“Anna Édes”
di Dezső Kosztolányi

Dezső Kosztolányi per chi scrive è stata una piacevole sorpresa.

Non lo avevo mai letto prima, sebbene in Italia circolassero da tempo traduzioni da diversi suoi libri. Si tratta di un poeta e narratore ungherese la cui vita è stata incastonata in un periodo (1885 – 1936) fra i più straordinari della letteratura europea. Nel romanzo Anna Édes (1926) ora tradotto da Anfora edizioni, sembra riassumerne alcuni temi decisivi: il crollo della vecchia borghesia mitteleuropea, la crepa rovinosa che si apre nel suo snobismo classista, la torbida pulsione erotica che ne scuote le fondamenta, l’intreccio fra preziosismo estetico (non ultima, la pretenziosità degli arredamenti privati che il bolscevismo pensava di smantellare) e un’insana, polverosa inquietudine verso l’esterno. Ma quel che più conta, per chi sa qualcosa della straordinaria narrazione culturale costruita intorno al Danubio, di finis Austriae e dintorni, il piano sociologico è interessante perché scivola ineluttabilmente verso quello esistenziale – e l’esito, feroce quanto inatteso del romanzo, lo conferma.

Nella casa di una famiglia benestante della Budapest del primo dopoguerra finisce Anna, una povera serva, timida e taciturna (per inclinazione personale e legge non scritta dei padroni). È costretta a vedersela con un funzionario ministeriale ligio al dovere, nemico dichiarato dei comunisti, e soprattutto con una donna francamente insopportabile, la di lui moglie, la cui vita, fatta eccezione per la parentesi di qualche ora passata in stato d’arresto come sospetta controrivoluzionaria (stava scrollando la tovaglia nel balcone e il gesto venne interpretato come un segnale per i suoi presunti complici) sembra concentrarsi nella ricerca di una domestica come si deve. Ai Vizy difatti nessuna sembra mai all’altezza della situazione – gli amici intanto tengono a sottolineare che andrebbero chiamate serve e basta, ché quella è la loro “natura” e che il mondo è sempre stato diviso fra servi e padroni, alla faccia del comunismo che per un breve lasso di tempo si era illuso di approfittare dello sfascio dell’Impero – asburgico – per prendere il potere nella città. La signora Vizy sottopone Anna a tutte le prove possibili, crea persino le condizioni perché ceda alla tentazione di rubare nella loro casa, ma niente, Anna è irreprensibile. Di sicuro poi è l’ultima a cui parrebbe venire in mente di concedere facilmente le proprie grazie con facilità a chiunque.

La tensione anche immotivata ma persistente in una casa di benestanti che non sanno però godere della loro condizione (specie la moglie), timorosi come sono, comunismo o meno, di perdere il loro status, proprio nel momento in cui sembra placarsi perché Anna dopo l’avvio farraginoso s’impone come la serva perfetta da sempre agognata, finisce per esplodere perché Anna serva perfetta lo è davvero, almeno se consideriamo perfetto un cliché: un giovane parente, estroso e malandrino quanto basta, prova a portarsela a letto e la ragazza, a dispetto della sua ritrosia e discrezione, sembra proprio non aspettare altro – che serva perfetta sarebbe sennò? Di lì si giunge a un esito che non riveliamo, degno però di un romanzo straniante che ci spalanca davanti l’abisso dell’irrazionale fin troppo noto al Novecento.

Un libro ben costruito, tragico ma ricco di tratti grotteschi; e di sicura abilità descrittiva. I personaggi hanno una riconoscibile cifra espressiva. Funzionano i dialoghi, ben calibrati nel contesto; l’ambientazione è ricca (senza essere prolissa) di dettagli che restituiscono bene il clima della casa (unità di luogo della vicenda). Una bella scoperta, che dobbiamo alla cura e alla traduzione di Mónika Szilágyi e Andrea Rényi.

(Dezső Kosztolányi, Anna Édesa cura di Mónika Szilágyi, trad. di Andrea Rényi, Anfora edizioni, 2014, pp. 200, euro 15)

“Magic in the Moonlight” di Woody Allen

È dal 1991 che Woody Allen non salta una stagione cinematografica con un film di cui sia regista e sceneggiatore. Dopo l’esordio dietro la macchina da presa del 1969 con Prendi i soldi e scappa, si è concesso quattro pause totali, due sole durate più di un anno (dal primo film fino al 1971 per l’opera seconda, Il dittatore dello stato libero di Bananas, poi tra il 1975 di Amore e guerra e il 1977 della svolta autoriale di Io & Annie). Dopo gli ottimi risultati di Blue Jasmine, che è valso l’Oscar a Cate Blanchett e la personale sedicesima nomination per la sceneggiatura originale, Woody Allen torna a distanza esatta di un anno con Magic in the Moonlight, nuova escursione europea, dopo i più recenti Midnight in Paris e l’atroce To Rome With Love, questa volta nella Costa Azzurra degli anni Venti.

Wei Ling Soo è il più grande illusionista vivente. I suoi spettacoli fanno il tutto esaurito da Londra a Berlino. Nessuno sa chi ci sia sotto i baffi posticci e il costume da mandarino. Il mago è in realtà Stanley Crawford, maestro della prestidigitazione, arrogante e insofferente alla creduloneria della gente, che conduce una battaglia personale contro i falsi medium e ogni forma di divinazione spirituale. È proprio per questa sua ostilità verso il magico che l’amico e collega Howard lo contatta per chiedergli un aiuto. Si tratta di raggiungere la Costa Azzurra e smascherare una giovane chiaroveggente, Sophie Baker, che si è piazzata a casa della famiglia Catledge e sta aggirando tutti con i suoi trucchi. Quando arriva in Francia sotto mentite spoglie, però, Stanley si trova a dover affrontare un livello di illusione a cui non era affatto preparato.

La magia, nelle sue diverse forme, è uno dei temi ricorrenti e classici del cinema di Woody Allen. Nel 1982 Diane Jacobs pubblicò il libro …But We Need the Eggs: The Magic of Woody Allen (il titolo è preso da questa barzelletta che chiude Io & Annie), e nel 2000 Allen ha dichiarato che la magia avrebbe potuto essere la sua strada, se non fossero successe altre cose (lo dice nell’ottimo libro-intervista realizzato da Eric Lax in più di trent’anni di incontri e pubblicata da Bompiani con il titolo Conversazioni su di me e tutto il resto). Sono successe altre cose, e Woody Allen non è diventato un mago, però la magia l’ha messa nei suoi film, praticamente ogni volta che ha potuto. Negli anni, elementi magici sono comparsi nell’episodio “Edipo relitto” del film collettivo New York Stories, in Alice, Ombre e nebbia, La maledizione dello scorpione di giada, Scoop, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, e in una moltitudine di altri piccoli riferimenti.

Con Magic in the Moonlight è la prima volta che la magia si guadagna il privilegio del titolo. In realtà, però, è solo un pretesto narrativo. A Woody Allen interessa di più approfondire maggiormente un altro tema classico del suo cinema per condurlo, però, verso conclusioni inedite.

Lo Stanley che Colin Firth confeziona con tutto il suo britannico stile è un uomo razionale che vive in un mondo razionale. Rifiuta ogni elemento di trascendenza o soprannaturale e si domanda anche se sia più ingiusto ingannare gli ingenui o essere così ingenui da cadere negli inganni.

Non c’è Dio nel suo mondo, non ce n’è bisogno. È un mondo in cui, in linea con Hegel, è reale solo ciò che è razionale. Il resto, ciò che non può essere provato, non esiste, anzi, va evitato. L’immenso, e tutto ciò che è superiore, per Stanley costituisce una minaccia alla finitezza dell’intelletto umano. Ogni dimensione pura, come la bellezza, è effimera e per tanto non necessaria. Ovviamente in un mondo del genere non c’è spazio per l’amore, la principale delle illusioni umane. Stanley ha un rapporto perfettamente funzionante con una donna con cui condivide razionalità e disincanto, un’anima gemella in un mondo in cui le anime non esistono.

È evidente che la prospettiva di Stanley, radicata sulle letture di Nietzsche e su un convinto ateismo, replica il punto di vista abituale di Woody Allen e quell’eco costante di Dostoevskij e Bergman che pone l’uomo nel mondo come essere immanente e solo. In Magic in the Moonlight, però, torna un romanticismo che non si vedeva nel cinema alleniano dai tempi dell’elenco delle cose per cui vale la pena vivere di Manhattan. Nell’incontro con la medium interpretata da Emma Stone, che già ci si affanna, con desolante originalità, a salutare come nuova musa di Woody Allen, Stanley cambia idea su tante cose, prima di tutto su se stesso.

Ammettendo la possibilità del magico, Stanley supera il nichilismo e accetta il conforto che può offrire l’ulteriore. Ovviamente, questa apertura allo spirituale si accompagna a un nuovo modo di intendere i sentimenti, non più sintesi razionale di simili, ma piuttosto attrazione di diversi, superando ogni forma di logica e matematica emotiva. In fondo, come dice la splendida zia Vanessa interpretata da Eileen Atkins, il mondo può anche essere privo di senso, ma è comunque innegabile che sia dotato di una certa magia.

Peccato che invece sia Magic in the Moonlight a perdere presto quella sua certa magia. Non mancano le battute, alcune anche notevoli e superiori alla media di Allen degli ultimi anni, e non c’è niente da eccepire sulla qualità della messa in scena complessiva, dai costumi di Sonia Grande, che sembrano usciti da un catalogo Prada d’epoca, alla fotografia di Darius Kohndji. Solo che Allen fatica a sviluppare la parte centrale, una volta che si è definito il ruolo dell’illusione negli equilibri generali.

Per riprendere un altro film sulla magia che ha avuto un certo successo, The Prestige di Christopher Nolan, i momenti di ogni illusione sono tre: la promessa, in cui viene mostrato qualcosa di ordinario che diventa oggetto del numero; la svolta, in cui quel qualcosa di ordinario viene trasformato in altro di straordinario; e il prestigio, che è il trucco vero e proprio, quello che strappa gli applausi. È nel momento della svolta che lo spettatore viene ingannato dal prestigiatore. A Woody Allen non riesce proprio la svolta, quando la cerca, e quello che rimane è solo il trascinarsi verso un’evidente conclusione che ha ben poco del prestigio.

(Magic in the Moonlight, di Woody Allen, 2014, commedia, 98’)

“I diabolici”
di Pierre Boileau e Thomas Narcejac

Il binomio Boileau-Narcejac, fecondo sodalizio che stimola il desiderio e la passione di chiunque abbia a cuore la letteratura francese e il noir, ha prodotto nel tempo molti volumi narrativi che Adelphi, a partire da oggi, ha intenzione di proporre al lettore italiano, che della coppia ha conosciuto in traduzione due dei suoi libri più classici: La donna che visse due volte e I vedovi, usciti entrambi per Sellerio. Il primo testo pubblicato in quest’ordine di idee è il romanzo intitolato I diabolici (Adelphi, 2014), originariamente dato alle stampe in Francia nel 1952. Romanzo piuttosto febbrile, la cui trama crescente e incapace di pause riesce a fondere le atmosfere ombrose proprie appunto del noir con la vertigine continua che definisce la strutturazione del thriller, I diabolici non si risparmia tuttavia gustosissime incursioni (che potremmo forse definire in maniera naif “metodologiche”, cioè inerenti la pratica della scrittura) nelle regioni dense del fantastico, facendo sì che il reale le oltrepassi e coniugando così la dimensione del perturbante in una storia molto mondana di per sé già abbastanza sgomentevole: un triangolo, in sostanza, in cui ci sono un “lui”, “due lei”, e soltanto un cadavere fatto di carne (marcia) e ossa.

Come da tradizione delle lettere francesi, I diabolici affronta il tema del Male, quello maiuscolo, come si direbbe senza starci troppo a pensare, ossia quello che esattamente nelle lettere francesi fu sondato anche da un nome come Jean Genet con le sue Serve, per esempio. Un Male che nella fattispecie alloggia nel luogo più sicuro, nella tana più appartata della nostra vita di stolidi occidentali: la casa, la famiglia, la coppia; una coppia che, almeno nel mondo in cui si svolge I diabolici, è il nucleo più intimo, l’elemento attorno al quale si strutturano gli altri due. È infatti proprio l’ambiente domestico, luogo fisico e morale, comunque fuggevole, che contempla le relazioni e gli amori e odi più profondi, a fare spesso da scenario a storie come questa, storie di truci ammazzamenti più o meno ben riusciti, più o meno fasulli, che ristabiliscono giocoforza le linee di un menage domestico attraverso un terribile atto di rottura, storie che problematizzano il solito incedere quotidiano della nostra debole esistenza (incedere piuttosto problematico, direbbero alcuni) che anche noialtri, lettori e non, esperiamo giorno dopo giorno al chiuso delle nostre dimore ordinate.

Ma essenzialmente I diabolici potrebbe essere anche altro, perché nessun libro che sia tale è soltanto una storia. Potrebbe apparire cioè come un bellissimo racconto d’amore fatto di inganni numerosi, di strategie lunghe ed elaborate atte a coronare l’amore stesso e di serrate peripezie. Un racconto fatto di lotte intraprese contro l’ordine costituito della cose da chi cerca di rifuggire il quotidiano fatto di ruoli e di competenze, da chi cerca di ristabilire le gerarchie dei generi, di un sistema produttivo e di un conseguente modo di vivere il mondo. Un amore che trascina chi lo esperisce nella ribellione, detto in altri termini. Spesso è infatti proprio nelle spire dell’amore che in letteratura ci si ribella ai legacci borghesi della coppia, della famiglia come dovrebbe essere e come in effetti è. E spesso è esattamente la donna a farsi tramite di tale ribellione, così come accade ne I diabolici: una donna vessata in terra ma ribelle sulle pagine. Allora, in casi simili, agire attraverso il Male, o farsi semplicemente sfiorare da esso, è forse la soluzione più adeguata per chi voglia fuggire da un ordine delle cose troppo stretto, poiché è soltanto grazie al Male, alla sua bellezza nient’affatto posticcia, che è possibile vedere le cose in altro modo. D’altronde il Male qualcuno l’avrà pur inventato, forse proprio chi ha inventato la coppia, questo non possiamo dirlo. Ma all’atto della sua creazione, chi l’ha inventato ha forse sottovalutato la possibilità che il Male stesso potesse rivoltarglisi contro.

Per quanto a motivare un delitto ci siano i soldi, la vendetta o la rivalsa, il dato sotterraneo è sempre quello: il Male, il gusto che dà praticarlo, un gusto sopraffino se diretto dall’innamoramento, oppure se indirizzato soltanto al capovolgimento di schemi millenari tesi al disciplinamento; un gusto che si ritrova, per noi lettori che invece amiamo docili, e che forse ci siamo stancati di farlo, nella lettura di libri come I diabolici.

(Pierre Boileau, Thomas Narcejac, I diabolici, trad. di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi, 2014, pp. 173, euro 16)

“Amore, cucina e curry”
di Richard C. Morais

Amore, cucina e curry (Neri Pozza, 2014), di Richard C. Morais, è uno di quei romanzi che una coscienza da lettore critico sarebbe portata a condannare, perché dopotutto il lieto fine c’è e lo si capisce dalle prime pagine, perché i personaggi sono tratteggiati in maniera abbastanza prevedibile, perché il testo è pieno di lusinghe che strizzano l’occhio al pubblico, e perché di fatto l’autore non pone nessun ostacolo che renda la lettura una sfida, anzi: la scrittura scorre che è una meraviglia. Però nella vita di un lettore ci sono momenti in cui lo spirito critico lascia spazio al piacere di leggere e basta, senza che a quest’atto debba a ogni costo essere associato un intento formativo o analitico, e un brano diventi esercizio di indagine dell’Io e del mondo. Quindi, a dirla tutta, Amore, cucina e curry è una bella storia, e noi lettori siamo liberi di viziarci, una volta ogni tanto.

La trama prende il via quando Hassan Haji, l’io narrante e protagonista del romanzo, lascia Mumbai (o Bombay, come ancora si chiamava ai tempi della sua infanzia) con la propria famiglia, dopo che un incendio doloso ha bruciato il ristorante fondato dai nonni. Da qui, cominciano le sue peregrinazioni per l’Europa, che lo porteranno in un paesino della Valle della Loira nel quale farà la conoscenza della chef stellata Madame Mallory, che lo introdurrà alla più raffinata cucina francese. Ovviamente l’incontro non è che l’inizio di un percorso che, tra fortune e qualche delusione, lo porterà a essere consacrato nell’Olimpo dei grandi cuochi europei.

Ci si potrebbe chiedere quale sia l’elemento che contribuisce a rendere questo romanzo una lettura così piacevole. Ebbene, ça va sans dire, il merito è del cibo. L’intero libro indugia in descrizioni che danno consistenza al cibo, mettendo per iscritto un senso spesso sottovalutato in letteratura, dove in genere si privilegia la vista, talvolta l’udito: il gusto. Le parole rendono giustizia ai piatti, ben dosate a seconda della sapidità che spetta loro trasmettere, e nella scrittura alla corposità speziata della cucina indiana fanno da contraltare i sapori netti e puliti della cucina francese.

Già uscito come Madame Mallory e il piccolo chef indiano nel 2010, Amore, cucina e curry è stato ora riproposto nel mercato editoriale, in contemporanea con l’uscita del film di Lasse Hallström, con un titolo decisamente meno intrigante, che rovina la sorpresa suggerendo con approssimazione alcuni degli elementi che compongono il romanzo. Comunque lo si voglia chiamare, questo libro è una dichiarazione d’amore all’arte della cucina, e come del buon cibo va assaporato, gustandolo senza preoccuparsi troppo e senza porsi domande che distolgano dal momento di piacere gastronomico.

(Richard C. Morais, Amore, cucina e curry, trad. di F. Novajra, Neri Pozza, 2014, pp. 283, euro 17)

“Ogni maledetto Natale” di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo

È il tentativo di sfidare il cliché del cinepanettone, Ogni maledetto Natale, ultimo film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, già ideatori, sceneggiatori e registi del Boris televisivo e cinematografico. Stesso linguaggio, stessa irriverenza, questa volta però messi al servizio della distruzione della tradizione natalizia italiana per eccellenza: il pranzo di famiglia.

Massimo e Giulia si conoscono pochi giorni prima di Natale. Scatta immediato il colpo di fulmine. Passano tre giorni assieme senza separarsi mai, lei lo invita alla cena della vigilia dai suoi genitori, nella Tuscia. Lui è titubante e alla fine accetta. Si trova immerso in una realtà rurale protoumana, in cui la tecnologia è un miraggio lontano e i computer sono chiamati “bestie” e messi in palio nella riffa di paese. Nessuno della famiglia di Giulia capisce quale sia il lavoro di Massimo, che si occupa di microcredito e viene scambiato per un tossico in libera uscita dalla comunità. Eppure lui sopporta tutto per amore, dalle liti di famiglia alla caccia al cinghiale, finché non esplode sotto le provocazioni e gli insulti, litiga con Giulia e se ne va. Raggiunge la sua famiglia per il pranzo del venticinque, e la realtà è completamente diversa. La famiglia di Massimo Marinelli Lops è una delle più importanti d’Italia, ma non per questo più normale ed equilibrata di quella di Giulia.

È debole sotto tanti aspetti, Ogni maledetto Natale, soprattutto nella sceneggiatura. Lo spunto di partenza – il colpo di fulmine – è poca roba. Lo sviluppo conseguente della trama sentimentale di Massimo (il televisivo Alessandro Cattelan, in un discreto esordio) e Giulia (Alessandra Mastronardi, quella dei Cesaroni e poi della serie Romanzo Criminale) non si preoccupa di svilupparsi in maniera logica e coerente – come fa Giulia a raggiungere casa Marinelli Lops che non sa dove sia, per dire –, concedendosi la libertà di tralasciare le spiegazioni.

Il punto è che la trama è solo un pretesto per Ciarrapico, Torre e Vendruscolo per mettere insieme un film che fa della follia il suo elemento di vera forza. Quello a cui i tre registi e sceneggiatori volevano arrivare era far scatenare il loro ampio cast e lasciarlo libero di giocare con il proprio talento. Una volta messi insieme attori come Valerio Mastandrea, Corrado Guzzanti, Marco Giallini, Francesco Pannofino e Laura Morante, tra gli altri, l’idea era che il resto sarebbe venuto da sé. E infatti funzionano tutti, e tutti ottengono l’effetto voluto, che è il divertimento del pubblico. Un divertimento che scaturisce da un umorismo che non si preoccupa di essere politicamente corretto, che anzi gioca con il rischio dell’insulto nella descrizione stereotipata del burino dell’Alto Lazio e della comunità filippina di casa Marinelli Lops, con il capo cameriere Benji che sembra l’incrocio tra il filippino di Marco Marzocca e il signor Yunioshi di Mickey Rooney in Colazione da Tiffany. L’elemento comico viene fuori proprio da queste estremizzazioni, da questo sfidare il limite anche del buon gusto, ed è un bene che nel cinema italiano si provi ancora, di tanto in tanto, a uscire dal solco ormai consolidato delle infinite commedie tutte uguali che si ripetono ogni mese al cinema.

Ogni maledetto Natale non aggiunge niente allo stremato filone della commedia sentimentale, aggiunge tanto all’idea di una comicità nuova giocata sulla follia. Una comicità che non si mostra intelligente senza però essere puramente demenziale, che attinge al turpiloquio senza diventare volgare. Per riuscirci, Ciarrapico, Torre e Vendruscolo sono ricorsi a un espediente semplice ma pienamente efficace: le due famiglie, così diverse e distanti, sono interpretate dagli stessi attori che si sdoppiano in ruoli quasi opposti, che giocano con differenti tipi di stereotipi e incarnano due differenti tipi di assurdo.

La descrizione satirica di due realtà familiari che non hanno niente in comune assume quindi i connotati del grottesco. A ogni latitudine sociale corrispondono diversi tipi di fissazioni. Per la famiglia di Giulia, saper giocare a spurchiafiletto è fondamentale, così come la massima aspirazione della vita non può essere che diventare sindaco del paese. Per i Marinelli Lops, con la polizia in casa per un incidente, non c’è cosa più importante di decidere se procedere comunque con il pranzo o destinarlo alla beneficenza, assieme a tutti i regali. Ovviamente, è la doppia prova degli interpreti a fare una buona parte del lavoro.

Se si accetta l’idea, se si accetta l’anarchia comica di Ogni maledetto Natale, allora non si può fare a meno di apprezzarlo. Se continuano così, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo smetteranno in breve tempo di essere etichettati, sbrigativamente, come “quelli di Boris”.

(Ogni maledetto Natale, di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, 2014, commedia, 95’)

“Noi” di David Nicholls

Ci sono film indubbiamente stimati. Salici piangenti di premi, grondanti di applausi tanto da incurvarsi anche un po’. Sarebbe sciocco negarne il valore. E davanti a cotanta conclamazione ci si sente provincialmente in obbligo di incipriare un commento. E poi ci sono quei film che ci appartengono. Senza bisogno di pedigree. Semplicemente per il fatto di scorrerci sugli occhi. E poi molto più giù. Per la facilità che hanno di infilzarci la pelle. Lo stesso può dirsi per qualsiasi opera d’arte e persino delle persone.

Una faccia qualunque che non si annacqua nella folla e che all’improvviso rimpiazza l’ossigeno.

Impossibile quindi che il meccanismo sfugga ai libri. Quello che stiamo trattando è esattamente il secondo caso. Il caso di David Nicholls. Esploso nel 2009 con Un giorno e dopo altre due pubblicazioni di minor clamore, riapparso quest’anno con Noi (Neri Pozza, 2014), finalista al Man Booker Prize.

La storia in sé è alquanto magra. Douglas Petersen, biologo inglese a bordo della cinquantina, sente andare il letto in frantumi quando una notte sua moglie Connie, bella e irrazionale, dichiara di volerlo lasciare. Estrema unzione di vent’anni incollati al suo amore. Ha solo una chance da giocarsi. Una vacanza. Un Gran Tour in Europa, prova eroica e quindi ultima per salvare un matrimonio terminale e il rapporto con suo figlio, se possibile, ancora più sfiatato. Perché Albie, adolescente neghittoso, neanche a dirlo, è in simbiosi con sua madre e vede in Douglas un’ombra goffa e ingombrante, spassoso come il moscerino della frutta che il padre esaminava da ragazzo. Durante la trasferta, prevedibilmente, accade l’imprevedibile.

Ecco quanto basta. Nessuna traccia di simbolismo, nessun sentore metafisico.

La trama elementare di una vita che cigola. Di una molecola spezzata.

L’incontro improbabile tra uno scienziato tutt’altro che pazzo, ortogonale e solido, e un’artista smaniosa sfocia in un matrimonio, in cui ovviamente sono tante le bucce in cui incespicare. Le differenze prima servono per incastrarsi e poi diventano appiccicose. Trappole per topi senza odore di formaggio. Connie forse è già stanca e trova più calde altre braccia, almeno per una sera. Ma Douglas persevera.

È lei che vuole e il meglio arriverà. Magari dentro la pancia di sua moglie. Ma quel respiro nuovo si dissolve alla svelta. La piccola Jane muore in pochi giorni e loro sono lì a suturarsi il pianto, a scuotere lenzuola. A ricominciare. Poi un’altra gravidanza, nasce un figlio sano ma stavolta il problema è altrove. In Douglas che non sa conoscerlo, che resta a distanza anche quando lo abbraccia. L’equilibrio scivola e il piede conversa col baratro, senza capire come abbia fatto ad arrivarci. Tradimenti, incomprensioni, burroni generazionali e un borghese tentativo di ricucire i lembi. Attraverso un viaggio, che ovviamente dispiega più delle sue tappe. Srotola tagli, svela spalle troppo fragili e nude. Insomma, tutto di solito, niente di strano.

Perché qui, immancabilmente, arriva lo scrittore. Certamente non il primo a trattare il matrimonio come un giacimento che promette tanta carne. Impossibile stabilire che fu il primo e ipotizzare chi sarà l’ultimo. Ma nel mezzo gli esempi grondano. Da Andrew Sean Greer con La storia di un matrimonio ad Elizabeth Jane Howard ne Il lungo sguardo, passando attraverso Abraham Yeoshua e Sandor Marai.

E un bosco di infiniti altri nomi e altre storie.

David Nicholls non è stato più aggraziato o profondo di loro. Alternando memoria e presente, ha ritratto la normalità, senza avvitamenti cerebrali, doppi fondi, curve a gomito. Con la luce pulsante della vita reale, con la sua indiscussa maestria a cesellare dialoghi e a mettere in scena, da navigato autore televisivo, con un passato da attore.

Ogni stortura, ogni piccolo vizio incagliato sotto le unghie dei nostri rapporti, la mostruosa difficoltà delle cose più facili, la fatica di amare scavalcando qualsiasi giornata, tutto questo è materia di Noi.

Titolo più che inclusivo. Il chiunque di questo romanzo è il vero protagonista, le angosce prêt-à-porterdel nostro sovrappensiero. Condite da un’ironia quasi sempre più che efficace. Smaliziata e mai gratuita.

Questo è Douglas, intimorito per il futuro ingrato che attende suo figlio: «Quegli operai privilegiati tornano alle loro baracche anguste e sovraffollate, in immense megalopoli dove non si è mai visto un albero e l’aria pullula di droni della polizia, dove le autobombe, i tifoni e le bufere di grandine sono così frequenti che nessuno ci fa più caso […] E laggiù in quel gorgo infernale di violenza, povertà e disperazione c’è mio figlio, Albie Petersen, un menestrello errante con la sua chitarra e la sua passione per la fotografia, ancora fermamente deciso e non mettere il cappotto».

E il finale spunta in fretta. Dopo appena quattrocentotrenta pagine.

(David Nicholls, Noi, trad. di Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2014, pp. 431, euro 18)

“L’Italia è un bosco”
di Tiziano Fratus

L’Italia è un bosco (Laterza, 2014) di Tiziano Fratus, poeta e scrittore, ma prima di tutto “cercatore d’alberi”, è un forziere di meraviglie e di memorie ataviche, descritte con amore e con passione. Il testo potrebbe essere definito come un esercizio di cartografia forestale che cuce itinerari, citazioni, ripercorrendo testi ed esperienze di una sensibilità collettiva mediante una mappa da integrare ciascuno con le proprie personali predilezioni. È un tornare autentico alla terra, laddove la scrupolosa descrizione del sentiero per raggiungere i luoghi dell’anima si unisce allo spessore della riflessione filosofica e alla poesia della parola che indugia nel particolare, nell’apparente marginale che sfugge alla noncuranza; parola che si fa armonia nel proprio percorso d’autoanalisi, e gorgheggio di intesa nel perfetto innesto tra uomo e paesaggio, in un percorso che potrebbe essere descritto come tra una passeggiata filosofica e un percorso naturalistico-spirituale, corredato da suggestive fotografie. Fratus è l’inventore dell’alberografia, ha coniato i concetti di Homo Radix e con i suoi saggi, le mostre, gli itinerari disegnati in città e regioni, difende la sopravvivenza dei boschi e alberi e l’arte della conoscenza botanica, che non è un sapere soltanto scientifico, forse è più un gesto artistico: significa avvicinarci al disegno di Dio o, se si preferisce, a quello più laico di una Madre Terra. Il testo sembra essere uno zibaldone di pensieri, una guida turistica e allo stesso tempo letteraria, che si legge come un romanzo, che innesca la voglia di saperne e di scoprire di più su di un Paese, l’Italia, da scoprire a piedi, con calma, e in silenzio.

Gli smisurati tronchi delle sequoie del Nord Italia; le radici leggere dei ficus che dominano Palermo; la luce tra le foglie delle conifere plurisecolari sulle Alpi; i lecci della foresta primaria più estesa d’Europa in Sardegna; la gravità delle pinete vetuste nel Parco Nazionale della Sila; i castagni e gli olmi delle selve appenniniche; le rarezze che si sono adattate al clima e alle misure ridotte degli orti botanici; i giganti che abitano e decorano i nostri viali e le nostre strade, le piazze e i giardini pubblici delle nostre gremite città.

Come un Virgilio appassionato dei nostri tempi, l’autore attraversa questi luoghi invitandoci a riconoscere la diversità di specie, a distinguere forme colori foglie e geometrie, a ricostruire le storie dei più longevi esseri viventi che abitano il nostro paese.

È uno scrivere tagliente quello di Fratus, ricco di spunti di meditazione, di piccole critiche precise, uno scrivere non solo poetico nell’accezione poetica che siamo abituati a pensare, per cui descrivere la natura significa anche doversi piegare alla sua immensità, allo sforzo necessario persino per goderne. Gli alberi hanno una storia per chi la sa ascoltare ma anche raccontare, e Fratus ce la riporta con semplicità attraverso i suoi propri occhi mediante una ricercata metafora esistenziale. Allo stesso tempo riuscire tramandare la loro storia è un cammino educativo e formativo che ci riallaccia al paesaggio e che ci rende l’equilibrio con la natura. Semplicità e rispetto sono ciò che si respira in questa escursione filosofica che ci guida a conoscere gli alberi, descritti attraverso vibrazioni che giungono integre al lettore.

(Tiziano Fratus, L’Italia è un bosco. Storie di grandi alberi con radici e qualche frondaLaterza, 2014, pp. 216, euro 16)

“Da quando Ines è andata a vivere in città”
di Dario Accolla

«Era il modo più veloce di narrare il mondo. Non il più semplice. Solo il più veloce. Laddove servivano parole, in un foglio di carta, lui giocava con l’esposizione, le angolature, i giochi di luce»: queste parole, che si riferiscono al personaggio del fotografo in Da quando Ines è andata a vivere in città (Zona, 2014), libro d’esordio di Dario Accolla, descrivono bene lo stile narrativo di questo autore che si affaccia sulla scena letteraria. In realtà Da quando Ines è andata a vivere in città è la terza opera di Dario Accolla ma è la sua prima prova narrativa. Accolla ha già pubblicato il saggio I gay stanno tutti a sinistra – Omosessualità, politica, società (Aracne, 2012) e, con Andrea Contieri, la raccolta Mario Mieli trent’anni dopo. Inoltre cura un blog personale, Elfobruno e un blog su Il Fatto Quotidiano.

I racconti che costruiscono Da quando Ines è andata a vivere in città sono scatti di un fotografo sapiente, ritratti di facce comuni che si rivelano, sotto la lente d’ingrandimento dello scrittore, di una espressività e intensità straordinarie. L’effetto esplosivo – il senso di immediatezza – è quello di una fotografia, eppure è ottenuto con il clic della parola, con il crepitio di questa antica polaroid. Così possiamo provare a delineare la cifra di uno stile che fa emergere la voce inconfondibile di Dario Accolla. Ciò che colpisce è quella sensazione di precipitare che si prova davanti a certe fotografie, a certi sguardi immortalati. Penso, per esempio, agli occhi verdi della ragazza afghana, fotografata da Steve Mc Curry; penso anche agli occhi della Gioconda. Ecco, il libro di Accolla è una galleria di sguardi. Infatti gli occhi hanno un ruolo quasi da protagonista, vista l’insistenza con cui ricorrono le descrizioni di sguardi. L’autore descrive i suoi personaggi attraverso il loro sguardo: «occhi buoni e profondi», «occhi verdi» – e poi, ancora, con una spiccata tendenza espressionistica – «occhi di clorofilla», «occhi di burrasca marina». Gli occhi paiono una vera e propria ossessione dell’autore e, classicamente, un mezzo di conoscenza dell’altro.

Le storie di Dario Accolla accolgono tutto il mondo che esiste. Nell’opera di Accolla c’è Giorgio che vive un amore clandestino con un fotografo misterioso: i loro incontri notturni, consumati di tanto in tanto, nel silenzio, al suono dei calici di vino che si toccano – lo stesso suono delle labbra che si baciano – un suono così bello e così fragile. Invece Laura, che non riesce più a dormire a causa di Marica, e nonostante ciò accompagnerà Carmen (che ha vissuto l’esperienza del cambiamento sulle sue carni) a sostenere uno degli esami più duri della sua vita e riuscirà ad attraversare il corridoio della chiesa, ferita e fiera. Ferita come Ines, personaggio che dà il titolo alla raccolta, madre alla ricerca del motivo che ha spinto il figlio a suicidarsi. Commovente è l’amore che prova nei confronti di Alessandro il protagonista di “Forse nevicherà a Roma”: un sentimento che trova la forza di manifestarsi una sera, per caso, dopo una cena; una manifestazione splendidamente raccontata da Accolla, con limpidezza ma senza volgarità, con «gentilezza letteraria». Sull’ampia riflessione sull’amore che attraversa tutto il libro, si stagliano Roma (dove l’autore vive e lavora) e la Sicilia (dove è nato), con i suoi odori e i suoi accenti («Laura e Giulio mi prenderanno in giro, perché quando dico “a pezzetti” si sente di più l’accento siciliano») e le «vecchie siciliane senza tempo, uguali alle rocce dei camini di Goreme» e «la poesia dell’origano». Ne “Il sorriso della Gioconda” e “Il grappolo” Accolla si misura con i toni del grottesco e del comico, e muove una critica garbata a certe ingiuste credenze della Chiesa. “Il grappolo”, favola di gusto boccaccesco, è il racconto in cui l’autore mostra il lato genuinamente umano di suor Anita e di suor Mariana. Il conflitto tra le due suore si genera a causa di un grappolo d’uva, un semplice grappolo d’uva che dal pergolato pende enfio, rotondo, levigato e che asseta. Questo grappolo che scatena inaspettatamente e con tanta forza i desideri delle due suore è molto di più di un grappolo d’uva: è un simbolo fallico. Basta osservare la descrizione che ci offre l’autore e pensare che nella poesia omoerotica del Novecento ricorre questa metafora; ad esempio, Libero De Libero in una sua poesia omoerotica del 1971, scrive: «Il grappolo che m’offri gonfio d’uva». Così nel racconto la patina del comico si spacca e il discorso diventa boccaccescamente allegorico.

“Il grappolo” è preceduto da una definizione, “Ghost track”, e vuol essere, appunto, un “a parte”, una storia di una tonalità diversa rispetto alle altre. Tutto il libro è infatti costruito come un disco musicale: ogni racconto (tranne “Il grappolo”, appunto) è associato a un brano musicale, che sta in apertura come una citazione. Perché una articolazione del genere? Si tratta della colonna sonora della vita dell’autore? Se sì, visto il legame intrinseco che corre tra citazione e racconto, possiamo estendere questa ipotesi ai racconti stessi? Non sappiamo quanto ci sia di Dario in queste storie, ma certamente questa struttura testimonia lo stretto legame che hanno per l’autore letteratura e vita. Forse anche per lui si può parlare di «dissoluzione della letteratura nella vita», per usare un’espressione che Gennaro Savarese trovò per La giovinezza di Francesco De Sanctis. Non sappiamo quanto ci sia di Dario in queste storie e non ci interessa. Ciò che conta è che l’autore ci offre una raccolta di racconti, – brani musicali, scatti di fotografia – in cui, tra le tante facce che scorrono al di là del finestrino del tram, ci accorgiamo di riconoscere, riflessa, la nostra.

(Dario Accolla, Da quando Ines è andata a vivere in città, Zona, 2014, pp. 108, euro 12)

“Trash” di Stephen Daldry

Vincitore del premio BNL del pubblico all’ultima edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma – che è in sostanza il premio al miglior film, in questa ultima edizione senza giuria di qualità –, Trash di Stephen Daldry racconta con occhi occidentali la vita di tre bambini di una favela brasiliana.

Raphael lavora in una discarica. Raccoglie quello che c’è da salvare dai rifiuti insieme a tante altre persone che vivono di quei pochi soldi che guadagnano ogni giorno. Trova un portafogli, una mattina, e nel portafogli una chiave, delle foto e un calendario con l’immagine di San Francesco con alcuni numeri segnati. Non fa neanche in tempo a raccontarlo al suo amico Gardo che arriva la polizia. Cercano il portafogli, sono disposti a pagare. Raphael però non si fida, e fa bene, perché quei numeri e la chiave possono portare a qualcosa che un politico potente e corrotto vuole e a tutti i costi. Raphael decide che la cosa più giusta da fare sia capire cosa apre quella chiave, senza fidarsi della polizia. Lo aiutano Gardo e Gabriel, detto Rato, che conosce la città e tutte le sue scorciatoie.

C’è un romanzo per bambini con lo stesso titolo, scritto da Andy Mulligan, dietro Trash. Poi c’è la sceneggiatura di Richard Curtis, storico autore del Mr. Bean di Rowan Atkinson e firma di alcune delle commedie britanniche di maggior successo degli ultimi vent’anni (Quattro matrimoni e un funerale, Bridget Jones, Notting Hill, tra gli altri), e infine la regia di Stephen Daldry, che, dall’esordio con Billy Elliot fino al recente Molto forte, incredibilmente vicino, ha dimostrato sempre un’attenzione particolare ai protagonisti adolescenti che diventano adulti per esigenza, per difficoltà. Ci sarebbe anche un livello ulteriore, quello portato dalla produzione esecutiva di Fernando Meirelles e dalla troupe brasiliana che ha affiancato la squadra europea, ma è quello che si nota di meno.

Perché del regista di City of God non si vede nessuna impronta, nessun contributo di spessore, nessuna testimonianza realistica della vita di discarica. Giusto un alone sul piano estetico, nei colori e nella velocità di alcune sequenze. Sembra quasi che il nome sia stato prestato per dare un certificato di credibilità alla descrizione della favela, come a dire che se c’è Meirelles, da qualche parte nella produzione, allora lo sguardo è autentico, non travisato da una prospettiva occidentale. Non basta. Perché molto più che a City of God, Trash finisce per assomigliare a una versione soft e brasiliana di The Millionaire. Si era parlato, per il film di Danny Boyle, di neocolonialismo culturale per la pretesa di raccontare una storia distante, nella geografia e nella cultura, ponendola in una prospettiva rispondente al gusto occidentale. Boyle c’era riuscito a rendere credibile il suo sguardo sul degrado indiano, unendo la crudezza della descrizione con il conforto del lieto fine. Un equilibrio preciso, che infatti era valso otto premi Oscar (e Golden Globes, e Bafta, e tanti altri riconoscimenti). In Trash, invece, Daldry tralascia in fretta ogni connotato ulteriore e si limita a seguire le avventure dei tre bambini. Per i suoi protagonisti tutto è facile: capire, spostarsi, risolvere, con i poliziotti cattivi che arrivano sempre un momento dopo che loro sono scappati. C’è l’inevitabile idealizzazione della miseria, per cui i poveri sono comunque buoni, si aiutano e si vogliono bene, e se rubano lo fanno solo perché sono costretti e tanto alla fine restituiscono, mentre il potere è corrotto e malvagio, spietato ma cretino, perché non riesce neanche a catturare tre bambini che si infiltrano nelle case e nelle prigioni. C’è un’innocenza impossibile, che è lontana da City of God, sempre pura, capace di mantenersi nonostante la fame e la miseria.

Chiaramente ci sono anche elementi validi, a partire dai tre protagonisti, bravissimi e naturali, selezionati tra centinaia di autentici meninos de rua. C’è la velocità del montaggio e delle scene d’azione, e c’è la descrizione semplice e non sensazionalistica della corruzione e del declino di un paese che si è rovinato (almeno nei suoi strati più deteriori) per ospitare un Mondiale di calcio e un’Olimpiade (la prossima, quella del 2016).

Tutto, però, sembra confezionato per stupire l’occhio occidentale, per far sentire a posto la coscienza di chi guarda la miseria attraverso la lente privilegiata di un cinema colorato e buonista.

(Trash, di Stephen Daldry, 2014, avventura, 114’)

“Nikolaj Gogol’”
di Vladimir Nabokov

Nel suo esilio americano, Vladimir Nabokov si dedicò, come scrittore (al di là della sua attività di professore universitario, da cui sarebbe vaporato il candido e stralunato fantasma di Pnin), a due dei grandi nomi del pantheon letterario russo dell’Ottocento: Puškin, di cui tradusse, impeccabilmente, l’Evgenij Onegin, e Gogol’, che affrontò nel saggio ripubblicato ora da Adelphi in una nuova traduzione, a oltre quarant’anni dalla prima edizione italiana, e che si intitola proprio Nikolaj Gogol’.

Come scrittore, si è detto: e infatti, il saggio del ’44 è quanto di più lontano si potrebbe immaginare da un compassato lavoro accademico, irto di note e riferimenti bibliografici; né vi è alcuna pretesa di completezza, nell’esame delle opere, perché Nabokov si concentra soltanto su tre di esse, che sono però i vertici riconosciuti della produzione gogoliana, Il revisore, Anime morte (come innovativamente titolano qui le curatrici italiane, sfruttando la mancanza di articolo della lingua russa) e Il cappotto; mentre solo in pochi, a volte sprezzanti cenni, viene liquidata la produzione giovanile, quella più nettamente connotata (e, per Nabokov, perfino viziata…) dal legame con l’ambiente ucraino da cui Gogol’ proveniva; poco altro, del resto, viene detto sui rimanenti racconti, assemblati dalla critica sotto il titolo di Racconti di Pietroburgo: non fosse che per confutare cocciutamente, del Naso, qualsiasi smaccata referenza all’aspetto fisico dell’autore, alla sua appendice nasale di affilata, spiovente lunghezza.

È con ben più deciso piglio e cadenza di narratore che Nabokov ripercorre non tanto la vicenda biografica esterna, dell’uomo Nikolai Gogol’, in quella che sarebbe stata una pedissequa elencazione di fatti e date, quanto piuttosto, con un folgorante processo di identificazione e distanziamento allo stesso tempo, la sua maniera – alogica, paradossale, e via via scivolante in giù, verso il gorgo della nevrosi – di reagire agli assalti che gli muoveva l’assurdo dell’esistenza.

Ed è ancora così, da scrittore, che Nabokov disseziona le opere; o per meglio dire, da manipolatore (con la stessa maniacale attenzione con cui deve aver imprigionato fra le dita i più variegati fra i suoi amatissimi lepidotteri) del linguaggio: fino a fornire – puntigliosità in cui traspare, struggente e scontrosa insieme, la nostalgia della non più articolata lingua russa – istruzioni di pronuncia di titoli e nomi di personaggi, per i suoi superficiali fruitori yankee.

Da quest’ottica fortemente letteraria nasce, ad esempio, la decisa enfatizzazione degli aspetti tutt’altro che “realistici” (concetto cui Nabokov non risparmia continue, spietate stilettate sarcastiche: «Nutro un insopprimibile disgusto per chi si compiace del fatto che la propria finzione narrativa sia educativa o nobilitante, o patriottica, o salutare quanto lo sciroppo d’acero e l’olio d’oliva») di un testo come Il revisore: «il dramma di Gogol’ è poesia in azione, e con poesia intendo i misteri dell’irrazionale così come vengono percepiti attraverso parole razionali»; ed è sovrana ironia, quella di Nabokov, quando derubrica a “divertente” il fatto che «questa pièce onirica, questo “Spettro Governativo”, fu trattata alla stregua di uno spettacolo comico sulle reali condizioni della Russia».

Meno che mai, dunque, il grande affresco delle Anime morte, (cui Gogol’ non faceva mistero di attribuire intenzioni latamente “dantesche”) va letto secondo Nabokov nel modo in cui soprattutto la critica ottocentesca, e ancor più quella russa d’isprazione marxista, lo ha sempre letto, cioè come un impietoso, perfino feroce reportage ante litteram sulla meschinità e l’abbrutimento morale in cui vive la classe dei possidenti alla metà dell’Ottocento, nel cuore della sterminata pianura russa: la piattezza grevemente antieroica – la pošlost’ russa, su cui Nabokov si dilunga con una insistenza tutt’altro che glottologica – del protagonista Čičikov non è invece altro che «uno dei principali attributi del Diavolo nella cui esistenza, aggiungiamolo pure, Gogol’ credeva molto più seriamente di quanto non credesse in Dio». Quello di Gogl’, insomma, non è il gesto di chi punta sulla realtà una lente che la avvicini e la rischiari meglio, ma di chi la irretisca in un gioco inesorabile di specchi deformanti.

Né meno urticante risulta la lettura dell’altro grande testo gogoliano, Il cappotto: «Le brecce e i buchi neri nel tessuto dello stile di Gogol’ implicano crepe nel tessuto della vita stessa. […] In questo mondo di assoluta futilità, di futile umiltà e di futile dominio […] qualsiasi miglioramento, qualsiasi lotta, qualsiasi scopo o sforzo morale sono totalmente impossibili, tanto quanto cambiare il corso di una stella».

Cosa resta, allora? Nient’altro, forse, che lo splendore abbagliante fino a cui può venir raffinata la prosa da uno scrittore sublime; valga per prova, se non altro, almeno una frase dell’explicit del libro: «Cercando di trasmettere il mio atteggiamento nei confronti della sua arte, non ho fornito alcuna prova tangibile della singolare esistenza di Gogol’. Posso solo mettermi la mano sul cuore e affermare che non è frutto della mia immaginazione. Scrisse davvero, visse davvero».

(Vladimir Nabokov, Nikolaj Gogol’, a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinatto, Adelphi, 2014, pp. 183, euro 18)

effe#02

“effe – Periodico di Altre Narratività”: numero due

Riccardo Gazzaniga, Gianni Agostinelli, Marco Prato, Mario Sammarone, Francesco Vannutelli, Vincenzo Cappella, Marco Vaccher: sono questi i nomi degli autori dei sette racconti che compongono il nuovo numero di effe – Periodico di Altre Narratività. Sette racconti a tema libero, almeno in apparenza.

È Roberto Bioy Fälscher a svelarci infatti, nel suo consueto editoriale dal titolo Il grado zero arbitrario, il sottile filo rosso che lega tra loro le diverse narrazioni: «I personaggi di questo numero vivono una realtà alternativa nell’autonomia della propria mente, o agevolati da fattori esterni. Gli autori allargano così la trama della narrazione: le loro creature possono muoversi liberamente tra l’oggettività e la definitezza di ciò che li circonda, oppure optare per lo sfumato perimetro immaginativo creato da loro stessi, dettato dall’aspirazione e dal sogno, ma anche dalla negazione della propria consolidata identità».

Irene Rinaldi, Misstendo, Alessandra De Cristofaro, Patrizio Anastasi, Giulio Campagnaro, Andrea Chronopoulos sono invece gli artefici delle ventuno illustrazioni che fanno da contrafforte ai racconti.

Un numero questo, che ripropone la nostra collaborazione con il collettivo di illustratori di Studio Pilar e il service editoriale 42Linee, e che prosegue la nostra ricerca di inediti di narrativa, in grado di rappresentare la scena emergente italiana. Esperimento culturale e contenitore di stili, effe#2 è presente in numerose librerie.

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero due:

  • Il grado zero arbitrario di Roberto Bioy Fälsher
  • Breve storia del movimento post-poetico di Vincenzo Cappella
  • Cose che non esistono di Marco Prato
  • Il braccio di Mara di Gianni Agostinelli
  • Publio Licinio di Mario Sammarone
  • Summertime Killer di Marco Vaccher
  • Luglio 1982 di Francesco Vannutelli
  • Veleno di Riccardo Gazzaniga

 

Leggi in anteprima l’editoriale di Roberto Bioy Fälsher: Il grado zero arbitrario

Qui è possibile acquistare online il volume e consultare l’elenco delle librerie in cui è distribuito.

Per maggiori informazioni: periodico.effe@42linee.it

“Febbre bianca”
di Jacek Hugo-Bader

In Siberia è così. Quaranta gradi sotto lo zero e la sola vodka a scaldarti il cuore. Una luce esatta e tagliente come un giudizio a illuminarti il cammino.

Febbre bianca (Keller, 2014) del reporter polacco Jacek Hugo-Bader ha il respiro freddissimo di un reportage, tale è lo stupore, lo sdegno, lo sbigottimento che sa accendere e riaccendere.

Partito da Mosca con una Lazik, la cosiddetta “jeep sovietica”, modello prodotto in forma invariata dal 1972, il giornalista della Gazeta Wyborcza si mette in viaggio verso Vladivostok, città situata nell’estremo lembo della Russia orientale.

Il titolo Febbre bianca evoca una piaga, quella dell’alcolismo, principale causa di morte in Russia, specie tra gli allevatori di renne nella taiga. Ce lo spiega una alcologa intervistata da Jacek: «Tecnicamente si chiama delirium tremens ed è la sindrome più frequente tra le psicosi alcoliche. Si manifesta due o tre giorni dopo aver interrotto una sbornia protrattasi per lungo tempo. Si preannuncia con ansia e insonnia, dopodiché compaiono allucinazioni che possono essere visive o uditive. Alcuni vedono delle strane figure in movimento, mostri, animali. Altri invece sentono delle voci che li insultano, minacciano, umiliano, accusano oppure dicono loro di fare certe cose, per esempio ammazzarsi, oppure impugnare un’ascia e tranciarsi una mano».

Il numero di suicidi è spaventosamente alto se non è il freddo a porre fine a tante vite insoddisfatte.

È evidente sin dalle prime pagine di che sangue grondi l’inossidabile potenza Russa.

Procedendo per microstorie e interviste, come fece l’illustre predecessore Ryszard Kapuscinski, Bader racconta le vite degli hippies moscoviti, dei superstiti dei vecchi manicomi e dei rapper, riceve consiglio a Mosca sulla condotta da tenere in viaggio (non fidarsi di nessuno in pratica), trascorre giorni in incognito con i senzatetto, si scontra con la sottaciuta realtà tragica della tossicodipendenza e dei sieropositivi: «L’epidemia raggiunse il suo picco nel 2001, l’anno in cui vennero registrati ufficialmente ottantasettemila nuovi casi di contagio. La Russia di allora era vista nel mondo come una seconda Africa».

Incontra e intervista l’inventore del kalashnikov e il suo ritratto stride grottescamente con la morte e la violenza scatenata dall’uso della sua invenzione: «minuto, con le ciabatte ai piedi, se ne sta in un angolino accanto al pianoforte».

A Vissarion conosce l’Insegnante attorno a cui si raccoglie una comunità di persone che non bevono, non fumano e credono che lui sia il nuovo Messia. E poi ancora si imbatte in sciamani nella regione della Tuva.

Sono tutti personaggi che sembrano usciti dalle pagine di Dostoevskij, turbati e disorientati di fronte ai propri sentimenti e dai pensieri contorti e inquieti, confusi nella loro marginalità.

Nonostante il freddo, le difficoltà (più volte il jeeppone lo lascerà in panne) e l’indifferenza e diffidenza della gente indigena, Jacek arriverà a destinazione sano e salvo, svelandoci il volto più drammatico e seppellito di uno dei Paesi politicamente più controversi del mondo, per molto tempo e ancora oggi vite di regolazione degli avvenimenti internazionali.

Febbre bianca è un invito a guardare quella parte di mondo senza alibi e pregiudizi, sicuri che nulla è come appare.

(Jacek Hugo-Bader, Febbre bianca, trad. di Marzena Borejzuc, Keller 2014, pp. 320, euro 16,50)