“Le dodici tribù di Hattie”
di Ayana Mathis

Non sono avvezza alle scommesse; diciamo che in tanti anni non ci siamo mai sedotte.

Le lascio sempre pencolare per qualche altra mano, più rapace, più furtiva, meno intenta a soppesare.

Eppure stavolta ho l’impulso sbilanciato, pronto a proclamare che il libro impigliato in questo articolo sia tra i migliori del 2015. E scriverlo a febbraio trasuda un po’ d’azzardo. Quindi vale la pena dell’impronta.

Titolo vagamente veterotestamentario: Le dodici tribù di Hattie (Einaudi, 2015), dell’esordiente trentanovenne Ayana Mathis. Strampalata fila indiana quella occhieggiante in copertina; un cordone di altezze e di passi che sguscia sul retro e impalma ogni lato del volume.

Hattie è la Madre della Storia e il motore del suo “popolo”. Una stirpe di capitoli e di figli snocciolati lungo sessant’anni di vita americana. Arriva a Philadelphia nel 1923 Hattie, ed è leggera come un arbusto, ma ci pensa lo stupore ad ancorarla al suolo. Stranamente in quella città la sua pelle non graffia come in Georgia, i marciapiedi non sputano sulle sue scarpe e non s’inclinano per disarcionarla tra i grugniti della strada.

A Philadelphia Hattie e sua sorella non sono poi così negre.

Sembra un altro mondo, ma i suoi quindici anni durano poco. Lei è bella, come una donna con più stagioni in tasca e August la agguanta senza troppe attese. Basta un po’ di sudore e le riempie pancia di due gemelli fragili. L’inverno è iniquo lì al nord e quei minuscoli polmoni si sfarinano sotto le sue preghiere.

I piccoli le muoiono addosso, cosparsi di lacrime e rimedi di senape. Da quel giorno Hattie non sarà più la stessa e a raccontarla ci pensano i suoi figli.

Ognuno di loro è un soggetto narrante, uno scorcio da cui osservare la grande madre, la sua forza distante e inconoscibile. Hattie viene scrutata da dieci sguardi diversi (i nove figli sopravvissuti e la nipote Sala) eppure resta sempre un oggetto misterioso. Viso fiero, neanche un granello di dolcezza, schiaffi e fatica per farli crescere bene. Orgogliosa e severa, incapace di sorridere. Ma d’altronde: «Hattie sapeva che i suoi figli non la consideravano una donna buona – forse non lo era, ma quando erano piccoli non c’era stato tempo per i sentimenti. Aveva negato loro qualcosa di vitale, ma che bene poteva fargli passare le giornate a dare baci e abbracci, se non c’era niente con cui riempirgli lo stomaco? Non capivano che tutto l’amore che aveva dentro era servito a sfamarli, vestirli e prepararli ad affrontare il mondo. E il mondo non li avrebbe amati; il mondo non sarebbe stato buono».

Non è facile il suo pianeta. Di madre prematura, moglie costretta, amante sfortunata. E la scuola della durezza è l’unica in cui possa insegnare.

I suoi figli sono un impegno continuo, uno sciame di vita che non può controllare e il dono di Ayana Mathis è di trattare ogni capitolo come un romanzo autarchico, un sistema d’incontri e relazioni. Perfettamente autonomo eppure interconnesso.

Hattie resta il denominatore comune delle loro lingue; li attrae e li atterrisce. È l’esempio da cui si sentono braccati, perché da August hanno incassato solo qualche canzone per addormentarli e ben poche certezze nel salvadanaio.

Quello stesso sangue si declina ogni volta naturalmente in modo sempre unico. Ciascun membro della tribù ha un suo puntuale colore di voce e di cuore. Ognuno ha un fantasma con cui convivere: Floyd e la vergogna di amare altri uomini, Cassie e la pazzia che la umilia davanti a sua figlia, Franklin e il suo matrimonio lasciato marcire lontano da lui, Bell e la solitudine che la sfianca sul letto più della tubercolosi.

La povertà è una compagna costante per quella famiglia, bussa ogni giorno più spesso dell’alba, ma non sa sfregiarne la dignità. Hattie la porta cucita nel petto, negli occhi impietosi, nell’asprezza del suo mestiere.

Nel cielo di donna che inghiotte e sopporta e la cui ribellione è destinata ad appassire tra due sbuffi di pentole. C’è l’America del profondo Sud a invecchiare con lei, quel ventre diffidente da cui non si è mai staccata e che le pulserà dentro come un richiamo.

La sua storia è quella di chi combatte al margine, perché almeno a quello può appigliarsi per resistere. E da vicino quel microcosmo straborda di colori; un incarnato non è più ugualmente scuro, ma diventa cannella o caramello o addirittura mandorla e l’intero ecosistema afroamericano è un pentagramma di carne e battaglie innominate che si spostano dal fondo e conquistano la scena.

Facile rintracciare l’eco del Premio Nobel Tony Morrison, di Kathryn Stockett nel suo celebre The Help o di Andrew Sean Greer nell’incantevole opera La storia di un matrimonio.

Ma è più facile ancora arrendersi al romanzo, marciare dietro Hattie. Diventare la tredicesima tribù.

D’altra parte la mia scommessa è sempre valida. Ne riparliamo a dicembre.

(Ayana Mathis, Le dodici tribù di Hattie, trad. di Giovanna Scocchera, Einaudi, 2015, pp. 290, euro 21)

“La divina” di Sergio Pitol

Le karakuri-bako sono scatole giapponesi apparentemente inespugnabili, la cui apertura è consentita solo a chi, armato di pazienza e dedizione, compia le mosse necessarie a eludere i loro meccanismi di difesa. Che si tratti di scatole minute da cinque mosse o di scatole ingombranti e complesse da cento e più, la prassi non cambia: per scoprirne il contenuto bisogna muovere i tasselli. Questo è ciò che rende speciali le karakuri-bako ed è proprio per questo che, se fosse un oggetto, La divina (SUR, 2014) di Sergio Pitol non sarebbe né una matrioska, né uno scrigno o un baule, ma certamente una bako.

Ne La divina il gioco dei meccanismi inizia con il prezioso bugiardino delle istruzioni: quelle di Tabucchi e Gadda soprattutto, che ci intimano di diffidare di tutti quegli autori che non diffidino dei propri personaggi. La premessa è necessaria.

Innanzi tutto c’è un vecchio scrittore che decide di sostituire i suoi consueti personaggi tragici, eroici, drammatici, così prevedibili, con l’ambiguità esilarante di Dante de la Estrella, mediocre, borioso e codardo, magnificente nella propria inaspettata ambiguità.

Ed è proprio questo suo personaggio, di cui non si può che diffidare, a conquistare la scena nel resoconto (assolutamente fazioso) del terribile viaggio intrapreso alla conquista della misteriosa Marietta Karapetiz, anziana e mistica vedova del grande antropologo Karapetiz, in un avvicendarsi picaresco di riti orgiastici, esotismo e oscenità perniciose.

I tasselli allora si muovono, il meccanismo narrativo si schiude come il dorso del libro tra le dita di chi legge; ma come la più inespugnabile delle bako, la prospettiva della storia cambia nuovamente. Ecco il lettore pronto a ricredersi e a proseguire, con uno sguardo nuovo, nella labirintica trama di Pitol.

Dante de la Estrella è in primo luogo un camaleonte, che di volta in volta assume tutte le tonalità di colore che la letteratura e la vita consentono alla negatività: dal verde dell’invidia al rosso della rabbia, è un antieroe incompiuto e un personaggio comico compiutissimo. Le battaglie personali intraprese dal protagonista contro affronti immaginati e un senso dell’onore dai discutibili connotati morali, se da una parte possono riabilitarlo alla carica di novello Don Chisciotte, dall’altra lo rendono innocuo e spassoso agli occhi dei più, come succede a tutti quei “cattivi” che veramente cattivi non sono mai.

Con La divina, dunque, il lettore si troverà a praticare un gran numero di mosse, i tasselli lo confonderanno ma, a differenza delle karakuri-bako, egli non si accorgerà nemmeno, tra la comicità e l’imbarazzo abilmente provocati da Pitol, di aver compiuto tali movimenti, se non alla fine, quando sarà giunto al più inatteso dei contenuti.

(Sergio Pitol, La divina, trad. di Francesca Lazzarato, SUR, 2014, pp. 160, euro 15)

“Unbroken” di Angelina Jolie

Louis Zamperini, in vita sua, è stato tante cose. Un ragazzino indisciplinato, un immigrato italiano negli Stati Uniti degli anni Venti, una giovane promessa dell’atletica, un atleta olimpico alle Olimpiadi del 1936 – quelle di Jesse Owen in faccia a Hitler –, poi un addetto all’artiglieria sui caccia bombardieri durante la seconda guerra mondiale, sul fronte del Pacifico in cui gli Stati Uniti si contendevano piccole isole col Giappone. È stato un naufrago, in seguito, quando il suo aereo è precipitato e si è trovato a dover sopravvivere in mare con due compagni di disgrazia e due gommoni di emergenza per quarantacinque giorni. È stato un prigioniero di guerra, dopo quei quarantacinque giorni, quando una nave militare giapponese lo ha recuperato per consegnarlo ai campi di prigionia. È stato un reduce, alla fine, quando la guerra è finita e Louis è potuto tornare a casa, dopo ormai tre anni che tutti lo davano per perduto. È stato un sopravvissuto, per tutto il tempo, un Unbroken, un non spezzato, incrollabile nella sua convinzione alla vita.

Angelina Jolie continua il suo percorso come regista impegnata puntando sempre più in alto. Dopo l’esordio del 2011 con Nella terra del sangue e del miele, che raccontava la storia d’amore tra una bosniaca musulmana e un soldato serbo in un campo di concentramento durante il conflitto jugoslavo, la ex Lara Croft ha deciso di guardare in patria prendendo la biografia di quello che è un autentico eroe americano per esaltarne, ulteriormente, l’eroismo.

Tutto quello che viene raccontato, Louis Zamperini lo ha vissuto davvero. Laura Hollenbrand, scrittrice specializzata in storie di titanismo bellico, aveva già raccolto tutto in un libro, Storia di un uomo, che nel sottotitolo originale riportava: «una storia di sopravvivenza, determinazione e redenzione». È dal libro che Jolie ha deciso di partire, lasciando la sceneggiatura a professionisti consolidati come i fratelli Cohen, Richard LaGravenese e William Nicholson. Ed è la determinazione il punto su cui si concentra Unbroken.

Alternando nella prima parte i momenti bellici che precedono l’ammaraggio e la prigionia con le origini di Louis nello stato di New York, Angelina Jolie mostra la crescita di un giovane ribelle e la sua trasformazione in uomo dalla volontà incrollabile. È il fratello Pete il primo a credere in lui, il primo a fargli capire che può fare qualcosa della sua vita. «Non sono niente, io non sono come te, lasciami essere niente!», gli dice Louis, ma Pete non lo accetta e gli fa conoscere la corsa, lo allena, e gli fa capire l’importanza del sacrificio e dell’impegno. «Un momento di gloria vale una vita di dolore», è quello che gli dice Pete prima che Louis parta per le Olimpiadi, dove arriverà ottavo nei cinquemila metri, ma primo a sorpresa tra gli statunitensi.  Il retroterra formativo è necessario, secondo Angelina Jolie, per comprendere l’origine della tenacia di Zamperini, per creare le fondamenta di quella resistenza che gli permette sopravvivere.

Tutta questa retorica dell’impegno e del sacrificio forma Louis e lo accompagna anche nei momenti peggiori. È l’unico a non perdersi mai d’animo sui canotti alla deriva, a tenere testa con orgogliosa tenacia ai giapponesi durante la prigionia. Quindi Louis non piega mai il capo, affronta il truce capocampo Watanabe sopportandone le botte e continuando a sognare la fuga, rifiuta le scorciatoie e gli agi del tradimento, rimane sempre un soldato dell’esercito degli Stati Uniti. Ed è questa retorica trita, la grande debolezza di Unbroken. L’esaltazione dell’incrollabilità di Zamperini espone il film di Jolie a una serie di approssimazioni e di simbolismi elementari. Permeato da uno spiritualismo costante – e la regista ha raccontato di essersi riavvicinata alla fede durante le riprese –, Unbroken sembra elevare Zamperini a una specie di Cristo laico che tutto sopporta e tutto accetta (c’è la scena della trave, e soprattutto l’ombra, nella parte finale che toglie ogni dubbio su questa simbologia).

Contro questo eroe puro, stoico e muto nella sofferenza, si oppone un male assoluto incarnato da Watanabe e dai giapponesi. Angelina Jolie, che aveva trovato un grande stimolo alla carriera da regista nell’incontro con Clint Eastwood in Changeling, ignora completamente la duplice lezione del maestro in Flags of Our FathersLettere da Iwo Jima, che mostravano la stessa battaglia, quella di Iwo Jima, dai due fronti opposti, e mostra i carcerieri nipponici privi di qualsiasi umanità, crudeli oltre ogni immaginazione. In questa contrapposizione, Zamperini assurge a ulteriore gloria: solo nella sua resistenza, incassa e va avanti. Singolo uomo, simbolo di un intero paese e di una corpo militare eroico.

Certo che se American Sniper di Eastwood è stato accusato di facile patriottismo, per l’esaltazione di Jolie non si può che fare un discorso simile, se non ancor più radicale. Perché comunque Eastwood continua a mostrare un’umanità possibile anche tra i miliziani iracheni che il suo cecchino combatte, e allo stesso tempo non nasconde la fragilità di Chris Kyle e la sua ossessione per la guerra, ancora più che per la patria. In Unbroken, invece, Angelina Jolie contrappone un esercito statunitense di puri e onesti a un corpo militare giapponese spietato e ottuso, senza onore né dignità.

Supportato da un apparato tecnico di prima fascia (tre candidature agli Oscar, per la fotografia del coheniano Roger Deakins, per il sonoro e il montaggio sonoro) e impreziosito, comunque, dal lavoro fisico degli attori, sia il protagonista Jack O’Connor che i compagni di naufragio Domhnall Gleeson e Finn Wittrock, che si sono sottoposti a dimagrimenti da far invidia a Christian Bale, Unbroken parte da una storia vera che in sé avrebbe tutta la potenza per essere memorabile, ma la vanifica nella più abusata retorica, nonostante i grandi nomi in sceneggiatura, e non riesce a essere altro che la pretesa mancata di un’attrice di spacciarsi per una grande regista.

(Unbroken, di Angelina Jolie, 2014, bellico, 137’)

 

“Il braccialetto”
di Lia Levi

«Quando scrivo per bambini – mi dice sorridendo – racconto le storie che ancora mi piacerebbe ascoltare». Lia Levi ha più di ottant’anni e un sorriso generoso. Ha scritto tanto per bambini, ma non solo per loro. Nei suoi racconti ha toccato i temi scottanti della storia del nostro Novecento. Il braccialetto (e/o, 2014) è il suo ultimo romanzo.

«Noi ci incontriamo con i grandi problemi della Storia, con le tragedie, però quello che viviamo nel quotidiano sono i nostri piccoli problemi di esseri umani», ha detto in un’intervista televisiva. Ed è proprio questo che la Levi cerca di fare nei suoi libri: mostrare l’interferire dei grandi problemi della Storia con le nostre piccole questioni quotidiane; raccontare l’irrompere della Storia nella storia di ciascuno di noi. Così l’autrice racconta il passato con il filtro dell’immaginazione e dell’emozione, aggiogando il lettore che si immedesima nei personaggi e nelle loro vite minute.

Divenuta famosa con Una bambina e basta (1994), romanzo autobiografico in cui racconta le vicissitudini di una bambina ebrea (lei) durante le persecuzioni razziali, Lia Levi è una voce autorevole della comunità ebraica romana (ha fondato e diretto per anni il mensile Shalom).

Il braccialetto è ambientato in un periodo assai delicato: l’estate del 1943, tra la caduta del Fascismo e la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre. C’è un’atmosfera rarefatta, un senso di attesa che attraversano tutto il libro fino al declino finale. A nutrire l’attesa è la speranza che, essendo caduto Mussolini, le leggi razziali saranno abolite se non oggi, domani, e i protagonisti potranno tornare alla loro vita. Invece non sarà così. Alla fine del libro una interessante nota di Anna Foa, docente alla Sapienza, mostra come il Vaticano stesso non avesse alcuna intenzione di abolire tutte le leggi razziali: la maggior parte di esse era ritenuta legittima.

In questo limbo, in cui i personaggi ebrei vagano sospesi tra la legittimità di essere e no, si sviluppa la storia della tenera amicizia tra due quindicenni, Corrado Mieli, che vive in prima persona il disagio, essendo ebreo, e Leandro, un adolescente alla ricerca della sua identità.

Corrado si aspetta che il nuovo governo abolisca le leggi razziali. È sicuro che il prossimo anno scolastico potrà frequentare il famoso liceo Visconti; ma vede i suoi genitori sempre più preoccupati e spenti. La madre ha venduto il suo braccialetto d’oro, simbolo, con il suo scampanellio, della vita lieve del passato (ma solo alla fine scopriremo la verità sul braccialetto). Leandro abita in una grande casa antica, con una ricca prozia russa, che chiama «nonna», e si sente solo, annoiato, ma soprattutto senza punti di riferimento. Fin dal primo momento in cui vede Corrado al cinema, cerca di fare amicizia con lui (sembra quasi un corteggiamento che il ragazzo mette in atto nei suoi confronti) e quando Corrado gli dichiara di essere ebreo (una scena che sembra quella di un coming out), Leandro si lega a lui con ancora più fervore, perché, in fondo, vorrebbe essere come lui, con una comunità di riferimento, dei miti e dei riti condivisi: «Ho sbagliato le parole – aveva ribattuto ostinato e senza pentimento – tu mi devi aiutare a cercare quelle che voglio dire. Ho bisogno di parlare con un ebreo». Leandro non ha niente: gli ampi spazi della sua casa, bui, rimbombanti, sembrano il correlativo oggettivo della sua interiorità. Leandro è la sua casa vuota come un castello.

Di fronte a tale materia incandescente, quello che colpisce è la levità della lingua scelta dall’autrice. La lingua, di fronte alle piccole e grandi tragedie, è imperturbabile – un arcobaleno che si inarca sulla storia. Questa caratteristica dello stile è forse un modo per cospargere di miele la coppa che contiene una medicina amara; oppure per far sì che la lingua si metta da parte umilmente, per cedere spazio alla storia, per lasciare slargarsi, davanti agli occhi del lettore, il paesaggio degli eventi. Oppure la scelta di una lingua lieve può essere inserita in una prospettiva di purificazione, di salvezza o, meglio, di salvazione. Per Corrado e Leandro, per noi che leggiamo, e, forse, anche per l’autrice. Perché a volte la scrittura salva. E purifica più del dolore.

(Lia Levi, Il braccialetto, e/o, 2014, pp. 139, euro 15)

“Tre stanze per un delitto”
di Sophie Hannah

Ci sono due cose che potrebbero deviare il lettore che osserva la copertina dell’ultimo libro di Sophie Hannah, Tre stanze per un delitto (Mondadori, 2014): innanzitutto l’autografo di Agatha Christie in alto, e il sottotitolo Il ritorno di Poirot. Qualcosa non quadra: la Christie, morta nel ’76, aveva fatto a sua volta morire Poirot in Sipario. Come si spiega dunque la scelta di Mondadori?

Per la prima volta gli eredi della scrittrice hanno autorizzato un altro autore, Sophie Hannah appunto, a prendere in prestito il personaggio nato dalla penna della indiscussa regina del giallo. Si spiega quindi anche la dedica del libro alla Christie.

Così, come se nulla fosse successo, ritroviamo Hercule Poirot un giovedì sera al Caffè Pleasant a sorseggiare tranquillamente il caffè più buono di Londra, quando all’improvviso irrompe nella sala una certa Jennie, trafelata e spaventata. Poteva il detective belga starsene alla larga dal pericolo, anche quando decide di prendersi una meritata vacanza e trasferirsi in una pensione ubicata esattamente di fronte al suo appartamento? Ovviamente no, e anzi, ben presto scopre che la ragazza sta scappando perché teme di essere uccisa, ma… solo quando ciò avverrà, «giustizia sarà fatta».

Ciò non bastasse, ci si mettono anche tre omicidi al prestigiosissimo Hotel Bloxham a ingarbugliare la situazione. «Non riposino mai in pace» è quanto riportato su un bigliettino ritrovato alla reception. Poirot è chiamato a risolvere i casi Edward Catchpool, detective di Scotland Yard, tanto giovane quanto inesperto. Col tempo si sveleranno tutti i segreti relativi a Jennie e alle tre vittime, legati tutti all’apparente suicidio del reverendo di Great Holling (piccolo villaggio nei pressi di Londra), Patrick Ive, e della moglie. Ma anche quando la verità sembra ormai evidente, Poirot non è convinto, e grazie al perfetto lavoro delle sue celluline grigie uscirà a risolvere il fitto mistero con chiarezza e precisione.

La novità di questo romanzo è che si presenta come un resoconto dei fatti avvenuti, in cui la narrazione è affidata al detective Catchpool, che scrive i suoi ricordi per ripercorrere la storia che ha vissuto, così che rileggendola possa guardarla con distacco e non sentirsi più sconvolto. E così lo seguiamo mentre rievoca il primo incontro con Poirot, la difficoltà di guardare troppo a lungo i cadaveri distesi a terra col palmo delle mani rivolto verso il basso, a causa di un trauma infantile, il viaggio a Great Holling, mentre riferisce gli incontri di Poirot con i camerieri, con la grande pittrice Nancy Duncane e i suoi vicini.

La scena più interessante è però sicuramente quella finale, in cui Poirot sfoggia mirabilmente le sue doti nello svelare la verità nella sala grande dell’hotel, a una platea intenta ad ascoltarlo e pronta a meravigliarsi di fronte all’ennesimo delitto che si compirà di fronte ai suoi occhi increduli.

È questo il libro adatto a scaldare l’attenzione durante le fredde serate invernali, grazie alla suspense di cui è imbevuto e che cresce riga dopo riga. Non lasciatevi ingannare dalle dichiarazioni di verità troppo affrettate, perché in questo giallo niente è come sembra.

Per questo, dunque, grazie alla Hannah e… bentornato a Poirot!

(Sophie Hannah, Tre stanze per un delitto, trad. di Manuela Faimali, Mondadori, 2014, pp. 312, euro 18)“”

“La sinagoga degli iconoclasti”
di J. Rodolfo Wilcock

Pubblicato per la prima volta nel 1972, Adelphi ripropone oggi La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi, 2014) che, con tutta probabilità, è l’opera più conosciuta di J. Rodolfo Wilcock. Amico di Borges, Ocampo, Bioy Casares e Flaiano, Wilcock nasce nel 1919 a Buenos Aires e muove alla volta di Roma nel 1957 disgustato dal peronismo e deluso dal proprio paese. Arrivato in Italia egli adotta, nella sua scrittura, con abilità magistrale, la lingua del paese dove vive pur avendo già pubblicato vari e notevoli libri in spagnolo. È ricordato inoltre per le molte, memorabili traduzioni dall’inglese e dal tedesco.

In La sinagoga degli iconoclasti lo scrittore ci presenta una galleria di trentasette personaggi bizzarri che fanno improbabili ricerche, si prodigano nelle invenzioni più strambe o propongono teorie strampalate. Il tutto raccontato con la serietà di un saggio o di un trattato scientifico: un’enciclopedia nella quale troviamo filosofi, scienziati, saggisti e utopisti; scritta con una tale scrupolosità e diligenza che il lettore fatica inizialmente a comprendere se si tratti di personaggi reali oppure scaturiti dall’immaginazione dell’autore.

Nel corso dell’opera si incontrano infatti uomini come il capitano John Cleves Symmes che «sosteneva che la terra è fatta di cinque sfere concentriche, tutte e cinque forate ai poli. Molto si parlò e per molti anni, negli Stati Uniti, di questa apertura polare, comunemente detta il “buco di Symmes”; il capitano aveva fatto distribuire dappertutto un volantino nel quale spiegava come stavano le cose e sollecitava l’aiuto di cento coraggiosi compagni disposti a esplorare con lui il buco settentrionale, largo parecchie migliaia di chilometri. Attraverso questo foro – e quello opposto – l’acqua del mare si riversa continuamente sulla prima sfera interna, anch’essa popolata, come le tre restanti, da animali e vegetali»; oppure Charles Carroll: «Secondo Charles Carroll di Saint Louis, autore de Il negro è una bestia (The Negro a Beast, 1900) e Chi tentò Eva? (The Tempter of Eve, 1902), il negro fu creato da Dio insieme agli animali al solo scopo che Adamo e i suoi discendenti non mancassero di camerieri, lavapiatti, lustrascarpe, addetti alle latrine e fornitori di servizi simili nel Giardino dell’Eden. Come gli altri mammiferi, il negro manifesta una specie di mente, qualcosa tra il cane e la scimmia, ma è completamente privo di anima». O ancora Roger Babson, lo scienziato che vuole combattere la legge di gravità, Klaus Nachtknecht che ipotizzava la salutare influenza dei vulcani e quindi costruì una casa nelle vicinanze di uno di essi e Charles Wentworth Littlefield, chirurgo, che con la sola forza della volontà riusciva a far cristallizzare il sale da cucina in forma di pollo o di altri animali piccoli; ma anche Aaron Rosenblum, utopista, che nel 1940 concepì l’ambizioso progetto di ricondurre al più presto l’umanità all’epoca elisabettiana.

Wilcock, che «era uomo di sterminate letture, laureato in ingegneria, possedeva vaste competenze scientifiche e filosofiche e parlava alla perfezione quattro lingue», dà in pasto al lettore una collezione di scienziati fasulli che non andrebbe presa sul serio. I personaggi, che propongono le teorie più assurde, tuttavia non vengono mai sbeffeggiati dallo scrittore, anzi, e questo crea una patina di humor nero che aleggia in tutto il libro e che lascia il lettore a metà tra lo sbigottimento e la risata incontrollata. Il poeta argentino del resto diceva: «Questo è molto caratteristico delle teorie che sono buffe: se si legge la storia della scienza si vede che, uno dopo l’altro, tutti i più grandi filosofi hanno proposto delle teorie che stanno sempre sull’orlo del ridicolo».

Pasolini sostenne che «quello che dà a questo libro un così forte sentimento di realtà è soprattutto il surrealismo: è sul surrealismo che Wilcock investe la vena comica con cui rende accettabile la patetica malvagità che gli fa identificare tutto il mondo con l’inferno». Bolaño, che da quest’opera trasse ispirazione per il suo libro La letteratura nazista in America, raccontò di come il libro di Wilcock gli avesse restituito l’allegria in momenti bui, «come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura che sono al tempo stesso capolavori dello humor nero».

È fuori di dubbio che quest’opera, scritta – è bene ribadirlo – in una lingua non sua, ma che tuttavia lo scrittore maneggiava con una facilità impressionante, rappresenti un capolavoro da riscoprire. Come ricordava Francesca Lazzarato (una delle massime conoscitrici dell’opera di Wilcock) in uno splendido articolo comparso su ilmanifesto nel 2011, Ernesto Montequin, traduttore in spagnolo dell’opera di Wilcock, che da anni va raccogliendo materiali per una sua biografia, ha scritto: «Wilcock è un enigma di cui la letteratura argentina potrebbe vantarsi, se la letteratura italiana non fosse infinitamente più prodiga di enigmi e vanterie».

Wilcock ha ottenuto la cittadinanza italiana solo post-mortem, finendo purtroppo per scivolare nel dimenticatoio un po’ a causa della sua personalità schiva, un po’ per la sua intransigenza verso i costumi e la mediocrità della borghesia di quegli anni. Nonostante la sua manifesta qualità di prosatore i suoi romanzi in italiano non sono stati tradotti nella sua lingua madre fino agli anni Novanta, ed è rimasto famoso in patria solo per i libri pubblicati prima del trasferimento in Italia. Onore, quindi, ad Adelphi che sta ora ristampando le opere di quello che bisognerebbe cominciare a considerare uno dei migliori scrittori italiani.

(J.R. Wilcock, La sinagoga degli iconoclasti, Adelphi, 2014, pp. 216, euro 11)

“Gemma Bovery”
di Anne Fontaine

Martin Joubert aveva un lavoro in una casa editrice a Parigi, ma non era contento. I libri sono sempre stati la sua passione, ma non bastavano più. Non è più giovane, le cose con la moglie vanno in un modo strano, c’è complicità e sostegno, ma manca l’intimità. Ha un figlio che preferisce i videogiochi alla lettura. Sono passati ormai sette anni da quando ha deciso di lasciare la città per rilevare la boulangerie del padre in Normandia, alla ricerca di «pace e tranquillità», e tutto sommato sembra averla trovata. I libri, però, continuano a essere la sua più grande passione. Quando una coppia di inglesi si trasferisce a pochi metri da casa sua, la letteratura sembra irrompere nella sua vita. Sono giovani, sono belli, sono sposati da poco, e si chiamano Charles e Gemma Bovery, (quasi) come i protagonisti di Madame Bovary di Flaubert, che era stato scritto proprio lì, in Normandia. Joubert è convinto di rivedere in Gemma la Emma flaubertiana, e quando la ragazza mostra interesse per un giovane rampollo del paese tutto, per Martin, sembra andare esattamente come nel romanzo. E allo stesso tempo sembrano svanire la pace e la tranquillità.

L’anno scorso la regista francese Anne Fontaine aveva scelto Doris Lessing e Le nonne come soggetto di partenza per la sua prima produzione internazionale, Two Mothers, con Naomi Watts e Robin Wright, e il risultato era stato decisamente deludente. Per Gemma Bovery Fontaine ha deciso un approccio più trasversale alla letteratura: non direttamente Madame Bovary ma la rilettura meta-letteraria di una graphic novel di Posy Simmonds, anche co-sceneggiatrice del film.

Non c’è, in un caso e nell’altro, la volontà di rappresentare una versione moderna di Emma Bovary, non c’è l’intenzione di dipingere un’eroina, o antieroina, in panni borghesi aggiornati. Quello che è il vero tema d Gemma Bovery è la potenza dell’illusione e del desiderio. Martin Joubert, sognatore colto a disagio nella realtà urbana quanto nel rifugio rurale, si costruisce un mondo immaginario di cui diventa regista e demiurgo. Joubert è innamorato di Gemma, ma di un desiderio pudico. Non la vuole per sé: vuole che sia la sua creatura letteraria preferita e allo stesso tempo vuole proteggerla da quello che potrebbe essere il suo destino di carta. È lui a trasformare Gemma in madame Bovary, o almeno a illudersi di farlo, è lui che pilota l’incontro con il giovane Hervé, che manipola la vita della ragazza per compiere il destino del romanzo e poi per sottrarla a quella stessa fine. E Gemma, una volta capito il gioco perverso di quel signore gentile, si tira indietro, rivendica la sua identità altra dal libro, la sua umana carnalità, non la sua idealizzata dimensione letteraria.

Senza pretendere il confronto con il romanzo, Gemma Bovary è animato comunque da un eco costante di Flaubert che si sposa con l’umorismo britannico di Posy Simmons. C’è una critica discreta degli arricchiti e del cattivo gusto, delle case arredate come fossero il rifugio di geishe cresciute a Miami con un tocco alla Versace, e in conclusione dell’approssimazione britannica contro la radicale superiorità francese. Perché Anne Fontaine non perde occasione di schierarsi, comunque, patteggiando per i francesi quando c’è da essere nazionalisti, schierandosi con la sua Gemma quando si tratta di dare la colpa agli uomini.

Come già nell’altro romanzo grafico di Posy Simmonds arrivato al cinema con Stephen Frears, Tamara Drew, l’arrivo – anche se lì si trattava di ritorno – di una donna bella e straniera finisce per sconvolgere gli equilibri di una piccola realtà. È curioso come Gemma Arterton sia stata prima Tamara e ora Gemma Bovery, ormai pieno alter ego cinematografico della sensualità delle donne della Simmonds. Accanto a lei, il sempre grandissimo Fabrice Luchini dà volto e corpo a tutti i disagi di Joubert.

Funzionerebbe tutto in Gemma Bovery: il garbo dell’umorismo, la dimensione ulteriore di riferimenti letterari, il gioco con Flaubert e le fissazioni di Martin. Solo che nella parte centrale qualcosa si inceppa, cambia il punto di vista, Joubert si fa da parte e iniziamo a seguire direttamente Gemma, non più oggetto di una venerazione romanzata ma soggetto delle sue avventure extra-coniugali e delle sue delusioni. È lì che si perde di vista la commedia e subentra un livello drammatico che non appartiene del tutto al linguaggio del film e che non sa come risolversi anche quando, nel finale, le cose prendono davvero una piega drammatica.

(Gemma Bovery, di Anne Fontaine, 2014, commedia, 99’)

 

“Quando eravamo prede”
di Carlo D’Amicis

C’è il Cerchio, e c’è la Linea. Nel Cerchio, i Cacciatori: Toro, Alce, Cagna, Agnello e altri ancora. Della Linea invece nel Cerchio si sa ben poco, un fiume però continua a scorrere e porta della Linea nel Cerchio testimonianza: strani oggetti, forse rifiuti, comunque pezzi del mondo di là, di quella Linea che c’è ed è confine. Intorno, un bosco e la sua nebbia, l’aleggiante presenza di un’apocalisse accaduta o a venire: si respira sospensione, un’attesa che sa di metafisica.

Carlo D’Amicis lascia Quando eravamo prede (minimum fax, 2014) fuori dal tempo, e dalle risposte che ogni tempo dispone attraverso la propria più o meno legittimante narrazione. E allora i riferimenti non possono che mancare se l’uomo e l’animale si confondono, se per osmosi l’uno e l’altro si ergono a scherno della ragione che tutto vuole possedere, regina insoddisfatta, sempre protesa a ribadire la propria sovranità. Ma non è questo il regno di cui D’Amicis racconta.

C’è un io narrante, è Agnello, che deve iniziarsi: uccidere. Perché «in principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte», per poi prenderne i nomi e indossarne le pellicce. Morte ed estinzione, Toro resta l’ultimo maschio fertile del Cerchio. C’è una legge, in definitiva, che ha nella Natura l’ineludibile sfondo. E se a fuggire sarà proprio la stessa Natura, lasciandosi dietro banchi e banchi di silenzio, si sentirà allora forte la pressione del sangue alimentare il cuore del paradosso.

Perché dalla Linea penetra nel Cerchio la Scimmia, una donna, con una Bibbia e con tutta la propria femminilità, e non si avrà più modo, nel Cerchio, di aggrapparsi al vecchio ordine. I Cacciatori diventeranno prede di una fame sconosciuta – non più un animale nel Cerchio dall’arrivo di Scimmia – e di un germe via via diffondentesi: la civiltà e i suoi sprazzi.

Quando eravamo prede sa essere crudo, violento, cinico e straordinariamente lirico, come del resto l’opera tutta della Natura, di quella Natura che contiene l’uomo, l’animale e ciò che gravita tra l’uno e l’altro, in una zona di indistinzione che, oltre a magnetizzare – chi non vorrebbe risvegliare la propria bestia? – non fa che rivendicare quel dominio mai sottrattole fino in fondo: ci son sempre topi da fronteggiare, a prescindere dal livello d’efficienza d’una società complessa.

Si scivola sul terreno che batte Carlo D’Amicis: la sapienza naturale sembra non esserci mai appartenuta, quasi fosse il delirio di un mendicante, ma gli slanci ferini ancora ci prendono l’anima, e ci riportano là dove siamo sempre stati, in quella nuda terra in cui a vincere è il più forte, scardinando quindi, con ogni istintiva nostalgica reazione, i blocchi della tanto sofferta evoluzione culturale.

Che cos’è dunque civiltà? Valgano su tutte le parole di Agnello, il sacrificio per eccellenza: «Eravamo l’arma e il bersaglio».

(Carlo D’Amicis, Quando eravamo prede, minimum fax, 2014, pp. 187, euro 14)

“Boyhood”
di Richard Linklater

Raccontare la normalità, quella vera, in cui non succede nulla: il quotidiano della crescita, delle piccole emozioni che diventano enormi nelle percezioni individuali, delle amicizie e degli amori, delle delusioni. È quello che fa Boyhood di Richard Linklater, di ritorno nelle sale italiane a distanza di tre mesi dalla prima distribuzione dopo aver raccolto un Golden Globe come miglior film drammatico, miglior regia e uno per Patricia Arquette come migliore attrice non protagonista, e sei candidature ai premi Oscar tra cui quelle pesanti per il miglior film, regia e per la sceneggiatura originale.

Anche senza premi, Boyhood è già il trionfo di Linklater, che questo film lo ha ideato, cresciuto, coltivato, che se lo è scritto, diretto e prodotto, e con cui ha dimostrato, ancora una volta, che la vita vera è la più grande storia che si possa raccontare, senza artefici, senza drammi. «La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte non imiti la vita», ha detto una volta Oscar Wilde. Qui non c’è imitazione, c’è una vita possibile che scorre parallela a quella reale.

Dopo la trilogia ventennale di Jesse e Celine, che si conoscono, si sposano e alla fine vanno in crisi tra Prima dell’albaPrima del tramonto Before Midnight, Linklater ha portato a un livello ulteriore la sua idea di cinema come flusso unico di narrazione e ha raggiunto il capolavoro, il momento da ricordare nell’intera storia del cinema, non solo nel suo percorso professionale. Perché Boyhood, che racconta l’infanzia e l’adolescenza di Mason (Ellar Coltrane), dagli otto ai vent’anni, e la storia dei suoi genitori separati (Arquette e Ethan Hawke) e della sorella Samantha (Lorelei Linklater) intorno a lui, ha una storia produttiva mai vista prima. I dodici anni che passano sullo schermo sono dodici anni effettivi, del mondo reale. Linklater e la sua troupe si sono visti ogni anno per una settimana per realizzare un capitolo, un momento della storia di Mason, e la crescita, i cambiamenti che si inseguono sullo schermo, sono cambiamenti reali, centimetri che si aggiungono, corpi bambini che cambiano, crescono e si sviluppano, rughe che si ramificano sui volti dei genitori.

È stata un’impresa unica, che non ha precedenti e che è difficile immaginare possa avere imitatori in futuro. Il valore di Boyhood, comunque, va ben oltre il period movie e l’innovazione produttiva.

Quello che Linklater è riuscito a fare è la descrizione più autentica della vita quotidiana, con il suo semplice scorrere di fatti qualunque che finiscono per diventare memorabili. Non ci sono drammi insuperabili, non ci sono momenti di sconvolgente eccezionalità. L’occhio dello spettatore, abituato ad aspettarsi lo straordinario dal racconto filmico, che sia esso sentimentale o brutale, viene ingannato più volte (l’andamento crescente dell’alcolismo del patrigno, o la scena nella casa in costruzione).

Il punto è che lo scorrere della vita reale è fatto di episodi dall’apparenza trascurabile che diventano fondamentali, dettagli che si osservano con la coda dell’occhio, singole parole. Ecco, Boyhood riesce a replicare esattamente questo, quella somma di normalità che costruiscono l’eccezionale. In maniera diversa rispetto alla storia di Jesse e Celine che si distribuisce nell’arco di vent’anni e che lo spettatore ha accompagnato crescendo insieme ai protagonisti, capitolo dopo capitolo, la crescita di Mason viene posta come fatto compiuto, come un momento finito di cui è possibile seguire le tappe.

Ed è nella normalità assoluta del racconto che Boyhood arriva a un livello ulteriore, perché raccontando un’infanzia come tante, Linklater riesce a raccontare la perenne adolescenza di una nazione, di quegli Stati Uniti lontani dalle grandi città, sospesi tra tradizione, patriottismo e religione, tra vocazioni artistiche e lavori nei fast food.

Senza pretendere di spiegare, senza voler analizzare o studiare o far osservare Boyhood si limita a guardare e a far guardare la cosa più normale e allo stesso tempo eccezionale dell’uomo: la vita.

 

(Boyhood, di Richard Linklater, 2014, drammatico, 165’)

 

“L’esercito di cenere”
di José Pablo Feinmann

Sono tempi un po’ invertebrati, questi. Savane d’asfalto e di finti bisogni.

Lì, dove un iPhone suggerisce quale succo di frutta abbinare ai mocassini, stormi di creature stizzite schizzano da un punto all’altro del proprio circuito, pressati da urgenze urticanti come schiantarsi dentro una foto e pubblicare a bordo del loro diario l’ultimo piatto di sushi.  Intimità planetaria in comodato d’uso. Viviamo così, in attesa di giudizio, funamboli sul filo di un “like”. Quanti “mi piace” servono per proclamare una buona giornata? Questo sì che è un dilemma, capace di candeggiare anche Amleto. E poi di fecondarne un altro: in un’epoca del genere, in cui la maggioranza dei maschi è munito di pinzetta per le sopracciglia e considera la peluria una malattia esantematica, quanto posto c’è per un libro come questo? Quale? L’esercito di cenere  di José Pablo Feinmann (SUR, 2014).

Western metafisico, come è stato più volte definito. Romanzo di guerra di un enorme narratore ancora troppo nascosto.

È il 1828 di un’Argentina non-luogo e il tenente Quesada, dopo aver archiviato un duello con morte avversaria in allegato, salpa a cavallo della sua avventura: spingersi fino al Forte Indipendenza per raggiungere il colonnello Andrade e assoggettarsi al suo servizio. Lui è un combattente, un maschio di marmo, purificato da ogni timore. È un meccanismo bellico ben lubrificato consapevole quindi di essere solo un ingranaggio. E il colonnello è un’entità sovraordinata, il comandante di un’ennesima battaglia. Appena giunto non gli resta che aspettare, che il colonnello lo convochi, che il colonnello fiuti l’ora e statuisca di partire. L’intero Reggimento fluttua per giorni nell’anticamera del sangue.

Ognuno di loro ha senso solo lottando; un soldato senza scontro ha le gambe sempre insonni. Teoricamente a riposo ma senza un rivolo di pace. La guerra è la ragione, la guerra è la sostanza, il pentagramma in cui ciascuno di loro solfeggia il proprio battito. L’unica grande «igiene del mondo» secondo Filippo Tommaso Marinetti.

«La guerra è la patria. Perché la patria è un territorio creato dall’amore dei suoi figli e dall’odio dei suoi nemici. È per questo che ci siamo noi, i guerrieri: per farla esistere, e vivere o morire per lei. La guerra può essere bella. Come una danza, come una grande festa. La guerra è entrare in una città che abbiamo conquistato, entrare con le nostre bandiere spiegate, con le nostre uniformi […] La guerra è sentire il tumulto delle donne e dei bambini, il timore dei vecchi, l’umiliazione dei vinti e il nostro infinito orgoglio di vincitori». Il viaggio si sveglia e la truppa si snocciola lungo un deserto amaro, un tappeto di spine che vomita polvere, dove annusare il nemico per sentirsi ancora vivi.

Ma il retaggio dell’altro sono solo fantasmi. L’avversario rampolla dal niente e cancella ogni molecola. Fortini nebulizzati, un giardino di cadaveri pendenti in cui «l’odore della devastazione copre ogni cosa».

Eppure il colonnello decide di procedere, malgrado ogni “malgrado”. Piove cenere e quei soldati si cospargono d’ombra, diventano gli spettri di se stessi. Uomini e cavalli trascinano ansanti le loro ultime scorze, carcasse di sabbia che sperano soltanto in angolo di notte.

Chi cede è un traditore, chi soccombe rema contro e va rimosso come un cancro. Andrade lo sa, il pericolo è chiunque non collabori fino allo stremo ed è convinto di non imporsi tregua. Quel nemico che nessuno avvista, neanche i migliori segugi su piazza, gli ondeggia nella mente. Esiste da sempre, è cresciuto nella sua prigionia e ora deve essere annientato. È la pazzia la sua tana, il solo grembo di tutto quell’odio, oppure proprio lui che è altrove è il prescelto in grado di avvertire quei cavalieri oscuri, tutto quel male impalpabile e strisciante?

Quesada assiste alla parabola di Andrade, al fulgore del comando e al delirio che formicola.

A quel carisma che deraglia in follia e comincia ad incresparsi, a un esercito che sbanda da un fremito all’altro: la chiamata, la partenza, la marcia, la strage e poi il dubbio. Inchinarsi al potere quando sembra inspiegabile oppure incubare il dissenso e accettarne il destino?

Come in altri essenziali romanzi di guerra, da Dispacci di Michael Herr a Scene da una battaglia sotterranea di Rodolfo Fogwill, l’esperienza del nemico è fondativa e inseparabile. È il motore irrinunciabile di ogni vicenda militare. Armarsi vuol dire armarsi contro, designare un colpevole, una minaccia di carne grazie a cui motivare quel campo e quelle ferite. Andrade ha in pancia il progetto di un’Argentina gloriosa, un Paese che si erga annichilendo i rivali. E così farà, anche cercandoli ovunque, fabbricandoli tra i propri vicini.

Perché il nemico è dentro, il nemico, quello assoluto, lo ha già conquistato.

Così la sua è una lotta contro il Nulla, personale e universale, simile a quella dell’hidalgo Don Chisciotte, pescato da una missione immaginifica e anche a quella, citata dall’autore, dei soldati di Buzzati ne Il deserto dei Tartari. Qui, L’esercito di cenere esonda d’ineluttabile. I suoi sono uomini coriacei, animati da forze quasi primitive. Uomini per cui la donna è un prurito e quindi un disagio, un desiderio che distoglie da un sudore più importante. Uomini che hanno dismesso le paure come un cappotto fuori stagione, capaci di cavalcare al buio e resistere alla sete.

Uomini che distano miglia di pagine dalle nostre metropoli frullate di autoscatti, dove un chilo di troppo genera imbarazzi. Torniamo alla questione iniziale: c’è spazio in mezzo a noi per L’esercito di cenere?

La risposta è: quello più raggiungibile, lo scaffale cui poter sempre attingere. Lo stesso dove alloggia la letteratura autentica, in grado di parlarci ancora.

Della fame di avversari che divora i giorni alla nostra noia, che fa tremare redazioni di giornali e lettori di satira. Che punisce con gli spari l’insolenza di un sorriso.

Della parola che esorcizza e che resta dopo tutto l’istinto più forte.

(José Pablo Feinmann, L’esercito di cenere, trad. di Francesca Lazzarato, SUR, 2014, pp. 192, euro 15)

“Coincidenze”
di Tim Parks

Il primo regalo che mio nonno fece a mio fratello fu un trenino delle Ferrovie dello Stato, appartenuto prima a mio padre, con tanto di locomotiva a vapore. Si trattava di un oggetto da collezione tanto straordinario agli occhi di un bambino di poco più di due anni quanto fragile per le sue mani inesperte e avventate. Inutile dire che fine fece la locomotiva. Eppure a distanza di più di trent’anni ancora ricordiamo quel pezzo di antiquariato familiare. La rete ferroviaria fu una delle prime opere poste in essere dal governo postunitario con l’intento di collegare le varie parti di un Paese fino ad allora diviso in tanti staterelli. Il treno, orgoglio nazionale, ha finito per assorbire e  rispecchiare così pregi e difetti del Bel Paese.

A farci un quadro, a volte amaro, a volte ironico e divertente dell’Italia a partire dai suoi treni è un inglese da quarant’anni trapiantato qui da noi, scrittore, giornalista, professore all’università IULM di Milano, Tim Parks: «Ho visto l’Italia per la prima volta dai finestrini di un treno. Era l’alba di una mattina d’estate del 1974». Coincidenze (Bompiani, 2014) è un viaggio lungo i binari dal Nord sino al tacco estremo del nostro stivale, proprio come dice il sottotitolo, fatto di “coincidenze” appunto, sia nel senso di incontri causali in quel privilegiato punto di osservazione e caleidoscopio di vari tipi umani che sono le stazioni e gli scompartimenti, sia nel senso ferroviario delle coincidenze fra un treno e l’altro per raggiungere località periferiche non collegate direttamente con le città principali, far coincidere, sincronizzare cose, luoghi e persone. Ne viene fuori uno spaccato, nel bene e forse più nel male, dell’italianità con tutte le sfumature che tale parola comporta.

Leggendo Coincidenze non nascondo di essere stata punta a volte da un certo fastidio nel dover spesso dare ragione allo scrittore inglese relativamente ad alcuni comportamenti tipici.

Come non essere d’accordo quando dipinge l’italiano onesto malato di innato vittimismo: «Cova un lento, torbido risentimento, come se chi ha rispettato le regole fosse cupamente contento di avere conferma che comportarsi da buoni cittadini è sempre inutile, una specie di martirio».

Oppure come non riconoscere alcune tipiche macchiette quando si imbatte nel controllore pignolo o nel passeggero furbo che cerca di aggirare ogni norma.

In tutti questi anni anche Parks si è dovuto suo malgrado inscaltrire perché «L’Italia non è un paese per principianti».

Lo vediamo nella sua vita da pendolare fra Verona e Milano barcamenarsi e lottare contro la burocrazia italiana con la sua «cultura di regole ambigue»: «Una delle caratteristiche chiave in Italia, che si rivela in ogni aspetto della vita di tutti i giorni, è la disinvoltura con la quale si considera la distanza fra ideale e reale. Travalica quella che noi grezzi anglosassoni chiamiamo ipocrisia. Semplicemente non coglie la contraddizione fra retorica e comportamento. Una forma mentis invidiabile».

Nei vari bar delle stazioni, luoghi di passaggio dove non c’è la necessità di fidelizzare il cliente, ha potuto constatare «l’ostilità verso l’uccello in migrazione […] uno dei più grandi ostacoli che lo straniero deve superare in Italia».

Ha viaggiato e viaggia per lo più in seconda classe dopo essere stato turlupinato da una bella ragazza che se ne è fregata dell’invito del controllore a spostarsi dalla prima alla sua carrozza di competenza: «La verità è che mi sono sempre considerato un passeggero di seconda classe […] ho deciso che per uno scrittore erano più interessanti le persone della seconda classe. Su quali basi si fondasse questa convinzione non lo so, forse era legata al tipo di romanzi che scrivevo».

Ha sperimentato tutta la vasta offerta di Trenitalia dai Regionali all’Intercity affollatissimo, sporco e chiassoso, al comodo e veloce Eurostar, per poi imbattersi, nel suo viaggio di piacere al Sud senza obblighi di orario, nelle carrozze storiche delle Ferrovie del Sud Est, «il presente che si camuffa da passato per sopravvivere al futuro».

Con una prosa dove la confortevole pacatezza del passo si sposa a un’azione piuttosto captante, Tim Parks non risparmia, oltre ad aneddoti divertenti, giudizi spietati sui costumi italiani. Il viaggio è stato anche l’occasione per fare un bilancio della sua scelta di vita: «Non so bene perché, ma il viaggio al Sud mi ha fatto ripensare a quella decisione. Trent’anni fa ho rinunciato alla mia identità, alla mia britannicità. Sono diventato questo strano ibrido, né qua né là. Fra un posto e l’altro, fra una cultura e l’altra. Riconosciuto ovunque come inglese ma non più davvero inglese».

(Tim Parks, Coincidenze. Sui binari da Milano a Palermo, trad. di Giovanna Granato, Bompiani, 2014, pp. 341, euro 19)

“Il nome del figlio” di Francesca Archibugi

Quello dei Pontecorvo è un nucleo familiare allargato. Paolo e Betta sono fratelli, Sandro è il marito di Betta, ma è da sempre, dalle estati infantili passate insieme nella tenuta di famiglia in Toscana, il migliore amico di Paolo. Claudio è amico di tutti, da quando suo padre lavorava per il capofamiglia Emanuele. Sono cresciuti insieme e continuano a frequentarsi. Lo fanno in una cena come tante, in cui Paolo e sua moglie Simona, l’unica che si è unita al gruppo in età adulta, decidono di rivelare il nome del figlio che stanno aspettando. Sarà questo annuncio a far precipitare la situazione e a trascinare tutti e cinque in una specie di resa dei conti di quarant’anni di silenzi e rancori.

Il nome del figlio è solo un pretesto per Francesca Archibugi e Francesco Piccolo (sceneggiatore) per collegarsi al testo teatrale Le Prénom del 2010 portato al cinema due anni più tardi dagli stessi autori, Alexandre De la Atellière e Matthieu Delaporte, perché, a differenza dei modelli francesi, la versione italiana risolve nella prima parte l’equivoco sul nome e si apre piuttosto su nuovi terreni di scontro.

Il Paolo interpretato da Alessandro Gassmann è sempre stato il fuoriposto, più che il ribelle, di famiglia. Poco interessato alla politica di cui il padre Emanuele era nitido esponente (una specie di Berlinguer, per dare idea dello spessore e dello schieramento), è sempre stato altro rispetto agli interessi culturali dei genitori e degli amici. Il suo presente da immobiliarista con auto enorme e moglie trofeo gli fa raccogliere consensi al circolo e il biasimo silenzioso dei parenti più prossimi, soprattutto del cognato Sandro (Luigi Lo Cascio), che non è direttamente della famiglia ma che dalla sua posizione di accademico si è arrogato il diritto di essere l’erede, quantomeno culturale, del fu Emanuele. La scelta del nome del figlio è una reazione a questa sensazione di inferiorità, uno schiaffo in faccia alle coscienze assopite sulla presunta posizione di superiorità tipica della sinistra italiana e degli ambienti più radical chic.

È su questo distacco tra mondo reale e mondo delle idee culturali che si concentra lo sguardo sociologico di Archibugi e Piccolo. Tra Paolo e gli altri il solco che si è scavato con gli anni è netto ma ancora scavalcabile. Il ponte comune è l’amicizia, la provenienza, la casa condivisa che non è solo luogo ma è soprattutto strato sociale condiviso. La vera aliena al contesto della cena è Simona, scrittrice per caso di un best-seller ai limiti del porno-casareccio, pieno di particolari pruriginosi sulla educazione sessual-sentimentale di una giovane di Palocco (ma non la parte delle ville, quella povera), ignorante in cerca di redenzione che pensa che la sindrome sia un romanzo meno famoso di Stendhal. Odiata e invidiata da Sandro, che con i suoi saggi vende un centesimo di quanto riesca a piazzare il romanzetto, Simona è lo sguardo esterno che si ritrova a dover giudicare quel quartetto che è una sorta di carrellata storica della sinistra italiana, dei professori di cachemire, delle figure materne accoglienti e pazienti che vorrebbero riuscire ad essere di più affidandosi alla ginnastica isometrica domestica (Betta, interpretata da Valeria Golino), degli artisti alternativi sempre alla ricerca del compromesso tra popolare e colto, fino ad arrangiare Califano in chiave jazz (il Claudio di Rocco Papaleo, che ormai è ovunque), e dei professionisti che tutto sommato strizzano l’occhio alla destra, nell’ultima incarnazione renziana dell’idea oggi detta democratica.

Simona dalla periferia li guarda mentre discutono e mentre cantano Lucio Dalla, prende appunti, li studia, ed è simbolico, o forse no, che a interpretarla ci sia Micaela Ramazzotti, ormai eletta voce nobile della coattaggine romana, l’unica tra gli interpreti che non abbia (ancora) tentato la strada della regia cinematografica.

Fortemente legato al suo impianto teatrale (che poi in Italia il testo è stato portato in scena l’anno scorso, e ancora gira, come Signori… Le paté de la maison, con Sabrina Ferilli, Pino Quartullo e Maurizio Micheli), Il nome del figlio finisce per diventare un’indagine su un’intera classe e su un mondo che è sempre più arroccato in se stesso che non è in grado di conoscersi e di capire ciò che è al di fuori. Replicando dinamiche che ricordano Il dio del massacro di Yasmine Reza, e ancora di più l’adattamento cinematografico di Polanski, Carnage, senza però la ferocia che l’idea di massacro porta con sé, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo aggiornano le terrazze di scoliana memoria e chiamano a giudizio tutto un mondo tra l’alternativo e il fighetto (l’aperitivo a Settembrini) di cui fanno parte, anche, loro stessi.

A tratti la scrittura prevale sulle intenzioni («Sei l’incarnazione della sconfitta di questo paese»), così come il tentativo di analisi sociale prende il sopravvento sulla spontaneità, ma va bene così.

(Il nome del figlio, di Francesca Archibugi, 2015, commedia, 94’)