“A proposito di Čechov“
di Ivan Bunin

Un bravo scrittore russo che ammira senza riserve un narratore e drammaturgo fra i più grandi della sua terra (e non solo). Bunin racconta Čechov, l’uomo soprattutto, di cui fu amico e discepolo attento e sensibilissimo. Come del resto lo era l’autore del Gabbiano, che diceva di esser freddo solo nell’esercizio artistico. Laddove la freddezza è possibile intenderla come un sacrosanto fastidio per certi modi posticci, leziosi in ciò che solitamente chiamiamo stile – lo si evince dalla lettura diretta delle sue opere e dalle note sparse nel volumetto dell’amico scrittore (e premio Nobel) ora tradotto da Adelphi, A proposito di Čechov.

La letteratura, per Čechov come per ogni vero scrittore, si misura con la verità che è in grado di sopportare – verrebbe da dire, avendo parafrasato Nietzsche, e contrariamente al cliché dell’inetto, che il solo Übermensch possibile sia lo scrittore nell’esercizio delle sue funzioni. Ma l’uomo Čechov era (e le pagine di Bunin che radunano ricordi privati, riflessioni letterarie e commenti a narrazioni altrui – vedremo: sorprendenti – non lo smentiscono) l’opposto di un esagitato Zaratustra, afflitto piuttosto da una «congenita malinconia» (addirittura i compagni di scuola lo consideravano «un tontolone»), ma forte abbastanza da ritenere irrinunciabili alcuni modesti ma sani proponimenti come quello di «non umiliarsi allo scopo di suscitare la compassione altrui». Gli studi di medicina e la saltuaria professione di medico, secondo Bunin, aiutarono Čechov a rafforzarne il carattere e a comprendere gli esseri umani. Il bambino era già peraltro sopravvissuto a un padre manesco e a una miseria sempre incombente, sicché poi l’uomo si dimostrò sufficientemente forte nel sostenere prima – e molto presto – la famiglia, e  più tardi ancora il peso di una malattia invalidante che non gli impedì di sottoporsi a una dura disciplina: lavoro, lavoro, lavoro. Čechov mostra al riguardo la ferma determinazione dei grandi. «Se si ha un qualche talento, allora lo si coltivi, sacrificandogli ogni altra cosa». Lo scrittore non deve mai smettere di scrivere (ma aggiungeva che il «sacro fuoco» dell’arte in lui ardeva sempre sì ma un po’ svogliato, «senza fiammate e crepitii»). Un po’ lo pensava anche Bunin che mise insieme questi frammenti poco prima di morire; viste le precarie condizioni di salute, si fece aiutare dalla moglie. Čechov era morto da quasi mezzo secolo e se la memoria di Bunin funzionava abbastanza da ricordare conversazioni più o meno intime, momenti mesti o slanci di buonumore, non di poco rilievo per scrivere il libro – pubblicato postumo – fu il soccorso che ricevette dalla lettura dell’epistolario del grande maestro. Per intensa che fosse, la loro amicizia restò sufficientemente discreta perché il capitolo del grande amore impossibile per la scrittrice Lidija Avilova lo cogliesse di sorpresa. Bunin ne viene a conoscenza leggendo le memorie della donna – la meraviglia lo spinge ad affrontare questa prova anche per dare il giusto peso all’uno e all’altro, a mezzo secolo dagli eventi. E a far vivere per i lettori una storia d’amore molto vagheggiata, tanto clandestina quanto impensabile.

(Ivan Bunin, A proposito di Čechov, trad. di Claudia Zonghetti, Adelphi, pp. 223, euro 14)

“Mémé”
di Philippe Torreton

Se siete restii a esternare i vostri sentimenti, chiudetevi in camera da soli, e mentre leggete Mémé di Philippe Torreton (Rizzoli, 2014) lasciate che vi sommergano, che smussino ogni fibra del vostro corpo, abbandonatevi al ricordo dell’innocenza, quando la vita era veramente una favola, quando bastavano pochi gesti gridati con tutto l’amore del mondo (e forse anche di più) per farci sentire tutti re e regine del palazzo fatato della nostra infanzia.

«Mémé era nata il 6 marzo del 1914, era dei pesci. Il suo cognome da ragazza era Gosselin, poi era diventata Lehoc e infine Porte.»

Mémé è una nonna, coriacea e forte, che ha vissuto la guerra, che ha una fattoria in Normandia, a Triqueville, che ha condotto una vita lontana dai ghingheri di cui vestono le donne oggi. Perché ha dovuto sempre mettere da parte la sua femminilità per portare avanti il suo lavoro. Mémé è la depositaria di un sapere antico, fatto di semplicità, di rimedi per le malattie fatti in casa, di baci regalati appoggiando la guancia e non le labbra. Mémé è il Natale trascorso tutti insieme intorno al tavolo della sua grande casa, è una bambola fatta a mano per la figlia, è «il rispetto per la vita, la parsimonia con cui prelevava solo il necessario, il riciclo degli oggetti e la preoccupazione di tramandare ai discendenti una terra che avrebbero potuto sfruttare senza bisogno di decontaminarla».

Mémé è la fatica del corpo, il cui unico sintomo è il sorriso. E quando si ammala, tutto questo mondo svanisce. Ma insieme a lei non si eclissa il suo ricordo. «Non è facile morire»: sono le ultime parole, l’ultima battaglia del suo fisico, l’ultimo sospiro di Mémé sussurato con la grazia e la tristezza di chi sa di doversene andare, con la consapevolezza di lasciare il mondo che ha visto cambiare.

Mémé è l’ultimo accorato saluto a una nonna dal nipote, entusiasta ed emozionato di vederla sedere tra il pubblico mentre assiste alla sua prima performance teatrale; che ricorda nell’oggi dominato dalle automobili, dalla rete internet, dalle email, la sua fanciullezza, in cui la rete si costruiva al mercato, le email erano lettere consegnate dal postino atteso con trepidazione, cui Mémé offriva sempre uno spuntino. Perché Mémé è fatta anche di musica, di sapori e odori che si istallano sul pentagramma della sua esistenza: «la poesia è questo, la poesia è un’infanzia squarciata di odori».

Sono la nostalgia e la tenerezza le sole chiavi di lettura di questo memoir, un testo che sicuramente non annovera tra i suoi sinonimi “fatica”, perché quello che l’autore scrive è dettato dal cuore e dalla memoria, per ricostruire un mondo perduto ma vivido e al tempo stesso ossimoricamente presente. E oggi – conclude lo scrittore – «per fare una mémé ci vuole un po’ di tempo che fu e tanta costanza».

In Mémé la scrittura annulla il presente, si fa ricordo, è una cinepresa che dà conto solo del passato. E grazie a esso Torreton ci fa rivivere in poche pagine sentimenti che riposavano sepolti nei cassetti della nostra memoria. E aspettavano solo lui per risvegliarsi.

(Philippe Torreton, Mémé, trad. di E. Cappellini, Rizzoli, 2014, pp. 142, euro 15)

“Il testamento dei fiumi”
di Jesús Moncada

Camí de sirga, titolo originale de Il testamento dei fiumi, è un testo del 1988, tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel settembre 2014 da gran vía. Insignita di vari e prestigiosi premi letterari, questa è l’opera che più ha contribuito a rendere Jesús Moncada (1941 – 2005) uno dei più apprezzati scrittori della letteratura catalana contemporanea.

E questo in effetti è un testo tanto bello quanto complesso, come le migliori storie che non possono essere semplicemente narrate o narrate con semplicità. Fin troppo facile infatti sarebbe descriverne la trama come la progressiva distruzione di un antico paesino a causa di una modernità che miete vittime in nome del progresso civile e tecnologico. Quella che il libro narra è la storia di un villaggio fluviale e dei suoi abitanti e, attraverso questa, può riecheggiare le vicende politiche e sociali spagnole ed europee e l’atmosfera che qui si percepiva tra la fine dell’Ottocento e gli ultimi decenni del Novecento. La complessità del romanzo deriva dunque in primo luogo dall’aver reso la Storia un eccezionale sfondo animato in cui precipitare le avventure della nutrita popolazione del borgo e del libro. L’indispensabile luce delle vicende storiche, silenziosa tecnica scenica più che assordante voce fuori campo, esalta il carattere di ogni singolo personaggio e ne mette a nudo le passioni segrete, i desideri più sinceri, le inquietudini celate.

Il secondo sostanziale motivo di complessità del testo è poi la sua grandiosa architettura polifonica. Come potrebbero fare i due fiumi che lo circondano spargendo residui e lasciando tracce in tutto il territorio circostante, ormai condannato a morte, il paesino sembra straripare e spargere le sue memorie nel libro. Decine di personaggi, saldamente legati gli uni agli altri seppur così diversi, mescolano ricordi del passato e avvenimenti del presente; e confondono le loro voci con i pensieri, i pettegolezzi da bar con le maldicenze dei salotti nobiliari, le confidenze da confessionale con quelle da bordello. La verità del villaggio si compone di tutti questi elementi e, per quanto il lettore possa conoscere la realtà dei fatti, non può non affrontarla come un’entità soggettiva e instabile. Padri e figli, antenati, nonni e nipoti si confrontano e dipingono contemporaneamente una storia in movimento come se dovessero ritrarre le acque di un fiume: ogni vicenda è raccontata da più voci – autoritarie o sommesse, vere o false – che come pennellate impressioniste, rivelano la verità solo ad uno sguardo globale del quadro.

Il testamento dei fiumi è un romanzo denso, ricco, impegnativo e profondo, e Moncada dirige una fragorosa cascata di ricordi come fosse un’orchestra, governando con maestria e armonizzando tra loro i tamburi delle rivendicazioni popolari, le trombe impettite dei nobili e delle istituzioni, i deboli fiati dei nostalgici e le corde tese dalle passioni di tutti i personaggi.

(Jesús Moncada, Il testamento dei fiumi, trad. di Simone Bertelegni, gran vía, 2014, pp. 317, euro 17)

“Il Don Giovanni”
di Filippo Timi

Don Giovanni dorme disteso su un materasso a forma di croce, e alle sue spalle scorrono le immagini di una donna, anziana ma particolarmente bella, che potrebbe essere la madre dello stesso seduttore, la sua prima donna, la più importante, quella da cercare tra le gambe di tutte le altre o sul fondo di una siringa. Entra Leporello e inizia la corsa a perdifiato verso la perdizione, la dannazione e la morte perché, nelle parole dell’attore e regista perugino, Don Giovanni «vive l’eros e la passione sfrenata come una croce, un supplizio di cui non poter mai essere sazio». La sua maledizione sta nel non riuscire mai a saziarsi né a pentirsi, idolo e martire della seduzione, che intende sostituirsi a Dio, proponendo il vizio quale nuova religione amorale, priva di sensi di colpa e responsabilità. Una religione che, in realtà, non è che la codificazione della pulsione di morte dello stesso suo profeta che si svela ogni qual volta occorre una minaccia, la folla inferocita annunciata da Leporello o il diavolo nella tomba del Commendatore, e trova sublime realizzazione nel finale in cui Don Giovanni viene divorato e smembrato da un esercito di baccanti.

Il lavoro di Timi è molto intelligente perché quando si mette mano a un mito quale quello di Don Giovanni, è necessario decostruirlo completamente e appellarsi alla capacità del mito stesso di essere eterno e di sapersi autoadattare ai codici del tempo in cui viene letto. L’autore dichiara, infatti, di essersi ispirato al libretto di Da Ponte e di aver poi proceduto a una quasi totale riscrittura dell’opera tenendo da conto solo gli snodi narrativi della vicenda riuscendo a mantenere il gusto barocco per l’eccesso e la sproporzione, per la forma come sostanza e per l’alternanza tra l’aulico e il gretto, attualizzandoli fino ad arrivare alla pancia dello spettatore. Eppure Il Don Giovanni rassomiglia agli alunni che a scuola sono intelligenti, ma non capitalizzano.

Da un lato si rimane piacevolmente agghiacciati e scomodi durante i soliloqui dei personaggi come quello di Donna Anna che, semi-immobilizzata e semi-catatonica, descrive un parto adolescenziale aprendo una voragine d’orrore e impotenza, mentre una ginnasta cinese allude, volteggiando sulla trave, alla costrizione di spiriti adulti in un corpo infantile. Dall’altro non si può negare che lasci spiacevolmente confusi l’alternanza non organica tra sontuosità e incontinenza, tra interpretazione del testo e improvvisazione, tra uso del ridicolo per guidare alla riflessione e caduta nel ridicolo dovuta all’invasione di corpi estranei all’economia dello spettacolo, senza contare che rimane il dubbio imbarazzante che le reazioni violente di alcuni attori e gli ingressi in scena dei tecnici non fossero studiati per sfondare la quarta parete.

Anche nell’eccedere serve misura, perché dalla misura stessa deriva il gusto per la trasgressione e, soprattutto, perché quando si fa serio, questo spettacolo è capace di bruciare gli occhi dello spettatore con l’intensità del laser. Un po’ come accade per le scenografie, i costumi e le luci che rievocano le atmosfere cinematografiche di Maria Antonietta di Sofia Coppola. Il lavoro di Gigi Saccomandi e di Fabio Zambernardi, già stilista di Prada, in collaborazione con Lawrence Steele, è magistrale, proprio perché si colloca in equilibrio perfetto tra il “troppo” e lo “stroppia”. Il disegno delle luci riesce a far risaltare una scena estremamente curata, ricca e interessante, spalmando secchi di colore vivo su quadri che esteticamente ammiccano ai palcoscenici glam, tra Queen e Renato Zero. Gli abiti ingabbiano i personaggi in movimenti scomodi, rigidi, plastificati, li rendono immagini di sogno o d’incubo, ma sono anche richiami colti al loro vissuto e alla loro interiorità, come il magnifico soprabito di parrucche indossato dal protagonista, che racconta, scalpo dopo scalpo, la storia del rapporto animalesco, crudo, carnale e magnetico del Don Giovanni con le donne tutte.


Il Don Giovanni – Vivere è un abuso, mai un diritto
di e con Filippo Timi
regia e scena Filippo Timi
e con Umberto Petranca, Alexandre Styker, Lucia Mascino, Matteo De Blasio, Elena Lietti, Fulvio Accogli, Marina Rocco, Roberto Laureri

Roma – Teatro Argentina dal 3 al 15 marzo
Torino – Teatro Carignano dal 17 al 22 marzo
Casale Monferrato – Teatro Municipale Monferrato 24 e 25 marzo

“Sulla boxe”
di Joyce Carol Oates

Pagine scritte in molti anni di passione per uno sport (sport?) che ahimè ha smesso da un pezzo di affascinare: è la boxe vista da Joyce Carol Oates. L’intero corpo di testi dedicati all’argomento dalla grande scrittrice americana è raccolto ora in un libro edito da 66thand2nd (tradotto da Leonardo Marcello Pignataro).

Da Alì a Tyson, da Dempsey a Frazier, le vicende di molti campioni si affiancano a proposizioni fulminanti e analisi più articolate su un rito che a volte, per la Oates, merita la definizione di arte. Passione ereditata dal padre, la boxe ai suoi occhi non è metafora della vita, caso mai il contrario: «Scrivere di pugilato significa scrivere di se stessi; e scrivere di pugilato ci obbliga a indagare non solo la boxe, ma i confini stessi della civiltà, cos’è o cosa dovrebbe essere umano». Solo la presenza di un arbitro a un certo punto ha sottratto la boxe alla primitiva brutalità (Oates vi arriva ricordando esperienze del passato certo più terribili, anche definitive, com’era il caso dei gladiatori), ma la sua esibita, conclamata nudità e ferocia – occorre far molto male all’avversario, e possibilmente mandarlo per terra, non ci sono santi – ne costituiscono la nobile virtù. Nessun  «falso pudore»: crudele sì, violento non più di altri sport.

Non sono mancati i critici che hanno visto nello sguardo della Oates un romanticismo eccessivo – il paradosso è che lo dicevano quando la boxe era ancora viva, laddove oggi questo scontro archetipo estraneo alle «ingiunzioni morali» della legge ha perduto la sua aura epica. Magari la Oates non conosce la secca rudezza di un Norman Mailer (che lei non casualmente considera fra i migliori scrittori di pugilato – e non ci stancheremo di ricordare l’imperdibile racconto sul grande incontro di Kinshasa fra Alì e Foreman), ma certo non le sfugge la natura di una competizione in cui gli sfidanti mettono a nudo tutto di sé, in uno spazio a parte che ha qualcosa di sacrale e che «esiste da prima della civiltà». Chi assiste a un incontro di boxe «rivive l’infanzia omicida della razza»: per questo non è propriamente uno sport, non è un gioco alla stregua di altri passatempi. Ha da fare con la più importante passione dell’uomo, che non è l’amore ma la guerra. Lo sguardo della scrittrice è lucido e se non può non sottolineare la grandezza dell’immenso Clay-Alì si sofferma con altrettanta dedizione sul terrificante Mike Tyson, il pugile che «sul ring non pensa ma agisce d’istinto» (sul ring?) – l’ultimo fra i primi della classe a rinnovare la storia esemplare, cara alla scrittrice, di una scalata alle vette del mondo partendo da un’infanzia povera e disgraziata. Grande faticatore in allenamento, Tyson, sulla scia del maniacale – monacale – Rocky Marciano, che in vista di un match metteva fra parentesi l’intero mondo già alcuni mesi prima. Il contrario di Clay-Alì no: visto il suo stile, il magnifico ballerino poteva mica mettersi a saltellare ogni giorno – ciò non toglie che vincere come vinceva lui, alla fine gli sarebbe costata un’usura irrimediabile. In tutti i casi, l’eccezionalità dell’essere pugile sta per la Oates in un uomo che contro ogni ragionevolezza della specie, ha rinunciato all’istinto di sopravvivenza. Romantico? Forse sì, solo perché oggi appare improbabile. 

(Joyce Carol Oates, Sulla boxe, trad. di Leonardo Marcello Pignataro, 66thand2nd, 2015, pp. 241, euro 17)

“Sottomissione”
di Michel Houellebecq

Non servono pecore elettriche per invadere il nostro disordine.

Sì, d’accordo, ne abbiamo ingollate a dozzine. Per rimpolpare il programma scolastico, o magari per sciroppare il sonno, rincuorandoci al pensiero che quei giorni deformati morissero presto in mezzo a due pagine. Abbiamo imparato a chiamarle col nome appropriato, per mostrare più calli sul nostro glossario.

E le “distopie” hanno risposto a dovere: impigliate su carta o fluide di pellicola. E quasi sempre, in tutte quelle che hanno scolpito i nostri occhi, da Fahrenheit 451 a 1984, da Il signore delle mosche al manifesto cyberpunk Neuromante, quel “mondo possibile” ci sembrava improbabile, distorto al punto tale da essere ammiccante, come un incendio sotto vetro, da ammirare a distanza.

E invece no. Invece leggere porta a tradirsi, a sfatare la zona di confort. E così, scoperchiati e pestabili, abbiamo appreso che il male trasforma da dentro, che erode la smorfia del nostro vicino, un millimetro al giorno, fin quando quella tumida faccia è diventata altro pur restando la stessa.

 Sottomissione (Bompiani, 2015) di Michel Houellebecq ci squaderna agevolmente un’inquietudine facile, un futuro fin troppo normale che ci sentiamo già in braccio.

Nella Parigi del 2022 il partito della Fratellanza Musulmana impugna il potere.

E non attraverso un colpo di Stato o acrobazie terroristiche. Niente minacce, niente boati, nessuna stazione imbottita di scoppi. Semplicemente vincendo le elezioni. Nel ballottaggio con il Fronte Nazionale, conservatore estenuato di una Paese dismesso, i socialisti non possono far altro che appoggiare Mohammed Ben Abbes, stratega furbo e moderato. Un uomo che pilota i dibattiti con misura e maestria. Che sa sorridere e rinfrancare. Burattinaio mediatico e non profeta dell’odio. Perché tappezzarsi di mitra non sarebbe più utile. E lui lo sa benissimo.

In pochi mesi tutto si scompagina senza scomporsi affatto. E a narrarcelo è il protagonista: Francois, professore universitario esperto di Huysmans, disfatto e nevrotico come il suo tempo. Immerso nella sua girandola di dissertazioni letterarie, usate come metro per quantificare il valore umano e professionale, addiziona la giornate senza grandi occupazioni. Ha il microonde per amico e le chiacchiere in tv gli arredano la cena. Assiste alla vittoria dei Fratelli Musulmani, scivolando mollemente in un contesto sovvertito.

Qualche prima reazione, i media imbambolati, la sua ragazza ebrea costretta dalle circostanze a trapiantarsi a Tel Aviv, ma poi tutto confluisce nel vissuto. Ci si abitua a tutto senza scalciare, anche a ciò che ci indigna, a ciò che ci snatura. Ed è questa la sottomissione, la schiavitù in pantofole.

In fin dei conti l’Occidente ha fallito. Volendo dimostrare che la ragione bastasse, che svincolarsi da ogni credo irrobustisse le speranze, ha costruito un uomo liquido, occhieggiando a Bauman.

Una pancia bulimica e vuota, per cui non è sufficiente una sagra di shopping o una flebo di consensi sul proprio social network. Quella laica è una creatura sdrucciola, dissolta nei cocktail psichedelici della sua isteria; la libertà non l’ha riempita, le ha regalato deserti lisergici e armadi turgidi d’insicurezze. E non ci sono isole, non nella scienza e nemmeno nell’arte o nell’insegnamento. «Qualche lezione privata in cui mi ero impegnato con la speranza di migliorare il mio tenore di vita mi aveva convinto quasi subito di come la trasmissione del sapere fosse nella maggior parte dei casi impossibile; la diversità delle intelligenze, estrema; e che niente potesse sopprimere o anche solo attenuare tale ineguaglianza fondamentale».

Per questo, quando anche la tecnologia sembra appannarsi come risorsa, la religione può tornare ad essere un’àncora. E ancora una volta l’oppio dei popoli. Esemplare in questo lo scambio tra Francois e il rettore della Sorbona durante il loro primo colloquio.

Poco importa se nell’anelastica concezione dei Fratelli le donne non possano più frequentare alcun ateneo, se i negozi di “merce impura” come canottiere e minigonne siano costretti a chiudere. Poco importa se per insegnare occorra necessariamente convertirsi all’Islam, perché i cattolici non hanno ancora capito e gli atei sono troppo in errore per poter agire. Francois, mente brillante e spirito opaco, spento e frustrato come Michel Djerzinski de Le particelle elementari, intriso della disfatta di questa cultura, si lascia banalmente colonizzare, collassa come le civiltà perdenti descritte da Jared Diamond.

E tutto è talmente semplice da risultare spaventoso, oltre che deprimente.

Soprattutto perché il movente propulsivo del suo adeguamento è la sua patetica condizione affettiva.

Francois è un uomo solo, ecco tutto. Incapace di intelaiare dei veri rapporti. Il suo bacino d’utenza sessuale erano le sue studentesse, con cui poter esercitare il fascino di cattedra oltre che d’esame.

E in un mondo ripulito, disinfestato dalla presenza femminile, laddove anche le escort non sanno soddisfarlo con la premura che il suo cuore prosciugato intimamente invoca, cosa può esserci di meglio di qualche moglie destinata a stargli accanto senza altra pretesa? Una giovane per compiacere il corpo e una più adulta per sfamarlo con saggezza. Fino a quattro sono concesse in questo regno confortevole, dove un qualche carezza e un ottimo stipendio rabboniscono il dissenso.

Houellebecq edifica un sistema solido, di svolta credibile e quindi agghiacciante in un periodo come questo, strattonato dall’Isis e dalle sue baldanze. Un periodo dove la paura ci accompagna per la strada, mentre scendiamo le scale come canali di scolo verso la metro. Dove l’espressione “guerra di religione” non ci ricorda più solo le crociate o il sussidiario delle medie. Scaltro nel suo cinismo, punteggiato di un erotismo ruvido e stanco, Sottomissione è uscito proprio a ridosso del grande sdegno per la tragedia di Charlie Hebdo e per qualche settimana in libreria sembrava non esistesse altro. Ora che la mareggiata di clienti si è assopita e l’agenda setting proclama altre emergenze, forse è il caso di leggerlo per quello che è.

Profezia antiutopica o provocazione narrativa? L’ennesimo atto di un disincanto.

Ma Houellebecq almeno sa come raccontarcelo.

(Michel Houellebecq, Sottomissione, trad. di Vincenzo Vega, Bompiani, 2015, pp. 256, euro 17,50)

“Blackhat”
di Michael Mann

Michael Mann è uno dei più grandi innovatori del cinema contemporaneo, classico e solido nelle sue strutture narrative, sempre alla ricerca della novità di stile. Dieci film in trentatré anni, uno ogni tre anni, in media, con due buchi di sei. Ha dichiarato che fa solo film in cui crede fino in fondo. Negli ultimi vent’anni ci sono stati film come Heat, InsiderAlìCollateral. Quando un regista così recluta una stella in ascesa come Chris Hemsworth – il Thor della Marvel, ma anche James Hunt nel Rush di Ron Howard, ed è lì che Mann lo ha notato – è lecito aspettarsi un film di grande impatto. Con Blackhat si finisce per aspettare a vuoto.

I servizi segreti statunitensi e coreani decidono di collaborare per fermare un’organizzazione di cyber criminali che ha causato un grosso incidente in una centrale nucleare vicino Hong Kong (si sono infiltrati nel sistema informatico e hanno alterato il meccanismo di raffreddamento). Pochi giorni dopo, il valore della soia nella borsa di Chicago sale alle stelle e qualcuno riesce a ricavarne parecchi utili. È un altro attacco informatico, probabilmente a opera dello stesso gruppo. C’è solo un uomo che può fermare gli hacker, il capitano Dawai, esperto in sistemi informatici del governo cinese, lo conosce bene. Si tratta di Nick Hathaway, studiavano insieme al MIT. Solo che adesso Hathaway è in carcere per una truffa di carte di credito. Gli viene concessa una scelta: se collabora avrà la libertà. Sceglie di collaborare, ovviamente, e con Dawai, la sorella di lui (anche lei esperta di informatica) e gli agenti dell’FBI si mette sulle tracce degli hacker.

Blackhat di Michael Mann si apre con una lunga sequenza di quasi cinque minuti girata quasi completamente in computer graphic. È un flusso di informazioni che dal computer degli hacker raggiunge il sistema informatico della centrale nucleare a Hong Kong e causa il guasto al sistema di areazione. È, soprattutto, una delle sequenze più lunghe mai realizzate in CGI, una delle più visionarie nel suo non essere immediatamente comprensibile da parte dello spettatore (i circuiti sembrano una specie di città vista dall’alto, fa un po’ Tron, un po’ Matrix). È, ancora, la conferma della dichiarazione di intenti del cinema di Mann: quello che conta, quello che ricerca, è sempre il passo in più sulla strada della sperimentazione, dell’innovazione tecnica.

Proprio per questo, Blackhat finisce per trascurare un’evoluzione ordinata del suo intreccio, limitando il più possibile i dialoghi e i momenti narrativi per concentrare invece il più possibile l’azione e, più in generale, il movimento. Perché come le informazioni che viaggiano da un computer all’altro nella sequenza iniziale, i protagonisti di Mann si muovono veloci per il mondo – aggirando con estrema facilità qualsiasi tipo di barriera doganale – sulle tracce dei criminali che inseguono.

Il consueto cinema metropolitano del padre di Miami Vice si apre questa volta a un Oriente immerso negli abituali colori notturni e digitali degli spazi urbani fotografati, questa volta, da Stuart Dryburgh (prima collaborazione), e l’immersione tecnologica autorizza la memoria a richiamare Rick Deckard e la fantascienza di Blade Runner.

Tra questi spazi verticali assoluti si muove Hathaway, eroe classico del cinema di Mann, ancorato a un proprio preciso codice morale che ne condiziona le scelte. Anche se è un criminale, Hathaway è comunque un personaggio etico, fedele all’incarico da cui dipende la sua libertà anche nel momento in cui potrebbe trovare la fuga. Il misterioso pirata informatico a cui dà la caccia è il suo specchio esatto. È un altro elemento classico del cinema di Mann in cui l’eroe ha sempre una precisa controparte, un contraltare morale che si comporta all’opposto. Qui è invisibile, un hacker, anzi un black hat (cioè un esperto di informatica che usa le sue conoscenze per fini criminali), che si è appropriato del codice che Hathaway aveva scritto all’università con Dawai per usarlo contro il mondo.

Inserendolo nella filmografia recente di Michael Mann, Blackhat continua quella “rivoluzione digitale” inaugurata nel 2004 con Collateral (primo film prodotto a Hollywood girate interamente con telecamere digitali) proseguendo la ricerca estetica e tecnica di uno dei più innovativi cineasti di oggi. In questa ricerca continua della velocità, del nuovo e dell’impeto estetico, Mann trascura fino a quasi dimenticarsi, però, gli elementi fondamentali di ogni film. Il cinema in generale trova un limite piuttosto marcato quando cerca di rappresentare il mondo informatico, quando deve, cioè, tradurre un linguaggio di strisce di codice e schermi di computer in qualcosa di dinamico e veloce. In Blackhat c’è il consueto repertorio di dialoghi improbabili davanti ai monitor, di mani velocissime sulle tastiere e download da completare in condizioni critiche, ma non è solo questo il limite del film di Mann.

Appoggiandosi su una trama piatta, senza uno sviluppo ordinato e troppo spesso complessa da seguire, Blackhat  non riesce ad essere molto altro che un esercizio di stile per l’idea di cinema del suo regista. Ci sono scene di azione e di combattimento notevoli (quella al ristorante coreano più di altre), c’è, come si è già detto, un’idea estetica che trova nuovi modi di declinarsi, ma c’è anche una trama sentimentale veramente buttata lì per fare volume, una serie di personaggi comprimari che sono strutturati quel tanto che basta per risultare passabili, una generale trascuratezza della coerenza narrativa in favore dello spettacolo.

È un limite, e un peccato, perché da solo tutto il mestiere innovativo di Mann, per quanto enorme, non basta a rendere Blackhat un film di piena potenza. Sarebbe stato interessante, visto il tema e il momento di uscita (negli Stati Uniti ha fatto il suo debutto a gennaio), se si fosse tentata una maggiore lettura critica del contemporaneo attraverso il film. Si parla di attacchi hacker, si parla di NSA e di privacy, ma neanche per un istante viene suggerito un collegamento con la contemporaneità.

(Blackhat, di Michael Mann, 2015, azione, 135’)

 

“La roccia viva”
di Matteo Sartori

Tre mondi vicinissimi e lontanissimi ma comunque unici e uniti sono quelli dei tre protagonisti del romanzo di Matteo Sartori, La roccia viva (ISBN, 2014), tre ragazzi adolescenti nella “Milano da bere” degli anni Ottanta.

Chiara Novo è un avvocato penalista agguerrita e determinata, deontologicamente senza scrupoli.

In breve, partita dalla sua Torino, si ritrova a essere «la donna più ascoltata e pagata di un prestigioso studio legale di Milano», quello dell’avvocato Carlo Velo, suo mentore, amante e allo stesso tempo figura paterna (suo padre, anche lui Carlo, era stato ucciso nel 1990 dai brigatisti).

Michele Tenzoni, skyrunner per passione, è il figlio di Sergio Tenzoni, il padrone della StarGas, «il suo impero di combustibili» che aveva costruito dal niente «lavorando diciotto, venti ore al giorno. Un cowboy dal pugno di ferro sulla linea di frontiera del far west brianzolo degli anni Sessanta, aveva tirato su il primo capannone in una notte. In un’alba da meno cinque, protetto dalla nebbia, aveva messo giù l’eternit del tetto da solo e ora tutto, la villa, la piscina, l’appartamento a Montecarlo, la casa in Svizzera di fianco a quelli che contavano a Milano e a Como, le sette Ferrari nella rimessa, i foulard di sua moglie, tutto parlava della sua determinazione. La stessa che pretendeva da suo figlio nato con il culo nel burro».

Michele subisce suo padre. Suo malgrado si trova alla guida dell’azienda ma la sua estraneità alle logiche di denaro a discapito perfino delle norme sulla sicurezza, lo rendono inquieto e alienato dalla ricchezza aggressiva del suo mondo.

L’alpinismo con i ghiacciai e i moschettoni, gli strapiombi e le impervie salite rappresenta per lui l’unico momento in cui sentirsi calato in una dimensione archetipica dello spirito, una dimensione che trascende il concetto stesso di sport estremo.

La natura, madre e matrigna, affranca dalla sua ipocrita e meschina realtà quotidiana Michele, che solo nelle escursioni sulle vette, pericolose e catartiche, sembra esplorare l’agognata libertà dal suo status sociale, di essere “figlio di”: «L’idea di tornare a vendere gas al fianco di suo padre e di sua sorella lo gettava, come da bambino, in uno sconforto rasente la depressione, con il risultato che appena aveva un’ora libera tornava ad allenarsi con ancora più forza, sottoponendo il suo corpo a supplizi pericolosi».

Rudi Valenti, artista maledetto dell’alta borghesia milanese, avvolto da ombre inquietati quali la morte del fratello tossicodipendente, è un fotografo dal «talento tormentato» e dall’«ego disturbato» che gli fa fare battute per esorcizzare la sua più profonda sofferenza e i suoi sensi di colpa.

Chiara rimarrà stregata dal suo fascino selvaggio capace di momenti di romanticismo estremo ma anche della più volgare cattiveria quando è sotto l’effetto di alcol e droga: «Chiara ne aveva potuto constatare di persona la varietà, e grazie a Rudi aveva toccato punte di irritazione e divertimento uniche».

A nulla servono i tentativi dell’amica Livia di proteggerla da questa relazione pericolosa: «Non dovresti mai permettere a nessuno di farti ombra».

Poi c’è il rogo: in sei minuti i contorni del capannone della StarGas, non più netti, vengono come smangiati dai piccoli morsi della densa atmosfera rovente, cedono qualcosa di loro stessi all’aria, subiscono una specie di liquefazione.

È la fine per Sergio Tenzoni. È l’inferno in terra. Tre operai rimangono uccisi fusi insieme a metalli e minerali e un quarto ferito per sempre nel fisico e nella mente. Uno dei lavoratori, un saldatore, è rimasto carbonizzato a metà, la metà inferiore intatta con i jeans puliti e le scarpe nuove comprate con i risparmi di un misero salario.

A questo punto entra in scena l’avvocato Chiara Novo. In aula sembra un’attrice, fredda e scrupolosa, con passione e parole ricercate difende le vittime e il sopravvissuto. È un successo nonostante la campagna denigratoria intentatale da una stampa corrotta.

È qui durante l’arringa forense che i destini dei tre protagonisti si intrecciano.

Alla fine si ritroveranno tutti e tre in montagna, protetti, coccolati, quasi a disintossicarsi dalla battaglia quotidiana delle proprie miserie e debolezze, spettatori di questo universo antropologico dove ognuno può respirare l’aria del proprio essere più vero.

Ma la montagna sa anche essere crudele con le sue bufere e asperità. Vincitori e vinti ne escono comunque cambiati come Castorp nella tormenta di neve della Montagna incantata di Thomas Mann.

La scalata serve ad avvicinarsi ai problemi e ai pericoli, entrarci in confidenza, imparare a superarli ed esorcizzarli.

Con un linguaggio molto ricercato ricco di metafore ardite, lontano dalla prosa piatta e standardizzata di tanta narrativa contemporanea, Matteo Sartori ci narra lo smarrimento di personalità estromesse e corrose dal dolore facendo un esame della condizione di un’elevata borghesia milanese fragile e meravigliosa, vana e tuttavia preziosa.

Il finale è aperto e vede Michele, Chiara e Rudi guardare senza illusioni a un futuro pieno di incognite.

(Matteo Sartori, La roccia viva, ISBN, 2014, pp. 320, euro 19)

“Tungsteno”
di César Vallejo

Quando, ancora al giorno d’oggi, ci riferiamo ai popoli nativi dell’America Latina con il nome collettivo di indios, non facciamo altro che perpetrare un antico atto di violenza coloniale. Perché tale riduzione, che ha adattato sotto un unico nome popoli e culture anche estremamente dissimili tra loro (si pensi per esempio soltanto agli aztechi, ai quechua, ai guaranì), trova il suo originario scopo nella creazione di un termine oppositivo tramite il quale noi europei (prima) e noi occidentali (dopo) abbiamo potuto formalizzare in maniera piuttosto comoda la questione della razza, elemento cardine a fondamento dell’impresa coloniale. A questa riduzione sottendeva e sottende la necessità di appiattire e livellare su un unico modello un’estrema varietà di manifestazioni umane, necessità che a sua volta è vissuta e vive in ragione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Perché tutti quei popoli a cui, proditoriamente, da questa parte di mondo è stato dato il nome di indios dovevano essere identificati senza troppe storie in un’immagine di sintesi da inserire in quelle scale evolutive di matrice comtiana grazie alle quali, per secoli e spesso ancora ai giorni nostri, è stata giustificata l’asimmetria del dominio dei razionali, degli illuminati e dei moderni sui selvaggi, sugli illetterati e sui primitivi. Sono proprio questi selvaggi, illetterati e primitivi i protagonisti principali (e gli ideali destinatari) di Tungsteno, romanzo del peruviano César Vallejo (SUR, 2015), uomo che ha vissuto sulla propria pelle meticcia la sofferenza e lo sfacelo dell’impresa coloniale, amico del filosofo marxista José Carlos Mariátegui, poeta e scrittore la cui anima e i cui occhi sono stati testimoni di cose molto orribili.

Pubblicato per la prima volta nel 1931, forte di una prosa sensazionale che incastona superiori baleni di lirica all’interno della trama romanzesca, Tungsteno ci trascina nell’aspro scenario andino del Perù del primo Novecento, in cui un’impresa statunitense di estrazione mineraria, la Mining Society, con il benestare del governo e delle élite locali assolda moltitudini di nativi a suon di bastonate, ratti furibondi e salari evanescenti. Per estrarre i suoi minerali, che saranno poi impiegati a scopo militare per l’industria degli armamenti statunitense, la Mining Society tormenta i corpi dei nativi e violenta la terra che li ospita, scavandola in profondo, allargandola nelle sue fessure, spingendo e spingendo quanto più possibile, come un fallo ostinato e per nulla romantico che, accecato dalla cupidigia, dalla brama di dominio e di possesso nonché da una sconsiderata tracotanza piuttosto prosaica, non voglia sentire ragioni che lo distolgano dal suo obiettivo, dal raggiungimento del suo terribile orgasmo (parallelismo d’altronde proposto dallo stesso Vallejo in uno straziante episodio del romanzo in cui gli uomini della Mining Society, bevendo di gusto e sganasciandosi dalle risate in sacrificali e festevoli libagioni, stuprano collettivamente fino alla morte una giovane nativa, selvaggia e illetterata come i suoi simili, una donna che ovviamente non avrà giustizia nemmeno da morta).

Tungsteno rappresenta un perfetto compendio dell’impresa coloniale, un quadro che non indugia mai sul facile patetismo ma che affronta la questione dello sfruttamento con una fortissima tensione etico-politica che, per quanto presente in ogni parola del narrato, non adombra di certo la bellezza sublime della prosa di Vallejo. Tungsteno è un romanzo in cui riluce la cupezza della cieca indifferenza con cui alcuni, i moderni, appunto, i razionali, gli apostoli della scienza, i disincantati, hanno devastato terre e culture allo scopo di rendere tutto più noioso e senza dubbio più feroce.

(César Vallejo, Tungsteno, trad. di Francesco Verde, SUR, 2015, pp. 144, euro 15)

“Foxcatcher”
di Bennett Miller

La storia del team Foxcatcher è vera ed è uno dei drammi sportivi che maggiormente ha sconvolto gli Stati Uniti tra gli anni Ottanta e i Novanta. Un multimilionario egocentrico e fragile che sogna di diventare coach di una squadra di lotta libera, che parla da eroe della nazione e vuole essere chiamato «l’aquila d’oro degli Stati Uniti» e che finisce per uccidere uno dei suoi campioni. Il regista Bennett Miller è partito dalla storia vera per costruire una parabola amara sulla solitudine e l’ambizione, sull’insicurezza e il bisogno di riconoscimenti.

Mark Schultz è un lottatore libero medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1984. È uno dei massimi campioni mondiali della disciplina, ma la sua fama è appannata dal fratello Dave, anche lui vincitore della medaglia, suo mentore e allenatore. Hanno un rapporto intenso, Mark ha bisogno della guida di Dave e della sua esperienza, ma allo stesso tempo soffre il suo successo e il suo carisma, vorrebbe uno spicchio di palcoscenico su cui potere essere Mark Scultz, lottatore, e non solo il fratello di Dave. Un giorno, Mark viene contattato dall’entourage di John E. du Pont, miliardario erede di una delle più importanti famiglie degli Stati Uniti. Vuole avviare una squadra di lotta libera per partecipare alle Olimpiadi coreane del 1988 e vuole Mark a guidare la squadra.

Bennett Miller è un regista particolare. Si prende il suo tempo per fare i film. Ha esordito nel 1998 con il documentario The Cruise, poi ha lasciato passare sette anni prima di tornare con Truman Capote – A sangue freddo, e prima di L’arte di vincere ne sono passati altri sei. Foxcatcher era già pronto alla fine del 2013 (solo due anni tra un film e l’altro, un record), ma la Sony ha preferito posticiparne la distribuzione al 2014. È finito in concorso a Cannes, dove ha vinto il premio per il miglior regista ed è stato preso in considerazione per la Palma d’oro.

Non è insolito che i film di Miller incontrino l’apprezzamento delle giurie. I suoi tre film hanno sempre fatto il pieno di nomination dell’Academy. Sono state cinque per A sangue freddo, tra cui miglior film e miglior regia, sei per L’arte di vincere, tra cui di nuovo miglior film, cinque per Foxcatcher, e un’altra volta per la miglior regia. Sedici nomination in totale, un solo premio vinto: Philip Seymour Hoffman migliore attore protagonista per A sangue freddo.

Questa è una caratteristica tipica del cinema di Miller: gli attori e le loro performance. Ogni volta, tutti, danno il meglio. Ha la capacità di scegliere e di dirigere, di credere, magari, in attori non abituati al centro della scena. Hoffman, del resto, era soprattutto un comprimario, un caratterista, fino ad A sangue freddo; Jonah Hill era «il ciccione di Suxbad», poi è arrivato L’arte di vincere, un’inaspettata nomination e alla fine Scorsese e The Wolf of Wall Street; e se Steve Carell aveva già dimostrato di essere comunque un attore valido anche in ruoli brillanti, la trasformazione con naso posticcio di Foxcatcher ha stupito un po’ tutti.

Come regista, Miller preferisce sparire, lasciare ai suoi interpreti l’attenzione del pubblico. Non cerca di impostare uno stile che identifichi immediatamente il suo cinema: cambia sempre direttore della fotografia (questa volta è Greig Fraser), non ha attori feticcio, cambia gli sceneggiatori (e pure questi ogni volta vengono nominati).

Dan Frutterman è l’unico tra gli autori ad aver lavorato con Miller sia in A sangue freddo che in Foxcatcher (questa volta affiancato da E. Max Frye), e i due film infatti condividono molto di più di quanto possano avere in comune con L’arte di vincere. Se c’è però un tratto che accomuna il cinema di Miller, ecco quel tratto si può trovare nelle storie che racconta, nei personaggi che sceglie come centrali. Sono personaggi reali, sempre, di successo o comunque noti, ma perennemente alla ricerca di un riconoscimento in più, sempre pronti a sentirsi inadeguati o irrealizzati nella loro posizioni, pronti a invidiare chi hanno più vicino che è riuscito a fare quel passo in più.

In Foxcatcher Mark Schultz soffre nell’essere solo il fratello di Dave. Lo ama ma non gli basta, ha bisogno di essere riconosciuto. Allo stesso tempo ha paura del mondo senza di lui e quando il miliardario du Pont lo chiama è eccitato e terrorizzato all’idea di abbandonare le sue misere certezze per le ricche possibilità che gli vengono offerte. Du Pont, dall’altra parte, è l’erede di un impero di cui non gli importa nulla. Cerca il consenso della madre sentendosi inferiore ai suoi cavalli, è convinto di avere un ruolo di patriota e salvatore della nazione, si racconta filantropo e pentatleta, raffinato ornitologo ed esperto di francobolli. Mark e John si incontrano proprio in questa solitudine di emarginati dalla gloria, è il loro essere satelliti di qualcuno di più grande che li avvicina. Sembrano simili, ma non lo sono. Perché Mark è comunque un puro, nella sua semplicità. Soffre Dave e la sua maggiore facilità nell’affrontare la vita, ma è sempre pronto a condividere tutto, a riconoscere agli altri i meriti. Ha bisogno di essere guidato, quando dice che du Pont è come un mentore, come il padre che non ha mai avuto, lo pensa davvero, anche se sta leggendo un discorso scritto dallo stesso du Pont. John, al contrario, sfrutta gli altri per costruire l’immagine di sé che vuole proiettare all’esterno e con cui spera di conquistare quella madre severa e fredda che lo schiaccia, che non capisce la sua passione per il wrestling, che lo tratta ancora come un bambino. Trascina Mark in una spirale che lo allontana dalla disciplina del lottatore e quando si rende conto che non è più in grado di dargli quello che vuole – le medaglie, i successi – lo scarica per chiamare Dave. Per poi tornare a rimpiangere Mark, quando capisce che Dave non sarà mai un amico, o quell’erede che sogna di formare.

Mark e John sono uniti dallo sconfinato senso di inadeguatezza che li condiziona. La loro ambizione va oltre l’apparente realizzazione della medaglia da vincere; vogliono uscire da quel cono grigio in cui negli Stati Uniti vengono confinati i losers, i perdenti, anche quelli che all’apparenza non lo sono, per diventare vincitori sulla vita e sulle proprie aspettative.

Andando oltre la semplice ricostruzione biografica, Bennett Miller è riuscito a fare di Foxcatcher un film di raffinata e tesa psicologia relazionale. È una storia molto americana (e il sottotitolo italiano ha tenuto a specificarlo), girata con una lentezza calcolata con sapienza capace di generare tensione fino all’esplosione finale. Lo aiutano i tre interpreti: Steve Carell come du Pont, Mark Ruffalo nei panni di Dave Schultz e Channing Tatum che dà corpo e fragilità a Mark (unico non candidato agli Oscar, chissà perché). C’è anche un’irriconoscibile Sienna Miller.

(Foxcatcher – Una storia americana, di Bennett Miller, 2014, drammatico, 138’)

“Il Regno”
di Emmanuel Carrère

Un agnostico che non si definisce ateo solo perché non è «abbastanza credente per esserlo» a un certo punto della vita cade in depressione; questa disperazione lo avvicina al cattolicesimo. Accade a Emmanuel Carrère che ne rende conto nel suo ultimo libro, Il Regno, ora leggibile nella traduzione di Francesco Bergamasco, al solito per Adelphi.

Libro a più strati, testo che contiene il commento al testo, le premesse che lo costituiscono, le quali sono frammenti di un’autobiografia che contiene ulteriori chiose ai diari di un suo particolare momento, quello appunto – tre anni di vita – della temporanea conversione (soprattutto commenti al Vangelo di Giovanni). Non si pensi a un romanzo postmoderno – che in Carrère la stanca definizione verrebbe elusa già dalla concretezza intelligente quanto terragna della scrittura che ne ha fatto uno dei più stimolanti scrittori europei degli ultimi anni. Quella di Carrère appare piuttosto un’inquietudine dell’a latere, che se da una parte sposta di continuo il punto di vista e complica la narrazione (ne complica il senso) dall’altro intensifica il contrasto fra verità e ambiguità di una scrittura ben serrata sulle cose ma soprattutto sui personaggi – il suo compreso.

Nella prima parte il rischio del gioco di specchi si esercita attraverso un sarcasmo faticosamente tenuto a bada (e lo comprendiamo assai bene) verso il se stesso che a un certo punto della vita aderisce alla fede cattolica. Carrère difatti si rilegge con imbarazzo. I suoi propositi di convertito imminente – recuperati nei vecchi appunti – gli suonano falsi (e tali arrivano in effetti al lettore scettico) benché al tempo fossero stati il frutto di un approccio «sincero». Lo scrittore approda in chiesa dopo le inutili sedute psicoanalitiche nelle quali ovviamente la sola cosa che gli interessava era «mettere in scacco l’analista». Il passo decisivo è proprio quello che di fronte allo strizzacervelli non gli è mai riuscito: lasciarsi andare (l’illuminazione gli viene da un passo di Giovanni riguardante Gesù e Pietro). L’abbandono, a rileggersi ora, null’altro gli appare che autosuggestione, crollo da metodo Couè, una retorica esclamativa che al momento invece sentiva come nobile e autentica, e faceva piazza pulita dell’illuminista sarcastico (così parigino…) che era sempre stato. Ancora una volta, il lettore scettico immagina la difficoltà che il romanziere ha dovuto affrontare per tenere in vita l’ambiguità necessaria a una buona storia – il racconto di una conversione fatta di giornate a messa, preghiere, confronto con persone che lo invitano a prendere sul serio la tentazione cristiana: e l’accostamento con una personale congerie di fantasmi, compreso quello dell’amato Philip Dick (anch’egli sensibilissimo al tema – ma proprio la stesura di un libro su di lui contribuirà a riallontanarlo dalla fede).

Il corpo centrale (e imponente) de Il Regno si costruisce come una sorta di romanzo sulle origini del Cristianesimo. È un lavoro poderoso, affascinante, di riscrittura delle scaturigini di una visione del mondo che cambierà la storia umana. Accanto all’evangelista Luca, la figura fondamentale appare quella di Paolo – «un vero cafone», lo definisce a un certo punto Carrère, perché non sa esimersi dal rilevare di continuo quanto egli dipenda solo da se stesso, quanto si sporchi le mani; ma un genio anche, a suo modo, il vero fondatore del cristianesimo. La personalità, sua, ma anche quella di Luca (Il Regno è anche un libro su come si scrive un libro) e degli altri che compaiono nella narrazione (da Pietro a Giacomo al rabbino Filone) è investigata con l’acribia che è solita all’autore de L’avversario; la narrazione si fa trascinante, le vicende del cristianesimo delle origini vengono lette e riscritte a partire della stessa matrice letteraria dei Vangeli ma scavando in una possibile verità storica che ci dica chi fossero (e come agissero) davvero Paolo o Luca, o i galati o gli ateniesi che dei deliri del fanatico Paolo proprio non vogliono saperne.

Ora, se Carrère continua a vedere nel cristianesimo (non nell’istituzione chiesastica) il segno di una pur stravagante rivoluzione («i primi saranno gli ultimi»), il libro potrebbe irritare i credenti: si pensi solo alla tentazione comica che Carrère non sa o non vuole tenere a bada del tutto (sia nella parte autobiografica che in quella “storica”, laddove la piccola setta ebraica che cambierà i destini del mondo è rappresentata come una banda – verrebbe da dire – di poveri cristi, esaltati, fanatici e discretamente invidiosi). D’altra parte, il lettore scettico, più volte evocato sopra, pur non ignorando gli strappi e le forzature di un lavoro non semplice da tenere insieme,  troverà diversi motivi per leggere Il Regno con piacere.

(Emmanuel Carrère, Il Regno, trad. di Francesco Bergamasco, Adelphi, 2015, pp. 427, euro 22)

“Slava’s Snowhsow” di Slava

La Russia ha regalato al mondo molte cose irrinunciabili, tra queste ci sono Slava e il suo Snowshow, uno spettacolo lirico, candido, fantasioso, divertente, dispettoso, atletico, malinconico e tenero, esempio di un teatro che sfugge a qualsiasi definizione, in cui sogno e realtà si confondono, capace di incantare con la magia della neve sulla quale scivolano, lievi, momenti incredibilmente comici e attimi di struggente dolcezza.

Il creatore di Slava’s Snowshow, Asisyai-revue, e Diabolo nasce a Novosil nel 1950 e trascorre la sua infanzia in un mondo incontaminato all’interno del quale sviluppa la capacità di inventare e costruire case sugli alberi e piccole città di neve e in cui, grazie, alla televisione e al cinema, conosce i grandi clown e i grandi mimi, Chaplin, Marcel Marceau, Engibarov. Nel 1988 approda in Inghilterra con la sua Compagnia – fondata nel 1979 –  e, in poco tempo, riesce a dare una nuova valenza al ruolo del clown, affrancandolo dal circo e portandolo nei più grandi teatri. Cinque anni dopo nasce Slava’s Snowshow che raccoglie i numeri più belli e famosi del repertorio di Slava.

Questo spettacolo che induce anche il critico a cedere all’utilizzo di superlativi quali, meraviglioso, permette agli spettatori di divertirsi e giocare assieme con acqua, neve finta, giganteschi palloni e, come nella migliore tradizione, con gli stessi clown che si avventurano spesso tra le poltrone. Slava’s Snowshow è affascinante anche dal punto di vista stilistico: della tradizione conserva la fisicità, il trucco, il costume, la cifra e l’ispirazione. I clown sul palcoscenico non pretendono di essere originali, lo spettacolo non richiede di essere interpretato. Eppure ogni dettaglio è frutto di una ricerca talmente forte da essere quasi visibile. Sono circensi – nel senso di puliti al punto che si può immaginare il tempo sul palcoscenico come quello perfettamente scandito dal volo dei trapezisti – i bui con cui pare appaiano e scompaiano gli oggetti sul palcoscenico, le canzoni scelte con accuratezza e rispetto dell’orecchio e la sensibilità del pubblico sulle quali si svolgono le scene dello spettacolo, e le concatenazioni logiche tra i quadri che compongono lo spettacolo.

Slava’s Snowshow è un’esperienza, un evento quasi, imperdibile per il pubblico di qualunque età purchè voglia essere divertito, affascinato e sia disposto a cedere le armi per due ore, al punto di commuoversi, di piangere disperatamente, e poi alzarsi e giocare, senza vergogna e senza timore. Soprattutto se si è seduti in prima fila.

Slava’s Snowshow
Creazione e messa in scena di Slava
regia Viktor Kramer
con ArtemZhimo, Onofrio Colucci, VanyaPolunin, YuryMusatov, Aelita West, Alexandre Frish, Guido Nardin

Avellino – Teatro Gesualdo dal 6 all’8 marzo
Lugano – Teatro Cittadella dall’11 al 15 marzo