“Medaglioni”
di Fernanda Pivano

Non solo ponte tra la grande letteratura americana e l’Italia ma anche testimone e animatrice dei fermenti culturali del secolo scorso.

Fernanda Pivano è un mondo che si squaderna davanti ai nostri occhi per abbracciare tutte le discipline creative dell’umano talento fino a toccare le più remote plaghe: dall’arte alla musica, dal giornalismo alla scienza, dall’architettura alla società, dalla letteratura al cinema, la danza e il teatro.

Medaglioni (Skira, 2014) è un viaggio spazio-temporale attraverso i ritratti di vite descritte con pennellate d’acquerello, ma per nulla sbiadite, di illustri personalità del Novecento.

Giudizi in presa diretta, pareri insofferenti alla prudente cerimonia, aneddoti ironici, pettegolezzi e divertissement animano il gran teatro della lettura di questo libricino.

Leggendo Medaglioni, ho pensato che avrei voluto essere quel lapis rosso brillante dal tratto morbido che Fernanda Pivano all’Hotel du Cap di Saint-Tropez donò a Pablo Picasso per firmare autografi e stupirmi del contrasto stridente fra la grandezza dell’artista, icona della pittura moderna, e il suo dimesso e grottesco aspetto fisico: «un uomo basso e tarchiato, vestito in calzoni da marinaio e casacca a fiorellini degni di Musset».

O magari avrei voluto essere la protagonista di un fumetto di Andrea Pazienza, «precoce interprete di un mondo acido e sballato» degli anni Sessanta di cui ha interpretato «l’anima carnevalesca, poetica, dissacrante», il «James Joyce del fumetto», come lo definì Tondelli.

Ma forse ancora di più mi sarebbe piaciuto venire servita con mandorle al burro e ciliegie arrosto dal cameriere giapponese di Peggy Guggenheim per poter anche io con Fernanda provare quel «sollievo ora e sempre ogni volta che uscivo per qualche minuto dalle insidie del nostro terribile provincialismo italiano» e venir dilettata dallo humour della famosa mecenate e collezionista d’arte, «immortale dea dell’art painting e dell’espressionismo astratto dell’inafferrabile Jackson Pollock, protagonista degli amori di Samuel Beckett e di Marcel Duchamp, regina per sempre dello charme senza confini di Max Ernst», il pittore e scultore dagli occhi «più belli della storia della pittura contemporanea».

Poi ho pensato che avrei voluto confondermi tra il pubblico dei concerti, mostre e conferenze che, nella Torino degli anni Quaranta, immancabilmente presenziava Felice Casorati e riconoscere quel «sorriso cordiale» che Dondolo, questo il suo soprannome «per via del’atteggiamento che Casorati assume davanti a un quadro da giudicare», dispensava a tutti e venire impressionata, come la ragazzina Fernanda, dai suoi stivali oppure mimetizzarmi fra i suoi allievi perché «era chic potersi incontrare con lui per cinque minuti».

Avrei voluto poi intrufolarmi nello studio di via Margutta a Roma del pittore Renato Guttuso «pieno di ragnatele e quadri incominciati» o magari fra gli invitati delle favolose feste dello scrittore e fotografo americano Carl Van Vechten nella New York degli anni Venti, lasciandomi affascinare dalle decorazioni esoteriche in chiave esotica alle pareti e abbacinare dalle «vetrine illuminate soltanto nell’interno che contenevano maschere teatrali cinesi o scarpini da ballo thailandesi».

Fernanda Pivano serve fette di vita, vive storie essendo geograficamente sempre da un’altra parte. Incontri memorabili da Michail Gorbacëv a Marlon Brando, da Moravia, «violentissimo nella sua irruenza», a Carla Fracci, da Renzo Piano, «grande maestro contemporaneo di arte e vita» a Giovanni Agnelli.

Infine ho riflettuto che non basterebbe una vita per ripercorrere tutti i territori dell’arte, la scienza e la società esplorati da Fernanda Pivano e mi sono detta che, sì, anche io avrei voluto essere Fernanda Pivano.

(Fernanda Pivano, Medaglioni, a cura di Enrico Rotelli, Skira, 2014, pp. 160, euro 15,50)

“Kamchatka”
di Marcelo Figueras

Lo puntualizzo subito, non è una grande idea. Ma io scelgo il bagno.

Mi piacerebbe propinare soluzioni spiazzanti, torrioni merlati sulla nuca di un bosco, botole sgargianti di codici algebrici, ma quando voglio potare tutti gli altri rumori, tosare per bene la mia vita sociale, io mi rannicchio lì. E sono soltanto un’inquilina che respira. Il magma della vasca, il vapore alle finestre e il raggiante imperativo di essere un semplice corpo che beve calore.

Ecco, è quella la mia Kamchatka (L’Asino d’oro, 2014). Una penisola vulcanica dove sentirsi remoti, come un tempo non più coniugato. Perché scappare spesso è un’urgenza.

Marcelo Figueras ce lo racconta a dovere. Nel romanzo che ha il nome di una formula magica.

Kamchatka, appunto. È una terra strategica, dove persino quando tutto è perduto, è quasi facile sentirsi al sicuro. Per chi gioca a Risiko è un suono familiare.

Lo fa sempre il protagonista di questa storia. Lo fa con suo padre, che padroneggia le mosse e lo costringe al declino. Ha dieci anni nel ’76 e frequenta con gioia la sua vita di bambino, a Buenos Aires.

Fin quando la mamma non lo preleva da scuola per catapultarlo nella fuga. Non sa, non capisce, ma deve tranciare ogni legame. Accantonare Bertuccio, le sue cotolette, gli odori e i pigiami dentro cui si è allungato.

E si ritrova in una casa antipatica, in una classe cattolica, ma non si dispera. Perché per lui e per suo fratello il Nano questa è anche un’occasione. Un’avventura improvvisa di reinventarsi un destino.

Un gioco, ovvero qualcosa di serissimo. E di rocambolesco. Decide di chiamarsi Harry, come il grande Houdini e come lui progetta l’impossibile. Sganciarsi dai lacci ed essere libero, anche se inscatolato dentro una cassa, anche zuppo di buio, con i polmoni sottovuoto e il fiato corroso.

La situazione si annerisce, la mamma non lavora più, il papà strepita dalle cabine del telefono e la salvezza per tutti è una promessa di cera. Non c’è abbastanza spazio per quattro cuori clandestini e una scelta incombe. La più dura, la più necessaria. Lasciarli dai nonni, lasciare a loro che restano la parola “futuro” e tutte le altre che serviranno a riempirla.

Harry e il Nano sono figli di due desaparecidos, di quegli stormi di nomi e di storie ingollati da un burrone d’oblio nel periodo tra il 1976 e il 1983 in Argentina, sotto il comando di Jorge Rafael Videla.

Trentamila oppositori cancellati dal registro, come si fa con gli errori ortografici.

Ma il romanzo di Figueras, diventato un film diretto da Marcelo Piñeyro, non è allagato dall’assenza come sarebbe facile ipotizzare o proporre. L’intenzione è esattamente l’inversa.

Gli scomparsi riemergono con il loro tepore di sogni e risate. Sono uomini, donne, adulti pieni di manie rituali e di ovvietà indispensabili, costretti a imboscarsi o, come anche avvenne, a raccontarsi diversi, a fingersi altro. Ma non sono fantasmi, non trascinano ombre e catene al loro passaggio.

Quella di Harry è una vita spassosa, malgrado tutto. Quella di un ragazzino che esplora ogni briciola, che sforna trampolini per salvare i rospi. I suoi genitori sono carnali fino all’ultimo. Sono il suo sangue, torrenti di vite dentro la sua. E non c’è dittatura che possa arginarlo.

È lui stesso a confermarcelo in un frammento splendido: «Col tempo ho capito che le storie non finiscono, in realtà. E ho una spiegazione che è in parte storica (la parte che devo a papà) e in parte biologica (la parte che devo alla mamma) e in parte poetica: di quest’ultima sono l’unico responsabile.

Io credo che le storie non finiscano, perché anche quando ormai i protagonisti non ci sono più, le loro azioni continuano ad avere effetto su chi è rimasto. Credo quindi che la Storia sia l’oceano in cui sfociano i fiumi selle storie individuali. Le vite che ci hanno preceduti ci offrono una cornice. Noi siamo il prolungamento di quelle storie, così come quelli che verranno poi prolungheranno le nostre. […]

Io credo che le storie non finiscano, perché anche quando una vita esaurisce le sue energie, dà vita ad altre vite. Un corpo morto non fa che moltiplicare la vita che vive sottoterra, perché dia frutti sulla terra e nutra i tanti che morendo daranno vita. Finché ci sarà vita in questo universo, nessuna storia finirà del tutto: si trasformerà. Quando moriamo, il racconto della nostra vita si limita a cambiare di genere: non più un poliziesco, una commedia, una storia epica, ma un libro geografia, di biologia, di storia».

Harry sa che c’è un terreno inespugnato, quella zolla di ricordo e d’amore in cui suo padre lo sconfiggeva a Risiko preparandolo a ben altre battaglie. Sa che da lì, da quella Kamchatka di scosse e di ghiaccio, può ripartire per il resto del mondo. Per il resto dei giorni.

E la sua ironia, la leggerezza invincibile che attraversano Kamchatka sono già una vittoria.

Se come scriveva Pasolini con la voce di Modugno «il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro», Harry ha le mani che strabordano. Di una famiglia mai spezzata, dell’orgoglio di farla resistere in mezzo ai colpi di chi vorrebbe strozzarla. Che ha sottratto tutto senza realmente impossessarsi di nulla.

Figueras ha dichiarato:«Ho scritto Kamchatka perché dovevo farlo. Se non lo avessi fatto sarei morto per combustione spontanea, come un personaggio di uno dei miei romanzi preferiti di Dickens».

Quindi, oltre a evitare una tragedia, abbiamo guadagnato un gran libro.

(Marcelo Figueras, Kamchatka, trad. di Gina Maneri, L’asino d’oro, 2014, pp. 369, euro 14)

 

“Pezzi di vetro” di Alain Mabanckou

Spassoso romanzo di Alain Mabanckou, Pezzi di Vetro è l’ultimo fra altri pubblicati in italiano da 66thand2nd dello scrittore congolese nativo di Pointe-Noire (il libro era già stato tradotto anni fa da Morellini). Mabanckou scrive in francese, insegna letteratura a Los Angeles, è autore di un certo successo sia critico che commerciale.

Il centro del libro è un luogo, il bar Credito a morte, il cui proprietario chiede al narratore di celebrare – e tenere così vivo nella memoria altrui – raccontando la vita dei suoi avventori. Pezzi di vetro, il narratore, lo prende in parola, e lascia andare le sue fra i casi di vari personaggi accomunati da un certo gusto alcolico che il locale ovviamente non fa che solleticare. Gente più o meno bizzarra, i frequentatori del locale appaiono talvolta come candidi buontemponi, in altri casi protagonisti di vicende tragicomiche, propensi a condurre una vita ilare e beffarda – e con una spiccata predilezione per il sesso, va detto. Spesso sono tizi afflitti da mogli invadenti e petulanti (col loro corteo di parenti soffocanti e a modo loro perbenino, e timorati di Dio, però sensibili alle tradizionali superstizioni di improbabili stregoni).

Il narratore ascolta, compila il suo quaderno di appunti, prende a cuore le sorti del locale, preso di mira intanto dalla chiesa perché la gente più beve meno prega, soprattutto considerando che il bar si riempie il sabato sera e la messa si fa la domenica mattina: per non dire degli ex alcolizzati e neofiti appassionati della purezza cristallina dell’acqua, o fan della Fanta e dell’Oransoda, che come tutti gli ex e tutti i neofiti sono tendenzialmente integralisti. In tutta questa gazzarra Pezzi di vetro riserva a se stesso un posto come guest star (fintamente restìo a parlare di sé, si decide a farlo perché in quel consesso sarebbe come rifiutarsi di bere in compagnia). Ex maestro elementare malvisto da tutti e praticamente cacciato dalla scuola per le sue intemperanze alcoliche, Pezzi di vetro prepara il gran finale come correndo a perdifiato: cioè attraverso una prosa senza punti, che un po’ simula l’approccio orale di un narratore indifferente alla struttura romanzesca, a una trama, e una lingua sorniona, ironica fino al sarcasmo, ben resa nella traduzione dal bravo Daniele Petruccioli. In un’affabulazione divertita, ricca di echi letterari, Mabanckou lascia andare respiro e fantasia di pari passo, per raccontare un’Africa ancora alle prese con i cascami del colonialismo, degli abusi di potere, dei contraccolpi della migrazione. Il tutto rovesciato in un’energia incontenibile di storiacce sghembe ma vitalissime.

(Alain Mabanckou, Pezzi di vetro, traduzione di Daniele Petruccioli, 66thand2nd, pagg. 192, 16,00 euro)

“Whiplash” di Damien Chazelle

Alla sua seconda esperienza dietro la cinepresa, il trentenne Damien Chazelle confeziona un melodramma jazz che scivola quasi nel thriller musicale, e centra il segno con cinque nomination agli Oscar, trascinato dalle sontuose interpretazioni di Miles Teller e J.K. Simmons, che si è già aggiudicato il Golden Globe e ora è il grande favorito per la statuetta come migliore attore non protagonista.

Andrew Neimann (Miles Teller, The Spectacular Now, Divergent, Two Night Stand) è un talentuoso e tenace batterista al primo anno del Conservatorio Schaffer di New York, la migliore scuola di musica del Paese (che non esiste, nella realtà); privo di amici, passa le notti ad esercitarsi ossessivamente alla batteria, nel silenzio della scuola deserta. Terence Fletcher (J.K. Simmons, Juno, Spiderman), temuto ed esigente direttore d’orchestra, passa le sue notti girando per i corridoi della scuola, sempre alla ricerca di musicisti che possano entrare a far parte della sua esclusiva Studio Band; qualcuno da poter plasmare e portare alla grandezza. Notato da Flecther, Andrew viene scelto a sorpresa per entrare nell’orchestra. Il maestro sprofonderà in fretta l’allievo in una realtà di esercizi estenuanti, di sangue, sudore e lacrime, di umiliazioni e soprusi verbali, talvolta anche fisici. Diventa così un incontro/scontro tra studente ed insegnante, tra limiti della carne e limiti mentali, tra l’adagiarsi soddisfatti su di un risultato e il continuare a cercare di superarsi, senza pace, senza sosta. Fletcher rende così la vita del suo studente un inferno nel quale Andrew può sopravvivere ed emergere solo dedicando anima e corpo alla pratica, alienandosi, marginalizzando tutto e tutti nella sua vita.

Si narra che Charlie Parker, leggendario ed innovativo sassofonista nonché padre fondatore del jazz moderno, diventò “Bird” dopo che una sera del 1936, al Reno Club di Kansas City, il batterista Jo Jones gli tirò in testa un piatto della batteria durante un suo deludente assolo; umiliato, l’allora sedicenne sassofonista si esercitò senza sosta, intensamente, e un anno dopo, sullo stesso palco, la sua leggenda ebbe inizio, cambiando per sempre la storia della musica.

Questa è la premessa fondamentale di Whiplash; per raggiungere l’eccellenza, la vera grandezza, la strada da percorrere è fatta di abnegazione, di rinunce, di sangue misto a sudore, di continua insoddisfazione; perché, come Fletcher confida ad Andrew: «Non esistono in qualsiasi lingua del mondo due parole più pericolose di: “bel lavoro”».

La figura di Charlie Parker, più volte citata nel film, è un feticcio che serve sì a parlare di jazz, ma per arrivare poi ad argomenti altri, a qualcosa di più grande in senso assoluto; è giusto spingere così tanto, caricare di una tale pressione, una persona? Il fine giustifica i mezzi? Esiste un limite oltre il quale questo continuo e sfiancante martellamento verso la grandezza potrebbe invece interrompere un talento? Non secondo Fletcher, non secondo Damien Chazelle. Il futuro Charlie Parker non si farebbe scoraggiare, perseguirebbe il suo obiettivo, a qualsiasi costo, anche se dovesse «morire povero, alcolizzato e pieno di eroina a 34 anni». Non sarebbe corretto privare il mondo del suo talento; ma forse, si domanda Fletcher, è questo che il mondo vuole ora: un’educata mediocrità.

Il personaggio di Fletcher, e il suo tossico, seppur produttivo, rapporto con Andrew, è ciò che rende l’atmosfera di Whiplash così intensa; ora rassicurante, ora spietato, avere il suo rispetto di musicista, vedere il suo sguardo compiaciuto, diventa l’unico desiderio di Andrew, quindi dello spettatore. Ma Fletcher non è il cattivo, non in senso canonico quantomeno; è più un male necessario per un bene superiore, e nel corso del film la percezione che si ha di lui è in continuo divenire, così come i suoi umori, così come il personaggio di Andrew nella sua evoluzione di musicista e involuzione di essere umano.

Senza nulla togliere alla perfetta interpretazione di Miles Teller, presente in ogni singola scena del film, a farla da padrone, a recitare il ruolo principale, seppur nel paradosso di attore non protagonista, è il superlativo J.K. Simmons. La sua recitazione è totale; ogni sguardo, ogni espressione, ogni movimento sono calcolati per far crescere la tensione e la frustrazione nello spettatore. Una performance indelebile che gli è già valsa un Golden Globe e una più che meritata candidatura agli Oscar 2015.

Il regista e sceneggiatore Damien Chazelle, dopo il pregevole Guy and Madeline on a Park Bench del 2009, dirige un’altra pellicola musicale con un ritmo incalzante, tagliente, piazzando la telecamera a pochi centimetri dalle facce dei propri attori, per cogliere ogni sfumatura, ogni smorfia di fatica o dolore, con poche, pochissime pause; la tensione generata porta lo spettatore a sperare per il meglio, preparandosi, però, sempre al peggio. Nei rari momenti in cui non si consuma il rapporto tra studente e mentore, questa tensione viene tenuta alta dagli scontri che Andrew intrattiene ora con la sua famiglia sull’idea di “successo”, ora con la sua ragazza che vede come una distrazione e un ostacolo alla sua carriera , in quel processo di inseguimento della perfezione, di riordino delle priorità e conseguente alienazione auto imposta.

I brani sono stati composti prevalentemente da Tim Simonec, direttore d’orchestra e compositore di oltre ottanta film, tra cui John Carter, UpApes Revolution – Il pianeta delle scimmie, ed è tutta da discutere la scelta dell’Academy di tenere fuori dalla cinquina per la miglior colonna sonora un film così fortemente collegato alla musica.

Presentato come un corto al Sundance Film Festival del 2013, in cerca di finanziamenti poi ottenuti, Whiplash è tornato al festival l’anno dopo come film d’apertura, vincendo il gran premio della giuria; ha ricevuto cinque candidature agli Oscar 2015 per il miglior film, migliore attore non protagonista (J.K. Simmons), migliore sceneggiatura non originale, miglior montaggio e miglior sonoro.

(Whiplash, di Damien Chazelle, 2014, drammatico, 107’)

“Girls in Peacetime Want to Dance” di Belle and Sebastian

Il Clyde è un fiume largo, piatto, grigio. Nasce nel Lanarkshire meridionale, non molto a nord del vallo di Adriano e poi, prima di addormentarsi nella sua profonda baia, la Firth of Clyde, bagna silenzioso la città di Glasgow. Il cielo di Glasgow è come il Clyde: largo, piatto, grigio. Sembra che nei secoli gli abitanti del luogo, i glaswegians, abbiano sviluppato una sorprendente capacità immaginativa, una sorta d’alienazione favolistica, per poter trovare colori che contrastino il cielo e il fiume. Di queste parti era James Matthew Barrie, il creatore di Peter Pan, così come Donovan, il re del folk scozzese, e la Avarage White Band, felice esperimento di funk europeo che nulla aveva da invidiare a sua maestà James Brown.

Da quasi un ventennio i Belle and Sebastian si sono aggiunti, con grazia ed arguzia, a questa già illustre hall of fame. La loro ultima fatica, Girls in Peacetime Want to Dance (Matador, 2015), rappresenta, o per lo meno vorrebbe rappresentare, una svolta. Una svolta artistica, musicale e, perché no, concettuale. Una svolta, dicono gli stessi interessati, dovuta ad una crescita, ad una maggiore consapevolezza e ad un più ampio raggio d’ascolto del panorama musicale internazionale, che ha portato Murdoch e soci a partorire la seguente idea: perché non facciamo un disco dance?

C’è da dire immediatamente che il mutamento così tanto sbandierato a parole è meno evidente alla prova dei fatti. L’impostazione di fondo rimane sempre un’idea di pop sognante, favolistico, che si porta dietro un’intatta capacità del gruppo di comporre melodie semplici, accattivanti e di sicuro, ma anche facile, impatto. Basta ascoltare l’iniziale “Nobody’s Empire”, primo singolo estratto, oppure i ricami vocali di Steve Murdoch in “Everlasting Muse”, per rendersi conto che melodia e voce soffice rimangono i temi portanti dei Belle and Sebastian. D’altronde non c’è inganno, nessuna presunzione: «be popular, be pop, and you will win my love», si ascolta sempre nella stessa “Everlasting Muse”.

Il cambiamento però c’è stato. È un cambiamento di contorno e non di sostanza, di produzione e non di contenuti. Non bastano, infatti, qualche tastiera, alcuni sintetizzatori e un’ottima produzione a trasformare un gruppo di adolescenti che componevano buone canzoni da cameretta in scatenati animali da dancefloor. Tutto suona, in fin dei conti, ingenuo e superficiale, tra le timide schitarrate post-punk di “Perfect Couples”, forse una delle più riuscite del lotto, e le cavalcate eurobeat di “Enter Sylvia Path”, opaca fin dalla terza battuta, con un incedere che sembra dover esplodere da un momento all’altro ma non decolla mai e una Sarah Martin che vuole scimmiottare la morbidezza vocale di una Laetitia Sadier degli Stereolab, con scarsi risultati.

“Storia della bambina perduta”
di Elena Ferrante

Quando finalmente ho preso in mano Storia della bambina perduta (e/o, 2014), di Elena Ferrante, quarto e ultimo volume del ciclo L’amica geniale, mi sono sentita un po’ come quando ti manca l’ultimo tassello di un puzzle: dopo aver atteso quasi un anno da ogni pubblicazione, finalmente chiudi il cerchio, vedi come va a finire questa saga napoletana, che parte dagli anni Cinquanta passando per il Sessantotto, i movimenti studenteschi, il femminismo, le stragi, la camorra e il terremoto, fino a Tangentopoli e al Berlusconismo.

Al centro naturalmente l’amicizia di Elena e Lila, due bambine capaci e brillanti, cresciute nel fango di quella miseria napoletana inalandone gli odori e i miasmi, che ti si appiccicano dentro mentre leggi e ti invischiano con una trama sottile nella materia del romanzo.

Perché la scrittura di Elena Ferrante è urgente e feroce, una bestia che ti bussa alla porta come l’Orco più nero: non puoi non aprire. E allora ti butta addosso il sole amaro di Napoli, carne secca e cenere come a Carnevale, quando tutto è festa e colore, ma sa già di putrido.

La lezione si impara fin da piccole: ci sono solo due modi per sopravvivere, puoi sgobbare sui libri per scappare lontano e ricominciare, come fa Elena, o puoi restare e lottare, come Lila. È un gioco, una scommessa, una pallottola che gira. Pari o dispari, devi scegliere. Se parti perché vinci una borsa di studio all’Università e diventi abilissima con la penna, trasformi Napoli in inchiostro per le tue pagine; se resti perché non hai potuto studiare, ma sei brillante e carismatica, puoi provare a domarla, a dettare tu le regole del gioco. Qualunque sia la scelta, serviranno coraggio e intelligenza, altrimenti finisci come il salumiere, il calzolaio, il falegname e le loro mogli, i loro figli e i figli dei figli: intere generazioni abbrutite, rovinate, sbranate dalla bestia.

Come nel 1980, il 23 novembre. Elena e Lila sono in casa, chiacchierano. Improvvisamente, un tuono spaventoso, una tempesta invisibile che avvolge tutto, scoppia sotto i piedi, smargina ogni cosa. La terra si rivolta, manda tutto in frantumi, spazza via la casa, il rione, l’intera città, fino al «mare di fuoco sotto la crosta terrestre, e le fornaci delle stelle, e i pianeti, e gli universi, e la luce dentro la tenebra, e il silenzio nel gelo».

È il famoso terremoto dell’Irpinia che, così descritto, riporta alla mente quei celebri versi, soprattutto nelle immagini finali: «Sovente in queste rive / Che, desolate, a bruno / Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / Seggo la notte; e su la mesta landa / In purissimo azzurro / Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Il mare, e tutto di scintille in giro / Per lo vòto seren brillare il mondo».

E se Elena, nonostante la paura riesce a governare quell’inferno mettendo in salvo sé e l’amica, Lila ne rimane preda, si sgretola, si disperde. Lei, così attiva, coraggiosa e carismatica al punto da dominare tutti, appare ora fragile, ossessionata dal dissolversi della realtà, da quel perpetuo smarginarsi delle persone e delle cose che l’aveva tormentata fin da piccola e che solo ora, riesce a confessare all’amica: «Ti ricordi quanto mi faceva orrore il cielo di notte a Ischia? Voi dicevate com’è bello, ma io non potevo. Ci sentivo un sapore di uovo marcio col tuorlo giallo-verdognolo chiuso dentro l’albume e dentro il guscio, un uovo sodo che si spacca. Avevo in bocca stelle-uova avvelenate, la loro luce era di una consistenza bianca, gommosa, si attaccava ai denti insieme alla nerezza gelatinosa del cielo, la tritavo con disgusto, sentivo uno scricchiolio di granuli. Mi spiego?».

Lila si esprime così, per immagini potenti e sconnesse, per voli pindarici che squarciano il reale e gli restituiscono senso e materia. Ed Elena lo sa: fin da piccola era rimasta indietro a guardarla, ammirata, specchiandosi in lei per sfuggire il confronto, faticando una vita sui libri per starle al passo, per affrancarsi dalla sua ombra. Si erano conosciute da bambine, mentre giocavano nel cortile con le loro bambole di pezza, che per dispetto si erano buttate a vicenda – perdendole – nello scantinato del rione e non si erano lasciate più. Una amicizia bella e tenebrosa, impregnata di carezze e di silenzi, di progetti comuni e periodi di assenza, di rivalse e generosità. Una danza dei contrari, la forza di un cerchio che ti spinge nel suo centro mentre l’altra prova a sputarti lontano.

È una bella mattina in festa, le bancarelle vendono zucchero filato e l’aria sa di mandorle tostate. Lila porta fuori sua figlia e quella di Elena a comprare dolciumi. Poi il momento lancinante, inizia la storia della bambina perduta: le sue trecce si confondono coi fili delle bambole, con la storia di Napoli e dei suoi passati fasti: gli orti, i palazzi le ville e il porto, fino al sangue, gli scugnizzi, i pidocchi… perché quando la bestia si risveglia affamata e ingoia i suoi figli, cosa rimane? Solo un guscio marcio, una carta sporca, e una voce, vuota, de’ criature.

 

(Elena Ferrante, Storia della bambina perduta, e/o, 2014, pp. 464, euro 19,50)

“Birdman” di Alejandro González Iñárritu

Sono nove le candidature all’Oscar per Birdman di Alejandro González Iñárritu, e sono tutte nomination importanti: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista per Michael Keaton, miglior attore non protagonista per Edward Norton, migliore attrice non protagonista per Emma Stone, miglior sceneggiatura originale di nuovo per Iñárritu e Giacobine e Dinelaris e Bo, miglior fotografia per Emmanuel Lubezki, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro. Probabilmente, anzi, senza dubbio è l’opera più ambiziosa di Iñárritu, la più spiazzante e sorprendente della sua filmografia, e probabilmente è uno dei film più spiazzanti e sorprendenti della storia del cinema degli ultimi anni.

Riggan Thomson è un attore che ha conosciuto una grande celebrità negli anni Novanta interpretando il supereroe Birdman in due grandi produzioni hollywoodiane. Quando ha rifiutato di indossare per la terza volta il costume del suo alter ego ha avuto difficoltà a trovare una nuova dimensione personale e artistica. L’occasione arriva molti anni dopo, quando decide di adattare, dirigere e interpretare per il teatro il racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Quando mancano pochi giorni al debutto a Broadway succedono tante cose, tutte insieme: il co-protagonista finisce all’ospedale, Riggan si trova a doversi confrontare con un nuovo attore che mette in discussione tutto quella che fa, con la figlia appena uscita dal centro di riabilitazione, con l’ex moglie, con le sue stesse aspettative che non gli fanno capire se è o meno all’altezza di una nuova carriera e, soprattutto, con il fantasma di Birdman e di quella gloria passata, che continua a echeggiargli in testa.

La prima mossa intelligente e furba di Iñárritu è stata nel casting. In un momento in cui il cinema statunitense è invaso da cinecomic e supereroi, reboot e sequel, il regista messicano ha deciso di infilarsi anche lui nel filone, ma a modo suo. In fondo, Birdman è un cinefumetto senza fumetto, o piuttosto un film sulle conseguenze di un cinefumetto nella vita di un attore. Quando la Marvel e la DC si limitavano a fare solo il loro lavoro con gli albi illustrati e non avevano ancora invaso il cinema con le loro saghe, un attore si prese il coraggio di scegliere e di tirarsi fuori da un personaggio che gli aveva dato tutto, ma non abbastanza. Quell’attore era Michael Keaton, che per alcuni sarà sempre, comunque, Batman, nonostante Nolan e Christian Bale (e c’è l’esempio recente di Cattivi vicini, con Seth Rogen che parteggia per Keaton e Zac Efron che è per Bale). Dopo i Batman di Tim Burton la carriera di Keaton si è fermata, o comunque non è più stata a quei livelli. Apparentemente, o comunque da come si racconta oggi, non ha mai vissuto una crisi alla Riggan e sta bene così, tra doppiaggi, piccole parti e la sua vita in Montana. Anche senza la crisi, comunque, Riggan non poteva che essere Michael Keaton, perché Keaton continuerà a essere Batman, qualunque cosa abbia fatto o farà in futuro, così come Riggan sarà sempre Birdman.

Questa è la mossa furba: identificare il personaggio con l’interprete, parlare di cinecomic prendendo il primo, memorabile, protagonista di un cinecomic (perché, con tutto il rispetto per Christopher Reeve e Richard Donner, Superman non sarà mai come Batman, almeno al cinema) e trasformandolo in un altro protagonista di un altro memorabile cinecomic di fantasia. E non basta: accanto a Keaton, Iñárritu ha piazzato altri due sopravvissuti dei supereroi: Edward Norton, che è stato Hulk di passaggio, prima di Mark Ruffalo e degli Avengers e dopo il pallone verde e rimbalzante di Eric Bana e Ang Lee, ed Emma Stone, che si è di recente liberata dell’Uomo Ragno morendo nel secondo Amazing Spiderman (e a quanto pare ultimo). Se non basta, ci mette pure Naomi Watts, che non ha mai fatto cinecomic, ma a cui concede un momento lesbo che richiama nella memoria di tutti Mulhollande Drive di David Lynch.

L’identificazione con il cinecomic va oltre, e qui c’è l’altra idea furba, sviluppandosi anche come critica della mentalità prevalente a Hollywood oggi, che preferisce sequel e saghe a qualsiasi idea originale. Lo dicono Riggan e il suo produttore Zach Galifianakis, quando cercano un nuovo attore all’inizio e tutti sono occupati in Hunger Games o altro.

Che fa, quindi, Iñárritu con un’industria cinematografica satura? Fa un film che parla di cinema, fa un film meta, ma sul teatro, non sul cinema, e lo gira andando contro tutti gli standard narrativi prevalenti, contro il gusto delle grandi produzioni. In tempi di montaggi veloci e frammentati, Birdman  si prende il lusso di essere un’unica, lunghissima sequenza, centoventi minuti senza interruzioni. In realtà c’è un montaggio invisibile: come per Nodo alla gola di Hitchcock si tratta di sequenze di dieci minuti cucite insieme senza interrompere il flusso, assecondando la batteria jazz di Antonio Sanchez che accompagna Riggan e gli altri per tutto il tempo. Non siamo ai livelli di sinuosità di Arca russa  di Sokurov (un unico piano sequenza di novanta minuti all’interno del museo dell’Ermitage), ma poco ci manca. 

Se il cinema che lo aveva reso famoso era caratterizzato proprio dalla frammentazione, andando dietro alle sceneggiature intrecciate di Guillermo Arriaga nella cosiddetta trilogia sulla morte di Amores perros21 grammi Babel, da quando Iñárritu ha iniziato a scrivere da solo i suoi film l’attenzione si è spostata su singoli personaggi, su singole storie già con Biutiful per arrivare a un nuovo livello, ancora più ristretto anche nelle ambientazioni, con Birdman.

In maniera simile al recente – per la distribuzione italiana – Synecdoche: New York di Kauffman, il mondo esiste solo intorno al teatro della prima. C’è tutta una tradizione di film sul teatro e sui suoi attori a cui, probabilmente, Iñárritu ha guardato, da Vogliamo vivere di Lubitsch a L’ultimo metrò di Truffaut, passando sicuramente per La sera della prima di John Cassavetes e soprattutto per tutto il cinema di Altman (i piani sequenza stile I protagonisti, e poi Carver, che fa pensare subito ad America oggi). Immergendosi nella realtà teatrale, simbolo di un’idea di intrattenimento già di per sé scollegata dal contemporaneo («Vuoi fare uno spettacolo teatrale su un testo di sessant’anni fa», dice la figlia a Riggan accusandolo di essere distante dalla realtà), Birdman osserva proprio il contemporaneo del mondo di twitter e dei blog, delle opinioni diffuse e della popolarità – che è «la cuginetta zoccola del prestigio», come dice Edward Norton – a uso di click, e prova a far sopravvivere in questo mondo un Riggan che non ha mai risolto il rapporto con il passato e ha elevanto a testo sacro un fogliettino di bar su cui Raymond Carver, proprio lui, aveva appuntato un complimento vedendolo recitare prima che diventasse Birdman.

«A thing is a thing, not what is said of that thing» si legge sullo specchio del camerino di Riggan. Riggan Thomson è Riggan Thomson, nonostante tutti quanti dicano che sia Birdman. Allo stesso tempo, è Riggan Thomson perché un tempo è stato Birdman, perché senza quel costume rimarrebbe solo lui, un misero, patetico, fallito attore – e se lo dice da solo, Riggan, cioè glielo dice Birdman nella testa, che poi è lui stesso in uno sdoppiamento paranoide.

Giocando con il doppio, con l’idea dell’alter ego da cui bisogna liberarsi, come Bruce Wayne schiacciato da Batman (anche se questa è una cosa più alla Nolan che alla Burton), Birdman aggiunge strati su strati, riflette, mostra e nasconde tracce narrative, sottointende e sbatte in faccia. A volte esagera, a volte la volontà di stupire e schiacciare, di mostrare un altro cinema è troppa, ma è quello che succede quando si vuole provare a spiazzare, anche quando ci si riesce. In pieno.

 

(Birdman, di Alejandro González Iñárritu, 2014, commedia, 119’)

“Endkadenz Vol. 1” dei Verdena

I Verdena sono, probabilmente, l’unico gruppo in Italia che può fare quello che vuole. A quattro anni dalla scelta concettualmente anti commerciale del doppio cd WOW – ma, paradossalmente, commerciale da un punto di vista pratico: secondo posto nella classifica FIMI dopo la prima settimana dall’uscita dell’album –, il gruppo di Albino torna con Endkadenz Vol. 1, a cui seguirà nel corso dell’anno Endkadenz Vol.2.
Anche ora, trovare un altro gruppo italiano, soprattutto in questo momento storico, che abbia il coraggio e la possibilità di far uscire un unico lavoro in due album è un’impresa ardua.

L’idea di Endkadenz ha radici nella musica di Mauricio Kagel, compositore argentino contemporaneo. I suoi spartiti sono scritti sempre allo stesso modo: il timpanista, dopo l’ultimo colpo, deve sfondare con la testa le pelli del tamburo e rimanerci per una decina di minuti. «È l’ultimo guizzo del concerto, il finale con il botto». Ci troviamo già in una posizione difficile nei confronti di quest’album.

Come traslare l’Endkadenz in Endkadenz Vol. 1? Da quale punto di vista? Strumentale? Narrativo? Testuale? La risposta, se ce n’è una, è parziale – dovuta al fatto che ci troviamo di fronte a metà del lavoro –, vaga e potrebbe trovarsi in un territorio altro da quello del significato: quello del significante. Quasi una questione di immagine della parola e, conseguentemente, fonetica, di suono. È noto che il tipo di approccio alla composizione dei testi di Alberto Ferrari sia poco ortodosso: si inizia con una melodia in inglese sulla quale in un secondo momento si trovano parole italiane che si possano incastrare bene nella metrica e nell’architettura del brano (modo di fare che ha dato origine nel corso degli anni a due modi di pensare il modo di fare dei Verdena: una che ne esalta le doti, facendo pensare alla creazione di una nuova lingua per la musica; l’altra, una furbata per mascherare un’incapacità di fondo nella stesura di un testo).

In maniera differente, ma probabilmente con lo stesso spirito – legato anche all’idea di guizzo e di conseguenza di libertà –, la parola Endkadenz può rimandare a Endkadenz Vol. 1: complessità, straniamento, l’essere intelligibile. Tutte caratteristiche che, e qui non ci sono dubbi, appartengono a questo lavoro.

Endkadenz Vol. 1 è cupo e ha al suo interno elementi di WOW e di Requiem. Non ne è una sintesi, ma partendo dal loro passato recente, i Verdena battono una nuova strada dove poi far camminare i Verdena dei prossimi anni. Non è una novità: da Il suicidio dei Samurai in poi il trio ha sempre provato a stravolgersi, senza però perdere la propria identità.
Enkadenz Vol. 1 è un album pop, power pop, rock, grunge, stoner. Ma c’è anche Battisti, ci sono i Queen e gli Smashing Pumpkins. La voce di Alberto Ferrari è costantemente distorta, mischiata alle chitarre, al basso, alla batteria e ai synth alieni, come a farne un ulteriore strumento che non si eleva dal resto, e che legata all’idea estrema di lingua priva di significato – almeno razionale, almeno apparente – aggiunge forza, caratterizzando tutto il discorso strumentale. Per assurdo, con i dovuti distinguo, volendo sposare una dei due modi di intendere i Verdena citati prima, una sorta di Hopelandic arrabbiato e filtrato da fuzz e overdrive.

Dalla splendida “Ho una fissa”, passando per il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album “Un po’ esageri”, al piano (per la prima volta un pianoforte vero) di “Diluvio”, una ballata che muta in un walzer ansiolitico, alle distorsioni e al tempo doom di “Inno del perdersi”, fino a “Funeralus”, forse il brano più ispirato di tutti, ci troviamo a che fare con un’opera complessa e coraggiosa.
Endkadenz Vol.1 è un album musicalmente fenomenale, muscolare, massiccio; pieno di stravolgimenti, cambi di tempo e di stili all’interno degli stessi brani che lo rendono fortemente concreto e insieme sfuggente.

“La letteratura tamil a Napoli”
di Alessio Arena

La letteratura tamil a Napoli di Alessio Arena (Neri Pozza, 2014) è un libro davvero strano, popolato da personaggi idealisti, nostalgici e talvolta pure un po’ esaltati. Siamo a Napoli, sì, ma nei sotterranei della città, che pulsano e fermentano per le conversazioni e i progetti dell’Accademia dei sotterranei, esempio singolare di casa di produzione letteraria tamil-partenopea. Nel sottosuolo urbano, infatti, un gruppo di intellettuali militanti srilankesi lavora operosamente al ripristino del patrimonio libresco della biblioteca di Jaffna, andato perduto in un incendio doloso ad opera delle forze governative singalesi.

Uniti dalla malinconia di una patria lontana, sfinita dalla guerra civile, e disorientati dalla morte del capo delle Tigri Tamil Velupillai Prabhakaran, guida spirituale in tuta mimetica del movimento per l’indipendenza del Tamil Eelam, i Tamil di Napoli vivono per onorare e commemorare la causa di liberazione del nord-est dello Sri Lanka, e si dichiarano pronti a farsi esplodere per far conoscere alla città la propria storia di esilio e sottomissione al popolo singalese.

Nel ventre occulto di Napoli, questa comunità fatta di individui eccentrici e sognatori ha creolizzato credenze e simboli partenopei dando vita a un nuovo microcosmo culturale dove santi con quattro braccia, madonne con proboscidi, statuette cristiane con gli occhi segnati dal kajal e Buddha con la mitra e i paramenti vescovili di San Gennaro proteggono gli adepti asiatico-campani. La città tutta sembra risentire delle influenze di questo lento sobbollire di ambizioni e idee nelle viscere urbane, vista la crescente popolarità della pizza al curry e peperoncino e la conversione al buddismo del sindaco Iervolino. Addirittura, si mormora che nel cuore del Vesuvio sia custodita una goccia del sangue di Siddhārtha Gautama, che sancisce un connubio radicale tra Napoli e il Tamil Eelam.

Indubbiamente, l’idea di fondo contenuta nell’opera di Alessio Arena è geniale, nel suo non assomigliare a nulla che sia già stato scritto. La letteratura tamil a Napoli è diviso in dieci capitoli tante quante sono le reincarnazioni di Vishnu, e ognuna di queste parti osserva uno stile di scrittura impeccabile, smagliante per perfezione tecnica.

Eppure, la lettura risulta faticosa: la mancanza voluta di una trama appesantisce una narrazione troppo intenzionata a stare al passo con il mondo carnevalesco che racconta. Tutto quell’oscillare tra misticismo orientale e opera buffa disorienta, e se va riconosciuta sincera ammirazione alla capacità dell’autore di disciplinare un intreccio febbricitante in una struttura stilisticamente perfetta, bisogna anche ammettere che, terminato il libro, il disordine appositamente creato nella mente del lettore lascia una spiacevole sensazione di scompiglio.

(Alessio Arena, La letteratura tamil a Napoli, Neri Pozza, 2014, pp. 240, euro 17)

“La strada alla fine del mondo”
di Erin McKittric

Prendo in mano La strada alla fine del mondo di Erin McKittrin e mi ritrovo, d’istinto, a pensare che sarà il solito racconto di letteratura di viaggio, l’ennesimo, ora che la narrativa di genere sta tornando in voga e le travel blogger spuntano come funghi. La copertina non mi attira, spenta e sin troppo rigorosa. Poi leggo Bollati Borighieri, che resta una garanzia in un panorama editoriale spesso invertebrato e dedito solo alle logiche di mercato, e già lo guardo con occhi diversi. Infine, leggo la quarta. Sono comunque scettica ma decido di leggerlo. E faccio bene.

Dentro ci trovo il racconto di un’esperienza unica, di un’impresa portentosa, di una vittoria. Trovo la trasposizione in pagina della ricerca di un senso in mezzo a questa contemporaneità talmente piena che alla fine, forse, è fatta quasi di nulla. Trovo, soprattutto, la volontà che si trasforma in azione. Ecco, immaginate di leggere azioni, non parole. La forza del libro è proprio questa concretezza, questa insoddisfazione che porta ad agire e che non rimane lamentela sfiancante. Come succede di rado, purtroppo. La protagonista, infatti, che è l’autrice stessa, Erin McKittrick, parte col suo compagno Hig per un viaggio epico che ha come obiettivo l’evasione più totale e completa dalla civiltà e il conseguente ripristino di quel legame primordiale e indissolubile tra Uomo e Natura. Che si va inevitabilmente logorando. Le nostre sono foreste d’asfalto e di luci accecanti, popolate da uomini piccoli e meschini, che cedono a innumerevoli necessità dettate da finti bisogni e che forse hanno scambiato la condivisione reale per quella virtuale, postando in bacheca l’ultimo piatto ingurgitato al ristorante o un selfie autocelebrativo. Il viaggio, l’avventura, la scoperta e il mettersi in gioco sono i mezzi utilizzati per lottare contro questo modus vivendi, la loro scelta (coraggiosa) per dare un significato nuovo alla loro esistenza. E il desiderio di ritrovare nella natura l’essenza più pura della propria anima non può non rimandare al romanzo di Jon Krakauer, Nelle terre estreme, che racconta la storia, anche questa vera, di Christopher McCandless, poi narrata da Sean Penn nel famosissimo film Into the Wild. L’Alaska è uno dei luoghi esplorati in entrambi i romanzi, ma Erin e Hig attraverseranno anche lo Stato di Washington e il Canada. A piedi, con il solo aiuto di sci e piccoli canotti gonfiabili. Immersi, come Christopher McCandless, dentro una natura che è insieme bellissima, amica, ma selvaggia e spaventosa. E sarete incollati alla pagina col fiato sospeso, a immaginare o a segnare sulla cartina, perché avrete voglia costantemente di cercare sulla carta questi luoghi, o a perdervi, semplicemente, tra le meravigliose foreste pluviali della Columbia Britannica, i ghiacciai del Canada, i vulcani innevati della penisola dell’Alaska, a sentire sulla pelle il vento feroce della Lost Coast e a godere dei colori vividi di un tramonto sul mare di Bering.

Un anno intero, da soli, in mezzo a luoghi inviolati e incontaminati, dove la sfida è quella, tutt’altro che semplice, di sopravvivere a ogni giorno nuovo. Qui niente è scontato o banale. Qui anche il tempo ha una dimensione nuova e scorre con un ritmo diverso. E ogni incontro con le popolazioni locali diventa una festa, così come quelli con balene, orsi, alci o leoni marini. E poi c’è l’amore tra i due, delicato, sincero, reale. Due innamorati che concepiranno un figlio durante questa avventura, valore aggiunto al viaggio, unico e ultimo senso possibile.

La trama non è ricca, né avvincente, non lascia spazio a colpi di scena nella sua linearità di fondo. Le pagine sono radiografiche, descrittive. Questo probabilmente è il punto debole del libro, ma del resto forse non poteva essere altrimenti. Quel che appassiona la lettura è lo stile piacevolmente intenso dell’autrice, evocativo e potente nelle descrizioni ma tecnico e puntuale: la McKittrick è una biologa e la sua competenza scientifica si evince tra le righe, legata a filo doppio alla sua capacità di raccontare. Un libro che sprona alla ricerca di una direzione, che necessariamente esorta a vivere il presente nel modo più pieno e consapevole possibile, mostrandoci che, per quanto crudele possa essere, è l’unica possibilità che abbiamo. Uno spunto di riflessione per tutto questo futuro che viviamo ogni giorno. Come un pungolo per coscienze addormentate.

(Erin McKittrin, La strada alla fine del mondo, trad. di Maddalena Togliani, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 240, euro 16,50)

“The Imitation Game” di Morten Tyldum

Un intenso ritratto di un brillante e complicato cripto analista, The Imitation Game racconta il genio del matematico Alan Turing, l’uomo che riuscì nell’impossibile compito di decrittare il codice Enigma e aiutò gli Alleati a vincere la seconda guerra mondiale.

Manchester, inverno del ’52, le autorità inglesi indagano su un furto avvenuto nella casa del matematico e crittografo Alan Turing (Benedict Cumberbatch, Sherlock, Il quinto potere, Star Trek – Into Darkness), geniale matematico dalla personalità misteriosa ai limiti dell’anti-sociale che porterà l’insignificante poliziotto incaricato del caso ad arrestarlo con l’accusa di atti osceni, condotta immorale e omosessualità. Interrogato, Turing rivelerà di aver condotto durante la guerra un gruppo di crittografi, linguisti e matematici nella costruzione di un macchinario, un computer ante litteram, capace di decifrare gli indecifrabili, fino a quel momento, codici di Enigma, la macchina utilizzata dai nazisti per comunicare le loro operazioni militari in forma segreta.

The Imitation Game non si svolge con una struttura lineare; il regista Morten Tyldum (alla sua prima produzione fuori dalla Norvegia dopo l’exploit del 2011 con Headhunters, tratto dal romanzo noir di Jo Nesbø) utilizza dei flashback per rivelare diversi momenti della vita di Turing; le difficoltà dell’infanzia, il suo non essere integrato a scuola per una diversità che lo rendeva incapace di capire davvero i comportamenti e le dinamiche sociali, le botte e gli abusi dei compagni, e un’amicizia speciale, capace di farlo sentire meno solo.

Il “gioco di imitazione” a cui fa riferimento il titolo non è solo quello necessario alla soluzione del codice Enigma, quindi alla creazione di una macchina capace di imitare, appunto, i meccanismo del cervello umano per superare l’intelligenza artificiale di un’altra macchina; è quello che mette in scena Turing, non senza difficoltà, per sopravvivere ogni giorno, imitando i comportamenti  considerati normali e socialmente giusti, quelli dei suoi compagni di laboratorio e degli uomini al bar, segnali minimi e accettabili per nascondere la propria diversità, sia come orientamento sessuale che di pensiero.

E sono proprio i temi della “diversità” della sua “contraffazione” ad essere centrali in The Imitation Game. Turing trova in Joan Clarke (Keira Knightley, Tutto può cambiare, Anna Karenina), la matematica che più ha contribuito nella decrittazione del codice, la compagna per una vita impossibile che si regge sulla finzione, perché anche lei rifiuta il suo ruolo di donna, non si identifica nell’identità sociale imposta e pretende una libertà all’epoca impensabile per il genere femminile. Il comandante Denniston (Charles Dance, Game of Thrones, Dracula Untold) diffida da Turing credendolo una spia in quanto «solitario, senza legami di amicizia o familiari, arrogante». Il gruppo di matematici e linguisti di Bletchley Park, composto da Turing, Clarke, Hugh Alexander (Matthew Goode, Watchmen, A Single Man) non può rivelare a nessuno il lavoro che sta svolgendo, ed è quindi costretto a operare sotto copertura. Stewart Menzies (Mark Strong, RocknRolla, La Talpa), capo del MI6, è un esperto di sotterfugi e contraffazioni al punto da mettere coscientemente una spia sovietica nel gruppo di crittografi, da arrivare a calcolare quale sia il numero esatto di attacchi nazisti da poter sventare per non far capire di aver decifrato Enigma e non perdere il vantaggio guadagnato sui tedeschi.

The Imitation Game si inserisce in filone recente di film biografici, quali The Social Network e A Beautiful Mind, che pongono al loro centro un protagonista asociale, quasi un idiota sapiente, e nella sua struttura narrativa a flashback; la sceneggiatura non originale, firmata da Graham Moore e candidata all’Oscar 2015, prende spunto dalla biografia Alan Turing: The Enigma, di Andrew Hodges.

L’Inghilterra che il norvegese Morten Tyldum dipinge, con lo sguardo critico di chi non è britannico, è quella delle tradizioni, dei segreti e del tipico cinismo inglese, che arriva a considerare sacrificabili dei civili pur di vincere una guerra, o a lasciare in pasto alla buoncostume una delle menti più brillanti del XX secolo, nonché eroe di guerra, pur di non rivelare il proprio coinvolgimento.

Tydlum dirige in maniera semplice ed efficace per lasciare spazio alla ottime interpretazioni dei suoi protagonisti; Benedict Cumberbatch si conferma ancora una volta un attore straordinario, eccellente nella sua rappresentazione del genio matematico, calcolata in ogni singolo sguardo negato, ogni espressione e gesto, ogni variazione vocale. A differenza del superlativo sforzo fisico che Eddie Redmayne compie nella sua trasposizione di Stephen Hawking ne La Teoria del Tutto, l’handicap di Turing non è fisico, visibile, e non ha niente a che vedere con la sua omosessualità; piuttosto è la sua inettitudine alla convivenza sociale a fare di lui in primo luogo un “diverso” e Cumberbatch riesce a rappresentare questo handicap, questa incapacità di decifrare e replicare, imitare, i comportamenti altrui, alla perfezione.

The Imitation Game ha ricevuto 8 candidature agli Oscar 2015, come Miglior Film, Miglior Regista (Morten Tyldum), Migliore Attore Protagonista (Benedict Cumberbatch), Migliore Attrice Non Protagonista (Keira Knightley), Migliore Sceneggiatura Non Originale (Graham Moore), Migliore Colonna Sonora (Alexandre Desplat), Miglior Scenografia (Maria Djurkovic e Tatiana Macdonald), Miglior Montaggio (William Goldenberg).

(The Imitation Game, di Morten Tyldum, 2014, biografico, 114’)

“Viet Cong” dei Viet Cong

Non è facile fare uscire il proprio esordio il 20 gennaio, e pensare già che sarà arduo ricordarlo alla fine dell’anno, quando si tirano le somme dei migliori e dei peggiori. Ai Viet Cong, che hanno appena firmato con la Jagjaguwar, non importa e pubblicano lo stesso il loro primo disco Viet Cong (2015).

C’è da dire che non si tratta proprio di un esordio: la storia che sta dietro i Viet Cong è più complessa. Gli Women, formazione indie rock lo-fi con all’attivo solo due album ma entrambi acclamati, si sciolgono nel 2010 dopo aver litigato su un palco. Nel 2012 il chitarrista Chistopher Reimer muore nel sonno. Il bassista Matt Flegel allora richiama il batterista Mike Wallace e due nuovi chitarristi che orbitano nell’ambiente musicale canadese di Calgary, Scott Munro e Daniel Christiansen: ecco i Viet Cong. Con gli Women hanno in comune mezza formazione, l’etichetta e parte del sound della band.

Forse il modo migliore per definire la musica dei Viet Cong è quello che ci hanno suggerito loro quando hanno detto di suonare “labyrinthine post-punk”. Il senso di chiusura e alienazione che Viet Cong provoca è notevole. Non sarebbe giusto definire i Viet Cong come Women 2 perché per tutto l’album si sente una volontà di cambiamento, una spinta in avanti (dal labirinto si dovrà pur trovare l’uscità, no?) mancante negli Women, che traghetta lontano dalle acque paludose del post-punk. Basta ascoltare il disco, che inizia con dei tom che sembrano provenire dal centro della terra, come se qualcuno voglia uscire, liberarsi.

Ad esempio già la terza traccia “March of Progress” contiente il cambiamento in sé, come se fosse un insieme di brevi traccie di un disco degli Women attaccate in lunghi percorsi sonori, in un evoluzione espressiva che tende ad aggregare piuttosto che a spezzettare. “Bunker Buster” è pienamente womenistica – se si può accettare questo aggettivo – per i primi due minuti, prima di aprirsi ad arpeggi ferrosi, dissonanti, stranianti. Il paradosso del suono dei Viet Cong è la sua parte drone, che arriva e sorprende, somma e ipnotizza. La parte paradossale sta nel fatto che ritmiche e sonorità così volutamente reiterate aggiungono invece un grande dinamismo espressivo ad un suono già codificato e teoricamente completo – quello del post-punk.

Prova finale, riassunto e summa è l’ultima traccia “Death” – e come chiudere meglio un album così? “Death” è nevrotica e si trasforma senza dimenticarsi, con una batteria martellante al quarto minuto, poi drone ipnotico, a sua volta mutato in colpi di chitarra distorta e disturbante reiterata ad intervalli spasmodici, prima di ritrasformarsi in un pezzo dal tempo rapido che si chiude su sé stesso e sulle urla rabbiose di Flegel accompagnate da altri colpi di chitarra.

La grandezza del disco dei Viet Cong sta in questo: l’innesto del nuovo sul vecchio portandosi dietro ciò che era necessario, senza esagerare nella
lunghezza, nel volume, in niente, ma andando avanti, tracciando il proprio sentiero. Già una delle cose migliori del 2015.