Il fratello magico

C’è un mondo magico là fuori, non soltanto dentro i libri. Amici comuni, social network, un fuggente incontro alla fiera PLPL a Roma, poi, la presentazione, quella davvero magica, a L’Aquila, presso la libreria Polarville, la cena con i titolari della libreria e qualche amico, e il giro notturno, mistico e toccante, tra le case abbandonate della mia città, in zona rossa, ecco la genesi di questa intervista a Orazio Labbate, autore dell’apprezzatissimo romanzo Lo Scuru, di recente pubblicazione per i tipi di Tunué.


Orazio, da quale arcaica e remota grotta del tuo animo hai cavato fuori questa splendida gemma che è Lo Scuru

Lo Scuru è nato dalla morte, che nella mia vita si è manifestata attraverso due qualità opposte, rispettivamente: metafisica e umana.
Alla visione, da chierichetto, delle icone cristiche, delle statue della Settimana Santa, nella chiesa di San Rocco a Butera, e soprattutto osservando quella del Signore dei Puci (Gesù Cristo incatenato sottoposto al peso della croce), avvertivo paura e tuttavia trasalimento di visioni che mi ordinavano di accostare questi avvenimenti a esternazione diaboliche remote. Queste percezioni d’infante sono poi ritornate tramite la morte di mia nonna quando avevo diciotto anni. Al momento del suo trapasso, infatti, osservando la camera ardente teatro di urla disperanti delle vecchie di paese che parevano trasformarsi in demoni, a causa della loro pantomima, sentii didentro una necessità, la necessità della sua resurrezione che all’istante si chiarificò con la scrittura. Una scrittura però che nasceva dall’italiano e poi veniva inseguita dal dialetto buterese e rimandava ai miei sentimenti di ragazzino-chierichetto.
In sintesi, un gioco terribile di lingue che potesse evocare mia nonna morta.


Hai immediatamente citato Butera, la tua terra natia, qual è il tuo rapporto con la Sicilia? E come questo ti ha guidato nella stesura del romanzo?

È un rapporto di matrice buia. Per me la Sicilia è infatti madre di incendi, di campi neri, del Mediterraneo che silenzioso ha inghiottito e inghiotte, di civiltà fantasmatiche ormai arcaiche, di pali del telefono che ardono nottetempo nella strada che collega Butera a Gela, di uno scirocco ossidrico che devasta.
La Sicilia meridionale, la mia, è divenuta, per immaginario letterario, spazio, territorio, isola abbandonata che favorisce il parto d’una narrativa gotica e metafisica, nonché di un underground descrittivo affine all’immaginario della narrativa americana dichiarata da Faulkner come da McCarthy.
Il fuoco siciliano, in sintesi, secondo la mia letteratura, non è Genesi, bensì massa creatrice dell’oscurità che l’isola possiede e che in seguito, a incendio consumato, si sostanzia nelle cose bruciate prima descritte; così come si manifesta, la fiamma, nelle visioni nascenti dalle cose finite (per esempio: tronchi bruciati, palme bruciate, chiese barocche di notte, ecc.) che possono apparire irreali ovvero descritte all’interno di un ipotetico aldilà.


Molto si è già detto sulla scelta ardita della lingua di Lo Scuru, una commistione tra italiano e dialetto buterese: quanto hai dovuto prepararti per dominarla a pieno e quanto lei ha dominato te nella stesura?

Ho dedicato un iniziale tempo allo studio di questi due scrittori siciliani: Gesualdo Bufalino e Stefano D’Arrigo, che per me rappresentano meravigliosi inventori di lingua nonché possessori d’una magica e incredibile dominazione d’essa sino a essere in grado di usarla naturalmente. A tale studio della loro diversa declinazione linguistica nelle loro opere, ho poi introdotto la lettura dei lavori di William Faulkner e Cormac McCarthy, e sono ritornato infine a studiare il mio scrittore preferito che è Franz Kafka, fino a toccare gli autori che significano il gotico stesso: Hoffmann, Walpole, Nodier e Meyrink.
Sono state letture notturne, con taccuino in mano, per appuntare la velocità narrativa e la loro perizia linguistica nel ricreare territori reali, metafisici e dunque per addizione: oscuri.


Cosa lega Orazio Labbate al protagonista del romanzo Razziddu Buscemi? Sembra che tra voi ci sia un doppio legame, violento e spaventoso, da un lato, materno e genuino, dall’altro.

Razziddu Buscemi è Orazio Labbate, e viceversa. Sono entrambi amanti della morte, così come della tenebra. Sono entrambi credenti nel Dio cristiano, e tuttavia lontani dalla Luce che trasmettono le icone sacre poiché traducono queste ultime in remote immagini arcaiche di paura e le reputano sottoposte a disformi magie demoniche. Sono stati tutti e due chierichetti. Sono tutti e due studiosi dei cimiteri, nottetempo. Sono tutti e due orribilmente malinconici. Razziddu Buscemi e Orazio Labbate credono e non-credono in questa originale Trinità: Lo Scuru, la statua e U Diavulu.


La religione, con le sue derive magiche e spiritiche, è una presenza quasi asfissiante, cosa rappresenta per Razziddu e cosa per Orazio, se esiste una differenza?

Per entrambi la religione è territorio di superstizioni, di magia, di insostenibile oscurità e di preparazione all’aldilà. La religione è posto mistico dentro la quale avvengono combattimenti tra entità metafisiche, nelle due ali: angelologiche e demonologiche. La religione è per entrambi il significato della Croce così come è, altresì, la derivazione immaginifica intorno a Essa.
La religione prescelta, in definitiva, è quella cattolica.


Un altro tema di Lo Scuru è l’amore, incarnato in Rosa moglie di Razziddu, pur conservando un carattere classico, di forza salvifica, non sembra però essere di per sé una soluzione sufficiente, definitiva, l’amore pare invece un rifugio, un luogo sicuro: puoi chiarirci questo aspetto?

Razziddu è investito nella totalità del suo tempo incalcolabile da turbamenti e questioni metafisiche e dall’esorcismo infantile che lo insegue. L’unica via materica che lo introduce alla luce, e quindi alla realtà, è la donna. Dunque, l’amore verso la donna. Rosa è per lui cosa esistente che diventa anche persona salvifica poiché viene a essere amuleto in potere di risolvere il labirinto spirituale del quale è vittima allucinata il ragazzo. Rosa è una specie di reliquia umanizzata ed è la possibilità, per Razziddu, di non avvicinarsi all’aldilà per la definitiva condanna. Tuttavia, essendo, grazie al loro amore reciproco, «cose addùmate», non saranno salvabili…


Veniamo infine a te, Orazio, da quanto tempo scrivi? Perché hai iniziato? In quale momento della giornata la scrittura prende vita?

Come dicevo, lo scatenamento alla scrittura è stata la dipartita di mia nonna. Ricordo che quella notte, dopo il trasporto della salma al cimitero buterese, trascorsi le ore a scrivere nel tentativo di rievocarla. Fu una scrittura impazzata e tuttavia ormai sedimentatasi nel mio spirito come fuoco oscuro da liberare.
Prima di quell’avvenimento mi dedicavo a una lettura sostenuta. Iniziai a quattordici anni con Dostoevskij, Bulgakov, Kafka, Borges e ancor prima con le fiabe dei Grimm. Ciononostante la seria tensione, di cui necessita la scrittura, nacque, ripeto, con la scomparsa di mia nonna. Dunque, con la distruzione dell’amore.
In merito all’ultima domanda, le mie giornate non sono fatte di metodismo di scrittura. Io scrivo per istinto, seguo interamente la fiamma. Epperò prediligo due luoghi dove scrivere: la mia camera e il cimitero. In seguito metto equilibrio, riordino, le pagine scritte.


Hai già progetti per il futuro? Quando e dove ti rivedremo?

Sto lavorando a un secondo romanzo. Preferisco non svelarne trama e personaggi. Posso però dire che la morte e l’oscurità che ne discende non andranno via dal mio scrivere.


I saluti non ci sono, non ci sono saluti tra fratelli ritrovati, perciò, cari lettori, salutiamo voi.

 

(Orazio Labbate, Lo Scuru, Tunué, 2014, pp. 128, euro 9,90)

“Noi e la Giulia” di Edoardo Leo

Diego lavora come venditore di macchine, odia il suo lavoro e soffre per la malattia di suo padre che non l’ha mai stimato realmente. Claudio gestiva la gastronomia di famiglia che resisteva con successo dal 1910. Ci ha messo cinque anni a farla fallire, ha fatto lo stesso con il suo matrimonio. Fausto vende orologi farlocchi in tv, si sente un divo ma non è nessuno e i debiti lo mangiano vivo. Non si conoscono, ma hanno lo stesso sogno: rilevare una casolare in campagna e trasformarlo in un agriturismo. Decidono di diventare soci per poter comprare il casale ideale, solo che si trovano subito a scontrarsi con un problema più grande di quello che si aspettavano: la camorra arriva a chiedere il pizzo. Diventerà una lotta di resistenza in cui li aiuterà il comunista vecchia maniera Sergio e la svampita incinta Elisa.

Edoardo Leo, arrivato alla sua terza regia dopo Diciotto anni dopo e Buongiorno papà, si confronta per la prima volta con un soggetto preso dalla letteratura contemporanea. Non è semplice, perché Giulia 1300 e altri miracoli di Fabio Bartolomei è quasi oggetto di culto tra i lettori appassionati. Quasi a mettere le mani avanti, infatti, la prima scritta ad apparire sullo schermo durante i titoli di testa di Noi e la Giulia è “Soggetto di Edoardo Leo”, segue, poi, “Ispirato dal romanzo di Fabio Bartolomei”. Ispirato, non tratto, chiarimento subito per liberarsi dal confronto con il testo. Del resto, Edoardo Leo aveva ritenuto doveroso inviare una lettera aperta ai lettori di Bartolomei per chiarire come «il libro è tutto un’altra cosa».

Indipendentemente dal rapporto con Bartolomei, Noi e la Giulia scorre bene, fino a un certo punto. Leo porta avanti le sue considerazioni sulla generazione dei quarantenni allo sbando che aveva già sviluppato nei film precedenti, descrivendo quello che è comunque un riscatto morale in un momento di inattesa difficoltà. I personaggi sono caratterizzati secondo tipi fissi – il coatto, il timido, il paranoico depresso, il burbero, la strana – ma con sfumature originali e un ottimo lavoro degli attori. Edoardo Leo si dà la parte di Fausto, il piazzista tv ignorante, fascista, egocentrico con i suoi slogan da maglietta e la fissa della conquista («Mi presento come Fausto Maria perché alle donne piace l’uomo col lato femminile»). Luca Argentero con Diego continua a fare il timido imbranato, personaggio ormai fisso della sua filmografia. Rispolvera il suo accento piemontese anche per insistere sul lato della pignoleria. Stefano Fresi è il paranoico completo che vede cadere travi, vasi, tegole, che ha sempre un cugino «che c’è morto», mentre Claudio Amendola, che ogni tanto si ricorda di saper recitare, si diverte con questo comunistone manesco. Anna Foglietta abbandona per una volta il ruolo della coatta romana per fare la coatta toscana (quando calca l’accento sembra Chiara Francini). Ai cinque sconfitti si aggiunge il camorrista per caso Vito interpretato da Carlo Buccirosso. Ognuno di loro, preso singolarmente, funziona. Il meccanismo si inceppa quando iniziano le interazioni.

I rapporti non si definiscono pienamente; a parte l’(in)evitabile trama sentimentale, non ci sono veri e propri duetti, ma una serie di prove individuali che non sempre si amalgamano. Come ogni attore che passa dietro la macchina da presa, Leo è bravo a dirigere gli interpreti ma non riesce pienamente ad amalgamarli. Ha due modelli di riferimento della passata stagione abbastanza evidenti (e che lo avevano già coinvolto su vari piani): Smetto quando voglio di Sibilia e La mossa del pinguino di Amendola, ma non riesce a replicare l’energia di squadra di nessuno dei due.

Anche perché Noi e la Giulia cade in quello che è ormai il limite classico delle commedie italiane degli ultimi quindici anni. C’è un’idea, più o meno valida, di partenza, c’è uno sviluppo più o meno riuscito, e poi un’evoluzione che porta sempre a quello che si può definire “momento critico di rottura”, il punto, cioè, oltre il quale ci si smette di impegnare, come se qualcuno desse il comando «Ok, abbiamo fatto abbastanza, basta così», e ci si affida a una serie di meccanismi già consolidati che trascinano il film verso il finale.

In Noi e la Giulia il momento critico di rottura si ha quando Anna Foglietta travasa il vino di Argentero dal bicchiere di plastica a quello di vetro: «Fa sempre schifo, ma così è più bello». Con l’irruzione della retorica sul saper apprezzare comunque il lato positivo delle cose, sul non buttarsi giù, l’inceppamento che impediva al film di Leo di viaggiare sempre a piena velocità diventa vero e proprio ostacolo. Seguono carrellate con la casa che si trasforma, il ritorno della totalmente inutile voce fuori campo di Argentero che aveva introdotto l’avvio prolettico (in flash-forward) del film, balli di gruppo, ralenti e buonismi vari. Elisa smette di essere la svampita da difendere per diventare la guida morale, il punto di riferimento di tutti, e li sprona quando si abbattono e li aiuta a riconsiderarsi uomini.

Peccato, perché fino al momento critico di rottura, Noi e la Giulia funziona. Ha i suoi intoppi, abbiamo detto, va a intermittenza come l’autoradio della Giulia, ma fa ridere e tutto sommato riesce anche a portare avanti degli argomenti non semplici come la lotta alla mafia attraverso la resistenza civile (in questo è simile al recente – e sottovalutato – La nostra terra di Giulio Manfredonia).

Costretti sulla Giulia 1300, i cinque protagonisti si ritrovano – metaforicamente e non – a dover scegliere che direzione prendere, e Edoardo Leo sembra stare lì con loro.

(Noi e la Giulia, di Edoardo Leo, 2015, commedia, 115’)

“Marie” di Rachele Bastreghi

Rachele Bastreghi interpreta la cantautrice francese Marie nella seconda stagione di Questo nostro amore, fiction andata in onda su Rai 1, e qualcosa le scatta nella testa. Decide di accantonare per un po’ i Baustelle e di mettersi in proprio. Dopo solo un paio di mesi di registrazioni, è pronto il suo primo lavoro da solita, Marie, un Ep di sette tracce.

È chiaro che quindici anni di carriera nei Baustelle non possono non influenzare Marie. È tangibile, infatti, una certa propensione baustelliana alla scansione sillabica delle parole. A un modo di fare che attinge dagli anni ’60 italiani, Piero Ciampi e Fabrizio De Andrè. Alla poetica di fondo, il nocciolo a cui ruotano attorno i testi, che si rifà quasi per osmosi a quella di Francesco Bianconi: amori andati via, il ricordo del passato come rifugio, un futuro sempre criptico, ovattato e, paradossalmente, sepolto.

Bastreghi, attorno al suo passato recente, aggiunge molte influenze della Francia degli anni’60-’70 (Marie Laforêt, in qualche modo Sylvie Vartan, fino all’imprescindibile Édith Piaf), riuscendo comunque a dare vita a un prodotto dalle sonorità contemporanee.

La prima traccia, scritta insieme a Claudio Brasini, chitarrista dei Baustelle, è “Senza essere”, un inno al grande rimpianto della perdita naturale della purezza giovanile, altro grande topos dei Baustelle. Accompagnata da un riff di chitarra e una batteria incalzante, Bastreghi canta: «Quando i nostri occhi diffondevano la luce / Resto immobile a fissare il buio / Penso a come ridevamo senza essere perversi».

Segue “Folle tempesta” – con una cupa apertura di un organo e delle note gravi di pianoforte – che ricalca la tematica del non sapere più cosa essere e fare del proprio corpo dopo che la persona amata non è più presente nella propria vita e, più in generale, cosa rimane di noi mentre il tempo scorre e quando le cose finiscono (come ad esempio in “L’aeroplano” da Amen), supportata da un ritornello in cui il basso, che si incastra alla perfezione con la batteria, la fa da padrone. “All’inferno insieme a te” è una cover del brano di Patty Pravo, a sua volta cover di “Detachez-moi les bras” di Claude Puterflam, riprodotta fedelmente rispetto alla versione dell’autrice di “La bambola”. In “Mon Petit Ami Du Passé”, singolo che ha anticipato l’uscita di Marie, spicca una commistione linguistica franco-italiana in un brano che è un rock-da-camera.

Ne “Il ritorno” c’è una presa di coscienza di ciò che si perderebbe se si lasciasse andar via la persona amata, l’intuizione dopo aver sfiorato per un attimo come potrebbe essere quel futuro: «Ora so quello che perderei se io fossi lontana / Il sapore di un cielo sfumato resterà».

“Cominciava così” è la cover del brano degli Equipe 84 presente nel 45 giri del 1969, Tutta mia la città/Cominciava così e due anni dopo in Casa mia. La scelta di un brano che parla di un amore finito è ben calibrata, dà equilibrio. Chiude l’Ep la versione strumentale di “Folle tempesta”.

Marie è un Ep pieno aspetti importanti, in primo luogo i testi. Un lavoro che probabilmente non avrà un seguito, almeno in un futuro recente, e che potrebbe rimanere un momento isolato – ma necessario – per la carriera di Rachele Bastreghi. Sarà interessante, dunque, capire quanto questa esperienza potrà influenzare i prossimi lavori dei Baustelle e quanto potrà aver inciso sulla cantautrice di Montepulciano.

 

“Furia avicola” di Rafael Spregelburd

Rafael Spregelburd, acclamato come un genio da una larga parte della critica internazionale, torna in Italia con Furia avicola, spettacolo composto da due atti unici e un intermezzo, realizzato in collaborazione con Manuela Cherubini, per rappresentare agli occhi dell’Europa quella che a suo dire è la condizione di profonda crisi di senso vissuta dal Vecchio continente.

Nel primo atto unico, una colta rappresentazione sulla fine dell’arte, due critici teatrali si interrogano sulla natura dell’Ecce Homo di Cecilia Giménez, una benintenzionata parrocchiana ottantunenne, pittrice dilettante senza esperienza né qualifica alcuna, che nell’agosto del 2012 prende di sua spontanea iniziativa la decisione di restaurare l’affresco rovinato della cappella di Borja, nei pressi di Saragozza, deturpando l’opera originale e aprendo al dibattito sulla possibilità di interpretare come artistica ancora l’opera in sé e per sé o dover riconoscere l’atto artistico anche nell’atto casuale che si traduce, in conseguenza a una altrettanto casuale acclamazione mediatica, in un fenomeno del web.

Il secondo ricalca la questione della necessità della burocrazia come già era stata indagata da Max Weber. All’interno di uno spazio immaginato che potrebbe essere quello di qualunque edificio pubblico, si svolgono le piccole vite di quattro impiegati, un po’ Russia fine ottocento, un po’ Post Office, che si scoprono, tra una pausa caffè e una lite, i custodi della vita dello Stato organizzato così come la conosciamo. Una vita in cui i documenti che la registrano e la rendono realmente vissuta, valgono di più del denaro, che pure è diventato l’unico metro di misurazione non solo del valore degli oggetti, ma anche dell’esperienza che si fa di essi.

Tra i due l’Intermezzo. Di fronte allo spettatore cinque sedicenti traduttori simultanei rappresentano la condizione dell’uomo contemporaneo di fronte ai mezzi di comunicazione più recenti. Tutti al mondo, persino i bambini, sono in grado di lanciare un’app per smartphone come Angry Birds, di comprendere il linguaggio grafico necessario alla decrittazione delle istruzioni e di condividere la stessa identica esperienza di gioco, ma quando la conoscenza tattile acquisita nella realtà virtuale, prova a essere spiegata a parole, ci si rende conto che l’uomo oggi vive in una realtà talmente rapida che il linguaggio con cui la si descrive si fa anacronistico e il tempo della riflessione non è sufficiente a generare delle categorie di senso per interpretarla.

Per questo la Furia avicola di Spregelburd sta tanto per un’arcaica traduzione proprio di Angry Birds, quanto per la gazzarra che i polli e le galline in batteria fanno dibattendosi nelle gabbie nel tentativo inutile di dispiegare le ali e liberarsi dalla prigione.

La forza di quest’opera sta nella sua contemporaneità e nella sua universalità. Furia avicola è uno spettacolo grottesco che può essere fruito a livello epidermico per riconoscersi nelle frustrazioni dei personaggi in scena quelle di ogni giorno – dallo sforzo interpretativo a cui ci costringono le opere d’arte contemporanea, alla mortificazione di dover fare file infinite per risolvere qualunque ordinaria bega amministrativa – ma anche come strumento per interrogarsi sulla propria capacità di interpretare la vita quotidiana e senza, in ragione della giovane età dell’autore-regista, dover condannare necessariamente i nostri giorni a un implicito giudizio negativo.

 

Furia avicola
di Rafael Spregelburd
traduzione Manuela Cherubini
regia di Rafael Spregelburd e Manuela Cherubini
con Rita Brütt, Fabrizio Lombardo, Luisa Merloni, Laura Nardi, AmândioPinheiro

Roma – Teatro India dal 17 al 22 marzo

 

Oscar 2015: chi vince

La notte degli Oscar è sempre più vicina. Il 22 febbraio Neil Patrick Harris condurrà dal Dolby Theatre di Los Angeles la cerimonia della consegna delle statuette più importanti del cinema internazionale. Se ne parla da mesi, tra attese, polemiche e pronostici.

Rifacendoci, in minima parte, a quello che ha fatto Peter Knegt di Indiewire negli ultimi mesi, proviamo a indicare per le otto categorie (per noi) più importanti – miglior attrice e attore, protagonista e non, miglior sceneggiatura originale e non, miglior regia e miglior film – il favorito per la vittoria finale, chi meriterebbe di vincere e chi avrebbe meritato, almeno, la nomination. In ogni categoria ci sono dei grandi favoriti che si sono portati a casa alcuni dei premi già assegnati (Golden Globes, Critic’s Choice, SAG) comunemente ritenuti delle anticipazioni delle indicazioni di voto dell’Academy. Ciò non toglie che ci siano, comunque, dei vincitori morali, dei nominati che non hanno reali possibilità di vincere ma che se lo meriterebbero, così come è chiaro che la selezione delle nomination possa aver, in più caso, escluso senza motivo apparente dei candidati che avrebbero meritato (anche più di altri inseriti) di far parte della rosa.

Iniziamo.

Miglior attore:

Candidati:

Bradley Cooper, American Sniper
Michael Keaton, Birdman
Steve Carrell, Foxcatcher
Benedict Cumberbatch, The Imitation Game
Eddie Redmayne, La teoria del tutto

Chi vince: Eddie Redmayne, La teoria del tutto
Chi dovrebbe vincere: Eddie Redmayne, La teoria del tutto
Chi manca: Jake Gyllenhaal, Lo sciacallo

Non dovrebbero esserci molti dubbi su chi sarà il migliore attore. La trasformazione di Eddie Redmayne in Stephen Hawking per La teoria del tutto è da storia del cinema e gli è già valsa più di un premio. Michael Keaton meriterebbe per il livello enorme della rentrée che ha confezionato con Iñárritu, ma non sembrano esserci reali possibilità. Hollywood, per tradizione, tende sempre a premiare i grandi lavori fisici. In questa prospettiva, il dimagrimento paraonide di Jake Gyllenhaal avrebbe meritato di essere nominato più dei muscoli di Bradley Cooper.

Miglior attore non protagonista:

Candidati:

Edward Norton, Birdman
Ethan Hawke, Boyhood
Mark Ruffalo, Foxcatcher
Robert Duvall, The Judge
J.K. Simmons, Whiplash

Chi vince: J.K. Simmons
Chi dovrebbe vincere: J.K. Simmons
Chi manca: Tony Revolori, Grand Budapest Hotel

Anche per il miglior attore non protagonista sembra tutto già deciso. J.K. Simmons, per il suo insegnante spietato, è il grande favorito. Oltretutto se lo merita per tutta la carriera passata nell’ombra dei piccoli ruoli. È sempre giusto quando i caratteristi arrivano a poter ambire un Oscar, se lo merita per tutta la categoria. Peccato perché Edward Norton, in maniera simile a Michael Keaton, meriterebbe un riconoscimento per l’ottimo lavoro in Birdman. Il giovane Tony Revolori avrebbe meritato una nomination in rappresentanza di tutto il cast di Grand Budapest Hotel.

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Miglior attrice:

Candidate:

Marion Cotillard, Due giorni, una notte
Felicity Jones, La teoria del tutto
Julianne Moore, Still Alice
Rosamund Pike, L’amore bugiardo
Reese Witherspoon, Wild

Chi vince: Julianne Moore, Still Alice
Chi dovrebbe vincere: Julianne Moore, Still Alice
Chi manca: Scarlett Johansson, Under the Skin

Anche in questa categoria non dovrebbero esserci sorprese. Julianne Moore è la grande favorita per la statuetta, oltre a essere l’attrice a meritarla di più in una rosa comunque di altissimo livello. Marion Cotillard, splendida per i Dardenne, e Rosamund Pike, inquietante e gelida gone girl, stanno un passo indietro, ma è un passo irrecuperabile. Finora, Julianne Moore, arrivata alla quinta nomination in carriera, si è già portata a casa per il ruolo della malata di Alzheimer Golden Globe, BAFTA, SAG, Critic’s Choice, Satellite Award e National Board of Review. Sarebbe il primo Oscar. Scarlett Johansson avrebbe meritato di essere presa in considerazione per il suo alieno di Under the Skin, ma sarebbe stato davvero difficile trovarlo un posto nella cinquina.

Miglior attrice non protagonista:

Candidate:

Emma Stone, Birdman
Patricia Arquette, Boyhood
Keira Knightley, The Imitation Game
Meryl Streep, Into the Woods
Laura Dern, Wild

Chi vince: Patricia Arquette
Chi dovrebbe vincere: Emma Stone
Chi manca: Tilda Swinton

Patricia Arquette sembra avere il premio già in mano per la sua madre di Boyhood. Dopo essere un po’sparita dal grande schermo ha fatto un ritorno notevolissimo con Linklater, solo che la fragile e complessa figlia di Birdman interpretata da Emma Stone ha qualcosa in più e un Oscar aiuterebbe a lanciare definitivamente una giovane attrice che si fa notare già da anni. Tilda Swinton avrebbe meritato una menzione per la trasformazione di Grand Budapest Hotel, o per quella di Snowpiercer, e in generale perché in questa stagione di cinema è stata sempre bravissima. Meryl Streep ormai – e giustamente – viene candidata per qualsiasi cosa faccia.

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Miglior sceneggiatura originale:

Candidati:

Birdman, Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris Junior, Armando Bo
Boyhood, Richard Linklater
Foxcatcher, E. Max Frye e Dan Futterman
Grand Budapest Hotel, Wes Anderson
Lo sciacallo, Dan Gilroy

Chi vince: Grand Budapest Hotel
Chi dovrebbe vincere: Lo sciacallo
Chi manca: Jim Jarmush, Solo gli amanti sopravvivono

La recente vittoria ai BAFTA sembra spianare la strada allo script di Wes Anderson che otterrebbe in questo modo anche una sorta di premio di consolazione, dato che rimarrà a mani vuote – è praticamente certo – per il miglior film e la miglior regia. Il fatto che sia la sua terza nomination nella categoria (la prima nel 2002 per I Tenebaum, la seconda nel 2013 per Moonrise Kingdom) lo indica ancora di più come favorito. Il premio per Lo sciacallo di Dan Gilroy sarebbe il giusto (altamente improbabile) riconoscimento per un nuovo interessante filmaker. I vampiri di Jarmush non sono stati neanche considerati, ma meritano.

Miglior sceneggiatura non originale:

Candidati:

American Sniper, Jason Hall
The Imitation Game, Graham Moore
La teoria del tutto, Anthony McCarten
Vizio di forma, Paul Thomas Anderson
Whiplash, Damien Chazelle

Chi vince: Whiplash
Chi dovrebbe vincere: Whiplash
Chi manca: L’amore bugiardo

Whiplash, in realtà, c’entra poco in questa categoria. La sceneggiatura sarebbe originale, se Chazelle non l’avesse già utilizzata per il corto da cui nasce il film. Quindi, stando alle regole un po’rigide dell’Academy, non la si può considerare una sceneggiatura originale. Forse meglio così, perché data l’incomprensibile esclusione di L’amore bugiardo di Gillian Flynn, Chazelle spicca sicuramente in una cinquina che include sceneggiature piene di debolezze e che, nel caso di Paul Thomas Anderson, hanno convinto molto poco la critica.

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Miglior regia:

Candidati:

Alejandro González Iñárritu, Birdman
Richard Linklater, Boyhood
Bennett Miller, Foxcatcher
Wes Anderson, Grand Budapest Hotel
Morten Tydlum, The Imitation Game

Chi vince: Richard Linklater, Boyhood
Chi dovrebbe vincere: Alejandro González Iñárritu, Birdman
Chi manca: David Fincher, L’amore bugiardo; Christopher Nolan, Interstellar

Se si guarda ai premi vinti finora e li si eleva a pronostico non ci dovrebbero essere dubbi: Linklater ha già preso riconoscimenti ovunque, da Berlino ai BAFTA, come è giusto. Però il virtuosismo quasi spericolato di Iñárritu e del suo Birdman, oltre a essere di ben maggiore impatto, si sposa alla grande con la tendenza più recente dell’Academy, che sembra considerare quello alla regia come un premio principalmente tecnico, volto cioè a riconoscere proprio l’innovazione e lo sperimentalismo. È stato il caso, l’anno scorso, di Alfonso Cuarón per Gravity e nell’edizione precedente di Ang Lee per Vita di Pi (volendo, anche il premio andato nel 2012 a Michel Hazanavicius per The Artist può essere visto come un riconoscimento per la capacità di osare). In quest’ottica, l’assenza di Christopher Nolan nella rosa dei candidati appare poco comprensibile.

Miglior film:

Candidati:

American Sniper, Clint Eastwood
Birdman, Alejandro González Iñárritu
Boyhood, Richard Linklater
Grand Budapest Hotel, Wes Anderson
The Imitation Game, Morten Tyldum
Selma, Ava DuVernay
La teoria del tutto, James Marsh
Whiplash, Damien Chazelle

Chi vince: American Sniper
Chi dovrebbe vincere: Boyhood
Chi manca: L’amore bugiardo; Interstellar

In questo caso, più che una previsione è un presentimento. American Sniper finora è stato fuori dai giochi per i premi più prestigiosi. Il motivo è semplice e di natura tecnica, diciamo così: negli Stati Uniti il film di Eastwood è uscito con copertura nazionale il 16 gennaio, troppo tardi per essere inserito tra i candidati ai premi che solitamente segnano la strada degli Oscar (le candidature dei Golden Globes, ad esempio, sono state annunciate l’11 dicembre). Il successo strepitoso che ha incontrato negli Stati Uniti potrebbe convincere l’Academy molto più dei premi già assegnati, anche perché la stampa americana ha accolto con un certo entusiasmo la storia di Chris Kyle.

Se il presentimento dovesse rivelarsi sbagliato, sarà ancora una volta sfida tra Birdman e Boyhood, con il secondo favorito. Si tratta di due film unici. Boyhood, però, è di un’unicità tutta particolare.

 

“Egomostro” di Colapesce

A tre anni dall’esordio con il concept album Un meraviglioso declino, premiato con la Targa Tenco come miglior opera prima del 2012, Lorenzo Urciullo in arte Colapesce torna con l’originale e più introspettivo Egomostro.

Prodotto a quattro mani con Mario Conte, che viene dalla recente collaborazione con Meg, Egomostro è un’evoluzione musicale del suo fratello più giovane; i tre anni passati sui palcoscenici e la crescente e più che meritata fama hanno permesso al cantautore siciliano l’inclusione di musicisti esperti nella sua ultima fatica.

Ci sono il batterista Fabio Rondanini (da poco negli Afterhours, in precedenza ha collaborato con Niccolò Fabi e i Calibro 35), il bassista Giuseppe Sindona (Mario Venuti e City Life), il polistrumentista Alfredo Maddaluno (che ha suonato con Atari, Meg e Fitness Forever), poi Vincenzo Vasi (collaboratore di Vinicio Capossela), Benz (Vinicio Capossela e Meg) e il sassofonista Gaetano Santoro (Aretuska).

A guadagnarci in spessore e qualità è stato il corpo, multiforme, della sezione ritmica, già punto di forza nell’album d’esordio. Gli arrangiamenti si ispirano a quelli già apprezzati in Un Meraviglioso Declino, ma poi si sviluppano, crescono, cambiano, stravolgendo la traccia e l’ascoltatore. I frequenti cambi di registro spaziano dalla musica elettronica graffiante, a chitarre acustiche, fiati e tastiere, fino all’utilizzo di theremin, chitarre elettriche, drum machine e archi. E questa molteplicità di arrangiamenti non è limitata soltanto al cambio fra una canzone e l’altra, ma si ritrova diverse volte all’interno degli stessi brani. E tutto scorre con fluidità, freschezza, accompagnato da liriche che si sposano alla perfezione con il mood ora rilassato e consapevole di sé, ora nervoso, ora malinconico. Già, perché in questo avanzamento musicale Colapesce ha però mantenuto invariata, ed è un bene, la sua singolare malinconia: quella capacità di rendere lampanti dei concetti semplici (e solo a volte banali), soltanto pronunciandoli alla sua maniera, con il proprio tempismo, ripetendo o rimarcando le parole: «stavolta non consulto più nessuno. Amare e basta e lo faccio a testa alta, amare e basta e lo faccio a testa alta».

L’Egomostro è il suo mostro personale, ed è il mostro di questa società, una moltitudine di ansie, ossessioni, paure: ansia di successo, ossessione per la fama e paura di dover rispettare le aspettative; il prezzo da pagare per questa crisi sociale e di valori, questa depravazione dell’Io.

Ma è anche un insieme di ammissioni, convinzioni e autocritica: Colapesce risponde con una spiazzante e chiara semplicità a queste pressioni, a questi comportamenti sociali: la necessità di sgonfiare il proprio ego.

L’album inizia con i trentatré secondi di “Entra pure”, l’invito di Colapesce ad entrare nel proprio “Io”. Con un’indecifrabile melodia, il cantautore domanda al suo interlocutore, a questo “ospite” cui si accinge ad aprire le porte del proprio Ego, se sia già frenato dalla paura di ciò che vedrà: «Hai un fucile già carico, carico a paure che vuoi spararmi contro?».

Il secondo brano, “Dopo il diluvio” è il primo di quei cambi d’atmosfera di cui sopra, e parte con una graffiante miscela di musica elettronica e fuzz: «un’esperta di filosofia, poi ti eviti quando si tratta di esistere. Separiamo la malinconia, ci aiuterà; non sono qui per sorprenderti». Il pezzo è poliedrico e al suo interno cambia diverse volte. Passa a chitarre acustiche miste a tastiere, per poi riprendere, stratificandosi, le sonorità iniziali fino a divenire una somma di tutto, in un continuo crescendo e diminuendo.

Con “Reale”, terzo e accattivante brano, Colapesce torna a sonorità più pop e si mantiene uniforme nel suo corso, con efficaci interventi dei fiati. Prima presa di coscienza e abbandono di quell’ammorbamento dell’Io, «stavolta non consulto più nessuno. Amare e basta e lo faccio a testa alta. Non serve l’ipnosi regressiva, non serve un mago, è solo la vita».

Il quarto motivo, la delicata “Sottocoperta”, si contraddistingue per l’essenzialità dell’arrangiamento. Chitarra acustica, una batteria quasi assente, ma efficace, l’uso del theremin e un testo capace di dipingere con malinconia immagini e sensazioni: «sottocoperta, odore di cannella misto a gelsomino e tela, i tuoi vestiti bandiere di resa».

Arriviamo quindi alla quinta traccia, da cui il titolo dell’album: “Egomostro”. Un altro pezzo uniforme, ma con trovate interessanti. Chitarre elettriche in stile Strokes, con intermezzi di fiati, danno sonorità d’oltre oceano ad uno dei brani più pop dell’album.

“Le vacanze intelligenti”, con il suo tappeto di synth e le sue sonorità elettriche, precede uno dei singoli di lancio dell’album, “L’altra guancia”; un brano minimal, tenue, un’atmosfera riflessiva e tanto spazio per la voce e i testi: «difendiamo le idee, con il fiato e con le labbra».

“Copperfield” inizia con percussioni tribali, un synth di sottofondo, poi una chitarra e nel finale gli archi e diventa un susseguirsi di sonorità piene a sonorità vuote.

La bella e aggrappante “Brezsny” (difficile non fischiettare il suo motivo), un mix di ripetizioni prolungate di accordi alla tastiera, chitarre, archi e fiati, e variazioni ritmiche, anticipa la più pensierosa e riflessiva “Sold out”; su un accompagnamento ancora una volta minimal, ma non privo di cambi di registro, Colapesce ci parla delle problematiche delle relazioni ossessive del nostro tempo, quello dei social: «Un insieme di mancanze mi tengono distante da te. Su Skype sei assente, rileggo conversazioni azteche». Tematiche poi riprese anche in “Passami il pane” penultimo brano che inizia come una sorta di gospel digitale e si mantiene costante nella ripetizione di sonorità e liriche: «la verità è che è cambiato tutto il resto, ed un particolare può diventare un universo. Sentenze più luoghi comuni, il cancro di una relazione».

“Mai vista” è un altro brano che parte piano e cambia in corso mischiando suoni elettronici a chitarre e che ci conduce verso il secondo singolo di lancio dell’album, “Maledetti italiani”. Una critica all’italianità e a tutti i comportamenti sociali che ciò comporta, «la Mafia è diventata pop(olare), la musica fa vittime», e una sua presa di distanze («Non sono un italiano vero»), confezionano uno dei brani meglio riusciti di Egomostro.

L’album si chiude come è cominciato, riprendendo in “Vai pure” quella misteriosa melodia già ascoltata nell’ intro, con la quale Colapesce ci congeda dal proprio Io. «Meravigliosa sarai, amore e fine hanno in comune l’età. Con un leggero malessere riconquistiamo la bellezza».

In definitiva a farla da padrone nella seconda fatica di Colapesce è la produzione e la varietà, se non ricchezza, degli arrangiamenti, che riescono spesso ad elevare e dare maggiore spessore ai contenuti e a volte, ma solo a volte, a salvarli dalla piattezza in cui rischiano di scivolare.

 

“Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” di Roy Andersson

Difficile, forse impossibile, definire del tutto Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson, film vincitore del Leone d’oro all’ultima edizione della Mostra internazionale del cinema di Venezia e adesso in arrivo nelle sale.

Si apre con “Tre incontri con la morte” che non hanno alcun collegamento tra di loro: un uomo ha un infarto nel salone di casa mentre tenta di stappare una bottiglia di vino; una anziana moribonda vuole portare con sé nell’altro mondo la sua borsa piena di gioielli, con tutto il malumore dei figli ed eredi; un uomo muore nel ristorante di un traghetto e la cameriera non sa cosa fare della sua cena pronta e già pagata. segue una serie di quadri – trentanove in tutto – girati in piano sequenza che mostrano momenti diversi di vite diverse a Göteborg: una scuola di flamenco con un’insegnante che perseguita un giovane ballerino, la locanda di Lotta la Zoppa oggi e nel 1940, un bar di periferia in cui si ferma per un bicchiere di acqua frizzante il re di Svezia Carlo XII, in marcia verso Poltava per combattere i russi nel 1707. Tra i vari momenti si muovono, con il loro campionario, Jonathan e Sam, due venditori ambulanti di scherzi, maschere e articoli di carnevale, che vogliono portare la felicità nella vita degli altri senza averla nella propria.

Roy Andersson, classe 1943, ha sempre avuto un’idea di film più vicina all’arte che al cinema. Nel 1970 ha esordito con A Swedish Love Story che si è aggiudicato quattro premi a Berlino. Nel 1976 era a Cannes con Giliap, poi si è dedicato per anni alla pubblicità per fondare in seguito una casa di produzione, la Studio 24, per poter realizzare in assoluta libertà i suoi film. Nel 2000, con Canzoni dal secondo piano, gran premio della giuria a Cannes, ha inaugurato la trilogia “sull’essere un essere umano” che è proseguita nel 2007 con You, the Living per concludersi oggi con Un piccione.

Appassionato, in origine, della Nová Vlna cecoslovacca, Andersson ha sviluppato negli anni uno stile che fonde pittura e letteratura, umorismo scandinavo e comicità surreale alla Monty Python.

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza trova la sua ispirazione di partenza in Cacciatori nella neve, dipinto del 1565 di Bruegel il Vecchio in cui degli uccelli, dall’alto degli alberi, osservano le varie attività degli uomini in una giornata invernale di un paesino ai piedi della Alpi, ma c’è tantissimo Hopper nella composizione dei piani sequenza – sempre a camera fissa, tranne un unico movimento sull’asse della cinepresa, spesso con soggetti immobili che osservano punti fuori quadro – e Otto Dix per la rappresentazione dei personaggi, tutti truccati di bianco, con le labbra rosse.

Andersson è attento alla composizione come potrebbe esserlo un pittore, costruendo prospettive e attingendo sempre dalla stessa tavolozza di colori sulla scala del grigio e del beige. Il passaggio dal formato 35 mm al digitale che si è consumato con Un piccione ha permesso al regista di espandere ulteriormente la frontiera del suo sperimentalismo visivo aprendola a diverse e inedite sfumature di assurdo (l’esercito di Carlo XII in marcia nella Göteborg di oggi, o il macchinario che produce musica alimentato a schiavi africani) che avvicina alla distorsione della realtà provata, e rappresentata, da Dix negli anni del primo dopoguerra.

I piani sequenza riflettono sui vari aspetti dell’esistenza senza prendersi sul serio, lasciando scivolare nel riso amaro la tragedia quotidiana dell’esistere. i due rappresentanti di commercio trascinano per Göteborg le loro maschere che non fanno ridere e che non riescono neanche a nascondere i loro volti tristi come Don Chisciotte e Sancho Panza e uniscono gli episodi nel tentativo di portare risate nelle vite degli altri e per dimenticare lo squallore delle loro, di vite, con le notti consegnate allo squallore di un albergo di ultimo ordine.

C’è una frase, che viene ripetuta più volte da vari personaggi, in momenti diversi – prima di commettere suicidio, mentre si lavano le scale – ma sempre al telefono: «Mi fa piacere sentire che le cose ti vanno bene». È con questa frase che si capisce il senso del film di Andersson, che è quello di provare a rappresentare la vita per quello che è il suo svolgimento quotidiano, nel bene e nel male, nella disperazione e nelle felicità riflesse, nei suoi momenti eccezionali che possono diventare comunque ordinari, senza rinunciare a cercare un motivo per riderci su, anche se con profonda amarezza.

(Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, di Roy Andersson, 2014, commedia drammatica, 100’)

 

“La grande bugia”
di Luke Brown

Mefedrone, cocaina, alcol, feste, editor e scrittori, amanti improbabili e amori irrimediabilmente romantici: questo il materiale con cui costruisce il suo romanzo d’esordio l’inglese Luke Brown, editor nella vita, autore di La grande bugia, da poco tradotto per Mondadori da Marco Rossari.

Una storia esuberante ma assai malinconica su un mondo, quello letterario,  che pare in realtà isterilirsi sempre più in una sorta di incurabile vacuità. I fatti narrati ne La grande bugia sembrano confermare l’impressione stringente che i libri vengano scritti più per potersi consentirsi vite come quelle qui descritte che per essere letti da qualcuno. Anzi, i libri rischiano di diventare proprio l’ultima cosa in questo gioco al massacro di esibizionismi, ambizioni incerte, menzogne programmatiche che di tragico (anche se qui ci scappa pure il morto) hanno solo l’assenza di ogni tragedia. Per gli amanti di una buona, brillante letteratura di intrattenimento potrebbe non essere un male.

Nel romanzo di Brown, i personaggi – nonostante l’accento patetico del narratore che giura di piangere spesso (preso com’è dal suo amore impossibile, finito, angosciato dalla gelosia anche a migliaia di chilometri di distanza) – vivono come in una bolla d’irrealtà che alleggerisce o rende tollerabile qualsiasi cosa, compresa la morte dello scrittore argentino al centro della vicenda, scrittore che il narratore aveva proprio il compito di tenere lontano dal rischio di farsi del male da solo. Nella sua concitata affabulazione, dovuta al senso di fine imminente che incombe nella festa perenne dei giorni, in evidente contrasto con il finto understatement di un personaggio che mostra di minimizzare i suoi sforzi creativi,  Liam ci mette al corrente di come il dissoluto scrittore argentino lasci questo mondo al culmine di una notte di bagordi. Peraltro, non è che l’editor scherzi quanto a sostanze stupefacenti (ciò che di esse ama, fra l’altro, è la loro capacità di produrre una “sospensione dell’incredulità”: come è noto, la locuzione di Coleridge serve a indicare quella condizione fondamentale di “abbandono” del lettore-spettatore senza la quale la fruizione di un’opera di finzione diventa impossibile).

Di editor protagonisti di romanzi, la narrativa – anche italiana – offre sempre più esempi; la cosa potrebbe non essere casuale, né probabilmente va vista come il povero risultato di macchine immaginative a corto di soluzioni. Ne La grande bugia la conferma è palese benché extratestuale: come detto Luke Brown è un editor nella vita. Viene quasi il sospetto di un percorso a suo modo inevitabile benché non programmatico: se la letteratura perde sempre più terreno, più pubblico, non stupisce che l’autoreferenzialità del mondo che la produce, la chiusura sempre più stretta dei suoi orizzonti intorno al mondo degli “addetti ai lavori”, lasci emergere figure prima più appartate (addirittura ignote al pubblico dei meri lettori), che da presenze occulte si sono trasformate in personalità sempre più scoperte e seducenti della scena letteraria. Fino a quest’ultimo passo: l’editor finisce per sopprimere le sue stesse creature per accaparrarsi tutta la scena. Il demiurgo discreto fagocita i suoi figli, nella realtà e nella finzione (a un certo punto, il narratore-editor scrive: «Noi odiavamo gli scrittori. Brutta gente. Spazzini. Piccolo avvoltoi famelici che piluccano nelle scuole di scrittura creativa…»). Personaggio, star, dentro e fuori il libro. Compreso quello che si scrive da sé.

(Luke Brown, La grande bugia, trad. di Marco Rossari, Mondadori 2015, pp. 252, € 18)

Una specie di “musica da cameretta”

Leggere le poesie di Francesca Genti è come preparare il bagaglio per un viaggio lontano e incerto. Voglio dire che scorrendo le pagine di Bimba urbana, Il vero amore non ha le nocciole, Poesie d’amore per ragazze kamikaze, e per ultimo L’arancione mi ha salvato dalla malinconia, si prova quello stesso senso di sospensione che si ha per le cose che devono accadere, una vertigine alla bocca dello stomaco che dona gioia e sgomento.

Ed è questa la caratteristica più evidente che rende le poesie della Genti tanto riconoscibili, il fatto che senza essere banali, sanno, il più delle volte, riuscire a farsi riconoscere con semplicità, innestandosi sulle altre realtà come una voce fuori campo, il narrato di una didascalia che dice la vita così com’è, con i suoi riferimenti un po’ sfacciati e ironici alle cose di tutti i giorni (il Game Boy, i Ray-Ban di un nano, un gatto molto piccolo in un negozio), intonate però in un canto originale, quasi privato, che rende complice il lettore a prescindere dalla pazienza che esso è disposto a concedere alla poesia come genere.

Quello che scrive la Genti può fare appassionare alla poesia anche il più refrattario, perché il suo modo di comporre non è mai privo di un urgente bisogno di comunicare, di farsi intendere il meglio possibile, messo prima di ogni altra referenza letteraria o intellettuale (che pure ci sono).

Per quello che riguarda il carattere della poetessa, le sue sono “storie di ordinaria magia”, in cui il reale è stravolto dallo sguardo di una bambina/aliena/ragazza-normale, e dalla sua stessa presenza nei molti scorci esistenziali (dialoghi, descrizioni, ricordi) resi attraverso l’incalzare di una punteggiatura serrata (nell’Arancione i punti fermi non danno luogo a maiuscole successive) e di una musica in versi che coinvolge il lettore, circondato dagli oggetti poetici dell’autrice, ingaggiato con frasi brevi e taglienti, con una grande energia di ritmo, nel delinearsi illuminante di personaggi e situazioni.

Ma definire la poesia della Genti facile o ingenua sarebbe un errore. Come in ogni opera profonda, anche nei suoi lavori ci sono più piani di lettura sovrapposti. La cosa davvero interessante è che il sospetto dei piani secondari trova una consonanza generale, sviluppando vie diverse di una stessa pulsione, o riducendo a un tono simile occasioni diverse, la Genti cioè lavora in vista di una poetica personale, che ha alti e bassi, ma di cui è possibile (e divertente!) seguire la traccia.

Un’altra cosa che non bisogna sottovalutare è la vicinanza dell’autrice al lettore. I riferimenti che si trovano nelle poesie di Bimba urbana, per esempio, ma anche in quelle successive, generano un effetto piacevole che sa parlare, a quanti siano in ascolto, dell’infanzia passata davanti al televisore, chiusi nella gabbia dorata della fantasia, dei pomeriggi tutti uguali, di quella specie di normalità mostruosa che si chiama o chiamava adolescenza, a fronte di una maturità conquistata con consapevolezza.

Cosa che succede raramente in altri poeti (ma bisogna anche dire che alcuni lavorano su versanti diversi), tutto questo materiale profano passa nel campo di un piccolo universale, nel senso più pratico di una condivisione non di superficie. Ecco perché invitare alla lettura di Francesca Genti. Ecco da cosa deriva la curiosità di un’intervista. Perché come scriveva Saliger «gli autori che ti hanno colpito davvero, sono quelli a cui, di tanto in tanto, ti viene voglia di telefonare».


C’è un aneddoto sulla nascita di te come poeta? Hai iniziato per qualcosa o per qualcuno? Riesci a tornare con la mente al momento in cui “tutto è successo”?

Dunque, io sono diventata poeta per emulare mia nonna Fernanda che non ho mai conosciuto. Lei era la madre di mio padre, ed è morta giovane, a quarant’anni, molto prima che io nascessi. Scriveva poesie e faceva sedute spiritiche, era medium e poeta. Mio padre mi ha raccontato spesso di lei che per me è diventata una figura leggendaria e un po’ ossessiva, tanto da credere, verso i sei-sette anni, di essere la sua reincarnazione e di avere dei poteri magici che effettivamente ho constatato di avere: chi scrive poesie è infatti portatore di un’energia atipica. La prima poesia l’ho scritta durante l’estate tra la prima e la seconda elementare e si intitolava “La corteccia”, parlava di una giovane betulla dalla corteccia delicata, che però crescendo sarebbe diventata più robusta.

Un altro momento che ricordo molto significativo risale sempre all’infanzia, ero in montagna con mia madre, guardavamo gli alberi e toccavamo foglie e lei mi disse: «Sono importanti momenti come questi, dove lasciare correre il pensiero», quella frase mi è sempre rimasta impressa, penso sia vera e utile per scrivere poesie.


Ti capita mai di pensare che la poesia è un dono mobile, cioè una cosa che potrebbe abbandonarti o prosciugarsi lasciando posto ad altro? Accetteresti una condizione del genere o per te si è poeti sempre e per sempre?

Sì e no. La creatività è molto misteriosa e non si può che rimanere umili di fronte ai suoi meccanismi. Il non scrivere per un periodo può preludere a molte cose: cambiamenti di tema e stile, ma anche la fine di una modalità espressiva. D’altro canto nella mia vita presente considero poeti anche persone che non hanno scritto mai neanche una riga, quindi… Se comunque il “dono” della poesia dovesse abbandonarmi accetterei il fatto dignitosamente, lascerei andare la Musa per la sua strada, come ho sempre fatto quando sono finiti amori e amicizie.


I nomi di tre autori/autrici del passato che hai considerato parte di te, che hai visto come amici/amiche.

Sandro Penna. Aldo Palazzeschi. Jack Kerouac.


Il nome di tre poeti vivi che segui e leggi.

Gemma Gaetani. Anna Lamberti-Bocconi. Aldo Nove.


Secondo te qual è la condizione della poesia italiana? È in buona salute? Il fatto di non avere un ritorno commerciale solido potrebbe fortificarla o alla lunga ne segnerà la scomparsa?

Non lo so se la poesia italiana sia in buona salute o no, neanche mi interessa. Non riesco a vederla come un blocco unico chiamato “Poesia italiana”, la situazione è molto frammentata, comunque qualche buon autore c’è e cerco di pubblicarlo con Sartoria Utopia [questo è il nome della “capanna editoriale” gestita da Francesca Genti, ndr]. Il non ritorno commerciale è un problema non secondario, ma pertiene al lavoro culturale e non artistico, non è colpa dei poeti, ma degli editori… come poeta se non vendo non mi sento in difetto, come editrice se un libro da me pubblicato non vende lo considero un mio fallimento.


Per te che cosa è la poesia?

Non lo so bene. Ha a che fare con un aumento di vitalità, sia leggerla che scriverla.


Nell’esperienza della “capanna editoriale” mi sembra di vederci qualcosa di radicale, una scelta di “poesia come vita”, in questo c’è anche la volontà di liberarsi da una situazione un po’ soffocante quando delegata ad altri?

Sì, è così come dici tu. C’è un bellissimo libro di Mario Merz, il grande artista dell’Arte Povera, che si intitola Voglio fare subito un libro. Anch’io sono come lui. Non voglio delegare a nessuno l’urgenza del mio desiderio e del mio entusiasmo, vorrei sempre vivere seguendo il principio di piacere, come se non ci fosse il tempo di farsi soffocare dal principio di realtà.


I poeti devono cercare il contatto con il pubblico? Devono cercare di proporsi, o possono rimanere in disparte e fare affidamento sulle pieghe del caso? C’è una responsabilità minima che il poeta deve assumersi?

Ognuno secondo la sua indole, l’unica responsabilità che devono assumersi è quella rispetto alla propria opera


La vita di tutti i giorni incoraggia la scrittura?

Penso di sì, almeno la mia. Una vita molto normale, in cui non mi annoio mai. La scrittura è molto svincolata dalla quotidianità però, basta conoscere un pochino la storia della letteratura: tantissimi libri meravigliosi sono stati scritti in situazioni non proprio favorevoli e viceversa si possono trovare mille scuse per non scrivere.


Quali sono i tuoi scrittori stranieri preferiti?

Mi blocco sempre davanti a domande come questa, non so dirtelo, il mio scrittore preferito vivente è forse Michel Houellebecq, preferisco però fermarmi a questo nome e non fornirti un elenco.


Nelle tue poesie si sente un’attenzione molto forte per il ritmo, e per gli elementi musicali, coma la rima, le assonanze etc., che le rendono molto riconoscibili. Nella tua “carriera” di poeta ti sei mai resa conto di una svolta o di una maturazione decisiva del tuo stile? Quando è avvenuta?

Nella scrittura, come nel resto della mia vita, vado a scatti, sembra che tutto taccia e poi arriva un balzo felino in avanti o in altri casi cado a marcire in una buca per un po’, cerco però di non osservarmi troppo, per non ostacolare la spontaneità che è una caratteristica molto importante di ciò che scrivo


Le tue poesie accostano elementi reali della quotidianità e sogni post-moderni, da bimba urbana appunto, in una specie di “musica da cameretta”…

Vero, non ho altro da aggiungere.


Quando sai che una cosa che hai scritto è buona?

Di solito apprezzo quello che scrivo. Rileggo ad alta voce e cerco di sentire il suono, le cacofonie non mi spaventano.


Qual è la lettura più noiosa che hai fatto?

I diari di Musil.


E quella più divertente?

Gli effetti collaterali scritti nel bugiardino dell’Alka-Seltzer.


Ci sono critici, riviste o blog letterari che segui?

Qualche volta Nazione Indiana, Giorgio Mascitelli è il mio intellettuale di riferimento.


Attualmente scrivi per qualcuno? Hai aspettative intorno alla poesia? Vorresti che ti procurasse qualche cosa che non hai?

Non scrivo per nessuno, non ho aspettative, ma mi piacerebbe pubblicare per una casa editrice “importante”. La poesia è stata molto generosa con me per ora: mi ha procurato amori, amicizie, incontri, sbronze e viaggi a scrocco. Tutto quello che desideravo.


Sono in libreria, ho a disposizione una scaffalata di crimes, adult young, fantasy, best seller, grandi classici etc. Perché dovrei scegliere il libro di un poeta contemporaneo? E perché dovrei sceglierne uno di Francesca Genti?

Non dovresti, ma potresti perché la poesia, se lo è veramente, dice la verità e la verità è importante, aiuta a vivere in modo decente e a frenare la disgregazione del proprio io, inoltre è il modo più veloce per conoscere il presente e anche il futuro.

 

*

L’inizio dell’autunno

Andavano i pianeti in concrezione
nel cielo basso del primo pomeriggio:
era l’inizio, di nuovo, dell’autunno.
Munita di panino, burro e zucchero
nell’ovatta del centro della casa,
al centro della stanza mi sedevo.
Sprofondavo nel centro della stanza.
Era l’inizio, di nuovo, dell’autunno.
La fine dell’estate era sancita
dall’inizio, di nuovo, dei programmi.
La televisione emetteva vibrazioni,
i suoi colori bellissimi e ispirati
armonizzavano con l’aria frizzantina.
Era l’inizio, di nuovo, dell’autunno.
Tutto era completamente azzurro:
il cielo, le impressioni dell’estate,
la gigantesca tristezza che provavo,
i quaderni, le gomme, le matite,
il fottuto grembiule d’ordinanza.
Sprofondavo nel centro della stanza.
Davanti all’ oracolo-totem-focolare
sprofondavo nel centro del panino
lo zucchero non era per niente consolatorio.
Guardavo i miei cartoni preferiti:
un cane semi-handicappato,
adottato da un’orfana, innamorato di una gatta,
fidanzata, purtroppo, con un gatto molto grosso.
Così, per pomeriggi e pomeriggi,
stratificati, magliette tutte uguali in un armadio.
Una stupenda e sexy aliena con le corna
innamorata di un semi-debosciato,
innamorato di una gatta morta, a sua volta
innamorata del più bello della scuola,
innamorato della stupenda e sexy aliena.
Così per sempre. Nell’eterno dell’autunno
che si ripete in pomeriggi smisurati.
Un gigantesco suono di campane.
E solenni, dolorose, trascorrevano le ore.
Passi tutti uguali nei lunghi corridoi.
Si allineavano i pianeti nello spazio
formando trame delle nostre vite.
Cambiavano i compagni di banco, a giro ruzzolavano.
Nei cieli liquidi, amniotici, notturni
sfrecciavano pianeti, robot, astronavi.
Erano, questi colori, qualcosa di meraviglioso.
Soprattutto quando lottavano i robot.
L’arancione mi ha salvato dalla malinconia.
Pezzi di pianeti si staccavano, se li tiravano addosso,
anche le stelle venivano mangiate.
Così per tutti i giorni, eternamente. Andando.
Fino a che si sprofondava nell’inverno.
Le luci rinnovate del Natale, di nuovo, mi salvavano dal Male.

(da L’arancione mi ha salvato dalla malinconia)

 

***

Francesca Genti è nata a Torino il 27 giugno 1975, vive a Milano. Ha pubblicato i libri di poesia Bimba urbana, (Mazzoli 2001), Il vero amore non ha le nocciole, (Meridiano Zero 2004), Poesie d’amore per ragazze kamikaze, (Purple Press, 2009) e per ultimo L’arancione mi ha salvato dalla malinconia, (Sartoria Utopia, 2012). Come narratrice ha scritto i racconti “Il cuore delle stelle” (Coniglio Editore, 2007) e il romanzo La febbre (Castelvecchi, 2011). Con Manuela Dago ha fondato la capanna editrice Sartoria Utopia.

“Polvere. Dialogo tra uomo e donna”
di Saverio La Ruina

L’Uomo e la Donna non si conoscono bene, diciamo da un paio di giorni, e hanno solo iniziato a intepretarsi nella condivisione di una parca intimità e nell’imbarazzo di non saper dare un nome a quanto stanno vivendo. Eppure, già dalle prime battute di Polvere, Saverio La Ruina ci mette a disagio presentandoci l’Uomo e la Donna nel pieno di una discussione.

Una discussione piccola, banale, figlia di quelle insicurezze reciproche che colgono ognuno all’inizio di un rapporto amoroso, eppure una discussione capace di far sentire lo spettatore un ospite non gradito e inopportuno. Un quadro alla volta, lite dopo lite, ferita dopo ferita, umiliazione dopo umiliazione, si srotola il tempo della vita della coppia e si passa dall’affetto, all’amore, alla dipendenza. L’Uomo un agglomerato di insicurezze, il rapporto distorto con la sessualità, la figura della madre che si sovrappone a quella della donna indiana; la Donna un capolavoro senza carattere, le scuse dietro ogni parola, l’essenza della fragilità.

Sul palcoscenico quasi vuoto, essenziale come sono essenziali i corpi, le voci e lo stile degli attori che lo occupano senza soluzione di continuità per settantacinque minuti, ogni gesto è un atto di comunicazione forte ed ogni oggetto di scena un simbolo. Gli oggetti parlano, gli abiti parlano, i silenzi e i bui parlano, i gesti parlano. E’ impressionante quanto lo spettacolo di La Ruina sia un condensato di significati che grondano addosso al pubblico, mano a mano che la violenza si fa più scoperta e palese, facendolo sentire progressivamente più scomodo nelle poltrone, arrabbiato, disorientato.

L’atto violento con cui l’Uomo impone il silenzio alla Donna strizzandole i capezzoli è il simbolo eccellente sia della carica simbolica di quest’opera, sia di questo Dialogo tra uomo e donna che non è mai dialogo tra persone, ma tra poteri incarnati nelle caratteristiche distintive dei due sessi.

Polvere è uno spettacolo catartico nel senso classico del termine. La visione di quest’opera conduce chi guarda al di là della valutazione puramente estetica perché lo costringe a confrontarsi con se stesso. Con la coscienza di essere stato almeno una volta nella vita geloso, violento, inquietante, ma anche sottomesso, remissivo e vinto, lo spettatore si rende conto che quella della violenza è una degenerazione della realtà domestica che si costruisce un passo alla volta in tutti i giorni che precedono il primo schiaffo.

Polvere. Dialogo tra uomo e donna
di Saverio La Ruina, con Saverio La Ruina e Jo Lattari

Roma – Teatro India dal 10 al 15 febbraio
Cosenza – Teatro Morelli 27 Febbraio
Venezia – Teatro Ca’ Foscari 4 e 5 marzo
Udine – Teatro Palamostre 6 marzo
Bologna – Teatro dell’Argine 7 marzo
Lumezzane – Teatro Odeon 12 marzo
Genova – Teatro del Ponente 13 marzo

“Fantasmi” dei Fantasmi

Avevamo già parlato, in parte, dell’album Fantasmi dei Fantasmi, gruppo romano nato dalle ceneri dei Kamchatka. A ottobre, la Bravo Dischi aveva fatto uscire uno split EP di promozione dei propri primi tre gruppi prodotti: due brani a testa per Mai stato altrove, Joe Victor e, appunto, i Fantasmi. Le sensazioni erano di un potenziale buon prodotto e, a qualche mese di distanza, l’album d’esordio del gruppo capitanato da Alessandro Lepre (che è anche metà del duo acustico The Shalalalas) non fa che confermarle.

Tra Verdena, The Strokes, elementi di elettronica ben calibrati all’interno dei nove brani, Fantasmi è un album che fa perno su un linguaggio narrativo semplice – per quanto semplice possa essere un termine ambiguo, in questo caso ci troviamo in una narrazione che ha un immediato riscontro razionale, ma che nasconde, ascolto dopo ascolto, sub strati che emergono con forza ma che, ed è qui l’aspetto cruciale, non straborda da un certo limite in cui i Fantasmi hanno deciso di far viaggiare il loro album d’esordio – e l’interpretazione stessa dei testi. E l’interpretazione di quello che si fa, il modo in cui si decide di raccontare qualcosa, più che l’oggetto stesso, distingue un prodotto credibile da uno meno credibile. La forza di quello che Lepre fa uscire da ciò che ha scritto, ci pone di fronte a qualcuno che sa quello che sta facendo, dove nessuna parola, nessuna sillaba, nessun fonema è messo lì per caso. La voce, e l’interpretazione del testo stesso, si piegano in maniera intelligente tra distorsioni, cambi di tempi, cambi di bpm: sono nei loro spazi e fanno esattamente quello di cui il brano ha bisogno.

“L’amore” è la traccia d’apertura, con i suoi beat elettronici che un po’ alla volta vengono accompagnati da un basso incalzante e un riff di chitarra pulito che termina in un’esplosione che può ricordare i Bloc Party di Silent Alarm. Si continua con “Kimi”, dove emergono le influenze degli Strokes e poi con “Le nostre vite”, uno dei momenti più alti dell’album: dietro a una struttura strumentale che coniuga pop, post punk e post-rock, la voce ripete uno stesso concetto, quello di affrontare dinamiche sociali, individuali, sentimentali, facendo finta di affrontarle: facendo finta di stare bene, facendo finta di essere felici, facendo finta di averci provato. La costruzione di un’auto illusione cosciente di un’idea soffocante che le cose vadano comunque bene, sempre, qualsiasi cosa accada, per la conservazione di uno status quo che rassicura, in una poetica che rimanda a un certo tipo di letteratura, soprattutto americana: da John Cheever a Richard Yates, fino a Raymond Carver.

In “Bianca” riemergono le influenze degli Strokes (Is This It), mentre in “L’ultima febbre romantica”, l’outro, con un repentino e spiazzante cambio di scala, sembra una sintesi di quello angoscioso fatto dai Verdena in “Glamodrama”.

“Il sogno americano”, con il cantato parlato, gridato, non-melodico, si rifà a un mondo che ha avuto come maggiori esponente i CCCP e a cui oggi i Managment del dolore post-operatorio stanno basando il proprio modo di esistere. Fantasmi è pieno di un sentimento che sfiora la rassegnazione e il disincanto: le cose vanno in un certo modo e ce le facciamo andare bene, in un’oppressione che sembra poter avere origine dall’esterno, ma che forse nasce e si sviluppa in noi. In quest’ottica, “All’uscita del circo” (quale circo? la realtà che viene menzionata? Gli altri? Noi?), sembra l’unica via per scappare: «Se sei chiuso nell’oscurità, se sei vittima della realtà, se non riesci a ritrovarti io sono qua».

Fantasmi è un lavoro ben strutturato, coerente nel suo essere mutevole. Un album che funziona, che ha le caratteristiche per imporsi a livelli importanti. I Fantasmi sono onesti, e un’onestà di questo tipo è la base su cui poter fondare una carriera autorevole.

“Selma – La strada per la libertà”
di Ava DuVernay

Dopo i premi al Sundance Film Festival per Middle of Nowhere nel 2012, Ava DuVernay esce dalla sfera più indipendente del cinema per raccontare la storia della marcia che nel 1965 coinvolse migliaia di persone sulla strada che porta da Selma alla capitale dell’Alabama, Montgomery. Agli attivisti di colore si aggiunsero, dopo i primi due falliti tentativi, semplici cittadini bianchi ed esponenti di varie culture religiose per pretendere insieme il riconoscimento del diritto di voto alla popolazione afro-americana (di fatto già garantito costituzionalmente, nella prassi impedito con mezzi di ogni tipo negli Stati Uniti meridionali). Parallela alla preparazione della marcia si sviluppa la trattativa politica che Martin Luther King Jr. porta avanti con il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson per avere garanzie sul corretto svolgimento della manifestazione e sull’assenza di ripercussioni violente.

Era il 2010 quando il presidente dell’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences Sid Ganis annunciava che la categoria miglior film dei premi Oscar sarebbe stata estesa da cinque a dieci titoli. Una scelta che, nelle intenzione dei vertici dell’Academy, avrebbe dovuto portare a una maggior presenza di film provenienti da realtà diverse da quella hollywoodiana dominante. Documentari, quindi, ma non solo, anche titoli non in lingua inglese, prodotti di altri paesi, o addirittura film d’animazione. Per far vedere che facevano sul serio, i membri dell’Academy decisero di inserire nella decina finalista di quella edizione titoli come District 9 dell’esordiente sudafricano Neill Blomkamp e il cartoon capolavoro Up.

L’anno successivo si è continuato con la nomination per Toy Story 3 – La grande fuga e la vittoria del britannico Il discorso del re, a cui è seguita nel 2012 il trionfo del francese The Artist. Nel 2013 il premio è tornato negli Stati Uniti (con Argo), ma tra i candidati c’era ancora la Francia con Amour, mentre nel 2014 toccava a Philomena di Stephen Frears ricordare che il cinema non è solo statunitense.

Di cartoon, finora, non ce ne sono stati di nuovi, documentari non si sono visti, e nell’edizione 2015 non sono stati candidati neanche film non in lingua inglese. Comunque, nell’edizione di quest’anno prosegue un’altra tradizione che ha trovato il suo consolidamento definitivo dal 2012, anno in cui Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali per la seconda volta. Dai premi Oscar di quell’anno ci deve essere, a tutti i costi, almeno un titolo tra i candidati al miglior film che tratti tematiche collegate alla segregazione razziale, al razzismo e più in generale alla condizione degli afro-americani degli Stati Uniti. Non che ci sia un regolamento che lo imponga, tutt’altro, solo che è diventato prassi. Fino a un certo punto è stato facile: c’erano dei titoli validi e inserirli nella rosa dei candidati risultava comunque doveroso. Nel 2012 è toccato a The Help di Tate Taylor, nel 2013 a due film che hanno usato approcci ben diversi per parlare dello schiavismo, Lincoln di Steven Spielberg e Django di Tarantino, fino all’apoteosi dello scorso anno con la vittoria di 12 anni schiavo di Steve McQueen, ancora sulla schiavitù.

Proprio nel 2014, però, si è rischiato grosso. Perché prima dell’annuncio delle nomination circolava con una certa convinzione il nome di The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca di Lee Daniels come gran favorito per vincere tutti i premi a disposizione. Nei fatti, non ha ottenuto neanche una nomination, e nessuno degli altri premi (Golden Globes, SAG) a cui era candidato. Dov’era il rischio? Il fatto è che The Butler è un film assolutamente mediocre, retorico, realizzato male e di scarso spessore. C’è Oprah Winfrey, che torna a recitare quindici anni dopo Beloved e a quasi trent’anni di distanza dall’esordio con candidatura per Il colore viola, e probabilmente la presenza della donna più potente degli Stati Uniti spiega la quantità quasi infinità di attori e personalità presenti (dal protagonista Forest Whitaker alle parti piccolissime di gente come Robin Williams, John Cusack, Alan Rickman, Jane Fonda, Lenny Kravitz, e altri ancora). Se avessero aggiunto The Butler nella rosa dei candidati il gioco di dover considerare a tutti i costi per l’Oscar un film sugli afro-americani sarebbe stato troppo evidente, avrebbe fatto perdere di credibilità.

Selma di Ava DuVernay ha più di un elemento in comune con The Butler: il protagonista David Oyelowo, per cominciare, che nel film di Daniels interpretava il figlio ribelle del maggiordomo, e di nuovo Oprah Winfrey, che si prende una parte più piccola, ma come produttrice riesce comunque a richiamare una serie di attori per piccoli ruoli. I due film condividono anche un limite nell’esagerazione, nelle troppe trame che vengono accennate e non sviluppate. Il Martin Luther King Jr. di Selma è sempre sospeso tra dimensione privata e dimensione pubblica, tra la sua vita domestica e il suo essere personaggio pubblico. I due momenti, però, non sono in equilibrio. La famiglia del Dottor King viene sfruttata come pretesto per episodi trascurabili, per quella tendenza all’accumulo di un film che vuole provare una dimensione corale che non riesce mai a raggiungere. La scelta di Ava DuVernay è chiara sin dal titolo, in teoria: il suo film non vuole essere un biopic su Luther King, ma la ricostruzione di un momento della storia dei diritti civili americani. Solo che si confonde in fretta: inizia con il Nobel per la pace di King, si sposta sulle minacce personali, sulle telefonate anonime, sulle liti con la moglie, facendo intuire anche le debolezze del King uomo. Tutto, intorno al Dottore e alla moglie, però, è bidimensionale, dagli altri personaggi alla ricostruzione storica (inspiegabile il fugace incontro con Malcom X, tanto per metterci in mezzo anche lui), e Lyndon Johnson e il governatore dell’Alabama George Wallace sono salvati solo dal mestiere di attori come Tom Wilkinson e Tim Roth.

È chiaro che una storia come quella di Selma è capace di colpire più facilmente il pubblico statunitense, che può e deve continuare a indignarsi per le pagine più vergognose della sua storia, e che il film della DuVernay non manchi di coinvolgimento emotivo e onestà di intenti, ma sembra che la presenza del film nell’elenco dei candidati agli Oscar sia stata forzata per portare avanti questa recente tradizione di film razziali sempre candidati. È, comunque, molto meglio di The Butler, ma non è al livello di nessuno degli altri candidati.

(Selma – La strada per la libertà, di Ava DuVernay, 2014, storico, 127’)