo suonato, e perché è la musica del novecento, e i miei personaggi sono ancora molto novecenteschi. Sono abitati dalla musica.

 

Vorrei chiederti ora dello scrittore Antonio Timpano. A mio parere questo personaggio mette a nudo un aspetto particolarmente delicato per gli scrittori contemporanei come pure per gli artisti in generale, ed è quello del rapporto con il successo, con il “Demone del Successo”, preferisco dire. Come lo vedi tu da scrittore esordiente, quel mondo là fuori? Non ti pare si stia confondendo il successo con il talento?

Quello che dici è vero. È però innegabile che in giro ci sia molto talento, molto più di qualche decennio fa. D’altra parte il nostro non è più il mondo umile dei “sogni nel cassetto”, è un mondo che induce a provarci (estetizzazione di massa, scuole di teatro e danza, self-publishing). Di fatto c’è molto talento in circolazione. Prendiamo di nuovo il mondo della musica: tutti ce l’hanno coi talent, con la faccenda che uno arriva al successo con facilità, senza una vera gavetta, senza un vero rapporto con le case discografiche. Non è vero. Quando arrivano sul palco televisivo, quei ragazzi si sono fatti un mazzo, hanno passato anni con uno che gli correggeva le virgole per tirare fuori quella voce. C’è molto talento in giro, ed è ovvio che sia così. Economia del terziario più società dello spettacolo significa che molte più persone credono e investono in professioni creative. Poi magari finiscono a suonare ai matrimoni, ma l’investimento c’è stato. È naturale che ci sia molta gente che scrive bene. Viviamo in un’epoca di scolarizzazione di massa, per giunta nasciamo con l’italiano in bocca, sin dall’infanzia prendiamo confidenza con cartoni animati che sono gioielli di tecnica e ironia, genitori e sistema spingono a “provarci”, i social ci forniscono vetrine gratis. Il vero fraintendimento, secondo me, è oggi fra talento e tecnica, ché siamo portati a identificare il primo con la seconda. È pieno di gente con una bella tecnica, di gente che scrive bene, canta bene, balla bene, ma il problema è che il talento non è solo quello, anzi, in un’epoca d’inflazione di tecnica, probabilmente il talento va cercato proprio al di fuori di quel recinto.
In questa competenza diffusa, il successo è una cosa che arriva un po’ per caso, perché a parità di condizioni alla fine a risultare decisivo è qualcosa di imponderabile. Forse dovremmo provare a immaginarci una letteratura dove il successo non esiste. A che serve essere in vetta alle classifiche con certi libri? Come noti tu, Antonio Timpano è l’esemplificazione di questo demone. Fare letteratura significa essenzialmente trovare luoghi d’incontro: dove ci vediamo oggi? Allo stadio Meazza o al jazz-club? Oggi Mondadori propone Inter-Juve, Nutrimenti Chet Baker. Dove ci vediamo? Che ci siano di mezzo gusto, fatturato, estetica, sono solo dettagli: fare letteratura è incontrarsi, non c’è tiratura o imprimatur critico che tenga. È stabilire un punto d’incontro, e su questo si dovrebbe ragionare. Mi pare innegabile che oggi predomini il demone, predomini l’idea che il punto d’incontro vada trovato attraverso un compromesso (il posto a metà strada), mentre la priorità della letteratura dovrebbe essere un’altra: un libro che passa, con trepidazione, da una mano all’altra. Ci si scambia voti, invece che libri.

 

Sei andato a fondo della questione, come speravo, e sono d’accordo con te. Secondo me c’è un altro aspetto essenziale, però, sul quale vorrei stimolarti, ed è la finalità, lo scopo. Mi pare che spesso manchi consapevolezza in quel che si fa e persino in come lo si fa: perché usare questa tecnica e non un’altra? Come posso sfruttare il mio talento? Perché scrivo, a cosa serve?

Il nostro corpo è fatto in gran parte d’acqua; se invece guardiamo alla nostra parte immateriale, il nostro mondo interiore, la parte preponderante, la nostra “acqua mentale”, sono le storie. Dai sogni notturni agli sfoghi di un collega, il nostro “dentro” è fatto di storie che ascoltiamo, sogniamo, rielaboriamo. Chi scrive si occupa di quello. Non credo sia una cosa da poco. Perché scrivere, dunque, è chiaro: se esistono i medici, devono esistere anche gli scrittori. La finalità è pura conseguenza di questa visione: per una profilassi dell’immaginario.

 

Lasciamoci con la promessa, caro Alan, con la speranza di “rivederci presto”: che progetti hai per il futuro? Che cosa conservi nel cassetto?

Ho un romanzo in sospeso da un bel po’, tipo cabinovia bloccata per un guasto. Dentro ci sono una decina di personaggi terrorizzati, che ormai mi odiano perché li ho lasciati lì così; fra l’altro avevo promesso loro che sarebbe stato un romanzo tranquillo, che non si trattava di roba splatter, che non sarebbe stato versato un goccio di sangue. Il fatto è che ho iniziato a scrivere un’altra cosa, un saggio piuttosto folle sulla fantasmizzazione dello scrittore, da Flaubert a Moresco passando attraverso Kafka e Cortázar, gente che smette di vivere, che rinuncia all’amore, che va in Terra Santa, pur di finire un romanzo. Roba così. Folle, anche perché non è detto trovi un editore. Finirà che porterò in salvo quei dieci personaggi e mi salverò pure io.

Sono certo che se la caveranno tutti e dieci, sono certo che te la caverai.

 

Dio se la caverà - copertina_flaneri.com

“Vita in famiglia”
di Akhil Sharma

David Schearl è ancora un fagotto di carne quando sbuca a New York. I suoi anni pesano solo in braccio alla madre e lui mugugna nel vento i suoi bisogni ancestrali. Francie Nolan invece è più grande.

Quanto basta per sorseggiare i raggi obliqui del cortile e pascolare sul cemento del suo quartiere opaco, in cerca di altri occhi e di conchiglie di stagnola. È lungo il sentiero fino a Broadway e sono tanti i graffi prima di tornare a casa. Non si conoscono, né lo faranno mai. Sono inquilini dello stesso tempo e della stessa città. Ma abitano storie parallele, incorniciate da due titoli, Chiamalo sonno e Un albero cresce a Brooklyn.

Impareranno presto cosa vuol dire essere stranieri. Ma in parte già lo sanno. Il loro destino è in quel sangue lontano, che per molti resta indigesto.

Tanti anni e grattacieli dopo,  nel ’78, a New York spunta anche Ajay, protagonista del secondo romanzo di Akhil Sharma Vita in famiglia (Einaudi, 2015). Sono in quattro a lasciare l’India, le sue strade terrose e i nembi d’incenso. Il padre trova fortuna in America e a madre e figli non rimane che accodarsi. Un volo per l’Altro Mondo, il Nuovo, il Migliore. E un biglietto che è già una promessa.

Non è facile espiantarsi dagli odori di sempre, da una lingua bevuta dal seno, ma quello è il Paese in cui potranno davvero sorridere, conquistando piaceri e ricchezze impensabili. Cominciando dalla moquette e dai rubinetti di acqua calda. Confidano in Birju, il fratello maggiore, così brillante da irradiare tutti gli altri col suo futuro da medico già in tasca. «Con Birju si aveva l’impressione che fosse già connesso a un mondo più vasto. Quando esprimeva un’opinione, era come quando sentendo un annuncio alla radio uno pensa automaticamente che sia vero, di qualunque cosa si tratti».

Ma tra lui e la scuola s’interpone una piscina. Un salto sgarbato e tre minuti scollati dal resto. Tre minuti ubriachi di cloro, in cui Birju sprofonda, non riemerge, non respira.

Non torna più. Perché quello che sbava in clinica e sputa il purè, non è più Birju. È una creatura vegetale che impregna le lenzuola, mentre la madre impreca e il padre si alcolizza. Nel mezzo c’è Ajay, adolescente emarginato da tutto quel dolore.

Era Birju la salvezza, la speranza di rinascita. Lui è solo un ingombro parlante, un marmocchio che ama leggere e che eccelle negli studi, ma mai abbastanza, mai quanto Birju. Che giganteggia su di lui malgrado l’incidente, malgrado lo sguardo annacquato e quel corpo spalmabile. Perché quello che Birju avrebbe potuto essere varrà sempre più di quello che Ajay potrà mai diventare.

Tutto il romanzo è il diario di un’assenza. Che egemonizza giornate, preghiere, aspettative. E soprattutto è il diario di un ragazzo sullo sfondo, che è nato secondo e rimarrà tale, nonostante gli sforzi, i voti pregevoli e tutta un’intera esistenza alle porte.

Ajay ha un disperato bisogno di reagire, di tossire quel male al di là della gola. Prova a esternalo con i compagni di classe, ma la sua sembra a tutti una nenia surreale, la filastrocca epica di un fratello sfortunato che prima di cadere era un supereroe. Un lamento ossessivo che non pesca ossigeno e quindi lo sottrae.

Ajay viene schernito e poi messo all’angolo ed è così che continuerà a sentirsi, ammutinando ogni raro frammento di gioia. Costringendosi a soffrire perché col disagio ha più confidenza.

Ed è feroce con loro la comunità indiana, pronta a idolatrare la madre di Ajay per la sua abnegazione, a chiederle di benedire i propri figli e poi, appena appreso dell’alcolismo del padre, altrettanto capace di vaporizzarsi, di rimuovere il prestigio di quell’adorazione. Ajay dovrà destreggiarsi tra sarabande di ostacoli: la maligna ignoranza dei suoi “simili”, la diffidenza degli altri, l’indifferenza della sua famiglia.

E allora, per accordarsi un’occasione e lasciare una sola finestra socchiusa, comincerà a scrivere, a rastrellare dettagli per restituirli ad un ordine nuovo.

Così come ha fatto Sharma, che ha impiegato anni per tracciare la corrente su cui nuotasse il suo vissuto, per canalizzarlo, per bonificare la rabbia e farne parola, risorsa, energia. Con schiettezza e lucidità, con la stessa incisione chirurgica di chi asporta dei punti di sutura. Avendo prima visto quella pelle sanguinare.

Mi piace immaginare che stiano tutti insieme quei ragazzini adottati da New York durante la sua Storia. David, Francie, Ajay, Vaclav e Lena (aspiranti maghi di Cose da salvare in caso d’incendio) e poi tutti quei piccoli volti migranti che hanno un nome al di là di un romanzo. Che giochino ancora senza chiedersi niente, senza sapere chi sia più vecchio o magari più povero. Che sfreccino al parco, pestando le foglie, acchiappandosi le maglie, scongiurando la pioggia come si fa con gli incubi, finché qualcuno leggerà di loro e chiamandoli forte, li costringerà a voltarsi.

(Akhil Sharma, Vita in famiglia, trad. di Anna Nadotti, Einaudi, pp. 178, euro 19)

“Lettere di uno sconosciuto” di Zhang Yimou

Un marito e una moglie non si vedono da più di dieci anni, da quando lui è stato spedito lontano da casa perché ritenuto un personaggio scomodo dal regime. Siamo nella Cina degli ultimi anni della Grande Rivoluzione Culturale, la grande manovra promossa da Mao Tse Tung per fermare le spinte controriformiste che animavano il partito comunista cinese e l’intero paese e tornare all’ortodossia marxista-leninista. Lu, il marito, in quanto intellettuale è ritenuto una minaccia per il sistema. Rimasta sola, la moglie Feng cerca di far crescere al meglio la figlia Dan Dan soffrendo in silenzio per il marito lontano ogni giorno e continuando a non mettersi in mostra con i responsabili del partito che la controllano. Dan Dan è una danzatrice ed è molto più affezionata alla politica di quanto lo sia al padre, mai visto dopo i tre anni di età. Quando Lu riesce a scappare dal campo di lavoro e a fare ritorno a casa, è la ragazza a denunciarlo e a farlo riassestare nella speranza di ottenere il ruolo da protagonista in uno spettacolo. Passano tre anni, la Rivoluzione finisce e Lu viene “riabilitato”: può tornare a casa. Quando arriva alla stazione trova solo Dan Dan ad aspettarlo. Feng è a casa, ignora che sia tornato. Ha subito un forte trauma emotivo che gli ha causato un’amnesia psicogena per cui non è più in grado di riconoscere il volto del marito. Lu cerca quindi un modo per starle a fianco, leggendole le lettere che le aveva inviato negli anni di prigionia e che non le aveva mai potuto spedire.

Dopo il cinema epico e colossale degli ultimi anni – dal 2002 di Hero fino a I fiori della guerra del 2011, tra i film più costosi della storia del cinema cinese con l’ambizioso coinvolgimento di una star di Hollywood come Christian Bale –Zhang Yimou è tornato con Lettere di uno sconosciuto a un cinema più intimo e raccolto vicino ai primi momenti del suo cinema. La Rivoluzione Culturale come sfondo di una storia d’amore era già al centro di Shan ha su zhi lian (Under the Hawtorn Tree, inedito in Italia) del 2010. Se lì però ad essere centrale era il rapporto tra due giovani che si conoscevano e innamoravano per colpa (o grazie) ai programmi di “rieducazione” del partito comunista, in Lettere di uno sconosciuto  sono invece gli aspetti che una separazione forzata ha su una famiglia ad essere centrali.

Zhang Yimou è stato accusato spesso di servire il governo autoritario cinese con il suo cinema, senza sbilanciarsi mai in critiche ma godendo anzi di ampie concessioni finanziarie per realizzare i suoi film. Anche per Lettere di uno sconosciuto, al momento della presentazione fuori concorso al Festival de Cannes dello scorso anno non sono mancati i commenti di quanti avevano trovato il film troppo indulgente nei confronti della Rivoluzione Culturale, senza una vera problematizzazione del confino imposto dal Partito a Lu e a molti altri dissidenti.

In verità, una lettura politica appare possibile ed evidente tra le righe del sentimento. L’incapacità di Feng di riconoscere il volto del marito è l’incapacità di un intero paese di guardare in faccia il proprio passato e il segno simbolico del potere del regime sulle coscienze degli individui, condizionati al punto di non potersi più riconoscere in ciò che non sia ritenuto giusto.

Andando, però, oltre l’eventuale critica o assenza di critica, Lettere di uno sconosciuto è soprattutto un film di sentimenti forti. A Zhang Yimou non importano gli aspetti storico politici se non nella misura in cui possono essere funzionali alla costruire la trama sentimentale. Centrale in tutto il film è il tema della potenza del sentimento tra due persone in grado di sopravvivere anche alla sua impossibilità. Lu rimane ad assistere la moglie anche senza essere riconosciuto, dopo aver aspettato di tornare da lei per tutti gli anni della prigionia. Feng, bloccata nella memoria e nelle espressioni dalla malattia, aspetta ogni cinque del mese per andare alla stazione ad attendere il marito che torni, senza potersi rendere conto di averlo già a fianco a sé.

Nella ricerca di un coinvolgimento emotivo del pubblico, Yimou esagera sul pedale della emotività e del melodramma. Con una recitazione dei suoi interpreti (Gong Li, ritrovata dieci anni dopo La città proibita, e Chen DaoMing) tutta sulla sottrazione e la misura delle espressioni, Lettere di uno sconosciuto finisce per appiattirsi in una struttura fredda e retorica che non centra l’obiettivo della leva sentimentale. Sarebbero più di uno i momenti di presa sugli spettatori (quando Lu finge di essere l’accordatore del pianoforte, per dire), ma c’è da dire che la regia di Zhang Yimou non aiuta a generare partecipazione. Dopo una prima parte dinamica e a tratti veloce, in cui non mancano suggestioni da film di spionaggio con Lu fuggitivo che si nasconde tra la pioggia e la sporcizia dalla giustizia e cerca di tornare a casa, nella seconda parte in cui il sentimento non è ostacolato da altro se non la malattia della moglie prevalgono interni ripetitivi e stanchi, e Yimou si limita a dirigere i dialoghi senza alcun guizzo, con un’approssimazione lontana dai momenti migliori che sembra coniugare l’impianto puramente teatrale del film con una messa in scena che sa di televisione molto più che di grande cinema.

(Lettere di uno sconosciuto, di Zhang Yimou, 2014, drammatico, 111’)

“La verità e altre bugie”
di Sascha Arango

Henry Hayden è un bugiardo nato, capace di inventare su due piedi storie per tirarsi fuori da una situazione.

Sascha Arango è un pluripremiato sceneggiatore tedesco che con La verità e altre bugie (Marsilio, 2015) fa il suo esordio anche nella narrativa.

Finora si è trattato di un debutto coronato dal successo: 22 Paesi europei se ne sono contesi i diritti e presto la storia con protagonista Henry Hayden sbarcherà a Hollywood.

Arango è partito probabilmente per tessere la sua tela dal presupposto che siamo tutti dei bugiardi. Si comincia a mentire già da piccoli per addomesticare la realtà. Alcune bugie sono necessarie, innocue. Del resto non esistono confini netti e sicuri tra menzogne perverse e menzogne innocenti. Tutti i rapporti sociali si nutrono abitualmente di bugie.  Servono a mantenere in piedi relazioni, famiglie, legami affettivi e rapporti di lavoro.

Insomma siamo tutti un po’ Pinocchio, non possiamo vivere senza mentire. «Mentiamo ogni giorno, a ogni ora, da svegli e nel sonno» diceva Mark Twain. Spesso il bugiardo è persona degna di fiducia, brillante, sa parlarci con convinzione, non è vero il luogo comune che balbetti, non guardi dritto negli occhi, sia impacciato.

Perché non credere dunque al grande Henry Hayden?

La trama fa di questo libro un vero e proprio thriller turned-page con una spruzzatina di commedia noir che rimanda al Woody Allen di Match Point.

Ma il vero punto forte è il protagonista: «Un pusillanime, ecco cos’era, un bugiardo e un imprevedibile psicopatico». Un eroe negativo senza ideali né morale che si muove con leggerezza sul crinale fra vero e falso schivando ogni sospetto pur di sopravvivere.

Henry Hayden sembrerebbe avere tutto dalla vita: successo, soldi, donne. Autore di bestseller, è apprezzato perfino dal severo critico letterario Peffenkofer che parlando dei suoi romanzi ha sentenziato: «Ogni frase una fortezza».

Peccato però che neppure una frase dei suoi romanzi sia stata scritta da lui, bensì dall’enigmatica moglie Martha, un personaggio che sembra direttamente catapultato nella storia dai mondi paralleli in cui sono invischiati i personaggi di Murakami Haruki (come non pensare a Fukaeri di 1Q84).

La quotidianità alquanto banale di Martha sembra interrompersi di notte quando, come ispirata da un demone interiore, produce pagine e pagine di romanzi avvincenti.

Sarà proprio durante il primo incontro con il suo futuro marito, una squallida notte di sesso, che il suo talento verrà scovato sotto forma di manoscritto nascosto sotto il letto da Henry Hayden. Quella bozza sarà un successo, Frank Ellis, il primo romanzo del grande Henry Hayden. Vera e propria gallina dalle uova d’oro, Martha infatti, indifferente alla fama così come apparentemente ai tradimenti del marito, lascerà che a firmare i suoi capolavori sia suo marito.

Tutto questo castello di menzogne diventa pericolante quando Betty, editor nonché amante di Henry, gli rivela di aspettare un figlio da lui.

Appuntamento in cima alla scogliera. Una spinta alla macchina della ragazza e il gioco è fatto.

Ma pochi minuti dopo è Betty quella che suona al campanello della sua lussuosa e appartata villa sul mare. Chi c’era nella Subaru della odorosa di mughetto editor in carriera? E soprattutto dov’è Martha?

Da questo momento in poi si avvia una reazione a catena, le bugie diventano i pilastri su cui costruire e mantenere il suo alibi: «I bugiardi fra di noi sapranno che ogni menzogna deve contenere un pizzico di verità per essere credibile. Una spruzzatina di verità spesso basta, ma deve esserci, come l’oliva nel Martini».

Non sono un’amante del genere thriller ma La verità e altre bugie ha il pregio di essere scritto da una mano esperta con una lingua secca e lucente come un cristallo, mai un aggettivo di più. Ha poi il merito di tratteggiare il profilo di un vero criminale: infanzia difficile e violenta, frequentazioni malavitose, creazione di una nuova identità basata su falsità. Hayden è tranquillo e feroce allo stesso tempo, a volte si finge sconvolto, a volte si comporta con superiore sicurezza, cinico e generoso, è l’incarnazione della banalità del Male e mentire è nel suo DNA. Ricorda molto da vicino Mr Ripley.

Arango non ha paura di complicare l’inizio schematico, geometrico (il triangolo amoroso) con intrecci multipli su cui intervengono altre figure: l’ex compagno di collegio invidioso e aspirante scrittore fallito; l’agente locale che segue un metodo di indagine più tradizionale rispetto al criminologo che viene da fuori, un profiler che si muove secondo gli schemi dei criminologi delle serie TV; il pescatore serbo taciturno; l’editore Moreany e la sua segretaria.

Il finale aperto lascia un po’ delusi ma speranzosi che ci sarà una seconda puntata in cui la verità sarà ancora brutalizzata e niente sarà quello che sembra.

(Sascha Arango, La verità e altre bugie, trad. di Alessandra Petrelli, Marsilio, 2015, pp. 248, euro 17)

“Chi è senza colpa”
di Michael R. Roskam

C’è una New York diversa dalla grande città romantica, dai quartieri alla moda e dagli hipster in bicicletta che al cinema non si vedeva da un po’. È quella New York fatta di bar e di vari livelli di delinquenza, di peccati che pesano sulle spalle e di uomini soli in cerca di assoluzione che torna a essere raccontata in Chi è senza colpa, titolo scellerato scelto dai distributori italiani per l’esordio statunitense del belga Michael R. Roskam.

Il titolo originale sarebbe The Drop, la consegna, perché è intorno alle consegne di denaro da riciclare che la mafia cecena fa nel bar dei cugini Marv e Bob che tutto si sviluppa. Un tempo il bar era di Marv, ma lo ha dovuto cedere alla malavita per una serie di debiti. Secondo l’insegna è ancora suo, ma è solo un prestanome, un galoppino per le esigenze del figlio del boss. Bob vuole solo lavorare al bancone, evita ogni tipo di problema, si fa gli affari suoi. Una notte c’è una rapina e i ceceni non la prendono bene. Soprattutto, se la prendono con Marv che non fa abbastanza per capire chi è stato, mentre Bob aiuta come può. Ha i suoi problemi anche lui, perché una sera tornando a casa trova un cucciolo di pitbull ferito e abbandonato in un bidone della spazzatura, proprio davanti casa di Nadia, una cameriera sola e intimorita perseguitata da un ex poco equilibrato che finisce per tormentare anche Bob

Perché Chi è senza colpa è un titolo scellerato? Perché anticipa troppo, senza bisogno. Tutti quanti i protagonisti hanno vari tipi di colpe (appunto) che pesano sulle loro spalle. Marv ha i debiti che gli hanno fatto perdere il bar, Nadia un passato da tossica che gli ha distrutto la vita. Anche Bob, sempre dimesso e calmo, ha una colpa che lo porta a messa tutte le mattine e che lo ha fatto isolare dagli altri, chiudendolo in un mondo fatto solo dalla casa, dalla chiesa e dal bar. Ha una doppia natura, quella più pericolosa e nascosta. Ognuno si confronta e convive con la colpa privata che si svela un poco alla volta fino alle rivelazioni che determinano il finale e cambiano lo sguardo su tutto. Non era necessario anticipare, fornire allo spettatore una chiave di lettura sin dal titolo.

È chiaro: una scelta simile non pregiudica la qualità della visione. Chi è senza colpa è un film di solida tenuta narrativa, che guarda a molto cinema anni Settanta, all’ultimissimo Sydney Lumet di Onora il padre e la madre, ma anche al miglior Rocky, il primo. Perché Bob, interpretato dal sempre ottimo Tom Hardy, è tutto silenzioso e timido, goffo con Nadia, incapace e intenerito con il cane, sottomesso dal cugino senza farci troppo caso. Non trova il riscatto sul ring, non ne ha bisogno. La sua è una rinuncia a ogni tipo di ostilità, a ogni possibilità di vita per il peso che si porta sempre appresso. È attraverso il cane e Nadia che Bob torna a cambiare. In modo opposto per l’evoluzione, Chi è senza colpa assomiglia anche al recente John Wick, anche se lì il cane faceva riscoprire la necessità della violenza e qui quella dell’umanità.

Lo sceneggiatore Dennis Lehane continua a parlare di vite criminali e della presenza costante del male come già aveva fatto nei suoi romanzi portati con successo al cinema (Mystic River, Gone Baby Gone, in una forma diversa Shutter Island). Partendo dal suo racconto breve Animal Rescue ha costruito questa volta una storia in cui vale di più quello che non viene raccontato di quello che si mostra sullo schermo, il passato dei vari personaggi più che il presente che si trovano a vivere. Ognuno nasconde una natura che non vuole rivelare: il passato da tossica di Nadia, il rancore di Marv per il bar perduto, il segreto che si fa sempre più urgente di Bob. Persino Eric Deeds, l’ex che tormenta Nadia e Bob, cerca di resistere alla sua natura psicotica e a mostrarsi diverso.

Ogni cosa è diversa da quella che appare, come la New York costruita dal regista Michael R. Roskam, belga alla prima produzione statunitense dopo la nomination all’Oscar per il miglior film straniero nel 2011 per Bullhead (da recuperare). Sfruttando il suo sguardo da estraneo, Roskam mostra una città diversa da ogni seduzione cinematografica, lontana da qualsiasi posto riconoscibile dell’immaginario comune. Manhattan si intravede solo dall’altra parte del fiume, è distante, senza ponti che la colleghino alla Brooklyn grigia e fredda del bar di Marv. Non ci sono grattacieli, non c’è grandezza. Le case sono basse e semplici, i parchi sono pezzi di terra brulla. I personaggi si muovono in un posto a cui non appartengono, in un Natale che non ha niente di natalizio, niente di festoso. Non è un caso che Chi è senza colpa sia un film di stranieri in America, non tanto i personaggi, che hanno vaghe ascendenze (Bob fa di cognome Saginowski), quanto proprio gli attori: inglese Tom Hardy, svedese Noomi Rapace (Nadia), belga Matthias Schoenaerts (già attore feticcio di Roskam), italo americano James Gandolfini (alla sua ultima apparizione, con quell’aura costante da boss). A rimarcare la distanza da una città, da un paese, che non è affatto la terra dei sogni.

(Chi è senza colpa, di Michael R. Roskam, 2014, drammatico, 106’)

“L’invenzione della madre”
di Marco Peano

Spostare le Montagne Rocciose, ecco la sfida che la buona letteratura dovrebbe raccogliere. Questa riflessione tanto efficace e poetica venne a David Foster Wallace, quando, prima di cominciare a insegnare, assistente in un ospizio, corresse, d’istinto, i vaghi ricordi geografici di un anziano. Poi, rivalutò quell’errore convincendosi che una percezione trasfigurata e più intima della realtà, in grado di forzare il legame univoco con i referenti, sia il principio intrinseco che muove la scrittura destinata a restare.

Questa consapevolezza alberga in modo diffuso nelle pagine dell’atteso esordio narrativo di Marco Peano, L’invenzione della madre (minimum fax, 2015). Più che romanzo tout court, il libro si presenta come una raccolta di micro-narrazioni concentriche che sottraggono mesi, giorni, istanti alla vita della madre morente. Attorno all’estinzione del suo corpo, si consuma una processione immaginifica di ombre e ricordi, contrappunti ritmici che si dispongono in una sconsolata invenzione/ricerca della donna.

Il titolo, modulato sul genere del saggio, rimanda proprio al desiderio di trovare una forma di resistenza all’atto di morire, re-inventando la madre, davanti all’imperativo di rifondare il mondo imposto dal dolore. Malata di tumore a cinquantaquattro anni, la donna, di cui riusciamo a intuire il nome solo per vie traverse, parrebbe un fortissimo alter-ego della madre dell’autore. Ma accanto alla dichiarata volontà di attingere dall’esperienza biografica del lutto della madre, in circostanze simili, le intenzioni narrative di Peano si orientano verso la terza persona di un giovane inetto sveviano, incapace di far fronte all’età adulta, che per statuto prevederebbe l’assestamento della propria identità in forme più stabili. Impariamo a conoscere la bolla di abitudini e rituali che lo protegge, la velleitaria ambizione di dirigere lungometraggi, l’alibi di un lavoro in una videoteca di provincia per non continuare gli studi, e un rapporto sentimentale confinato alla fase adolescenziale. A ventisei anni, Mattia è un individuo in stand-by, e rintraccia nella malattia della madre la possibilità di riflettere su una cesura temporale e psicologica che lo segnerà in modo indelebile.

Mattia dialoga con lo spettro della madre usando riferimenti filmici di larga diffusione per rianimarla. Sa bene che quelle rappresentazioni sono per natura parziali, eppure custodiscono bene le ultime manifestazioni fisiche della madre (respiri, sfizi, capelli), sprigionando turbamento e meraviglia: Mattia è, in certi momenti, un insetto coprofago, altre volte si attiene a una distanza rispettosa, ma sdegnata verso il sopruso della morte. Non c’è consolazione che restituisca alcunché e il grado di ferocia descrittiva raggiunge il suo apice nel terzo e ultimo capitolo, quando lo sfacelo del cadavere appare aspro e grottesco. Lungi dal realismo fine a se stesso, quest’immagine innesca in Mattia una serie di riflessioni sui risultati tangibili della malattia, nella sua portata linguistica e ontologica: l’ordine del mondo va riformulato, perché è il primo giorno del mondo, e quella della madre è la prima morte del mondo. Non ci si potrà interrogare sull’eventuale triade hegeliana di Madre, Mondo, Mattia, senza prima apprezzare l’oscillazione agile fra distanza e messa a fuoco e il minimalismo cromatico di Peano, a cui va il merito di una prosa che, prima di rifonderli stravolti, scinde gli elementi della realtà, e restituisce alla morte la sua orrenda verità, integra.

(Marco Peano, L’invenzione della madre, minimum fax, 2015, pp. 280, euro 14)

“Chasing Yesterday”
di Noel Gallagher’s High Flying Birds

E anche il secondo è andato. Tre anni dopo i successi e le conferme di Noel Gallagher’s High Flying Birds, primo album solista, marzo è stato il mese di Chasing Yesterday, il secondo disco di Noel Gallagher e della sua nuova formazione. Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2009: prima del loro concerto parigino, Noel e il fratello Liam litigano violentemente (cosa che hanno sempre fatto) e annullano tutto il tour, per la disperazione dei fans e degli organizzatori. Si parla addirittura di chitarre sfasciate. È la fine degli Oasis, band che ha segnato gli anni ’90 come pochi altri gruppi. Da quel momento ognuno per la sua strada. Liam Gallagher, Andy Bell, Gem Archer e Chris Sharrock fondano i Beady Eye, pubblicano due album che convincono a metà e lo scorso ottobre, con un messaggio comparso su Twitter, lo stesso Liam ringrazia tutti e annuncia lo scioglimento della band. Noel inizia un percorso diverso, annunciando nel 2011 la sua nuova formazione e poco dopo il primo album. Nell’Ottobre del 2014, nel corso di un’intervista a Londra, viene comunicata l’uscita di questo secondo lavoro così tanto atteso, mentre il 17 Novembre esce il primo singolo “In The Heat Of The Moment”: impronta ancora fortemente britpop, melodie godibili ed esageratamente piacevoli. Poco dopo, “Ballad Of The Mighty I”, brano che conquista subito le classifiche di mezza Europa, grazie anche al video girato per le strade di Manchester e alla partecipazione di Jhonny Marr (ex Smiths) con la sua chitarra elettrica. Chasing Yesterday è aperto dall’accattivante “Riverman”, lenta ballata in perfetto stile Beatles, chitarra acustica ed è subito Noel: testo superbo e pioggia ovunque, sembra che questo pezzo sia merito di Morrissey e dei suoi consigli. Un gioiello.

Imperdibile anche la malinconica “The Dying Of The Light”, brano scritto tre anni fa e arrangiato per il nuovo disco.

“The Right Stuff” e i suoi quasi sei minuti lasciano a bocca aperta: traccia sperimentale, non è di sicuro un azzardo ma colpiscono le sonorità e certi assoli importanti, unico brano dove il testo viene messo in secondo piano per lasciare spazio alla musica. Noel ne parla così e ne sembra quasi sorpreso: «Ho fatto sentire “The Right Stuff”ad un mio amico, che mi ha detto: “Ma questa roba è space jazz!” Sfottevamo sempre lo space jazz quando ero negli Oasis. Quando la gente ci diceva che non eravamo abbastanza audaci con le nostre canzoni noi rispondevamo: “Che cosa volete, che facciamo space jazz?” Ora ho scritto una canzone che è vero, autentico space jazz, ed è grandiosa». Ancora britpop, invece, con “While The Song Remains The Same”, mentre gli esaltanti e avvolgenti ritmi di “You Know We Can’t Go Back” e “Do The Damage” scaldano il disco e si candidano a pieno titolo a diventare i preferiti del pubblico.

Ancora una volta, Noel Gallagher incanta il suo pubblico, confermandosi il grande songwriter che in effetti è. Se il primo disco aveva un’anima, cose che mancava negli ultimi album condivisi con il fratello Liam, stessa cosa si può dire di Chasing Yesterday proprio perché interamente prodotto e scritto da lui stesso.

Impossibile non pensare agli Oasis, ma ancora una volta il “fratello cattivo” dimostra come gli Oasis in sostanza fossero Noel: testi perfetti, a tratti tetri ma anche illuminanti, nessuna sbavatura. L’unica pecca, forse, è quella mancanza di osare qualcosa di diverso. Ma nel complesso il 2015 sarà ricordato anche per questo disco, per la sua ricchezza musicale e per il suo carisma.

“Purgatorio”
di Tomás Eloy Martínez

Avvicinandoci a Purgatorio di Tomás Eloy Martínez (Edizioni SUR, 2015) ci inseriamo in un mondo narrativo in cui presente e futuro si fondono, insieme al reale e all’inventato. Chi ha già avuto il piacere di leggere Santa Evita (Edizioni SUR, 2013) è sicuramente pronto a riconoscere il particolare stile narrativo dell’autore che, con perizia giornalistica, fa combaciare i lembi della cronaca con quelli della finzione, lasciando i lettori completamente sgomenti davanti a qualcosa di «paurosamente attendibile e del tutto inventato», per parafrasare la puntuale osservazione di Francesca Lazzarato, curatrice e traduttrice del libro.

Semplificando molto, la trama del romanzo si concentra su Emilia, figlia del dottor Dupuy, uno dei consiglieri politici più vicini a Jorge Videla e personaggio di spicco della Giunta Militare al potere in Argentina che, per cinque anni, ha fatto scomparire «chi dissentiva, […] i tiepidi e diversi». Tra questi rientra anche Simón, il cartografo marito e collega di Emilia, che scompare mentre i due sono lontani da Buenos Aires, intenti in una missione creata ad hoc da Dupuy per mettere fine alla loro relazione. Simón, per via delle sue idee politiche incompatibili con la classe dirigente del Paese, e di conseguenza con i Dupuy, non può che finire nel purgatorio dei desaparecidos, quel non essere che ingloba migliaia di Argentini invisi al regime. A Emilia tocca una pena meno definitiva, ma non per questo meno dolorosa: l’attesa del marito che non ha visto morire e che per lei non può che essere vivo, a discapito delle tante voci contrarie che ha sentito negli anni. Tra i numerosi salti temporali su cui Martínez fonda il suo romanzo, insieme all’alternanza di narratori che si susseguono senza soluzione di continuità, il lettore si trova faccia a faccia con l’irrealtà fin dalle prime pagine: quasi uscito da una puntata di Les Revenants, Simón riappare un giorno a Emilia in un ristorante, giovane come l’ultima volta in cui si sono visti, per riprendere la loro vita insieme proprio dove si era interrotta. Questo evento non lascia spazio ai dubbi: sgomenti, non riusciamo a capire se abbiamo a che fare con la disperata fantasia di una donna di mezza età o con una realtà tanto inspiegabile quanto incontestabile.

Forse è proprio questo il fascino di questo romanzo, l’accostamento di fatti reali con altri irreali ma, per certi aspetti, verosimili. La narrazione in stile giornalistico di avvenimenti che hanno effettivamente avuto luogo, come la visita dei Reali di Spagna in Argentina e la scomparsa della cappa dell’allora regina Sofia, si mescola alla finzione di Martínez, in cui la donna dell’alta società che se ne appropriò per caso viene sostituita da Emilia. L’unione della fantasia dell’autore con la realtà porta a effetti narrativi importanti. Il risentimento e il disprezzo da parte di chi scrive, infatti, diventano lampanti seppur volutamente impliciti: l’utilizzo di soprannomi per i membri della Giunta, quasi a privarli di un’identità, come hanno fatto essi stessi con innumerevoli argentini, e l’accenno al carattere subdolo della dittatura, sempre alla ricerca di qualcuno o qualcosa su cui focalizzare l’attenzione del popolo e da usare come valvola di sfogo delle tensioni interne, ne sono solo alcuni esempi.

In un certo senso, Martínez giustifica le peculiari caratteristiche del proprio libro affermando che «i romanzi si scrivono per questo: per rimediare all’assenza perpetua di quello che non è mai esistito». Nel caso di Emilia, le restituisce una vita non vissuta ma trascorsa in giro per il mondo, tra Argentina, Messico, Venezuela e Stati Uniti, a fuggire le attenzioni del padre, i rimorsi e la tragica interruzione di un matrimonio su cui il suo stesso padre aveva messo una pietra tombale. Per gli Argentini in generale, Purgatorio è un atto di denuncia forte e concreto, avvolto da un alone di irrealtà che, paradossalmente, lo rende ancora più reale.

(Tomás Eloy Martínez, Purgatorio, trad. di Francesca Lazzarato, Edizioni SUR, 2015, pp. 288, euro 15)

“Charlie Chaplin”
di Peter Ackroyd

Charles Spencer Chaplin, nato a Walworth, Londra, il 16 aprile del 1886 è il classico esempio di uomo giusto nel posto (e nel momento) giusto. Senza di lui il cinema non sarebbe quello che è oggi, non sarebbe uno dei fenomeni artistici e popolari più coinvolgenti dell’umanità, non sarebbe “la fabbrica dei sogni”; non esisterebbero i divi, non esisterebbe il merchandising, sarebbe tutto diverso.

Perché Charlie Chaplin, in cinquantadue anni di carriera, non solo ha scritto ottantotto film, ne ha interpretati ottantasei, ne ha diretti settantadue, ne ha musicati cinquantadue, ne ha montati cinquantasei, ne ha prodotti trentasette (lo dice IMDb), ma è diventato, prima della televisione, delle comunicazioni veloci, dei voli a basso prezzo, di internet e della pirateria informatica, un simbolo, un’icona conosciuta e riconosciuta in ogni angolo del mondo.

Si dice – lo dice Peter Ackroyd, scrittore, critico letterario e autore della biografia Charlie Chaplin, pubblicata in Italia da ISBN nel settembre 2014 – che nel 1915 i suoi film fossero già stati visti da più di trecento milioni di persone nel mondo. Si dice che Marcel Proust prese a tagliarsi i baffi come vedeva fare a Chaplin al cinema. Si dice che nello stesso periodo, un cinema di Accra, capitale del Ghana, si riempisse tutte le sere di guerrieri delle tribù che esplodevano in gridi «Charlee! Charlee!» quando lo vedevano apparire sullo schermo. Si dice, ancora, che in Cambogia venisse imitato nel teatro folkloristico nazionale e che in Giappone la maschera del “Professor Alcol”, che era il nome con cui era chiamato il suo personaggio, fosse entrata nel teatro kabuki.

Se Charlie Chaplin, nell’autunno del 1910, non fosse salito sul piroscafo Cairnrona per attraversare l’Atlantico con la compagnia di Fred Karno (c’era pure Stan Laurel, che poi diventerà Stanlio di Stanlio e Ollio) magari non sarebbe mai arrivato al cinema. Magari avrebbe continuato con il teatro di varietà a Londra, con la clog dance e la pantomima. Invece no, è salito su quel traghetto e da lì è cambiato tutto, per lui e per il cinema. La persona giusta c’era già, era lui. Il posto sono ovviamente gli Stati Uniti, il momento sarebbe arrivato tre anni dopo, con una seconda tournée oltreoceano e un biglietto dalla Keystone Comedy Company. Basta teatro, inizia il cinema a Hollywood.

Tre film a settimana, nel 1914 Chaplin è protagonista di trentasei titoli. La durata varia dai dieci minuti alla mezz’ora, non c’è un copione o una vera e propria trama, solo una serie di gag e di personaggi che si ripetono, ma bastano. Il 2 febbraio 1914 esce Make a Living, esordio di Chaplin al cinema, ma è con i due film successivi che si definisce il personaggio che lo consegnerà al mondo intero.

Il sette febbraio dello stesso anno (cinque giorni dopo Make a Living) esce Kid Auto Races at Venice. Chaplin interpreta la parte di un vagabondo, con i vestiti troppo piccoli e un paio di baffi di crespo di lana. È con il film successivo, Mable’s Strange Predicament, che si definiscono tutti i dettagli: il bastone, la bombetta, i pantaloni troppo larghi (nel biopic cinematografico del 1992, Charlot, con Robert Downey Jr., sono bombetta e bastone ad animarsi e andare incontro a Chaplin) . Nasce The Tramp, il vagabondo, il piccoletto, Charlot, per quel nome dato dai francesi in assonanza con il Pierrot della commedia dell’arte. Un simbolo mondiale. Per Chaplin inizia l’ascesa verso una gloria infinita: il passaggio alla Mutual, le prime regie, il controllo sempre più esteso sulla produzione, dalla scrittura al montaggio, la nascita della United Artists con Mary Pickford, Douglas Fairbanks e David Wark Griffith, e poi i primi lungometraggi, Il monello, La febbre dell’oro, le crisi familiari continue, le accuse di comunismo.

Ackroyd ci ha messo tutto nel suo Charlie Chaplin, ogni aspetto, anche quelli meno nobili. Chaplin è stato sì un genio del cinema, ma allo stesso tempo un essere umano poco più che mediocre. Ha i suoi alibi nell’infanzia orribile vissuta nella miseria più assoluta, con un padre – Charles Chaplin Senior – che non era il suo vero padre e una madre che faceva avanti indietro dai sanatori mentali, così come lui e il fratello Sydney facevano avanti e indietro dai centri per indigenti. Quando è arrivato il successo è arrivata in fretta anche la paura di perderlo, la taccagneria, l’insicurezza cronica e la collera sempre pronta a esplodere. È arrivato un comportamento sessuale esagerato, con una preferenza per le giovanissime, per non dire bambine, un’incapacità di relazionarsi con i figli, e quell’inadeguatezza nei confronti delle nuove possibilità del cinema, di un mezzo che con l’avvento del sonoro diventa completamente nuovo e in cui Chaplin, e ancora di più Charlot, fa fatica a ritrovarsi.

Peter Ackroyd si è affidato per la sua ricostruzione alla moltitudine di testi biografici e autobiografici che hanno già raccontato la nascita e l’evoluzione di una delle più grandi personalità della cultura contemporanea. Ha sottolineato, ricostruendo la miseria con pochi e sapienti tratti, il rapporto sempre esistente con Londra nella vita di Chaplin, quel bisogno di tornare a camminare nei vicoli degradati della sua infanzia ogni volta che si trovava da questa parte dell’Oceano.

Sarebbe stato interessante, magari, soffermarsi di più sui momenti della nascita dei grandi capolavori. Dopo una prima parte anche troppo pedissequa che racconta ogni dettaglio degli infiniti corti e mediometraggi prodotti da Chaplin nei suoi primi anni americani, Ackroyd accantona il discorso puramente cinematografico per gli aspetti più privati della vita dietro a Charlot. Non scende nel puro pettegolezzo, se ne tiene a distanza, ma il cinema finisce in secondo piano e gli ultimi trent’anni della vita di Chaplin sono compressi e dilapidati in venticinque pagine. Eppure ci sarebbe stato da parlare, perché sono gli anni in cui i film (Monsieur Verdoux, Luci della ribalta, Un re a New York, soprattutto) dicono più della vita di Chaplin di qualsiasi biografia.

(Peter Ackroyd, Charlie Chaplin, trad. di Francesca Valente, Isbn, 2014, euro 25)

“La solita commedia – Inferno” di Biggio e Mandelli

Se uno dice Biggio e Mandelli deve per forza specificare subito dopo «quelli dei Soliti idioti», sennò è difficile che si capisca di chi si sta parlando. È successo un mese fa, quando i due si sono presentati al Festival di Sanremo con la canzone “Vita d’inferno”, in una specie di fusione tra Cochi & Renato e Elio e le storie tese, con tanto di divise alla Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band. Si sono presentati come Biggio e Mandelli, con i loro veri nomi e le loro facce,senza il trucco dei loro personaggi, e non è andata esattamente bene (sono stati eliminati prima della finale, e la canzone ha lasciato indifferenti i più).

In realtà, Biggio e Mandelli fanno coppia artistica da quindici anni ormai, da quando erano ancora il Nongio e Biggio e durante Mtv Mad facevano finta di essere semplici spettatori del programma. Ci sono stati tanti altri programmi in coppia e i percorsi paralleli e individuali, come la carriera cinematografica di Mandelli e tutte le sue altre declinazioni artistiche (in ultimo, scrittore con Osnangeles per Baldini & Castoldi), poi nel 2009 sono tornati a lavorare insieme ideando e interpretando la sitcom I soliti idioti, sorta di unione tra la comicità sgangherata del programma britannico Little Britain e certi aspetti satireggianti della commedia classica all’italiana (I mostri, soprattutto). È arrivato il successo incredibile, quello che assegna per sempre un nome a una faccia. Le facce, però, erano quelle piene del trucco esagerato dei loro personaggi. Ci sono stati due film, I soliti idiotiI due soliti idioti, e circa venti milioni di incasso totale, poi Biggio e Mandelli hanno interrotto il rapporto con Pietro Valsecchi, produttore e mente del trionfo cinematografico, e si sono trovati orfani di loro stessi, sospesi tra la possibilità di esistere al di fuori dei Soliti idioti e la paura dell’assenza del paracadute del marchio.

La solita commedia – Inferno è il tentativo di Biggio e Mandelli di dimostrare che insieme sono altro rispetto ai loro personaggi (anche se in locandina campeggia per bene un “Dai creatori de I soliti idioti” e quel “solita” nel titolo è un aggancio di sicurezza al passato recente), che sono ideatori e portavoce di un’idea precisa di cinema che è personale e molto più complessa di quella che la si è ritenuta fino a questo momento. Per far vedere che fanno sul serio, oltre alla sceneggiatura si sono presi per la prima volta anche la regia del film, facendosi affiancare, come sempre, dallo scrittore Martino Ferro, già coautore del programma. Poi, ed è la cosa più importante, non c’è traccia di Ruggero De Ceglie o di qualsiasi altra delle maschere che avevano fatto esplodere il programma e i film. Biggio e Mandelli sono ripartiti da zero. Quello che c’è da capire è se la ripartenza abbia portato o meno delle novità.

Nelle premesse c’è già qualcosa di interessante: all’Inferno, Minosse non sa più come gestire la moltitudine di nuovi peccati (stalking, pirateria informatica) per cui gli umani vengono mandati al suo giudizio. Chiama il capo (Lucifero) perché faccia qualcosa. Viene convocato il Consiglio dei Santi in cui viene deciso che Dante Alighieri, vista la sua esperienza pregressa, verrà rimandato sulla Terra, in Italia nello specifico, per catalogare i nuovi peccati e procedere alla definizione di nuovi gironi infernali.

È uno spunto ironico, originale, con un grande potenziale. L’immagine caotica dell’Inferno, con Minosse che semina sberle e cazzotti ai dannati, insultandoli con un forte accento napoletano, e delega ogni burocrazia al sottoposto Gargiulo, funziona, è inquietante e divertente. Anche la rappresentazione del Diavolo, nella sua eleganza da fashion victim dannata, e di un Dio tabagista e alcolizzato vanno bene. Pure il Consiglio dei Santi, con Sant’Ambrogio che inganna San Francesco e Gesù viziato e annoiato che passa tutto il tempo al cellulare.Vanno bene i primi minuti sulla Terra, con Dante alla ricerca di una guida che trova il suo Virgilio per caso su un citofono, e il contrasto tra l’antichità del poeta e il caos del moderno metropolitano. Quella che però dovrebbe essere l’idea forte del film – il catalogo dei nuovi peccati – diventa presto un semplice pretesto per una collezione di scene comiche scollegate tra loro in cui l’intento satirico è debole e non privo di banalità; tra i nuovi peccatori finiscono quelli che saltano le file, i dipendenti da smartphone, i morbosi della violenza. I nuovi gironi sono il bar alle otto del mattino, il traffico dell’ora di punta, l supermercato.

Senza una reale evoluzione della trama, La solita commedia finisce per essere una galleria di sketch a metà tra televisione e Youtube. Senza il supporto dei personaggi già famosi da I soliti idioti Biggio e Mandelli faticano anche a trovare gli spunti per chiudere le varie scenette con i tormentoni già noti. Di questa rassegna di momenti sono davvero pochi quelli in grado di strappare un sorriso, per non parlare di una risata.

Eppure è un peccato, perché una certa intelligenza di fondo i due registi/sceneggiatori/interpreti continuano a dimostrarla. Accumulano riferimenti cinematografici onnicomprensivi, da Kevin Smith a Trainspotting (il più esplicito), dalla commedia all’italiana a certi momenti di surrealismo, riescono a evitare la volgarità eccessiva che aveva caratterizzato i lavori precedenti, ma non riescono a staccarsi da un formato che altro non fa che mascherare un’assenza di idee o, peggio, la mancanza di coraggio di congendarsi dal già fatto per provare qualcosa di nuovo.

Sarebbe sbrigativo e tutto sommato ingiusto limitarsi a definire La solita commedia – Inferno come un orribile prodotto della televisione che passa al cinema. Il discorso sui linguaggi è un po’ più complesso di così, perché, già come era stato alcuni mesi fa con l’Italiano medio di Maccio Capatonda, Biggio e Mandelli provano ad applicare una realtà comica che attualmente appartiene più al web che alla televisione. Certo, però, che da qui a dire, come hanno fatto alcuni, che La solita commedia sia il film più sperimentale, originale e intelligente della stagione ce ne passa parecchio.

(La solita commedia – Inferno, di Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, 2015, comico, 95’)