“Il Grande Romanzo Americano”
di Philip Roth

Einaudi ripubblica, con la nuova traduzione a cura di Vincenzo Mantovani nella collana Supercoralli, Il Grande Romanzo Americano di Philip Roth, opera del 1973.

Parlare di cos’è il Grande Romanzo Americano attraverso lo sport che universalmente definisce la storia e la cultura degli Stati Uniti: il baseball. Nel 1952 Bernard Malamud scrive Il migliore, dove  il baseball è il destino perennemente avverso attraverso la storia di Roy Hobbes, uno che ha tutte le caratteristiche per diventare il miglior giocatore di sempre, ma che non ce la farà. Per Paul Auster, in Sunset Park, è l’eredità culturale che viene tramandata da padre a figlio. In Underworld di Don DeLillo, la pallina lanciata durante la leggendaria  partita tra i Giants e Dodgers, nel fuoricampo che darà la vittoria ai Giants, e che finisce nelle mani di Martin Cotter, sarà il filo conduttore di quello che probabilmente è uno dei più importanti romanzi del dopoguerra: passerà di mano in mano, sarà venduta, persa, comprata. Ma anche Fante o Kinsella useranno il baseball come pretesto. Lo stesso Roth, con il suo “svedese” Saymour Levov, anni dopo, nel 1997, se ne riapproprierà.

È chiaro che questo sport ha un significato così profondo per quello che rappresenta l’esistenza, il senso, l’immagine stessa degli americani, che fare un raffronto con qualcosa che ci è più familiare può sembrare scontato. Qui in Italia è e sarebbe il calcio a essere raccontato e a raccontare la storia e la cultura, ma in maniera comunque differente: salvo rare eccezioni – come Le cinque poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, il quale comunque si approccia a questo sport in maniera piuttosto casuale, oppure Pasolini, che vedeva il calcio come ultima rappresentazione sacra della nostra società. Negli Stati Uniti lo sport fa parte degli aspetti più intimi della cultura, in maniera trasversale, fino a rientrare nella letteratura stessa – cambiando sport, basti pensare al peso specifico del tennis in Infinite Jest di David Foster Wallace.

Se a questo, poi, aggiungiamo un gigantesco complotto comunista, delle chiacchierate con Ernest Hemingway e che a scriverlo è uno degli autori contemporanei più importanti, ecco che Il grande romanzo americano non sarà il più grande romanzo americano di sempre, ma probabilmente il più grande romanzo in cui si parla del Grande Romanzo Americano. E bastano solo le prime due parole del libro per capire con cosa abbiamo a che fare: «Chiamatemi Smitty» rimanda immediatamente al «Chiamatemi Ishmael» di Herman Melville nell’incipit di Moby Dick.

Word Smith è un ottantenne ex cronista sportivo e grande amante dell’allitterazione e della parola in generale (la scelta del nome non è casuale: wordsmith può essere tradotto come “cesellatore di parole”), cosa che gli ha permesso di scrivere i discorsi di quattro Presidenti degli Stati Uniti, convinto di essere l’unico a ricordarsi della Patriot League, terza lega americana dopo l’American e la Nation, che secondo il suo parere è stata cancellata dalla memoria e dagli annali perché diventata apertamente un’organizzazione anti-americana, cosa  che lo farà sembrare pazzo alla Hall Of Fame di Cooperstown quando ne parlerà.

L’ex cronista sportivo decide così di scrivere l’ultimo anno dell’esistenza della Lega attraverso la storia dei Mundys di Port Ruppert, ai quali, nel 1943 viene tolta la possibilità di giocare in casa: il loro campo, infatti, è stato concesso all’esercito come base per le truppe che si accingono a salpare verso l’Europa.

I Mundys sono una squadra sgangherata, piena di senza tetto, con un battitore senza un braccio, ubriaconi, giocatori nani, animata dall’unico giocatore che abbia mai provato ad uccidere l’arbitro. Accompagnati da Word Smith e costretti a giocare sempre in trasferta – aspetto che delinea un’altra grande caratteristica del mito americano, quella degli americani come grande  popolo di migranti ­, i Mundys, in questo continuo peregrinare,  vengono usati da Roth per descrivere le grandi psicosi, le follie, le esagerazioni degli Stati Uniti, ma soprattutto la grande ansia di trovare il Grande Romanzo Americano, e il Grande Romanziere Americano, che possa marchiare a fuoco sulla pelle della storia la cultura di un popolo in perenne ricerca di sé.

(Philip Roth, Il Grande Romanzo Americano, trad. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, pp. 418, euro 21)

“Lui sa perché” di Carolina Cutolo e Sergio Garufi

Concepire un libriccino che esamina e cataloga il fenomeno dei ringraziamenti a fine libro nella narrativa italiana degli ultimi vent’anni può risultare di per sé superfluo o quantomeno fine a se stesso, poiché leggere un dovuto riconoscimento per qualcosa di scritto, che molto probabilmente non abbiamo ancora preso in considerazione, non fa che aumentare l’indifferenza verso vita, opere e future pubblicazioni dell’autore di quelle parole.

Raramente il lettore, anche il più masochista determinato a portare a termine perfino l’agognato testo che ha odiato dalle prime righe, sceglierebbe deliberatamente di acquistare un prodotto formato esclusivamente dalle sacrificabili pagine finali dove dimorano i riguardi, sconosciuti ai più, dello scrittore pubblicato.

Il libro in questione dal titolo Lui sa perché (Isbn Edizioni, 2014), infatti, non è altro che un elenco di omaggi a qualsiasi persona o cosa da parte di autori più o meno famosi che hanno realizzato il sogno di vedere la propria creatura spiccare tra gli scaffali di una libreria, confezionato con una prefazione di Stefano Bartezzaghi e un contributo di Umberto Eco che nulla tolgono né aggiungono al prodotto finale.

Non si sa quando questo fenomeno del grazie a tutti i costi abbia incominciato a diffondersi e a farsi passaggio obbligatorio da compiere prima della definitiva chiusura del libro, quando la formalità di infilare nella riverente lista la diffusissima formula del “lui sa perché” (ma noi no quindi a che serve?) sia diventata così necessaria per l’autore da non poter essere felicemente omessa e più di tutto quando si è reso doveroso classificare e rilegare in un unico libro tutto questo materiale fatto di nomi sparsi e circostanze vaghe.

La genialità di questo testo, però, sta proprio nella capacità di catalogazione di tali ringraziamenti da parte di Carolina Cutolo e Sergio Garufi e soprattutto degli autori che li hanno firmati, dal tolemaico che «usa l’espressione della riconoscenza quasi adombrando il ringraziato-satellite e anzi ponendo decisamente se stesso (e le proprie virtù) sotto i riflettori», al più stravagante che utilizza lo spazio bianco per magnificare la propria originalità, «e pazienza se il risultato di questo sforzo di eccentricità è un groviglio macchinoso, una paccottiglia indigesta, un concentrato illeggibile di stravaganza: è lo scotto da pagare per distinguersi».

Ne viene fuori un libro che sradica dal loro habitat originale tutte le forme di debito ad amici, parenti, animali e personaggi famosi vivi e morti, mettendo in evidenza i commenti oleosi, le trovate ingegnose, le contraddizioni e le rivincite personali che rendono queste somme personalità letterarie un po’ più umane con un risultato irrimediabilmente ironico.

«Lo so, non se ne può più degli autori che alla fine dei loro libri riempiono pagine su pagine per ringraziare colui o colei che ha fatto nascere la scintilla dell’idea per il romanzo, passando dalla bibliotecaria che li ha assistiti amorevolmente al gatto che si è sistemato sulle loro gambe nelle lunghe notti insonni trascorse al computer, per finire poi, immancabilmente, con i ringraziamenti a moglie, marito, compagno, compagna senza il cui appoggio e la cui comprensione queste pagine eccetera eccetera. Ma mettetevi nei miei panni». Bruno Arpaia, L’energia del vuoto, Guanda, 2011.

(Carolina Cutolo/Sergio Garufi, Lui sa perché, ISBN Edizioni, 2014, pp. 204, euro 14)

“La morte del padre”
di Karl Ove Knausgård

Ammettiamolo, il titolo è furbesco. Di quelli che sanno che irritare è solo un altro modo per attrarre. In norvegese Min Kamp. Ma non ci vuole molto a spolverare un cugino tedesco d’inquieta assonanza. Per non parlare del piombo che gronda dall’autore. Se non altro per chiunque il confronto è salvifico. Competitivo uscirne lesionati o rastrellare più disprezzo.

E Karl Ove Knausgård, per fortuna propria e di questo emisfero, non ha molto in comune con Hitler. Entrambi con il loro testo hanno mirato alla «costruzione di un’identità», peccato che il secondo sia riuscito con più determinazione a polverizzarne milioni. Ma stavolta tra gli scopi non campeggiano invasioni della Polonia o incenerimenti di categorie sgradite.

La lotta di Knausgård è ingaggiata con se stesso, con il sogno febbrile di essere scrittore. E per carpirlo mentre sgambetta in aria, era convinto servisse un progetto maestoso. Vicende ciclopiche, una trama d’incastri ben lubrificati, un archibugio d’impasti e personaggi scolpiti. Amleto, Moby Dick o I Fratelli Karamazov, tanto per intenderci.

E invece, per sua stessa confessione, non gli restavano in mano che briciole. Costellazioni di briciole. Miliardi di schegge incagliate tra le nocche. Molliche fossili, pulviscoli di fatti raggrumati sotto il palmo a comporre quello che comunemente chiameremo “vita”. Come farebbero anche Shakespeare, Melville o Dostoevskij.

In serbo per lui c’era un’altra missione. Raccontarsi. E non attraverso altre bocche, altri tempi e indumenti di altri nomi. Semplicemente traslando su carta tutto quello che ha esperito.

E di mastodontico almeno è fuoriuscito il volume. Tremilaseicento pagine per aver ragione di se stesso e rovesciare senza freni il suo vissuto. In Norvegia è un autentico fenomeno letterario.

In Italia dopo un primo tentativo con Ponte alle Grazie, Feltrinelli acquista l’intera opera di cui nel 2014 pubblica il primo libro intitolato La morte del padre. Perché è lui la pianta carnivora di questo tratto di strada. Knausgård svuota la gola della sua infanzia. Lui e suo fratello sono agghiacciati dai suoi passi; quando vortica intorno al loro perimetro, il clima si raggela più che in giardino. La colazione è quasi un rito monastico. Lui non sopporta i rumori, lui dalla stanza inonda di fumo la cucina mentre loro inghiottono pane e alici più in fretta possibile. Lui è una lastra di silenzio e solo la madre stabilizza la pressione. È ispido anche il suo respiro e Yngve decide di partire, perché sa che la distanza è il solo modo di riaversi.

Karl Ove cresce sempre in debito, dentro casa si sente piccolo e schernito e fuori non può fare altro che restituire il colpo, prostrando chiunque capiti a tiro. È tutto riversato in queste pagine, senza tagli né censure: l’adolescenza alcolica per ritagliarsi un po’ di pace, le primordiali relazioni, i traslochi, gli studi, i matrimoni, i figli e soprattutto, il decesso paterno, anche se Karl Ove, in travaglio edipico avanzato, dovrà ucciderlo ogni giorno, prima e dopo il suo ultimo afflato.

In questo primo episodio, il padre è ovunque, affolla anche le righe in cui non compare. È sempre in agguato, nel tremore confluito in arroganza, nell’incapacità di farsi commuovere da un figlio, in quel sentirsi pietra inviolata o torta di tufo. È la parabola di un uomo che ha infangato ogni cosa, trascinando in rovina la sua anziana madre, sfiancata di polvere e macchie di urina, affossando le poche occasioni di restare a galla. E per Karl Ove sbarazzarsene è quasi impossibile. Knausgård ha vomitato ogni dettaglio, dissotterrato angoli scomodi e la sua famiglia non gli è stata certo grata. Lo zio ha chiesto che il suo nome fosse rimosso, i parenti del padre hanno fucilato ogni legame ed entrambe le sue mogli non sono troppo gioiose del quadro risultante. Ma lui doveva procedere. Anche questo fa parte della lotta. Le vittime sono coriandoli disseminati sul cammino.

Enormità autobiografica unica nella sua vastità, pur potendo citare precedenti nobili e riusciti, come quelli di Gregory David Roberts nel suo intenso (e sostanzioso) Shantaram o di J.R. Moehringer ne Il bar delle grandi speranze, per non parlare del colosso in tre volumi di Elias Canetti.

Avulso dal concetto di scrematura, Knausgård riesce a scrivere: «Sorrisi. Mi venne in mente la gomma da masticare, la tolsi dalla bocca e la nascosi nella mano mentre cercavo un posto dove buttarla. Non ce n’erano. Strappai un pezzo che trovai sul tavolino, la misi lì, appallottolai il tutto e m’infilai quel minuscolo pacchettino in tasca. Yngve tamburellava con le dita sul bracciolo». Dimostrando quindi che tutto può diventare materia letteraria. E sebbene qualche intervento dimagrante avrebbe anche potuto essere apportato senza compromettere intenzione ed efficacia, l’attenzione resta incollata, resta lì, in quella piccola vita che non sa andare oltre se stessa. Ed è per questo forse che piace così tanto.

D’altronde, abbiamo più di tremila altre pagine per poterci ricredere.

(Karl Ove Knausgård, La morte del padre, trad. di Margherita Podestà Heir, Feltrinelli, 2014, pp. 512, euro 20)

“The Search” di Michel Hazanavicius

The Search, ultimo film del regista premio Oscar Michel Hazanavicius, è stato accolto con una certa freddezza a Cannes lo scorso anno. Del resto, non era semplice mantenersi all’altezza delle aspettative dopo il trionfo oltre ogni previsione di The Artist, il film sull’epoca d’oro del muto che tra il 2011 e il 2012 ha vinto ogni premio possibile. Dopo tre anni e mezzo di silenzio (a parte un episodio nel molto più che trascurabile Gli infedeli del 2012), Hazanavicius ha scelto di cambiare completamente registro per il suo nuovo film: da una commedia muta a un dramma bellico recitato in quattro lingue, da Hollywood al Caucaso, dalla grande depressione alla seconda guerra di Cecenia.

È il 1999. Il secondo conflitto ceceno è appena iniziato. Mentre Boris Eltsin indica come suo successore alla presidenza della repubblica l’allora primo ministro Vladimir Putin, l’esercito di Mosca entra in forze in Cecenia alla ricerca di terroristi, distruggendo villaggi e uccidendo contadini disarmati. Tra questi ci sono anche i genitori del piccolo Hadji, che riesce a nascondersi e a scappare portando via con sé il fratellino di pochi mesi. Carole, invece, è una funzionaria dell’Unione Europea che in mezzo alla distruzione e al conflitto deve accertare che non vengano violati i diritti umani fondamentali, ma le sue denunce non servono a niente. A quasi tremila chilometri di distanza, intanto, un giovane russo, Kolja, viene arrestato per possesso di droga. Deve scegliere che fare della sua vita: se andare in carcere o partire per il fronte. Poi c’è Raïssa, la sorella di Hadji, che parte per cercare i fratelli dopo essere stata rilasciata dai soldati.

Sin dalla sequenza iniziale di The Search è chiaro da che parte intenda stare Hazanavicius. L’esecuzione dei genitori di Hadji e Raïssa, girata direttamente da un soldato con una telecamera a mano trovata lì nel villaggio, mostra tutta la violenza dell’esercito russo. Una violenza brutale, animalesca nel suo essere distante da ogni tipo di empatia umana. I russi sono tutti cattivi: urlano, godono nel ferire, nell’uccidere e nel distruggere. I ceceni sono i loro nemici, non meritano alcuna considerazione, solo di essere umiliati e terrorizzati. Il male è incarnato solo dai russi. O meglio: non sono i russi ad essere cattivi, è il sistema militare a essere sbagliato, a creare mostri.

La storia di Kolja serve a questo: il ragazzo sceglie la leva e il fronte per evitare la prigione. Al campo di addestramento capisce in fretta che gli sarebbe convenuto andare in galera, sarebbe stato più semplice. Vessazioni, botte, torture psicologiche e fisiche; lo menano tutti, dalle altre reclute ai soldati semplici, fino agli ufficiali. L’addestramento del tenente Hartman, in confronto, è un villaggio vacanze. È un ambiente invivibile quello dell’accademia, infatti sono in molti a scegliere il suicidio e a essere spacciati per eroi. Si può sopravvivere all’addestramento solo rinunciando al proprio bagaglio di umanità. Kolja lo capisce e allora massacra di botte senza motivo un’altra recluta sotto lo sguardo divertito di due soldati. Solo in questo modo, lasciando libera la violenza contro il più debole, si può diventare soldati. I russi, i singoli russi, quindi, non sono responsabili, sono vittime, in modo diverso dai ceceni, magari, ma sempre vittime, di un sistema bellico che li vuole disumani. La rinuncia a ogni forma di umanità è l’unico modo per sopravvivere. «Sono in paradiso» dice un soldato a Kolja davanti al rogo di un palazzo ceceno. Lo pensa davvero. Nell’esaltazione della violenza i valori si ribaltano: distruggere diventa costruire, uccidere far vivere.

La dimensione umana è invece il perno su cui si è costruita la società cecena e su cui continua a basarsi anche davanti ai carri armati russi. Tutti sono pronti ad aiutare tutti, i figli sono responsabilità comune ed è nel momento del bisogno che l’idea di comunità prevale sull’individualismo. Hadji e Raïssa lo sanno da sempre, fa parte della loro cultura.

In questo conflitto tra umano e disumano si pongono le organizzazioni internazionali. L’Unione Europea manda un funzionario come Carole a cercare la verità sui diritti umani, poi però ne ignora i rapporti, anche quando lei li presenta direttamente in aula a Bruxelles. «Non è una campagna contro il terrorismo, è una guerra d’invasione» dice a un’aula semi-deserta e indifferente. Carole capisce tante cose in quel momento, le cose che Helen, che lavora da tanti anni per la Croce Rossa, già sapeva e già le aveva provato a spiegare. La denuncia, nient’affatto velata, è rivolta all’indifferenza generale delle istituzioni e dei media internazionali di fronte all’atteggiamento russo in Caucaso, al silenzio che ha accompagnato (e continua ad accompagnare) le manovre politiche e militari di Mosca.

The Search ha dei pregi che non si possono discutere. Nella recitazione, ad esempio, con Bérénice Bejo e Annette Bening (Carole e Hanna), unici volti noti al pubblico occidentale, che ce la mettono tutta a livello di trasporto emotivo, e il piccolo Abdul-Khalim Mamatsuiev (Hadji) che con il suo incedere catatonico fa capire tanto dei traumi della guerra; nell’immedesimazione con cui Hazanavicius riesce ad accompagnare i suoi personaggi (il piano sequenza dell’esordio di Kolja in guerra, tutto in soggettiva); nel contributo tecnico generale.

A emergere, però, sono soprattutto i difetti e a farsi notare, soprattutto, è la lunghezza eccessiva. Due ore e mezzo sono troppe, anche perché molti passaggi potevano essere sintetizzati o rimossi, addirittura. La sceneggiatura non è adatta a una simile durata, rallenta troppo, poi accelera, poi si perde, poi torna. A risentirne è la tenuta emotiva generale, la tensione drammatica che si disperde nella frammentazione delle trame. In questa lungaggine narrativa ogni ricerca di coinvolgimento emotivo dello spettatore assume l’aspetto del colpo a effetto, del tentativo di strappare una lacrima di commozione o di partecipazione.

Diciamo che Hazanavicius, galvanizzato dal successo colossale di The Artist, ha provato di dimostrare a tutti, anche a se stesso, di essere un autore come si deve e non solo il regista delle parodie di 007 che lo hanno reso famoso in Francia (i film di OSS 117, con Jean Dujardin). È partito da Odissea tragica, film di Fred Zinnemann del 1948 in cui una madre cerca il figlio sopravvissuto ad Auschwitz e accudito dal soldato statunitense Montgomery Clift, e ha provato ad attualizzarlo parlando di un conflitto troppo spesso ignorato dall’attenzione occidentale. Ha scelto la finzione ma non ha rinunciato a elementi documentaristici (le testimonianze che raccoglie Carole) per cercare la sensazione nello spettatore.

In generale, The Search sostiene tre tesi fondamentali: l’inutilità della guerra che allontana gli uomini dalla loro empatia; l’importanza della solidarietà; l’incapacità delle organizzazioni internazionali. Prova a non prendere una posizione netta, a condannare il conflitto in sé e non i suoi interpreti, ma non ci riesce. Tutto risulta abbastanza chiaro nella prima mezz’ora, il resto è solo inerzia.

(The Search, di Michel Hazanavicius, 2014, drammatico, 148’)

“Dovunque, eternamente”
di Simona Rondolini

Penso che un romanzo sia ben riuscito quando la trama, pur essenziale, diventa un pretesto per trasmettere a chi legge un senso di diffuso malessere.

Dovunque, eternamente (Elliot, 2014) dell’esordiente Simona Rondolini, finalista al Premio Calvino 2013 con menzione speciale della Giuria, è un vulnus profondo e purulento. Pizzica. Ogni tentativo di alleviarne il fastidio è un gesto vano e dannoso. Ogni volta la ferita si riapre. E brucia di più. Rimangono segni, i graffi che arrossano la pelle delicata. Una ferita difficile da rimarginare.

Laura Paliani è la figlia di un famoso e talentuoso direttore d’orchestra, Luigi Paliani, e del «più carismatico astro nascente della lirica italiana», Olga Banti.

Cresce immersa nella musica senza però rivelare alcuna propensione né ambizione. Anche l’avesse, la sua personalità finirebbe, ma di fatto ne viene, stritolata dalle figure eccezionali dei suoi genitori, troppo presi dal proprio genio artistico per pretendere qualcosa dalla figlia o anche solo accorgersi del suo mendicare amore e attenzione sottoponendosi a un rigido programma di studio per essere la prima della classe: «Si impegnava nello studio fino allo sfinimento con un esasperato senso del dovere che le provocava un’ansia costante. La sua carriera scolastica fino a quel momento era stata un susseguirsi delle tappe di un calvario: ne superava una solo per affrontare la successiva, quasi senza soluzione di continuità. Nessuno le aveva mai fatto pressione ma l’esempio di eccellenza incarnato da suo padre e la disciplina ferrea di sua madre non erano passati inosservati. Lo studio assorbiva tutto il suo tempo. Le poche amiche con le quali aveva affinità di solito condividevano questo modo di affrontare gli impegni scolastici, di conseguenza le vedeva pochissimo al di fuori della scuola media, del liceo, dell’università».

Poche relazioni con il mondo esterno e un mondo interiore complesso e tirannico sono una miscela esplosiva destinata a deflagrare alla prima scintilla.

Questa prima scintilla avrà in realtà le proporzioni di un incendio che farà crollare la già fragile serenità familiare: la malattia del padre.

Dapprima manifestatasi in momenti, fra un’esibizione e l’altra, di afasia sempre più lunghi e frequenti, accompagnati da emicranie insopportabili inizialmente attribuite all’eccessivo sforzo fisico e mentale che richiedevano i concerti del ciclo mahleriano, la depressione di Luigi Paliani si fa eclatante e irreversibile fino al suicidio.

Proprio la musica paradossalmente verrà in soccorso della giovane Laura: «Tuttavia, annaspando nella polvere smossa dei crolli, Laura aveva trovato la musica. Dei fiori erano nati in quel deserto, e da radici fradice erano cresciute piante rigogliose e sane. A pensarci, la coglieva uno stupore che non sapeva dire: mai l’avrebbe immaginato che la più grande felicità e il più grande dolore potessero essere tanto stratificati l’uno nell’altra. E a un tratto le parve inevitabile che il meglio e il peggio della vita se ne andassero sempre così, a braccetto, come due innamorati che non si vogliono staccare».

Laura sembra intontita, è alla ricerca di una scossa. I dissapori con la madre la spingono a una fuga neppure troppo convinta. Sembra sempre evitare di scegliere il bene per la sua vita e ogni cosa sembra pioverle addosso, mai razionalmente orientata.

Si troverà sola in una città anonima a sfinirsi in un’azienda in cui si mandano all’ingrasso i conigli e poi si ammazzano per farne confezioni di carne prelibate. È un’esperienza brutale. Ma è ciò che cerca in cuor suo. Vorrebbe eviscerare, come fa con le interiora di quelle povere bestiole, dalla sua vita e memoria tutti i brutti ricordi, le parole non dette, l’amore mai dimostrato.

Non pensa mai che la sua esistenza possa cambiare, possa migliorare addirittura: «Io non lo voglio il futuro. Voglio solo che il presente continui così senza peggiorare».

Ha paura di tutto e soprattutto di rischiare. In questo un po’ somiglia alla figlia “diversa”  della collega Cecilia: «Laura un giorno aveva pensato che lei e Maria non erano tanto diverse. Anche lei avrebbe preferito non cominciare mai a mangiarle, le gelatine, perché una volta che qualcosa comincia poi è inevitabile che finisca, e allora fa molto male».

In questo periodo di necessaria metamorfosi, la musica sarà messa alle porte ma rientrerà nella vita di Laura con la stessa naturalezza con cui era stata estromessa perché la musica è parte del suo mondo interiore, è la sua linfa, l’unico strumento in grado di far vibrare le corde della sua monotonale esistenza. E sarà inevitabile il ritorno a casa.

Dovunque, eternamente è un romanzo cupo e perturbante perché riguarda il senso ultimo del vivere e in cui l’unica possibilità di felicità è quella effimera ma potente della musica, vissuta come una forma di religione che non prevede però alcun dio, una religione portata all’estremo. I protagonisti si spingeranno superbamente ad altezze tali che lo schianto sarà fragoroso.

È un romanzo raffinato e colto. Le descrizioni delle sinfonie di Mahler della prima parte, delle diverse interpretazioni dei vari direttori d’orchestra, dei mondi che le note sono in grado di dipingere davanti allo sguardo trasognato di Laura o in estasi mistica del padre, sono splendide e coinvolgenti.

La scrittrice adotta il punto di vista della protagonista mettendone a nudo la paralisi affettiva: l’amore è impossibile o violento.

La cultura diventa un qualcosa di pericoloso. La collega di fabbrica ha paura dei libri perché i libri illudono, suggeriscono alternative e felicità irrealizzabili nella vita vera.

Dopo aver letto Dovunque, eternamente anche io mi sono convinta che i libri sono pericolosi perché feriscono e quando finiscono, come tutte le cose belle, fanno tanto male.

(Simona Rondolini, Dovunque, eternamente, Elliot, 2014, pp. 320, euro 17,50)

“Vizio di forma” di Paul Thomas Anderson

Totalmente ignorato agli ultimi premi Oscar, a cui era arrivato con due nomination per i migliori costumi e la migliore sceneggiatura non originale, Vizio di forma è il settimo film di Paul Thomas Anderson, il più ambizioso almeno nella premessa letteraria di confrontarsi con uno dei più importanti scrittori statunitensi di oggi, Thomas Pynchon, e uno dei suoi più recenti romanzi.

Siamo nel 1970, alla fine del decennio della controcultura, del pacifismo e dei freak. I miti sono morti assieme ai sogni: un Kennedy, poi un altro, Martin Luther King, Malcom X. C’è Nixon al potere, Ronald Reagan governa la California, e tutti i sogni di libertà che erano ritenuti possibili sono stati spazzati via da Charles Manson e dalla sua setta. Larry “Doc” Sportello è un detective privato che vive sulle spiagge di Gordita Beach, periferia di Los Angeles. Non è ancora pronto al cambio di decennio. La sua vita è ancora droghe e piedi nudi, approssimazione ed eccessi. Un amore – il grande amore di un tempo – bussa una notte alla sua porta come aveva fatto tante altre volte in passato. Non torna da lui, non è lì per quello, ha solo bisogno dei suoi servizi come investigatore. Il suo amante, Mickey Wolfmann, un magnate dell’immobiliare molto più grande di lei, sembra essere in pericolo per colpa della moglie che vuole internarlo e prendersi il capitale. Mentre cerca di capire cosa stia succedendo a Wolfmann, Doc finisce accusato di omicidio dall’agente di polizia “Bigfoot” Bjornsen, suo eterno nemico/amico che lo ha trovato privo di sensi accanto a un cadavere. Non basta: dovrà cercare anche un sassofonista scomparso e capire cosa si nasconda dietro al nome “Golden Fang”.

Paul Thomas Anderson è uno specialista nel raccontare i momenti di svolta della storia partendo da vite dall’apparenza marginale. Ha iniziato con Dirk Diggler e l’epoca d’oro della pornografia statunitense con Boogie Nights, celebrazione triste del tramonto della cinematografia erotica e dell’irruzione della fruizione personale portata dalle videocassette.

Era solo un abbozzo di un discorso generale che voleva raccontare gli Stati Uniti attraverso gli anni chiave dei suoi cambiamenti. Anderson ha ripreso e approfondito il discorso, elevandolo a percorso di crescita, a partire dal 2007 e da Il petroliere. Di fatto, la storia di Daniel Plainview è il racconto dell’infanzia di una nazione (gli Stati Uniti, ovviamente) dall’inizio del XX secolo alla prima grande crisi che ne sconvolse gli equilibri – quella del ’29 –, passando per la fine della corsa all’oro (anche se è argento) e l’esplosione del petrolio, la fine della dottrina Monroe e la prima guerra mondiale.

Dopo l’infanzia c’è stata la prima adolescenza, quella di Freddie Quell di The Master, reduce dal secondo conflitto globale e perso senza un’identità in una società in cui non sa reintegrarsi e in cui vaga come un ragazzino alla ricerca di una guida, pronto a cedere alle promesse più sbagliate, come la setta di Dodd.

In questo possibile percorso di crescita, Vizio di forma continua da dove era arrivato The Master, da un paese quindi che si è sviluppato in un’adolescenza sconfitta, che ha tentato a ribellarsi a quella società che continua a sentire distante e che adesso si avvia all’età adulta. Doc Sportello è il protagonista di un mondo che ha perso in cui gli ex fricchettoni che volevano cambiare tutto passano le loro serate con motociclisti nazisti, lavorano come infiltrati e si concedono come amanti a dentisti eccessivi o a immobiliaristi corrotti.

C’è un legame tra Vizio di forma e la versione cinematografica di Il lungo addio di Raymond Chandler firmata Robert Altman, un legame formato da una serie di piccoli e solidi nodi che collegano anche Pynchon a Chandler come modello di noir. Paul Thomas Anderson non ha mai negato il debito che il suo cinema ha nei confronti di Altman, tanto che nel 2006 Anderson era lì pronto ad assistere il maestro durante le riprese del suo ultimo film, Radio America, a sostituirsi a lui se fosse stato necessario.

Il Marlowe di Altman distruggeva da solo un’epoca di cultura cinematografica rinascendo – metaforicamente – in un nuovo presente con cui non aveva niente in comune. Sportello non si è ancora rassegnato al cambiamento dei tempi e rimane lì in bilico sull’inizio del decennio, senza staccarsi dai Sessanta per non precipitare nel vortice dei Settanta sempre più giù fino al baratro dell’edonismo reaganiano che segnerà gli anni successivi. Sono due personaggi fuori tempo massimo, Marlowe e Sportello, che osservano con la lontananza della non appartenenza il cambiamento del mondo intorno a loro. Certo, Sportello non sembra affatto rendersene conto, perso com’è appresso alle droghe. Ma con Marlowe non ha in comune solo i fiammiferi accesi e buttati ovunque. C’è lo sguardo malinconico e ironico, la solitudine e l’incapacità di essere.

In fondo, quello di Anderson è sempre stato un cinema di personaggi perdenti e isolati e la sua regia lo ha sempre sottolineato in campi lunghi di devastante solitudine, come si vede in questo video collage del filmaker Jacob T. Swinney.

A differenza di Quell, o Diggler, o del catalogo umano di Magnolia, Doc Sportello non viene lasciato al centro di campi infiniti, il registro è differente, non ci sono mai veri e propri grandi spazi in cui annegare i personaggi, ma Doc è altrettanto solo. Shasta, l’amore di un tempo, non c’è più, e lui non riesce a staccarsene. Anderson lo fa capire subito con il piano sequenza di più di due minuti in cui Sportello la riaccompagna alla macchina, all’inizio del film: una passeggiata senza stacchi per non rassegnarsi a una nuova separazione, con quella mano che indugia sulla coda dell’auto come a cercare di trattenerla. Ci sarebbe Bigfoot, che forse è il suo unico amico e che come lui è solo nel dolore della perdita del suo compagno di squadra, ma non riescono a dirselo, ad avvicinarsi, simboli di due mondi distanti, di due ideologie – alternativa e sgangherata Sportello, rigorosa ai limiti del fascismo Bjornsen – che non possono incontrarsi mai. L’unico conforto che ha è Sortilège, presenza a cui spetta anche il compito di voce narrante, che non è dato capire se sia reale o il prodotto di una perenne allucinazione.

Sportello è l’incontro impossibile tra il Marlowe altmaniano e Il grande Lebowski dei Cohen (con un po’ di Neil Young), con la sua sciatteria, il suo abbigliamento improbabile e quella perenne pigrizia stonata. Si possono usare parole come “antieroe” e ci stanno tutte, anche perché Sportello non solo non è un eroe, ma non viene mai mostrato come tale. Perché in questa galassia di solitudine che è la Los Angeles post hippie non c’è bisogno di serietà.

Anderson ha spinto ancora più in là l’umorismo del Marlowe di Altman contaminandolo con i primi maestri del demenziale, Zucker-Abrahams-Zucker, e i padri della comicità da fumatori di erba, il duo comico Cheech e Chong. Vizio di forma si spinge oltre i confini del genere noir e della commedia, ha momenti quasi slapstick, una bromance potenziale fatta di banane al cioccolato, e quella deformazione perenne della percezione data dall’uso costante delle droghe. Non è solo Sportello a essere allucinato, è tutto il film a risentirne. L’evoluzione dell’indagine e della trama, del resto, potrebbe risultare come un unico costante trip. I personaggi appaiono e scompaiono accanto a Sportello, la sua ricerca va avanti con biglietti, incontri, telefonate dall’apparenza casuale ma tutte collegate tra di loro. C’è poca chiarezza, ma è chiaro che non è quello l’obiettivo di Anderson. Se vale il discorso del paragone biologico, Vizio di forma è il simbolo del momento di confusione tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta. Non è dato capire tutto.

Ci sarebbe da parlare ancora, del livello altissimo della regia, della fotografia di Robert Elswit e della sapienza tecnica nell’alterazione dei colori, di Joaquin Phoenix che è oltre i confini della bravura, di Josh Brolin splendido Bigfoot, della colonna sonora di Jonny Greenwood che quasi impercettibile crea una tensione costante, delle canzoni di Neil Young, di quel momento splendido in cui Shasta ricompare e seduce Sportello sul divano, delle cravatte e della droga, di Eric Roberts e Benicio Del Toro, di Paura e delirio a Las Vegas e di M.A.S.H., ma non è necessario. Basta Vizio di forma, vederlo una volta, magari due.

(Vizio di forma, di Paul Thomas Anderson, 2014, commedia, 148’)

“Protestantesima” di Umberto Maria Giardini

A due anni e mezzo da La dieta dell’imperatrice (2012) e a due dall’EP Ognuno di noi è un po’ Anticristo (2013), ecco il secondo, ruvido, album firmato Umberto Maria Giardini.

Rispetto al lavoro precedente è cambiata la band di accompagnamento, fatta eccezione per il sempre fedelissimo Marco Marzo “Maracas” alle chitarre elettriche; ci sono Giulio Martinelli alla batteria e Michele Zanni al basso e tastiere (rhodes e moog).

Il disco è stato registrato allo studio Sotto il mare di Verona da Antonio “Cooper” Cupertino, e la sua sapiente mano si ritrova nella scelta dei suoni, molto attenti e calibrati.

Protestantesima prosegue il graduale percorso di allontanamento da Moltheni, quella “eutanasia artistica” come lui stesso l’ha definita, iniziato a dire il vero già con I segreti del corallo (2009), ultimo album prima della scelta di legarsi musicalmente al proprio nome di battesimo; o sarebbe meglio dire, prosegue con il graduale processo di evoluzione musicale e artistica che lo ha sempre contraddistinto, catalogandolo quindi come “lontano” dal primo Moltheni, ma vicino all’ultimo.

Questo secondo album quindi troverà d’accordo chi ha sempre apprezzato la cifra stilistica di Moltheni, e non farà gridare al miracolo chi ha sempre trovato eccessivamente pesanti o stucchevoli i testi e la prosa del cantautore marchigiano.

Giardini infatti anche in quest’ultima sua fatica pone molta attenzione alla metrica e alle assonanze, in favore di quei suoi accostamenti di parole affascinanti, a volte privi di senso, ma decisamente intriganti; come i suoi ossimori, i suoi fortuiti cambi di ambientazione e le sue ruvide, quanto efficaci, liriche. A tratti nei testi troviamo quella sua crudezza, quella ricercata asprezza mirata proprio a sottolineare un concetto, una figura, o anche solo ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore («ma che faccio più male di un palo infuocato nel culo» o ancora «torno quando andrà di moda il porno a scuola»); spesso è una scelta vincente, a volte un po’ meno e raramente risulta in una prosa troppo complessa e inutilmente brutale.

Rispetto ai lavori precedenti, invece, cambiano gli argomenti da lui cantati; o meglio, se negli album passati a farla da padrone erano le tematiche sentimentali e i loro contrasti, in questo nuovo album c’è una maggiore attenzione alla società e alla realtà che lo circonda, e meno centralità al proprio stato d’animo.

Musicalmente Protestantesima spazia da brani rock a ballate elettriche, esibendo sonorità alla Johnny Marr e liriche alla Morrisey, ora in stile Radiohead, ora un po’ Manuel Agnelli, passando anche per brani più intimi, sposando spesso con successo melodia e testi. Nonostante l’uso della sua Telecaster e delle chitarre elettriche di Maracas sia ancora predominante, c’è una maggiore varietà di accompagnamenti che lascia ampio spazio a tastiere, pianoforte e archi; la chitarra acustica, molto presente nei precedenti lavori, viene messa da parte e compare solo in alcuni brani. Il tutto in favore di un suono più omogeneo, rotondo, ricco di pause e ripartenze, e di qualche cambio di registro.

La prima traccia, nonché title-track, apre con un bel mix di chitarre acute, batteria quasi tribale, su uno sfondo di tastiere e archi, esercizio perfetto di quella omogeneità e rotondità di suono di cui sopra; un pezzo rock d’autore: «Ridere non mi fa affatto bene, a chi conviene, a chi invece no».

Ancora percussioni tribali accompagnano il secondo brano, “C’è chi ottiene e chi pretende”, in cui Giardini canta malinconicamente un amore andato male, su un letto di tastiere e arpeggi di chitarra elettrica, in uno dei testi meglio riusciti dell’album: «perché è come pretendere, come pretendere, non mi davi la ragione che era mia».

Sulla stessa linea tematica e di accompagnamento troviamo “Molteplici riflessi”, mentre nella bellissima “Il vaso di Pandora” Giardini canta della scena musicale, e non solo, milanese; la Milano da bere, la Milano della cocaina, dei vizi, dell’apparire, del denaro. Il tutto su sonorità che partono dagli Smiths, per poi finire in un crescendo strumentale e vocale di tutto rispetto, strizzando anche l’occhio a Manuel Agnelli.

Nella gentile, quanto tenue, “Seconda madre” Giardini canta una malinconica poesia, con un vestito in continuo divenire di chitarre acustiche ed elettriche, percussioni essenziali, chitarra slide e piano; forse il brano migliore dell’album, certamente uno dei migliori della sua carriera. «e allora puniscimi seconda madre, chi guarda tanto per chi in fondo non vede, mangiami il cuore se vuoi poi vomitalo, in fondo sì siamo noi puttane in internet».

La sesta traccia, “Amare male”, con le sue sonorità decisamente Radiohead precede le meno efficaci e forse troppe statiche “Sibilla” e “Urania”.

L’ultimo brano, “Pregando gli alberi in un ottobre da non dimenticare”, è una ballata elettrica che parla della condizione dell’uomo moderno («che cerca virtù») e della sua triste condanna all’insoddisfazione.
C’è anche una decima traccia, una ghost-track, l’acustica e delicata “6 aprile”, che parla del terremoto all’Aquila, mentre un theremin sullo sfondo “tocca” note dolcissime.

Il risultato finale di questo secondo album post “eutanasia artistica” è ottimo e conferma ancora una volta Giardini come uno dei pochi, grandi, cantautori italiani in circolazione. Valide melodie sostenute da una buona varietà di suono fanno da cornice, esaltandole, alle belle liriche di Giardini; liriche di rado non efficaci e solo raramente “complesse”, segno di un ulteriore passo avanti nella maturità artistica del cantautore bolognese d’adozione.

“Millimetri”
di Milo De Angelis

Millimetri, di Milo DeAngelis, è stato ripubblicato nel 2013 da ilSaggiatore fra le Silerchie, collana storica (ne avevamo parlato con Serena Casini in un’intervista) rilanciata ultimamente che annovera opere e personaggi poco avvicinabili (Vinicio Capossela, Vittorio Sereni, Pussy Riot), ma d’altra parte è evidente che la ratio sia un’altra che non la coerenza. Alcune poesie di questa breve raccolta, appena una cinquantina di pagine, anche se alcuni “scartafacci” fotocopiati ne aumentano un po’ il numero, sono apparse con varianti in Poesia degli anni settanta (Feltrinelli, 1979), ma la raccolta in volume risale al 1983, trent’anni fa. Si tratta dunque di un campione poetico del periodo fra la fine dei Settanta e i primi Ottanta.

Quello che succede con Millimetri, a detta di Giuseppe Genna e Aldo Nove, firmatari della postfazione, è l’apertura di un mondo nuovo, perché deliberatamente, per tecnica, ogni tipo di comprensione logica è del tutto esiliata da questi versi.

Ci sono alcune caratteristiche che attirano l’attenzione sul disegno generale, per esempio il fatto che i titoli delle poesie, generalmente di media lunghezza, ricalcano il primo verso. Già da questo gioco metatestuale comprendiamo come Millimetri sia un libro che vuole costruirsi tale, in un gioco estremamente malizioso. La necessità probabilmente era quella di confrontarsi con un’attualità che si era portata alle estreme conseguenze dell’esaurimento del Novecento, nella fine del senso ultimo che anche il nulla aveva offerto. Caproni (di cui abbiamo parlato qui) dunque, ma soprattutto Sereni (che abbiamo presentato qui), il quale si può considerare, anche per ragioni geografiche, il maestro di De Angelis, e la cui voce, soprattutto quella di Stella variabile ma anche della precedente Gli strumenti umani ancora si sente fra queste pagine, insieme a una profondissima eco montaliana, nel solco del quale si innesta la tradizione più forte a lui successiva.

Vengono così a inanellarsi una serie di immagini oltre il surrealismo, non oniriche, prive di allusività, in cui si innesta un ragionamento sul suono della parola non come suono, ma come senso. Malizia e paradosso sono movimenti importanti in questa che non è una raccolta priva di sostanza. La sostanza tuttavia va cercata fra i vari inganni che De Angelis, in maniera casuale, sparge fra i versi, dando l’impressione di andare a capo “a caso”, e seguendo invece una metrica tutto sommato riconoscibile, chiusa, in cui si ritrova un brusio di fondo che a quest’altezza è ormai un suono codificato.

Questo rende Millimetri un libro più conservatore di quanto non farebbe pensare la sua apparenza avanguardistica. Si tratta in realtà di un libro non-avanguardistico, anti-avanguardistico, quasi reazionario. De Angelis gioca con la reazione raggiungendo picchi alti, creando versi come: «qui, dove muore il coro, un’imboscata / fende l’uovo in parti sonnambule, / piccole tombe con gli equilibristi / che cadono nella piantagione».

Arriva così a mettere un piede oltre la rottura del senso non solo logico ma anche grammaticale, rompe il muro del significato e torna subito indietro, facendo finta che l’irreparabile non sia accaduto, mascherando un’operazione apocrifa dentro un’altra operazione “accettabilmente apocrifa”. Questo è uno dei pregi maggiori del libro, che fanno esclamare al giovane Aldo Nove: «La poesia è una cosa pazzesca!», coinvolgendo una piccolissima parte dei suoi compagni di viaggio sul bus verso scuola.

La tesi che si intuisce nella logica della riproposizione è quella di un aggiornamento di valore che possa attribuire un senso storico a Millimetri, la seconda raccolta dell’autore.

Sicuramente questo è un libro consigliabile a chi legge poesia, perché se non altro può essere considerato un campione abbastanza fedele dell’ultima tradizione italiana, e ha un valore documentario che non gli si può negare. Ma sul valore artistico assoluto c’è forse da discutere. Non si può prescindere, per esempio, dal fatto che De Angelis deliberatamente faccia un canto in minore, con l’attribuirgli oggi un supposto ruolo di guida. Sono versi, dunque, che non bisogna fare l’errore di sopravvalutare, ma che evidentemente vanno conosciuti. Uno dei rischi collaterali di Millimetri, infatti, è quello di far allontanare il “lettore comune”. È questa una poesia respingente che alimenta volutamente tutti i luoghi comuni che circolano su di sé.

Nella prefazione di Millimetri vengono dette due cose vagamente comiche, la prima è che De Angelis sia una delle voci più importanti della poesia contemporanea «dopo la scomparsa di Fortini e Zanzotto»(!), e l’altra, con un fondo di verità, è che ci troviamo in presenza di un capolavoro sfiorato, un’occasione mancata, che per non essere oggi doppiamente mancata deve essere ben indirizzata. E forse l’indirizzo più opportuno è quello di consigliare queste cinquanta pagine a chi ha la pazienza di leggerne duecento, e forse anche di rileggerle.

(Milo De Angelis, Millimetri, ilSaggiatore, 2013, pp. 78, euro 12)

effe: AAA Autrici Cercansi

Se raccogliessimo le storie e le intuizioni delle donne che scrivono oggi e in Italia, che cosa leggeremmo?

Per dare una risposta a questa domanda, la redazione di Flanerí, in collaborazione con lo Studio editoriale 42Linee, lancia il contest AAA Autrici Cercansi: da mercoledì 25 febbraio a lunedì 23 marzo le autrici, emergenti e non, che vogliano partecipare alla selezione per il prossimo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, hanno un mese di tempo per inviare il proprio racconto (rigorosamente inedito e di lunghezza compresa tra le 8.000 e le 40.000 battute) ad altranarrativa@flaneri.com.
La partecipazione è gratuita e non ci sono limiti di età.

Dopo un’attenta lettura, i testi più meritevoli saranno sottoposti agli editor di 42Linee e pubblicati sul prossimo numero di effe e su Altre Narratività, la sezione di Flanerí dedicata ai racconti brevi.

Per chi ancora non lo conoscesse, effe – Periodico di Altre Narratività è un progetto indipendente che dal 2013 coniuga le narrazioni inedite con la creatività di giovani illustratori, con l’intento di creare una «zona franca» in cui autori meno noti siano sostenuti da scrittori già affermati.

Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Gianni Agostinelli (Del Vecchio), Elisa Casseri (Elliot), Riccardo Gazzaniga (Einaudi Stile Libero), Marco Lazzarotto (Indiana), Enrico Macioci (Mondadori), Riccardo Romagnoli (Transeuropa), Francesco Vannutelli (La Gru).

Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.

Per ulteriori informazioni:
redazione@flaneri.com
redazione@42linee.it

 

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“Variazioni in rosso”
di Rodolfo Walsh

Leggere Rodolfo Walsh è qualcosa che va al di là del libro. Un’esperienza allo stesso tempo piacevole e dolorosa. Perché non si può separare la vita dell’uomo dalla sua prosa. Fu scrittore, giornalista e militante politico; inaugurò il genere della non-fiction nove anni prima di Truman Capote, con Operazione massacro, nel quale rese di pubblico dominio un massacro di civili innocenti da parte della prima giunta militare golpista antiperonista; decifrò il dispaccio segreto della CIA nel quale si annunciava lo sbarco a Cuba nella Baia dei Porci; denunciò l’orrore dei desaparecidos e della dittatura di Videla con la Lettera aperta di uno scrittore alla Giunta Militare, morì da guerrigliero, con le armi in mano, in un conflitto a fuoco.

Tuttavia, scindere la vita dell’eroe dalla sua scrittura è un atto dovuto, che il lettore dovrebbe fare, verso quello che fu uno dei maggiori scrittori argentini, e verso se stesso, per godere a pieno di Variazioni in rosso (SUR 2015), opera prima di Walsh. Passare delle ore insieme a Daniel Hernández e il commissario Jiménez è operazione quanto mai piacevole. Sono loro i protagonisti de “L’avventura delle bozze”, “Variazioni in rosso” e “Assassinio a distanza”, i tre racconti, che insieme all’avvertenza iniziale nella quale l’autore invita il lettore a scoprire in un punto preciso della narrazione la soluzione del delitto, avendo la trama già fornito tutte le chiavi e gli elementi per concludere l’indagine, compongono il libro.

Hernández, correttore di bozze proprio come il suo creatore, oltre che investigatore per caso e per arguzia, e il commissario Jimenéz si ritrovano coinvolti in una serie d’indagini che tengono il lettore col fiato sospeso e lo intrigano fino alla risoluzione: la morte di uno scrittore nella prima storia, quella di un’altolocata donna chiusa a chiave da fuori, in una stanza, con il suo presunto carnefice nella seconda, e quella di un ricco e promettente giovane, che appare a tutti gli effetti come un suicidio, nell’ultima. Un giallo architettato alla perfezione, in cui gli indizi si dipanano accuratamente, in un turbine dato dai differenti punti di vista dei personaggi.

Walsh – come scrive nell’introduzione Massimo Carlotto – «gioca con le convenzioni del genere attenendosi alla tradizione argentina che punta spesso a rinnovare modelli holmesianie» e compone in tutti i racconti un iter dimostrativo, con debiti allegati di piantine e reperti, frutto di intelligenza, logica e deduzione che porta, infine, a scoprire il colpevole. Disegna, inoltre, un personaggio indimenticabile: quello del correttore di bozze-detective colto e appartato, solitario e nostalgico, dagli occhi azzurri e le spesse lenti, che non si lascia ingannare dall’evidenza degli indizi ma cerca sempre una verità nascosta.

Ellery Queen, Patrick Quentin e, soprattutto, Cornell Woolrich: questi furono i punti di riferimento di Rodolfo Walsh, per il suo esordio in stile giallo. Tre scrittori legati al poliziesco classico inglese e americano, da lui tradotti per Hachette, casa editrice dov’era entrato giovanissimo come correttore di bozze. Un libro gradevolissimo che scorre via velocemente grazie a una prosa precisa, diretta e di spessore. Consigliatissimo per entrare nel mondo letterario di Rodolfo Walsh.

(Rodolfo Walsh, Variazioni in rosso, trad. di Eleonora Mogavero, SUR, 2015, pp. 240, euro 15)

“Kingsman – Secret Service” di Matthew Vaughn

C’è un gruppo di agenti segreti di cui nessuno conosce l’esistenza. Sono nati negli anni Venti, indossano abiti di estrema eleganza e usano i più avanzati gadget tecnologici. Si chiamano con dei nomi in codice che sono Artù, Lancillotto, Merlino, Galahad e si riuniscono intorno a una tavola che non è rotonda, ma rettangolare, e si trova negli uffici di un’esclusiva sartoria di Londra. Prima dello scoppio della prima guerra mondiale erano i sarti che vestivano gli uomini più importanti del Regno Unito e del mondo. Dopo la guerra molti di quegli uomini sono morti e i sarti sono rimasti con un capitale immenso di denaro e conoscenze da poter sfruttare. È stato in quel momento che è venuta la decisione di fondare i Kingsmen, la società di agenti segreti che combatte il crimine a colpi di ombrello in giacche di tweed. Nella Londra d’oggi, Eggsy è un ragazzo problematico che galleggia tra la miseria e le delinquenza nella periferia di Londra. Ignora che suo padre, un tempo, fosse stato Lancillotto, e che è morto in servizio. Quando anche il nuovo Lancillotto muore in missione, Galahad, che era stato amico di suo padre, lo va a cercare per farlo diventare un Kingsman e combattere insieme contro un miliardario con un folle piano per bloccare il sovrappopolamento del pianeta.

Matthew Vaughn, ormai, è uno specialista di cinecomic. È passato dall’indipendente Kick-Ass al blockbuster X-Men L’inizio, e in tutti e due i casi, e in modo diverso, ha fatto più che bene. Ora ci riprova in stile britannico adattando il fumetto The Secret Service di Mark Millar e Dave Gibbons.

C’è molta ironia in Kingsman – Secret Service, tutta quella che basta per nascondere i limiti di originalità. Del resto, non è altro che una parodia dei film di spionaggio classici (James Bond su tutti) e moderni (vengono citati Jason Bourne e Jack Bauer, tutti JB, come il cane di Eggsy), e di parodie dei film di spionaggio non è che se ne siano fatte poche nella storia.

Quello, però, in cui Vaughn è bravo è nel giocare correttamente con l’ironia evidenziando nello stile e nei dialoghi come tutto quello che mostra sia mirato a dissacrare il repertorio classico. C’è un supervillain, Valentine, che non ha niente di spaventoso o titanico: veste male, è ignorante, tendenzialmente stupido, poco raffinato, non sopporta la vista del sangue e ha perfino la zeppola. il suo piano criminale non nasce da un desiderio di arricchimento o di potere come ogni  boss che si rispetti, ma da un malinteso spirito umanitario e ambientalista: del resto, se l’umanità rischia di estinguersi perché sul pianeta ci sono troppi abitanti e i consumi sono troppo alti e quindi c’è l’effetto serra e il riscaldamento globale eccetera, è lecito, anzi, doveroso realizzare un piano per eliminare un po’ di gente.

Eggsy, dall’altra parte, si inserisce nel mondo ingessato dei Kingsmen, tutto grandi college e nobili famiglie, con la sfrontatezza classica del ragazzo di strada. Dal rapporto con Galahad si sviluppa la trama parallela di Kingsman – Secret Service della formazione del ragazzo da ribelle a impeccabile agente segreto. Galahad rifiuta già di suo le convenzioni e gli obblighi che si vorrebbero come necessari per essere un Kingsman, lo snobismo e la «mente debole aristocratica» che impediscono ad Artù di comprendere del tutto come va il mondo. In Eggsy trova l’allievo ideale, la materia grezza con cui formare un nuovo tipo di gentleman, come in Una poltrona per due, o Nikita, o Pretty Woman, o My Fair Lady (da un dialogo tra Eggsy e Galahad).

Tra le righe, Vaughn porta avanti il suo lavoro ironico di distruzione dell’iconografia del cinema che aveva iniziato con Kick-Ass spostandosi dai supereroi alle spie. In realtà, tra i due momenti del suo cinema si può trovare più di una linea di continuità, perché la formazione dei giovani Kingsmen può ricordare l’addestramento dei giovani X-Men – persino la scuola è molto simile – e perché, tutto sommato, l’abito del gentleman non è altro che il suo costume da supereroe in The Secret Service. La volontà dissacratoria, però, è qui molto più esplicita che con i cinecomic tradizionali. Ci sono dialoghi che si rivolgono direttamente al frasario di Bond, scene fisse dei film di spionaggio – combattimenti, viaggi in aereo, catalogo delle armi, eleganza a pacchi – che vengono smontate. La base di Valentine sembra uscita da Moonraker o da Austin Powers. Lo spirito generale, soprattutto nell’understatement, ricorda quello di Casino Royale (non quello con Daniel Craig, quello del ’67 con David Niven, Peter Sellers e Woody Allen). Kingsman, però, non ha paura ad andare oltre i limiti  degli eleganti doppi sensi e delle velate allusioni, come si vede nel finale tra Eggsy e la principessa di Svezia.

Proprio da questa irriverenza nei confronti del mondo classico di Bond e compagnia si scatena il comico. Vaughn, inoltre, conferma tutto il talento registico in sequenze di azione complesse e veloci. Gli va dietro un cast divertito: Colin Firth fa Galahad, Michael Caine Artù, Mark Strong Merlino, Samuel L. Jackson Valentine, mentre Taron Egerton, dopo la serie britannica The Smoke, trova il suo primo grande ruolo al cinema.

(Kingsman – Secret Service, di Matthew Vaughn, 2015, azione, 129’)

“Smith&Wesson”
di Alessandro Baricco

Lo ammetto: non mi accontento della facile comunicabilità del linguaggio medio né dei facili camuffamenti drammaturgici da teatro dell’assurdo involontario. Ogni adescamento anche vagamente commerciale mi riesce insopportabile.

Il nuovo romanzo di Alessandro Baricco, Smith&Wesson (Feltrinelli, 2014), è una storia che non si capisce bene come classificare.

Ha l’andamento della confessione diaristica a due voci, quasi che i protagonisti fossero gli imputati di un ipotetico tribunale della coscienza.

L’ipertrofia del dialogo dal ritmo lento e noioso toglie ogni spessore psicologico ai personaggi facendone dei pupazzi ventriloquamente fatti parlare dal loro cinico creatore.

L’ambientazione esotica nei pressi delle cascate del Niagara nel 1902 (ma data la trama l’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi anno del passato, presente o futuro), nonché i nomi americanizzati dei protagonisti, Smith e Wesson, anzi Smith&Wesson proprio come la società produttrice di armi, o anche visti da una più fanciullesca angolazione, stando ai nomi di battesimo, i più famosi gatto e topo, Tom&Jerry, appaiono come un malriuscito tentativo di dare un respiro internazionale a una storia che di internazionale ha ben poco, piuttosto si rivela quanto mai prosaicamente e tristemente italiana. Si tratta infatti della storia di un’impresa (impresa!?!) maldestramente fallita.

Smith è un metereologo che annota su un taccuino pieno di tabelle le variazioni climatiche del passato così come si palesano nei ricordi degli intervistati. Voi direte e come fa la gente a ricordarsi del tempo che c’era, che ne so, il 17 febbraio del 1899?

Semplice, inevitabilmente rimangono impresse solo le condizioni atmosferiche legate a un particolare evento, un matrimonio, un battesimo, una caduta rovinosa, etc.

A ben vedere si tratta di un inutile tentativo di basare le previsioni del tempo su statistiche poco attendibili.

Wesson invece fa il pescatore. Non un pescatore di pesci invischiato in affari ittici bensì di cadaveri.

Un assassino? Magari, almeno avrebbe dato un risvolto noir alla storia. E invece non è proprio il tipo: «Ogni quattro mesi sto a letto per cinque giorni, serve a rimettere a posto gli organi interni, la posizione orizzontale li riporta in equilibrio, sto a letto e mangio passato di fave. Mi alzo solo a pisciare ma di rado. E a scaldare il passato di fave»

È un pescatore di corpi dei suicidi che scelgono come scenario del loro gesto estremo le cascate del Niagara.

Le battute fra i due protagonisti si alternano senza soluzione di continuità contrappuntate di tanto in tanto da un contraltare femminile, Rachel Green, una ventitreenne aspirante giornalista alla ricerca di uno scoop con cui sfondare.

In mancanza di eventi sensazionali la ragazzina decide di inventarne uno lei e viene indirizzata dalla signora Higgins, vera e proprio dea ex machina, dai due compari, Tom e Jerry, o meglio Smith&Wesson.

I due le propongono allora di lanciarsi dalle cascate dentro una botte da birra fidando di andarla a ripescare in un punto preciso in cui le rapide e la corrente dovrebbero indirizzarla secondo la mappa realizzata dal padre di Wesson in un giorno di straordinaria desertificazione del letto del fiume.

Lungi da me privare il lettore del gusto di scoprire come va a finire questo dozzinale spettacolo similcircense, non svelerò certo l’epilogo.

Questo del resto è lo stile baricchiano, prendere o lasciare. Ci vuole tanta buona volontà e pazienza. Si aspetta speranzosi che prima o poi la storia decolli, che le tristi battute fra Smith e Wesson da pietosamente comiche diventino pirandellianamente umoristiche. Ma alla fine si ringrazia solo l’autore della concisione (un centinaio di pagine scritte con caratteri da ipovedente e ampi margini).

(Alessandro Baricco, Smith&Wesson, Feltrinelli, 2014, pp. 108, euro 10)