= di Ed Sheeran e la sua inutilità

I Party Posse sono la band di Bart, Milhouse, Ralf e Nelson. Tirata su come propaganda per creare già in età preadolescenziale un cordone ombelicale tra ascoltatori ed esercito americano, è una parodia delle boyband di fine ’90/inizio 2000. Il sound è quello facile, vuoto e disimpegnato (nonostante l’enorme dose di nostalgia che oggi può portarsi appresso) che spazia dagli NSYNC ai Five. Tralasciando i messaggi subliminali (YVAN EHT NIOJ) nella puntata dei Simpsons, la sensazione che si ha durante l’ascolto dell’ultimo album di Ed Sheeran, =, è quella ritrovarsi di fronte a qualcosa di molto simile a quello che ci proponevano Bart e soci.

Ed Sheeran è uno dei grandi misteri della musica pop planetaria. È difficile trovare delle peculiarità – per quello che propone e per il modo in cui lo fa -, che possano farti dire “Ecco, è per questo che Ed Sheeran è Ed Sheeran“. Justin Bieber è uscito da bambino e ora è un bad guy, è un belloccio. Ok. Taylor Swift ha quella componente malinconico-folk che ha convinto National e Bon Iver, non proprio gli ultimi arrivati. Ok. Andando a pescare un po’ nel passato, Michael Bublé, ma lui si è specializzato sul Natale. Ok.  Si potrebbe dire “Shape of You“. Bene, ma pare un po’ poco rispetto a quello che gli ruota attorno. Forse è proprio nell’incredibile assenza di peculiarità che dobbiamo andare a spulciare.

Le sue produzioni, la sua voce, l’uso della cassa, le strutture e le architetture melodiche: è tutto confondibile con roba affine mandata in filodiffusione mentre si fa la fila da Zara o nei corridoi di un centro commerciale. O in qualsiasi altro non luogo.

Il paradosso è nel film Yesterday, dove di fatto il protagonista, l’unico al mondo (quasi l’unico) che si ricorda dei quattro di Liverpool, decide di costruire la sua carriera spacciando le canzoni dei Beatles per sue. Dimostra allora la sua grandezza una volta che tutti si accorgono che quei brani (“The Long and Winding Road“, nello specifico) sono meglio di quelli di Ed Sheeran. Se ne accorgono tutti e se accorge definitivamente anche Ed. Il sottotesto è: nel 2019 il banco di prova per i Beatles è lui, Ed Sheeran.

L’effetto  di questo paragone per interposta persona è per forza straniante e, di conseguenza, comico. Neanche lui crede a come sia possibile questa cosa. Ma il fatto che ci sia Ed Sheeran e non altri in quel film è esplicativo di quanto l’artista inglese sia importante a livello mondiale.

Oggi, l’autore di “Perfect“, con =, persevera nel suo essere Ed Sheeran. Oscilla tra pezzi dove vuole fare la rock star (“Tides“, ma finisce per sembrare ancora più annacquato degli annacquati Mumford & Sons), pezzi destinati a diventare hit mondiali (“Bad Habits“, ma se l’avessero fatto i BTS o, di conseguenza i Coldplay, non sarebbe cambiato molto, parliamo della stessa entità che si manifesta in diverse forme), ballate romantico-melense (“The Joker and The Queen“, un grandissimo punto di domanda qui, a questo punto meglio le sue hit mondiali), pezzi da vere boyband anni 2000 (“Shivers” deve essere per forza uscita dai cassetti dei sopracitati Party Posse), prove di alt-pop (“Leave Your Life“, con un inizio simil Apparat, che poi precipita in un vortice di banalità melodiche) e una inconsistenza che attraversa l’intero album per cui in testa non fa che ronzare la domanda: perché Ed Sheeran sì e il maestro di canto che vive nel mio palazzo no?

Copertina di Nome non ha di Lipperini e Seitzinger

Voci e volti di Sibilla, o dell’arte di tessere storie

Nome non ha (Hacca, 2021) è un esperimento letterario che porta le firme di Loredana Lipperini ed Elisa Seitzinger, dove la prima ha avuto cura di tessere la trama delle parole e la seconda ha ordito il testo con le sue illustrazioni. Il risultato è un libro difficilmente ascrivibile a un genere distinto e connotato, bensì è un’opera che tenta di racchiudere in sé più anime possibili: una fiaba d’iniziazione, un libro sull’importanza della narrazione, un romanzo breve e schietto su come l’eterno cerca di permeare un presente irrequieto ma ristagnante, un volume dove parole e immagini si fondono come accade nei tomi che arricchiscono le biblioteche antiche.

L’occasione letteraria si genera, quasi con il sapore di una pièce teatrale, dal fortuito arrestarsi di una macchina con a bordo tre giovani ragazze in viaggio dalla grande città verso una località di mare. Il caso le costringe a sostare in un paesino sconosciuto e sperso nell’appennino marchigiano, Serravalle di Chienti, in attesa di riparare il guasto. Da qui la possibilità di partecipare a una cena condivisa con chi si è gentilmente offerto di aiutarle.

Niente di tutto ciò avrebbe valore in un’estate che corre dritta verso la spensieratezza della riviera. Eppure, qualcosa concorre a bloccare questa corsa per donare alle protagoniste, e al lettore, un’opportunità.

Questo è lo scopo di Nome non ha, un’opportunità da cogliere per conoscere le storie che si annidano tra i monti − che Leopardi chiamava azzurri, ammirandoli dalla sua finestra – e ricordare la ricchezza poliedrica di un personaggio ancestrale come la Sibilla, che senza presunzione alberga in sé una narrazione universale.

D’altronde, un libro che si incentra sulla figura della Sibilla − o delle Sibille − non può che essere ammaliante e ubiquo, in grado perciò di presenziare a più terreni letterari in contemporanea, senza per questo perdere di compattezza.

Nondimeno, è alla fiaba, o meglio alla lunghissima tradizione letteraria dei cantastorie, che si rifà il libro, il quale fin dall’incipit dichiara in modo onesto e cristallino la sua missione: «Sette sono gli amici che servono le storie, perché sanno che consegnarle ad altri non significa solo mantenerle vive. Le storie vivono comunque: non ci sono rovine e pietre e frane e ruderi e inghiottitoi per seppellirle, e sempre si apriranno fessure che ne condurranno la voce per il mondo. L’atto del consegnare, come avviene nel settimo giorno del settimo mese di un anno da non precisare, significa soprattutto trasformare chi ascolta, sapendo che a sua volta si farà servitore: perché le storie mettono radici invisibili e profonde, e i nostri pensieri, e dunque le nostre azioni, muteranno dopo averle incontrate».

Nome non ha, che anche nel titolo porta traccia di una Sibilla − essendo il titolo il verso iniziale di una poesia di Sibilla Aleramo −, si fa carico di un nobile compito: quello di riportare nel presente questa figura molteplice, perché «le Sibille sono un altro aspetto delle Dee dimenticate. […] Dimenticato ma non cancellato. Le cose cambiano nome ma non essenza».

Nel non avere nome, la Sibilla è una e tante, è donna carnale e dea, ma in ogni caso non smette mai di dare corpo a un essere che è per prima cosa voce, e quindi racconto.

E si ritorna così alla centralità della narrazione come valore sostanziale di ogni essere vivente.
Allora, nel cuore di quei monti chiamati appunto Sibillini, in una terra plurima, le Marche, che possiede una Sibilla bianca e una Madonna nera, appare quasi più semplice «esprimere una cosa nei termini di un’altra» e non per creare ambiguità, bensì per aprire i tempi presenti a una nuova sostanziazione, perché è «così che gli uomini e le donne sopravvivono: con le storie che qualcuno ha raccolto e narrato a qualcun altro», in un eterno movimento circolare di narrazione e ascolto che incarna il ciclo vitale dell’uomo. L’essere umano esiste nel suo profondo proprio nel momento in cui è in grado di raccontarsi e di essere raccontato, perché questo genera il seme che sarà germoglio delle generazioni future.

Ed è per questo motivo che c’è spazio per tutto nel libro di Lipperini e Seitzinger, per ogni tipo di narrazione, anche quella che lambisce questioni attuali e scomode che hanno per protagoniste le terre marchigiane citate nel libro. Si va dai borghi montani che si spengono, sopraffatti dal richiamo incantatore di una superstrada che getta tutto in mare, dalle problematiche post-sismiche, che hanno lasciato ferite non ancora rimarginate, allo spaventoso tentativo di riqualificare un territorio martoriato dal sisma con scelte industriali di dubbio valore.

L’importante, però, è non guastare l’incanto. Calarsi nel presente, sì, ma senza ancorarsi ad esso per lasciare lo sguardo puro e in grado di spaziare nel tempo, cercando di afferrare anche l’invisibile, o quello che non è segnato su nessuna mappa.

E dunque la domanda «Viaggerai con me? Amerai, soffrirai, spererai come io voglio?». Perché ogni storia sia viatico che conduca l’essere umano da un luogo all’altro, da un se stesso a un altro sé, diverso e allo stesso tempo uguale.

Nome non ha chiede al suo lettore di essere per lui un ponte, un passaggio che possa condurlo altrove. Quale sia l’altrove è il lettore stesso a deciderlo.

E seppure alla fine quanto ascoltato e letto assume via via i contorni indefiniti di un sogno, val la pena congedarsi dalla propria lettura ricordandone la dolcezza assaporata, proprio come fa Dante, nel XXXIII canto del Paradiso: «Qual è colüi che sognando vede, / che dopo ’l sogno la passione impressa /rimane, e l’altro a la mente non riede, / cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visïone, e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa. / Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla».

 

(Loredana Lipperini e Elisa Seitzinger, Nome non ha, Hacca, 2021, 104 pp., euro 20, articolo di Giulia Eusebi)

 

Lo zen e l’arte di controllare il Potere

Si definisce “nova” un fenomeno che prevede un’enorme esplosione nucleare causata da un accumulo di idrogeno sulla superficie di una nana bianca, una stella di piccole dimensioni e poca luminosità pronta a «esplodere in un lampo di devastante fulgore elettromagnetico, annichilendo ogni altro corpo celeste attorno a sé in un raggio di miliardi di chilometri, ma sopravvivendo alla sua stessa furia».

Questa è la metafora che Fabio Bacà usa per parlare della violenza nel suo nuovo romanzo Nova (Adelphi, 2021). Come il fenomeno astronomico appena descritto, anche la violenza scaturisce dall’accumularsi di eventi e pensieri dolorosi difficili da controllare, e una volta sprigionato il suo potere non risparmia nessuno, nemmeno l’individuo più tranquillo sulla terra che cerca di nascondere i sentimenti più istintivi del proprio animo, come richiede, del resto, il vivere civile.

Protagonista del secondo romanzo dell’autore di Benevolenza cosmica è Davide Ricci, l’uomo tranquillo per antonomasia: è un neurochirurgo ed è sposato con Barbara, logopedista e sostenitrice del «radicalismo vegano». I due hanno un figlio, Tommaso, appassionato di astronomia e studente modello, e tre animali: un Jack Russell di nome Fred Flintstone e due gatti, Epaminonda e Kociss. A parte i frequenti pensieri sulla morte, «un antidoto ai periodi complicati che assume periodicamente da più di quindici anni», le beghe con il vicino di casa Massimo Lenci e le angherie del dottor Martinelli, primario del reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Campo di Marte, la vita di Davide nella periferia meridionale di Lucca sembra scorrere tranquilla.

A irrompere nella sua quotidianità, però, sarà un episodio di tentata aggressione che vede coinvolta sua moglie, a cui Davide assiste restando fermo e impassibile, poiché «geneticamente inabile alla violenza»: in poche parole, è un vigliacco. Solo l’incontro con Diego, un enigmatico maestro zen, lo porterà a riconoscere la violenza – o meglio, il Potere – come parte di sé.

Nova inizia raccontando il caso di Adam Kabobo, il ghanese affetto da problemi psichiatrici che anni fa uccise in zona Niguarda a Milano dei passanti prendendoli a picconate. Un episodio di violenza esploso all’improvviso che ci ha messo di fronte a un dato importante: «Il problema è che abbiamo perso contatto con qualcosa di essenziale dentro di noi».

A leggere queste parole sembra di ricordare ciò che Ian McEwan raccontava in Sabato quando il protagonista Henry Perowne, neurochirurgo come Davide, si trovava a fronteggiare l’irruzione in casa sua di Baxter, un uomo affetto dalla sindrome di Huntington, malattia neurodegenerativa che conduce a comportamenti aggressivi: il confronto con un fenomeno improvviso e in apparenza incontrollabile come la violenza che minaccia la nostra quotidianità, al quale non siamo abituati e che anzi tendiamo spesso a negare.

Anche in questo nuovo romanzo di Bacà torna fondamentale, dunque, il rapporto fra il razionale e l’irrazionale, tema che l’autore marchigiano ha già affrontato nel suo precedente romanzo. In Benevolenza cosmica si sviluppava una contrapposizione fra la razionalità di Kurt O’Reilly, di professione statistico, e l’irrazionalità della fortuna che stravolgeva la sua vita; in Nova, invece, il contrasto è quello fra i coniugi, la cui logica controllata si esprime attraverso un linguaggio scientifico di registro alto, e l’imprevisto del caso. Quest’ultimo si esterna per esempio nel boomerang del figlio del vicino, che irrompe all’improvviso nella villa della famiglia Ricci, nei comportamenti bizzarri e dispettosi del dottor Martinelli, ma anche in Victor, ragazzo affetto da sindrome di Tourette, che nella sua conversazione con Davide offre una chiave di lettura necessaria per comprendere il romanzo:

«“Il problema è qui dentro,” disse “non possiamo negarlo. Ma non dobbiamo nemmeno perdere la speranza di ripristinare rapporti ottimali tra materia bianca e materia grigia. Voglio sappiate che ho ancora fede in una terapia che ristabilisca proporzioni accettabili tra i miei possedimenti intracranici, signori. In fondo non è la vita stessa una questione di giuste proporzioni?”».

Davide deve perciò comprendere che «la vita è una questione di giuste proporzioni» fra il controllo razionale dei propri istinti e il bisogno di liberarli nel momento in cui è necessario farlo, persino a costo di perdere per un attimo il controllo. Anche qui, come nell’opera prima di Bacà, ricopre un ruolo importante la filosofia orientale: laddove in Benevolenza cosmica era fondamentale il concetto di karma, qui assumono centralità lo zen, pratica buddhista che consiste nella profonda conoscenza del sé, e il koan, ovvero l’accettazione di «una questione paradossale e insolubile».

La pratica zen dell’equilibrio fra la razionalità e la violenza avviene grazie a Diego, enigmatico monaco zen dalla vita turbolenta che grazie alla filosofia orientale ha imparato a controllare i suoi impulsi di rabbia e la sua irrequietudine. Attraverso paragoni disparati come quelli con Gesù e John Wayne Bobbitt, Diego spiega al protagonista come la società moderna abbia represso certi istinti per evitare i conflitti, contrari in teoria all’idea di “civiltà”. In realtà, secondo il maestro di Davide, sono proprio questi impulsi violenti che hanno portato a far nascere la civiltà stessa, e reprimerli significherebbe negare la propria essenza:

«“Ma la violenza è un potere ambiguo, che ha bisogno di essere controllato: se non lo domini, dominerà te. E non puoi controllare qualcosa che neghi a priori. Non puoi gestire una parte di te che rifiuti persino di concepire. Per convivere con il Potere devi nutrirlo e addomesticarlo. […] È inutile tentare di comprimere la tua indole fino a ridurla a un innocuo accessorio della way of life occidentale. Altrimenti la violenza riemergerà, e nel momento peggiore. Mentre discuti con un fratello o un cognato. Mentre litighi con un socio. Mentre tua moglie alza la voce e su quel tagliere c’è un coltello a lama lunga”».

Se Barbara si dimostra recalcitrante all’idea che Diego insegni al marito che la violenza sia giusta, e anzi, non tollera che si usi la parola “violenza” – non è un caso che sia una logopedista, che qui in senso metaforico reprime la violenza verbale –, il protagonista accetta invece la violenza non per diventare a sua volta violento e aggressivo, ma perché, come afferma lui stesso, «“ho preferito non vedere […] come faccio da una vita. Ma ora basta. Non posso continuare a far finta che certe cose non esistano solo perché mi ripugnano”».

L’autore mette in guardia contro tutti quei meccanismi di negazione e difesa che vogliono reprimere a ogni costo i nostri sentimenti impulsivi e primordiali. Davide non può continuare a negare la violenza: «È l’argine a quella altrui», «il tratto umano più unificante che c’è». Lui deve riconoscere i suoi istinti violenti perché sono costitutivi del suo essere, della società in cui vive: conoscere l’aggressività significa sapere come reagire a essa, come porvi rimedio, e come rapportarsi con gli altri. Come la nova crea nuove stelle, l’esplosione della rabbia è necessaria per accettare «la sostanza di cui siamo fatti: sangue, furore e detriti di sogni al confine tra sonno e veglia».

 

(Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021, 279 pp., euro 19, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
Copertina di Italian psycho

L’uso eversivo della follia

Quando mi sono affacciata alla facoltà di Lettere dovevo compilare il piano di studi e scegliere uno fra tre esami di storia. Nella vergogna personale per aver studiato molto poco negli anni liceali avevo scelto subito di iniziare con Storia contemporanea per mettere una prima ma importante pezza alle lacune che mi portavo dietro. Ricordo bene di aver comprato il libro e di averlo foderato con attenzione, convinta di volermi appropriare finalmente di conoscenze imprescindibili in maniera adeguata e non superficiale. Alla fine di ciascun capitolo c’era un approfondimento tematico su uno degli argomenti trattati: arrivata alla parte dedicata all’ascesa del nazismo in Germania, trovo una frase che introduce il personaggio del Führer: «Hitler era un pazzo». Speravo che con l’inizio dell’Università si riuscisse ad abbracciare in maniera più complessa e complessiva l’analisi di fenomeni così rilevanti, eppure in quel momento mi sembrò di trovarmi davanti, se non a un luogo comune, almeno a un eccesso di semplificazione riduzionista. Ricordo bene che andai da una delle mie compagne di corso per chiederle se anche lei non lo trovasse grave, fermandomi a bisbigliare tutte le perplessità su quella pagina.

Mi sembrava concreto il rischio di trascinare un personaggio storico di simile rilevanza oltre qualunque confine di razionalità, o addirittura di assolverlo da ogni responsabilità politica e ideologica circa il suo operato. La personalità di Hitler avrà sicuramente inciso sul periodo più buio nella storia dell’umanità, ma non per questo si può trascurare come la politica, anche quella nazista, sia sempre un fenomeno sociale che si radica in uno spazio storicamente determinato che produce mentalità, culture, pensieri. Mi è tornato in mente tutto questo leggendo Italian Psycho. La follia tra crimini, ideologia e politica (minimum fax, 2021), in cui lo psichiatra Corrado De Rosa restituisce da un’angolazione molto particolare la vita di alcuni celebri personaggi della storia italiana: il momento processuale in cui è stata chiamata in causa la malattia mentale come pretesto giustificatorio o assolutorio per i comportamenti di cui erano imputati, per dirne alcuni, Pietro Valpreda (accusato dell’attentato di Piazza Fontana e di essere pazzo, in quanto anarchico), il mostro del Circeo Angelo Izzo, l’attentatore di Giovanni Paolo II Mehmet Ali Agca, le “nuove” Brigate rosse responsabili dell’omicidio di Marco Biagi, il mafioso Bernardo Provenzano e lo ’ndranghetista Peppe Pelle. De Rosa non insiste su tutte le vicende giudiziarie, ma sul momento esatto in cui il tratto psicotico viene annunciato in un’aula di tribunale, per il quale sia la difesa che l’accusa si trovano a gestire un discorso tentacolare, spesso interpellato per trascinare i fatti oltre l’orizzonte del comprensibile.

Prima di dedicare una sezione a ciascuno dei personaggi, De Rosa si sofferma per alcune pagine sull’utilizzo di termini quali “follia” e “pazzia”, volendo restituire loro un’accezione medica senza però accodarsi alla tendenza per cui tutti i nostri comportamenti debbano essere medicalizzati o, peggio ancora, patologizzati. Se l’utilizzo improprio nel discorso comune di queste parole, da una parte, può normalizzare alcuni stati d’animo che dovrebbero rimanere un’eccezione (si pensi alla brandizzazione dell’ansia sulle cover del telefono con frasi come Come si disinstalla l’ansia?), dall’altra il suo uso in campo giuridico «è pericoloso. Farlo significa lasciare intravedere una giustificazione per comportamenti, al contrario, profondamente umani. Perché se è vero che malattia mentale e responsabilità non vanno necessariamente insieme, è altrettanto vero che l’immaginario collettivo considera il matto non responsabile delle sue azioni».

Le due figure che introducono nel libro il problema dell’utilizzo linguistico della parola “matto” rappresentano l’una il calco dell’altra. Pinochet riesce nel 2000 a sospendere il processo che lo vede accusato per la cosiddetta “carovana della morte” grazie alla testimonianza della moglie sull’annebbiamento mentale di cui è affetto: agli psichiatri spiega che il marito confonde le date, non riconosce chi lo visita, dimentica eventi importanti e ha perfino perso la capacità di risolvere i problemi. In sostanza Pinochet sarebbe affetto da una malattia senza sintomi che lo rende «un uomo malato con le apparenze di una persona sana», comunque capace di firmare autografi. Solo nel 2004 la corte di appello gli revocherà l’immunità. Il secondo esempio, che rispecchia un comportamento specularmente opposto a quello di Pinochet, è Anders Breivik che il 22 luglio del 2011, dopo aver ucciso otto persone con un’autobomba a Oslo, si veste da poliziotto e sull’isola di Utøya ne ammazza altre sessanta al meeting annuale dei giovani socialisti norvegesi. Vuole proteggere l’Europa dall’islamizzazione, odia gli immigrati, ha paura per la deriva marxista della Norvegia ed è per questo che ha agito così: ha protetto la sua nazione. Per questo motivo esige una linea difensiva che si fonda sulla totale responsabilità delle sue azioni, è sano, ed è per questo che, come lui stesso dice, «questo è un processo che riguarda l’estremismo politico, non la psichiatria».

L’interesse specifico di De Rosa è quello di sottolineare l’intreccio che ha interessato la giustizia italiana tra vicende politiche e uso criminale dei disturbi mentali, per evidenziare l’atteggiamento che questo paese ha avuto questo di fronte a fenomeni smaccatamente politici come il terrorismo (rosso o nero che fosse), la strategia della tensione, l’islamismo radicale, la mafia o l’omosessualità. Aprire questa riflessione permette infatti di illustrare come ha reagito il senso comune a vicissitudini drammatiche, oppure evidenziare la necessità politica di non far comprendere le ragioni sociali di alcuni accadimenti, delegando l’interpretazione alla psichiatria.

Di esigenza si parla, perché la scomodità di personaggi come Pier Paolo Pasolini è ancora oggi evidente quando ci addentriamo a capire le matrici del suo omicidio. Di lui è ancora ben risaputa l’accusa di pedofilia e di comportamenti scabrosi: subì trentatrè processi e tutti si risolsero con un’assoluzione o una archiviazione. La figura centrale che però ha segnato l’immaginario pubblico in relazione ai processi a Pasolini è Aldo Semerari, un criminologo che girava con un cinturone delle SS tedesche. Incaricato dall’accusa di una perizia per uno dei procedimenti subiti da Pasolini, cavalca l’onda italiana di quegli anni che considera l’omosessualità una malattia. Il campo delle opinioni si divide tra l’anormalità e la giustificazione genetico-biologica come se si trattasse di una deviazione dalle leggi della natura. Sono anni in cui si praticano sedute eterosessuali terapeutiche perché il primo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali del ’52 ha inserito anche l’omosessualità tra le patologie; si dovrà aspettare il 17 Maggio (divenuta poi giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la trasfobia) del 1990 perché ne sia espunta. Semerari giocò così con la sua autorevolezza medica e i continui riferimenti al linguaggio tecnico per screditare la figura di Pasolini e sovrapporre la sua immagine all’idea immorale e inaccettabile che accompagna l’omosessualità.

Le undici storie che De Rosa riporta attraversano vicende giudiziarie decisive per la nostra storia, come la strage di Piazza Fontana o il rapimento di Aldo Moro, ma anche fenomeni odierni, come il terrorismo islamico: in proposito va sottolineata la scelta di chiudere l’antologia con il caso di Maria Giulia Sergio, la prima donna italiana ad aver aderito all’Isis. Il fenomeno del terrorismo è spesso avvertito come cruento e fanatico al punto da non poter in nessun modo essere ricondotto alla volontà del singolo. Tra tutti i capitoli, questo dedicato a Fatima al-Zahra (così si chiamerà la giovane italiana dopo la conversione) è forse il più biografico. Viene infatti ricostruita la sua vita, il suo avvicinamento alla religione musulmana, il primo matrimonio, il divorzio per la poca ortodossia del marito, la partenza per servire Allah, la conversione di tutta la famiglia ed infine la perdita delle sue tracce dopo una videointervista con il Corriere della Sera. Il motivo che ha portato Maria Giulia a compiere una scelta simile è forse da intendere non come un’alterazione della coscienza, quanto come effetto del funzionamento intrinseco dell’Isis, che «si propone come un organizzatore di pensiero che aiuta a definire il proprio ruolo, restituisce un orizzonte, diventa dottrina di salvezza per chi è alla ricerca di punti fermi in una vita fatta di riferimenti inconsistenti».

L’aggettivo “normale” utilizzato come metro di giudizio porta con sé pericolose distorsioni. Il termine ha principalmente un valore statistico (è normale mangiare due volte al giorno, non è normale dormire due ore a notte) e non morale come invece tendiamo a utilizzarlo. E proprio in conclusione alla sua lunga panoramica sull’Italia vista da un’aula di tribunale De Rosa spende, da medico, importanti parole su questo termine: «La normalità è magmatica. Normale vuol dire standard, regolare. Normale è quello che non disturba. Normale è convenzione. La normalità è un’illusione ottica, circoscriverla è complicatissimo. Gli statistici la misurano, i filosofi ne vivisezionano il significato, gli psicanalisti la criticano, i clinici provano a perimetrarla. Ma dov’è la linea di confine fra anomalia e anormalità? Fra aspetti del carattere e disturbo della personalità? Fra malattia e cultura?».

Nonostante il nostro bisogno di dividere tutto tra normale e anormale come se fosse un’unità di misura applicabile ovunque, Maria Giulia non ha agito per costrizione psicologica ma per intenzione. Il rischio, sottolinea De Rosa nelle sue conclusioni, è proprio che i medici e questo utilizzo della psichiatria siano i primi professionisti a essere corrotti dai sistemi criminali. L’abolizione dell’infermità mentale è oggetto di discussioni politiche (Nixon tentò di toglierne l’uso nei processi), ed è forse maturo il tempo per una riforma sul sistema di attribuzione degli incarichi peritali in modo che gli specialisti possano scegliere se lavorare per conto dei privati o dell’autorità giudiziaria e non, come succede oggi, avere una volta un incarico di parte ed essere un’altra la voce dello Stato.

In tutto questo, Hitler era pazzo? Probabilmente sì, ma fu soprattutto il primo dei nazisti.

 

(Corrado De Rosa, Italian Psycho. La follia tra crimini, ideologia e politica, minimun fax, Roma 2021, pp. 320, 18 euro. Articolo di Anita Fallani)
Copertina di Le maestose rovine di Sferopoli di Michele Mari

Viaggio al centro della letteratura

Qualora vi accadesse un giorno di viaggiare sulla Strada Provinciale 921, potreste incappare in alcune, curiose, sorprese: al km 2.225 nientemeno che il km 2.225; superata Bulicame, subito dopo aver preso la meta-via 55, ritrovarvi soli con voi stessi scoprendolo insopportabile; oppure notare, sulla sinistra, le maestose rovine di Sferopoli, con i loro bastioni di mica e basalto.

Tranquilli, non vi trovate in uno degli incubi di H.P. Lovecraft, ma nel nuovo libro di Michele Mari, la raccolta di racconti Le maestose rovine di Sferopoli, uscita lo scorso settembre per Einaudi, nella collana dei Supercoralli. Sulle bandelle laterali che incorniciano il libro, leggiamo: «Ogni ossessione a Sferopoli è già stata catalogata, qualsiasi mito o superstizione trova conferma, i sogni sono moneta corrente, la letteratura è l’unica divinità». Lungo l’arco narrativo che lega il filo delle pagine, l’indicazione risulta estremamente preziosa per cercare di orientarci fra gli argomenti trattati all’interno di queste storie piene di meraviglie, e vale la pena cercare di non dimenticarla.

Una precisazione: dei ventisei racconti che compongono questa raccolta solo tredici risultano inediti. Gli altri sono stati ripescati vuoi da precedenti edizioni vuoi da alcuni giornali nazionali (Il Corriere della Sera, Vanity Fair, la Repubblica). Questo per spiegare quanto appaia difficoltoso individuare una poetica comune, una connessione che possa dare un senso concreto ai diversi temi. A meno di non dimenticare il memorandum che poche righe sopra abbiamo ricordato: «La letteratura è l’unica divinità».

Già, perché questa sembra essere la sola direttiva presente, la stella cometa che guida i nostri passi verso i dintorni diroccati di una Sferopoli dai contorni biblici, così come la vediamo rappresentata in copertina. E lo capiamo immediatamente dal primo racconto, intitolato proprio “Strada Provinciale 921” , dove assistiamo a un’imitazione parodistica del linguaggio turistico delle guide o dei programmi tv della domenica mattina. Mentre siamo trasportati attraverso i luoghi fantastici che si snodano fra le tortuosità del suo percorso, ci viene fornita una rubrica completa dei ristoranti o degli hotel migliori in cui sostare. Così, in caso vi capitasse di transitare dalle parti di S. Cristina è fortemente consigliato lo Splendor, «44 camere tutte con b. e aria cond., frigo-bar, pay tv, posteggio, minigolf», mentre invece attardandovi al km 1.897 trovereste solo il «nulla. Presagi, o forse strascichi, del boato cosmico».

In Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari si diverte, sperimenta, gioca con la lingua e con il lessico, portando agli estremi le infinite possibilità che la letteratura nasconde in nuce. E lo fa con uno stile unico, inconfondibile, che tuttavia non disdegna a volte di mimetizzarsi con altri modelli illustri: accade per esempio in “Il falcone”, dove, imitando in tutto e per tutto lo stile di Boccaccio, Mari dà alla sorte del povero Federigo degli Alberighi un’alternativa ben più beffarda rispetto a quella lieta narrata nella nona novella della quinta giornata del Decameron.

Mancano a questo punto solo i sogni e le ossessioni. Una buona scusa per fare un passo indietro e scovare alcuni temi che da sempre appassionano lo scrittore milanese. È il caso ad esempio di “Argilla”, uno tra i racconti inediti più riusciti, che narra di una folle gara che ogni anno si terrebbe fra gli otto rabbini più potenti del mondo, per stabilire chi sia in grado di creare il golem migliore, più forte e resistente. Si potrebbe pensare a una lotta alla pari, fra leali eruditi ed esperti di Scritture, all’insegna del rispetto reciproco. Ebbene, niente di più sbagliato: fra inganni, colpi bassi e mosse proibite, la competizione genera continuamente invidie e frustrazione, specialmente, manco a dirlo, da parte dei perdenti.

E come non pensare allo stralunato personaggio di Walter Benjamin tratteggiato in un precedente romanzo dell’autore quale Tutto il ferro della torre Eiffel? In una Parigi dalle tinte esoteriche, il filosofo, rifugiatosi nella capitale francese per sfuggire alle angherie della propaganda nazista, avrà spesso a che fare con strane creature del folklore celtico e della cabala ebraica, tra cui proprio il golem ha un ruolo di fondamentale importanza. Qui, guidato dal caso tra i pochi passages ancora rimasti in piedi a causa della ripianificazione urbanistica voluta dal barone Haussmann, Benjamin dovrà difendersi continuamente dagli assalti dei personaggi più assurdi e dalle proprie personali idiosincrasie. Ossessioni morbose, che sfoceranno la notte nei sogni più movimentati: «Persino il Golem, che fu il signore incontrastato degli incubi della mia infanzia, mi sembra adesso un parente un po’ noioso, addirittura patetico…»

Una vena creativa, dunque, che non disdegna affatto alcuni “paesaggi” storici – non quelli fatti di guerre e date ma quelli letterari, filosofici e più in generale culturali –, e che si ingegna a inventare realtà parallele o diverse, finali alternativi in cui l’immaginazione possa essere libera di cavalcare le frastagliate creste dei suoi slanci. Un po’ quello che succede in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, il cui spunto nasce dalle vicende biografiche di Giacomo Leopardi, che vengono romanzate all’interno di una Recanati immersa in un’atmosfera goticheggiante alla Edgar Allan Poe.

Insomma, leggendo Le maestose rovine di Sferopoli l’ultima cosa che può capitare è annoiarsi. Mari si conferma maestro insuperato della costruzione narrativa, permeando quasi sempre i suoi racconti di un sottile velo d’ironia che assume di volta in volta una sfumatura diversa: mentre in “Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate” l’intento è quello di parodiare, criticare e far riflettere – il funerale di un padre di famiglia è l’occasione per smascherare l’ipocrisia borghese –, in “Boletus Edulis” l’accesa rivalità fra due parroci dell’alta Val Seriana ha il solo scopo di divertire, far ridere, anzi far sganasciare dalle risate. Si «bucina» infatti che fra don Piero e don Mario non corra proprio buon sangue; c’è chi dice a causa di una perpetua «di forte polpaccio e procace nel busto», chi per una mancata prebenda vescovile. In realtà, la radice della vexata quaestio sembrerebbe trovarsi nella passione che entrambi condividono per i funghi, e non per dei funghi qualsiasi, ma per il re della categoria: il Boletus edulis, volgarmente detto porcino. E quale umiliazione più grande si può infierire all’avversario se non quella di trovare nel fondo del sottobosco il porcino più grande, più turrito e più gustoso «donde poi, nelle cucine delle canoniche, prelibati spadellamenti di trífola e grigliamenti delle macrocappelle»?

Ma concludiamo per una volta dall’inizio, quando armati di pazienza, da poco superato il km 1.087, avevamo intravisto il cartello che ci dava il benvenuto alle maestose rovine di Sferopoli.  È  consigliabile «armarsi di coraggio, mettere in sonno la ragione e accettare il fascino sinuoso dell’ignoto». Non resta quindi che mettervi comodi, allacciare le cinture e fare un buon viaggio.

 

(Michele Mari, Le maestose rovine di Sferopoli, Einaudi, 2021, 176 pp., euro 18, articolo di Davide Tamburrini)
Copertina di La vita moltiplicata di Ghelli

Trasfigurare la realtà in un carosello di sogni

Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.

I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.

Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.

Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.

«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».

Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».

Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.

Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».

In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.

Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».

I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.

Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?

Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».

Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».

Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:

«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».

 

(Simone Ghelli, La vita moltiplicata, Miraggi Edizioni, 2019, 128 pp., euro 12, articolo di Teodora Dominici)

 

immagine di Belfagor arcidiavolo

Belfagor arcidiavolo, repertorio fiabesco e variazioni sul tema

Nelle numerose indagini circa l’origine, il significato e la distribuzione delle fiabe popolari sono state adottate di volta in volta prospettive diverse, corrispondenti a specifici indirizzi disciplinari (mitologico, antropologico, psicanalitico, semiologico, storico-geografico). Il denominatore comune di tutti questi studi risiede nel concetto di repertorio fiabesco, per cui ogni fiaba sarebbe costituita da unità semantiche minime e costanti in continua circolazione.

Con il proposito di rintracciare la forma prima di tali elementi minimi, la scuola storico-geografica (o “finnica”) ha lavorato a una classificazione sistematica del folklore favolistico-fiabesco, come illustrato da Stith Thompson ne La fiaba nella tradizione popolare (Il Saggiatore, 1967). Alla base di questo progetto tassonomico giace la distinzione tra il “tipo” di una fiaba, il racconto completo e autonomo, composto da uno o più motivi la cui combinazione risulta grossomodo immutabile (ad esempio, il tipo della volpe, o del gatto, che si finge morta) e il “motivo”, l’elemento più piccolo di una fiaba, riguardante un personaggio, un oggetto, un’idea oppure un singolo episodio che contribuisce alla progressione narrativa (come ad esempio il motivo di Belfagor, il diavolo spaventato da una moglie bisbetica).

 

La trasformazione delle fiabe

 

Nel passaggio da una forma a un’altra o nell’ambito dei vari rifacimenti letterari gli elementi fiabeschi possono subire una serie di alterazioni, più o meno stabili, che Vladimir Propp descrive, riferendosi però a una sola particolare tipologia di fiaba, ne La trasformazione delle favole di magia del 1928. Tali modificazioni rispondono ai fenomeni di abbreviazione (se cioè la forma originaria viene ridotta o se dal suo insieme viene estrapolata una sola componente); amplificazione (quando il testo base viene ampliato e arricchito di particolari); deterioramento (qualora la base originaria sia privata del suo solito referente semantico); processualità (nel caso di intensificazioni o attenuazioni nelle azioni compiute dai personaggi della fiaba di partenza); sostituzioni o assimilazioni di vario tipo (storico, religioso o squisitamente letterario).

 

Il concilio infernale, la moglie bisbetica e il contadino astuto

 

Uno dei casi più esemplificativi riguardo ai concetti di repertorio e di modificazione degli elementi fiabeschi è costituito dalla Favola di Belfagor di Niccolò Machiavelli, pubblicata postuma a Firenze nel 1549. L’intreccio della storia ruota attorno alle peripezie dell’arcidiavolo Belfagor, il quale, in seguito alla delibera dell’assemblea dei demoni infernali presieduta da Plutone, è inviato sulla terra munito di centomila ducati per la durata di dieci anni, allo scopo di verificare la condizione degli uomini sposati; proprio a causa della moglie, tuttavia, egli finisce vittima degli usurai e per salvarsi, fuggito dal tetto coniugale, stringe un patto con un contadino che dopo essersi spacciato per esorcista lo sconfigge in astuzia, costringendolo a fare rientro nell’Ade.

È utile, di nuovo a proposito di unità semantiche minime e variazioni testuali, considerare che l’impianto narrativo di questo testo novellistico (i cui precedenti sono stati individuati e ampliamente discussi dalla critica) si struttura sulla successione di più motivi che, quantunque tradizionali, vengono modificati (anzi, spesso attualizzati) dall’autore con puntuali riferimenti alla storia politico-sociale fiorentina.

Il primo motivo, di eco mitologica, rappresenta l’episodio introduttivo del concilio dei diavoli (speculare al tradizionale concilio degli dei superi), chiamati a giudicare la veridicità dell’accusa mossa dalle anime dannate che attribuiscono alle mogli la responsabilità della propria sorte infernale. Plutone, loro sovrano, presiede il consiglio sostenendo che, affinché il regno sia ben amministrato e tenuto in buona considerazione, il potere assoluto del capo deve sottomettersi alle leggi e quando necessario interloquire con gli altri dignitari (N. Machiavelli, Favola di Belfagor, a cura di P. Stoppelli, Mondadori, 2021, p. 5, corsivo mio):

«Ancora che io, dilettissimi miei, per celeste disposizione e fatale sorte al tutto irrevocabile possegga questo regno, e che per questo io non possa essere obligato ad alcuno iudicio o celeste o mondano, nondimeno, perché gli è maggiore prudenza di quelli che possono più sottomettersi più alle leggi e più stimare l’altrui iudizio, ho deliberato essere consigliato da voi come in uno caso, il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare».

In una tale drammatizzazione del consesso infernale, cui concorre anche il lessico adottato, spicca pertanto l’immagine di Plutone quale principe perfetto di un regno ideale, democratico e non dispotico, la cui rappresentazione determina un ribaltamento del normale sistema assiologico.

La progressione narrativa (Belfagor arcidiavolo inviato sulla terra, nei panni di Roderigo di Castiglia, per verificare la credibilità della suddetta accusa) si sviluppa invece attorno al motivo del demonio che sperimenta la cattiva natura delle donne. L’argomento è conforme ai moduli tipici della tradizione antifemminile e antiuxoria; il nucleo fondamentale di questo episodio corrisponde pertanto al tipo della moglie bisbetica, frequente nella favolistica ma anche in altri generi letterari ‒ valga il celeberrimo esempio offerto dal teatro shakespeariano.

La riproposizione del motivo misogino nella Favola passa però attraverso il parallelo contrastivo tra la superba e insolente moglie di Belfagor, Onesta, e il «bellissimo, umano, liberale» (p. 9) Roderigo, il quale ha eletto Firenze, «atta a sopportare chi con arti usurarie esercitasse i suoi danari» (p. 8), la città più idonea all’impiantarsi di un diavolo sulla terra. Quando pertanto allo spessore psicologico aggiunto del protagonista (non più raffigurato in termini tipologici, come la tradizione prescrive, bensì caratterizzato dalla policromia dei sentimenti che ne motivano scelte e comportamenti) si contrappone il prototipo della cattiva moglie, esso non ricorre in ossequio al convenzionale motivo antiuxorio; al contrario, la descrizione di Onesta mira a individuare nella donna una rappresentante di quella città contro la quale Machiavelli vibra una mordace polemica socio-economica, valida anche rafforzare il capovolgimento assiologico della sequenza iniziale: all’Ade “repubblicano” corrisponde infatti una Firenze “infernale”.

Il terzo motivo, di matrice medievale, riproduce l’accordo stipulato tra il demonio e l’uomo (tradizionalmente un medico) che vestirà i panni dell’esorcista: il contadino Gianmatteo del Brica, infatti, accetta per denaro di nascondere Roderigo dagli usurai che lo inseguono oltre i confini fiorentini. In cambio, Belfagor si impossesserà di due donne perché il contadino possa esigere un compenso per esorcizzarle.

L’originale identificazione del ruolo dell’esorcista con il personaggio del villano sembra essere un’innovazione se non prettamente machiavelliana, quantomeno fiorentina (recenti studi ipotizzano infatti la presenza di una comune fonte fiorentina, oggi perduta, per la Favola di Machiavelli e per quella di Giovanni Brevio); la grande novità apportata in questa parte della storia afferisce però alla caratterizzazione dei personaggi e si evince dalla rappresentazione del terzo impossessamento demoniaco: quando infatti Gianmatteo, chiamato alla corte francese dal re Ludovico VII, fallisce nel tentativo di persuadere Belfagor ad abbandonare il corpo della principessa, nella logica narrativa della Favola il deciso rifiuto del diavolo non viene ricondotto, come di consueto, alla sua proverbiale slealtà ma, anzi, al suo rispetto della parola data: il debito da lui contratto con il contadino è infatti già stato saldato con quanto guadagnato tramite i due precedenti esorcismi ed egli non ha più nulla a pretendere dal demonio.

L’espediente adottato dal contadino per vincere sul demonio (convincerlo cioè che sua moglie sia in procinto di raggiungerlo in modo da indurlo immediatamente alla fuga), infine, non mira a rimarcare la carica antiuxoria, bensì a confermare il capovolgimento assiologico iniziale (M. Picone, Lettura intertestuale, Carocci, 1998, p. 190):

«Contro la malvagità della moglie e l’astuzia del contadino, […] Belfagor, anche quando fa il diavolo e non l’uomo, è un perdente. È questa in fondo la morale tutta terrena che Machiavelli ricava dalla sua Favola: una morale che si addice perfettamente alla tesi ironica di un mondo alla rovescia, secondo cui l’inferno è sulla terra e il vero diavolo è l’uomo».

Questa versione di “Belfagor arcidiavolo” costituisce nel suo complesso un unicum della letteratura favolistica; rientrata nel circuito folklorico, la favola subisce infatti una generale semplificazione di intreccio, personaggi e morale, visibile già solo nel finale appiattito sulla cifra antiuxoria. È il Diavolozoppo raccolto da Calvino nelle Fiabe italiane (Mondadori, 2020, p.752):

«Il diavolo compare andò alla finestra. ‒ Oh! Arriva vostra moglie!

‒ Mia moglie! ‒ fece Diavolozoppo. ‒ Mia moglie! Ma io scappo! Io scappo subito! Io non ne voglio sentire neanche l’odore! […]

Diavolozoppo scappò via e la Reginetta all’istante si sentì guarita.

‒ Bravo! ‒ fece il Re, ‒ la mano [della Reginetta] e la corona sono vostre.

E così cominciarono i guai per il diavolo compare».

 

 

***

 

Nel testo, la raffigurazione di Belfagor, diciassettesimo demone del Dictionnaire Infernal (Parigi, 1818) di Jacques Auguste Simon Collin de Plancy e le riproduzioni de Il concilio degli dei (1517-18) di Raffaello e bottega e di Watercolour of Katherine and Petruchio. The Taming of the Shrew by Shakespeare (1890 c.) di James Dromgole Linton.

 

Copertina di Il cannocchiale del tenente Dumont di Magliani

Cronaca esistenziale di una diserzione

L’ultima prova narrativa di Marino Magliani – Il cannocchiale del tenente Dumont, edito da L’Orma nel maggio di quest’anno – è un romanzo ibrido, inserito perfettamente all’interno di una cornice storica, ma che del romanzo storico problematizza l’assunto di fondo. Questo perché, pur presentandosi come la cronaca della diserzione di tre soldati napoleonici datisi alla macchia durante la battaglia di Marengo (battaglia che sembrava persa la mattina e che vide i francesi, poi, sorprendentemente vittoriosi grazie all’aiuto tempestivo delle truppe del generale Desaix), la fonte principale del resoconto è proprio uno dei tre fuggiaschi. Si tratta del tenente Dumont, giovane sognatore la cui realtà – la realtà della fuga forsennata attraverso l’entroterra ligure – non può combaciare né con una pretesa ed esaustiva veridicità dei fatti accaduti, né con la realtà dell’inseguitore, il dottor Zomer, chirurgo olandese che si è messo sulle tracce di Dumont e dei suoi compagni di viaggio – il soldato basco Urruti e il capitano Lemoine – per un’operazione di monitoraggio medico-scientifico. I tre, infatti, non sono dei semplici disertori, perché, dopo essere venuti a contatto per la prima volta con l’hascisc sulle rive del lago Mareotis, ne hanno fatto incetta per il loro ritorno in Francia. Zomer, convinto che uno dei motivi principali dell’alto tasso di diserzione dell’esercito napoleonico in Egitto sia dovuto proprio all’assunzione di questa droga appena scoperta dai francesi, ha il compito di pedinarli, studiarne il comportamento e prevenire una sua ulteriore diffusione tra la popolazione.

Con una scrittura elegante e preziosa, capace di armonizzare anche il lessico tecnico di matrice bellica e marittima, Magliani tesse la trama di un romanzo d’avventure che è al contempo diario di bordo dal sapore ottocentesco e racconto dalle tinte poliziesche, gravitante intorno a un’indagine, a un inseguimento prolungato che, con tutto il suo bagaglio di spie, staffette, avvistamenti e informatori, parte dai deserti di Jaffa per concludersi successivamente sulla frastagliata costa ligure. La narrazione d’ampio respiro, che s’innesca dunque a partire dall’espediente della testimonianza derivativa, innervata da una prosa di afflato classicheggiante scheggiata da brevi e però intense immagini liriche, è introiettata all’interno di un’architettura sintattica moderna, a tratti convulsa, refratta, sussultoria, abile ad esprimere mimeticamente le svolte repentine o le lunghe pause di timore e attesa che caratterizzano la fuga dei tre personaggi.

La struttura dell’opera, internamente frammezzata dai rapidi salti temporali che scansionano la parabola cronologica degli avvenimenti rispondendo all’istanza memorialistica che informa velatamente tutto il testo, richiama, anche in virtù delle precise contestualizzazioni geografiche, le tradizionali costruzioni cinematografiche, attente a far sì che lo spettatore abbia sempre familiarità con i luoghi e i tempi entro cui si dipanano le scene del film. Al piano principale dell’azione diegetica – il tentativo dei tre fuggiaschi di scappare sani e salvi dall’Italia –, si affianca un’ulteriore stratificazione testuale, composta dall’inserzione rapsodica di appunti, lettere, documenti vergati dal dottor Zomer, che contribuisce all’ispessimento di un testo che via via si trasforma in palinsesto, arricchendosi di voci, personaggi, incontri, paesaggi. Il racconto si sviluppa, allora, su più livelli simultanei: la parte principale dedicata alla sorte dei disertori viene alternata alle digressioni (come abbiamo visto, di carattere metanarrativo) riguardanti l’investigatore che li segue e tenta di braccarli, aprendo l’opera a una dialettica interna avvincente e calibrata (avvincente perché ben calibrata, verrebbe da dire), in cui sono certamente i dialoghi tra i tre protagonisti a fare la differenza, a delineare la ragnatela dei movimenti, a imprimere nella mente del lettore la fisionomia dei personaggi stessi, il loro modo peculiare di intendere la fuga, ciò che per loro rappresenta e ciò che immaginano ne conseguirà.

Inoltre, si presenta un ulteriore allargamento dicotomico, anch’esso centrale per le finalità romanzesche, che pone al fianco della Storia ufficiale, quella delle battaglie e delle campagne napoleoniche, non solo la storia individuale di Dumont, Lemoine e Urruti, ma anche e soprattutto la storia minuta di coloro su cui nei libri non ci si sofferma spesso, i braccianti, i contadini, i mulattieri, abitanti silenziosi di una terra aspra e rocciosa, questa Liguria che Magliani conosce a menadito e che, erede della lezione di Boine prima e di Biamonti poi, tratteggia con pennellate rapide, precise ed evocative, dalla forte componente espressiva e visionaria.

Nel gioco reiterato di fatti e controfatti, tra sospetti reciproci, ambiguità velate, timori ancestrali, a emergere prepotente è la malinconia del disertore, che sembra diventare, superate le contingenze primarie del testo, condizione esistenziale di portata universale, suscettibile d’essere declinata secondo moti soggettivi che non perdono però la loro carica di attualità e veridicità. La paura dell’ignoto, che si somma alla paura costante di non farcela, di essere traditi spiati inseguiti braccati, esplode all’interno di uno spazio inospitale che sembra essere il correlativo oggettivo dello stato d’animo dei tre fuggiaschi, assecondando lo scorrere di un tempo ipnotico, che pare continuamente tornare su sé stesso, come se la diacronia interna al romanzo, dismessa ogni assurda pretesa di linearità, fosse diventata ciclica, condizionata dalla stanchezza degli stessi personaggi, dal logorio dei loro tentativi di mettersi in salvo, dalla ripetitività dei gesti, dei rumori, delle sortite, dei dialoghi a mezza bocca.

Ecco, allora, che da cronaca di una diserzione, Il cannocchiale del tenente Dumont si trasforma gradualmente in una “variazione sul tema” della diserzione, declinata in tre differenti modi dai diversi personaggi, abitata sotterraneamente da una tensione interrogativa, al contempo psicologica e sentimentale, che punta a scavare nell’animo di chi, ormai stremato, incerto, dubbioso su ogni futura mossa, continua a guardare il mondo attraverso “il rumore dell’occhio”, quel cannocchiale, appunto, che il tenente Dumont utilizza con assidua frequenza per spingersi oltre l’orizzonte naturale che gli si frappone davanti e tentare di accedere a chissà quale visione epifanica, forse di una realtà altra, di un destino diverso, libero, lontano dai pedinamenti, dalla fame, dalla guerra. La bellezza di questo romanzo risiede proprio qui, in questo crescente slittamento costitutivo. Da supposto resoconto oggettivo il romanzo di Magliani – romanzo di geografie visive e di geografie interiori a cui l’autore lavorava da vent’anni – diviene via via racconto esistenziale, riflessione sul senso delle proprie azioni, della pietas umana, nonché una verifica narrativa sulla possibilità di recidere o meno i legami col proprio passato, di fuggire dalle maglie oppressive e traumatiche della Storia.

 

(Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumont, L’Orma, 2021, 296 pp., euro 20, articolo di Niccolò Amelii)

 

Copertina di Libro del sangue di Trevisani

Il significato del sangue

Quello di Matteo Trevisani è uno dei percorsi più interessanti nel panorama editoriale degli ultimi anni. Lo scrittore marchigiano ha dato vita a un universo narrativo coerente pur nella sua atipicità, in bilico tra verità e artificio, presente e passato (ma anche futuro); nella sua poetica sono soprattutto il mondo tangibile e quello simbolico a ingarbugliarsi, seguendo però strade poco battute, distanti da un’idea classica di realismo magico. Trevisani ha indagato infatti i temi della magia, dell’astronomia, dell’alchimia e della genealogia, cioè i suoi temi, o meglio le sue ossessioni, come risulta chiaro dalla lettura dei libri; ha valorizzato insomma un patrimonio narrativo che – per quanto sconfinato e letterario per definizione – è praticamente sconosciuto a un pubblico mainstream. Con Libro del sangue (Atlantide Edizioni, 2021) si chiude idealmente un trittico composto da Libro dei fulmini (2017) e Libro del Sole (2019), una trilogia anomala in un contesto come il nostro tanto schiacciato su un certo modo di raccontare la realtà.

Il preambolo di Libro del sangue è spiazzante: nel settembre 2021 Matteo Trevisani riceve una mail da un mittente sconosciuto; in allegato c’è un albero genealogico della sua famiglia, leggermente diverso da quello che il protagonista – genealogista lui stesso – ha costruito in molti anni di studio e ricerche. Inoltre, particolare inquietante, quest’albero riporta le date di alcune morti non ancora avvenute. Tra queste, quella dello stesso Matteo: 21 settembre 2021, di lì a una manciata di giorni. All’inizio Matteo pensa si tratti di uno scherzo; poi, però, uno dei dettagli dell’albero si rivela tragicamente corretto, e su La Lettura esce un misterioso articolo a suo nome che parla di una carcassa di un qualche “mostro marino” arenatasi su una spiaggia nelle vicinanze di Ostia Antica. Non è un caso, visto che la balena è il simbolo della famiglia Trevisani e della loro maledizione, che decreta che tutti i primogeniti di ogni linea di sangue muoiano in un naufragio. Matteo decide allora di riallacciare i contatti con Giorgia, la figlia di Alvise, suo vecchio maestro di genealogia morto qualche tempo prima.

È il preludio di un’indagine da romanzo giallo, ma questo non è altro che un primo livello interpretativo. La lotta contro il tempo del presente – che ha il ritmo del thriller – si alterna infatti ai ricordi di Matteo: la conoscenza con Alvise, anni prima; il tentativo, insieme a lui, di venire a capo del significato della maledizione familiare; la scoperta della genealogia; il rapporto con Giorgia. Si tratta di un vero e proprio racconto di apprendistato, tema tipico dei libri di Trevisani, che ha già narrato storie di iniziazione-scontro tra maestro e allievo. Un altro dettaglio comune a Libro dei fulmini, oltretutto, è che il nome del protagonista e quello dello scrittore coincidono. Si tratta della stessa persona? Quanto c’è di vero in questa storia? Sono domande che perseguitano il lettore e che non si risolvono: lo “sdoppiamento” qui non si limita al topos del “doppio” della letteratura fantastica, ma si inserisce in un discorso più ampio di contaminazione dei generi. Ci troviamo di fronte a un “doppio metaletterario”, che collega il fantastico all’autofiction. Autofiction fantastica, potremmo dire allora, un connubio di termini che in effetti spiega dove le storie di Trevisani siano ambientate: cioè in un luogo laterale alla realtà, nascosto impercettibilmente, sconnesso con questa da uno scarto molto piccolo – ma decisivo. In questo “realismo laterale” Matteo Trevisani scrittore e Matteo Trevisani personaggio sono la stessa persona, e due persone differenti.

Le questioni centrali del romanzo sono il tempo e la famiglia, entrambe rappresentate simbolicamente dall’immagine del sangue. Quella di Trevisani è una storia circolare, differita, eternizzante, e si snoda in opposizione al concetto di tempo progressivo come normalmente lo intendiamo. Il tempo in Libro del sangue è elastico nel senso di contaminato: è il passato che agisce ininterrottamente sul presente, che lo influenza e in fondo lo contiene, così come contiene il futuro. In un certo senso, il presente non esiste, se non come compimento del passato e anticipazione del futuro. È il senso stesso dell’idea di “maledizione familiare”: niente muore, e anzi ciò che è stato è sempre vigile, come testimoniano gli avi di Matteo che in alcuni punti del romanzo commentano le peripezie sue e dei suoi predecessori. Sono una voce esterna, perturbante, che ricorda un coro tragico. Gli elementi della tragedia greca, in effetti, sono importanti: nella tragedia le colpe dei padri si tramandano immancabilmente sui figli, ed è proprio questo il vero nucleo di Libro del sangue. Matteo ha appena avuto un bambino; nel corso del romanzo si scoprirà essere nient’altro che un padre che vuole impedire che la maledizione di famiglia (cioè le colpe di tutti i padri) colpisca suo figlio. La genealogia allora non è solo una complessa ricerca per scovare l’origine, ma soprattutto una chiave per svelare un destino. E il destino, ovviamente, si nasconde nella famiglia. Un altro modo per parlare di Libro del sangue sarebbe forse quello di definirlo un romanzo familiare; bisogna accettare però un postulato: la storia di ogni famiglia è quella di una malattia condivisa che si ripresenta instancabilmente.

In un contesto simile, il ruolo della simbologia è decisivo: comprendere i simboli – e con loro i riti – è l’unica maniera di raccontare questa storia, così come lo è per Matteo di risolvere gli enigmi che lo tormentano. Alla genealogia si unisce allora l’araldica, lo studio degli stemmi delle famiglie: della balena si è detto, ma nel romanzo comparirà anche un serpente. I due animali-simbolo dovranno metaforicamente intrecciarsi, stritolarsi, e da questa lotta dipenderà il destino dei protagonisti. Se la genealogia è una scienza che implica la solitudine (ore e ore passate a studiare in archivi o in parrocchie), il suo effetto – forse il suo scopo – sembra essere in realtà quello di trovare relazioni, di dare vita a incontri, e contrasti. Così spiega Alvise a Matteo in un passo determinante del romanzo:

«“Matteo, molti pensano che la genealogia sia un triangolo […]. Ci sei tu, i tuoi genitori, i tuoi nonni, i tuoi bisnonni, e così via. Ma se questa fosse una legge esatta risalendo indietro al tempo della Repubblica romana avresti più progenitori di quante persone siano vissute sulla Terra. La vertigine è capire che queste non sono persone uniche, e che a un certo punto il triangolo si interrompe, si restringe. I tuoi avi si mescolano l’uno con l’altro, e una madre è la madre di due linee o di tre e i padri sono sempre gli stessi, i cognomi gli stessi, il sangue lo stesso. Si chiama punto di decadimento genealogico”».

I simboli allora non sono entità fisse ma in movimento, così come la famiglia, luogo che per eccellenza è in divenire e cioè in lotta. Eccoci di nuovo alla famiglia, e al sangue, che d’altronde è anche il simbolo della violenza. La famiglia è insomma una ferita che il tempo non rimargina, ma continua a far sanguinare.

 

(Matteo Trevisani, Libro del sangue, Atlantide Edizioni, 2021, 224 pp., euro 16, articolo di Claudio Bello)

La vittoria dei “mostri”

Gabriele Mainetti finalmente torna al cinema con il suo secondo film. E non delude. Freaks out è uno dei migliori lavori italiani usciti di recente, per coraggio e lungimiranza.

Può accadere, infatti, che un regista si adagi sul proprio successo, perdendo di vista il futuro; come sarebbe potuto essere dopo la rivelazione di Lo chiamavano Jeeg Robot. Ma non è stato così. Anzi, probabilmente Freaks out alza l’asticella della qualità, imponendosi per gli effetti speciali messi in campo, più naturali in una produzione statunitense. Ciò non implica alcun tipo di mala caricatura dei grandi film storici o fantastici d’oltreoceano. Mainetti riesce infatti, con rara maestria, a unire i pezzi della sua formazione cinematografica insieme con la storia europea, mettendo in scena un lavoro che difficilmente potrà essere dimenticato.

Quasi uno spartiacque rispetto a Lo chiamavano Jeeg Robot, racconto eroico, anch’esso innovativo per il nostro cinema, ma molto intimistico e decisamente poco spettacolare. Sicuramente una trincea rispetto a quanto è oggi il nostro cinema: economicamente “povero” e non abituato a pensare in grande.

Freaks out, invece, ci apre gli occhi, un po’ come fece Stanley Kubrick con il suo Alex di Arancia meccanica, e tenta di non farceli chiudere, nemmeno per un attimo.

Dalla prima scena, fino quasi all’ultima, si assiste tutto d’un fiato a qualcosa di assolutamente nuovo, montato e musicato così bene da non permetterci di distogliere lo sguardo. Sebbene, di fondo, non ci sia poi nulla di così originale nella storia (buoni contro cattivi, ossia i diversi ma umani contro i normodotati inumani), a colpire è la modalità narrativa. Da un lato i quattro freaks del Circo Mezzapiotta, guidati dall’ebreo Israel: Matilde, la ragazza elettrica; Cencio, capace di controllare gli insetti; Fulvio, l’uomo bestia forzuto e pieno di peli; Mario, un nano calamita. Dall’altro il Zirkus Berlin di Franz, il tedesco a dodici dita capace di guardare nel futuro. In mezzo, i rastrellamenti nazi-fascisti e le battaglie partigiane.

Siamo infatti durante la seconda guerra mondiale, con i suoi barbari orrori, in una Roma assediata dalle bombe e difesa da un manipolo di mutilati. Sì, perché il tema centrale del film sta nel valore della diversità, capace di vincere la battaglia e salvare un treno pieno di futuri deportati.

I quattro protagonisti del Circo Mezzapiotta non sono altro che degli storpi senza speranza per il mondo “normale”. I loro poteri possono essere soltanto un fenomeno da circensi appunto, tanto che, quando Israel, la loro guida, scompare, fuggono al Zirkus Berlin, ignari che anche qui la diversità viene silenziosamente distrutta. Solo alla fine prendono consapevolezza di sé: un freak può essere addirittura più coraggioso di un uomo col fucile.

Lo dimostrano i partigiani storpi e mutilati, guidati dal gobbo del Quarticciolo, che non si fermano di fronte al limite fisico. Diventano i supereroi della prima ora, costruendosi protesi rudimentali per combattere anche senza braccia o gambe. Un esempio per i quattro del Circo Mezzapiotta, spesso insicuri e maldestri nel gestire i propri doni. Come l’antieroe che tenta di imprigionarli. Franz vuole soltanto unirsi a loro per dimostrare al Führer che il potere degli storpi può essere di gran lunga superiore a quello dei normodotati, ma si perde nella confusione delle sue visioni, inconsapevole che Matilde, Cencio, Fulvio e Mario non sono venuti a salvarlo.

Gabriele Mainetti porta così alla ribalta il potere in tutte le sue forme: la storia della guerra e delle geografie, le relazioni che diventano familiari al di là dei rapporti di sangue, l’umanità diversamente abile ma straordinariamente capace di sovvertire le strade della vita. Freak out è un film pieno di magia, ricco di una fantasia non banale, che arriva al cuore della nostra immaginazione per dirci che la realtà non è poi così scontata.

(Freaks Out, di Gabriele Mainetti, 2021, fantastico, 141’)

Copertina di Nanni Moretti. Il cinema come cura

Nanni Moretti come cura? Leggere attentamente il foglietto illustrativo

Il tempo cambia molte cose nella vita / il senso, le amicizie, le opinioni / che voglia di cambiare che c’è in me. / Si sente il bisogno di una propria evoluzione / sganciata dalle regole comuni / da questa falsa personalità. / Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire / le luci fanno ricordare / le meccaniche celesti.

(Franco Battiato, Segnali di vita)

 

 

Era il lontano 1981, il film era Sogni d’oro. Michele Apicella, alter ego dei primi film di Nanni Moretti, un regista alle prese con una pellicola su Sigmund Freud, è in crisi, sempre più frustrato dall’incomprensione e dall’accoglienza ostile riservata al suo lavoro. A ogni proiezione c’è un pedantissimo critico – interpretato da Dario Cantarelli – che alza il ditino: «Ma di questo film che gliene importa alla gente comune, semplice, che lavora, a un povero bracciante lucano, a un pastore abruzzese, a una modesta casalinga di Treviso?».

Era il lontano 1981 e Nanni Moretti si chiedeva perché tutti si sentissero in diritto, in dovere di parlare di cinema. «Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!»

Stacco.

Siamo nel 2021. Tutti si sentono in diritto, in dovere e, in una certa illusoria misura, dato l’avvento dei social network, in potere di parlare di qualunque cosa. Ogni previsione, per quanto grottesca, di Nanni Moretti sembra essersi avverata, incluse la caduta del Caimano e un papa che rifiuta il soglio pontificio.

Ripercorrere la storia dei film di Nanni Moretti diventa dunque, oltre che un piacere da cinefili, un esercizio utilissimo, una cartina tornasole per leggere l’evoluzione (o involuzione?) della società italiana. Per Roberto Lasagna, nel suo Nanni Moretti. Il cinema come cura (Mimesis, 2021), addirittura un atto terapeutico.

Con un testo agile ma strutturato, Lasagna prende in esame una carriera importante e fortunata, segnata da una preminenza che fino a Tre piani – film appena uscito in sala – era indiscussa: quella del corpo in scena di Moretti. Sia nella forma dell’alter ego Michele Apicella dei primi film fino a Palombella rossa (1989), sia nei sostanzialmente autobiografici Caro diario e Aprile, girati negli anni Novanta. Oppure nei ruoli interpretati a partire da La stanza del figlio (2001), vero punto di svolta, in cui è, scrive Lasagna, «per un’ultima volta il personaggio principale attorno a cui si articolano i momenti del racconto».

Fino ad arrivare a Tre piani – primo caso di adattamento da un testo scritto da qualcun altro, il bel romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo – nel quale Moretti non è che uno dei molti personaggi le cui storie si intrecciano all’interno di un elegante rione di Prati a Roma. «Luogo di temi», scrive Lasagna, «che allargano l’intelaiatura drammatica dell’universo morettiano, di cui emerge l’attenzione per i segreti che paiono fratture persistenti più che motivi di facile condivisione». Luogo in cui, aggiungo, Nanni Moretti sceglie per sé il ruolo di un giudice inflessibile, freudianamente accomunato all’istanza del Super Io, che muore a metà del film, lasciando sua moglie “libera” dall’eccesso di severità che aveva caratterizzato le loro vite.

Ma non sono soltanto i film, a partire dai cortometraggi iniziali prima dell’esordio con Io sono un autarchico del 1976, a essere presi in considerazione da Lasagna, che indaga anche l’attività di produttore – con la Sacher Film, fondata nel 1987 insieme ad Angelo Barbagallo – e di padrino degli esordi di cineasti come Carlo Mazzacurati e Daniele Luchetti, oltre a quella di attore diretto, spesso con ottimi risultati, da altri (Daniele Luchetti, Mimmo Calopresti, Antonello Grimaldi).

«Autore del suo tempo, Moretti continua a contribuire al cinema con il suo percorso personale, talvolta partecipando al lavoro di altri autori a cui presta il suo volto e la sua recitazione seguendo esperienze che richiamano il particolare momento vissuto e regalando a se stesso l’opportunità di mettersi soltanto davanti alla macchina da presa, per sondare la via di quell’arte della recitazione che è arte-terapia tanto per l’attore quanto per il personaggio».

Ecco, se c’è qualcosa che mi convince un po’ meno nel libro, che pure sistematicamente e con analisi ben contestualizzate affronta l’opera del regista, è il voler a tutti i costi evidenziare questa potenzialità curativa del cinema di Nanni Moretti.

Probabilmente un vizio di forma del dibattito contemporaneo, l’accentuare l’aspetto self helping di qualsiasi attività alla quale ci si dedichi, in casa come fuori; mentre forse più che di cura il cinema di Moretti è un cinema di crisi.

Un cinema nel quale il superamento delle crisi di personaggi che spesso fanno lavori deputati alla cura delle anime altrui – dal prete di La messa è finita allo psicologo di La stanza del figlio, dallo psicanalista o il papa stesso di Habemus Papam al figlio accudente in Mia madreè affidato in ultima istanza non a un percorso terapeutico specifico, ma alla possibilità sociale del dividere il dolore della propria esistenza con gli altri, sentirsi meno soli, meno isolati e dunque meno sconfitti.

Quel valore della collettività che Moretti ricercava nella grande illusione della sinistra rivoluzionaria in politica e che ha finito per trovare in una specie di social catena leopardiana, nella famiglia, negli affetti, nei legami di prossimità. In rapporti d’amore e amicizia dei quali, per quanto imperfetti e imbarazzanti, abbiamo disperatamente bisogno, soprattutto oggi.

Moretti d’altronde ha sempre creduto nelle persone, ma non nella maggioranza delle persone. E se c’è una cosa che ha sempre a suo modo ribadito nei film è che gli altri sono l’inferno («sa qual è il mio problema? non mi piacciono gli altri», diceva in Bianca), ma possono essere anche – loro sì – la cura.

E dunque se il suo cinema può servire da cura, è una cura omeopatica, o un effetto placebo, che funziona nella misura in cui riesce a mostrarci come siamo fatti – come siamo fatti male! – e riconoscere quei segnali di vita nei quali intravvedere le meccaniche celesti delle nostre piccole vite. Molto meno speciali di quanto vorremmo, ma non per questo indegne di attenzione. Un po’, forse, come gli ultimi film di Nanni Moretti.

 

(Roberto Lasagna, Nanni Moretti. Il cinema come cura, Mimesis, 2021, pp. 156, euro 14. Articolo di Giulia Marziali)

I Don’t Live Here Anymore, The War On Drugs

L’accoppiata Lost in the Dream e A Deeper Understanding, tra il 2014 e il 2017, ci aveva regalato una band ispirata, matura, capace di proporci un suono che rimandava agli anni ’80, senza retromania perniciosa. Qualcosa di già conosciuto ma estremamente immerso nel contemporaneo. Quella band, guidata da Adam Granduciel, in questo 2021 torna con un nuovo album, I Don’t Live Here Anymore.

Mischiare Bruce Springsteen con modulazioni vocali alla Bob Dylan, pescando nella sensibilità di Richard Manuel, riuscendo a non farne una macchietta o un omaggio imbarazzante, era un impresa non da poco. Le canzoni, prese singolarmente e poi viste nell’insieme degli album, funzionavano. Funzionavano bene. Funzionavano molto bene. I War on Drugs avevano dato una loro interpretazione del rock in un’epoca di non-rock con due capolavori.

La curiosità di vedere come si sarebbe sviluppato il discorso era molta:  mutare, oppure rimanere con la stessa pelle senza grossi scossoni.

I Don’t Live Here Anymore protende verso quest’ultima soluzione. Ci sono i pezzi cavalcata con batteria e basso all’unisono, paesaggi americani, la casa e la lontananza. C’è l’amore e la malinconia dell’amore. Ci sono i War on Drugs per come li abbiamo conosciuti recentemente. Nulla di male, in teoria, anzi.

Quello che esce fuori sembra depontenziato. Ci sono brani molto buoni, brani esaltanti alla “Holding On” (“Harmonia’s Dream” su tutti), capaci di unire sofisticatezza con uno spirito da stadio. Manca, purtroppo, qualcosa a livello di coesione e di fluidità. Ascolto dopo ascolto cresce la sensazione che qualcosa non abbia funzionato. Il passato recente è troppo ingombrante.

Granducier ogni tanto ristagna, si blocca, non riesce a trovare una chiave di lettura per manifestarsi come invece successo in precedenza. Se solo il riff di “Pain” era l’anticamera di una promessa mantenuta, riesce più difficile trovare qualcosa del genere, oggi.

I primi due brani sembrano anticipare qualcosa di buono (“Living Proof“, ballata struggente, e la già citata “Harmonia’s Dream“) . Da lì c’è un insieme di pezzi poco efficaci, un paio sinistramente  alla  Arcade Fire per la colonna sonora di un film modesto anni ’80 ( “Wasted” soprattutto), due ottime ballate (“I Don’t Wanna Wait“, fino a un certo punto il brano meno decriptabile di tutti, e “Ring’s Around My Father’s Eyes“”) e poco altro.

I War on Drugs rimangono dei giganti, Adam Grandoucier una guida: questa volta, però, la soluzione War on Drugs ha funzionato meno.