“Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I” di Francis Lawrence

Siamo arrivati al capitolo finale della saga di Hunger Games. O meglio, alla prima parte del capitolo finale, di quel Canto della rivolta che si inizia a levare su Capitol City e che porterà alla guerra tra i dodici distretti e il governo del presidente Snow.

Dopo essere sopravvissuta alla settentacinquesima edizione dei giochi, quella speciale, celebrativa dei grandi vincitori, Katniss Everdeen ha scoperto l’esistenza di un movimento di ribellione contro Capitol City che ha la propria sede nel Distretto tredici che tutti credevano distrutto. Esiste ancora, solo che è costruito sotto terra per nascondersi agli occhi del governo. È lì che la ribellione si organizza e si arma. Katniss è chiamata a diventare la ghiandaia imitatrice, l’uccello di cui porta la spilla in grado di replicare e diffondere all’infinito ogni suono che sente, per incendiare gli animi degli abitanti dei distretti contro la capitale e ribaltare finalmente Snow. Solo che Katniss ha il cuore e la mente occupati da Peeta, da cui si è separata nel convulso epilogo degli ultimi giochi e che vede riapparire in televisione come portavoce del governo per un immediato cessate il fuoco dei ribelli.

Bisognerebbe fare qualcosa per bloccare la deriva che sta prendendo il cinema negli ultimi anni. Va fatto un distinguo, essenziale: le serie tv sono una cosa, i film un’altra. Il concetto di cliffhanger – la creazione di una tensione narrativa che culmina nell’attesa di uno sviluppo in un momento successivo – è stato radicalizzato sempre di più fino a diventare insopportabile. Ormai, dividere l’ultimo capitolo di una saga cinematografica in due parti è una prassi consolidata. Ha iniziato Harry Potter con i due film dei Doni della morte, ha proseguito Twilight con Breaking Dawn uno e due. Ora ci casca pure Hunger Games (e nei prossimi anni, stando alle dichiarazioni ufficiali Marvel, sarà la volta degli Avengers per la Infinity War). È un meccanismo che si può applicare alla televisione, quello della divisione in due, o più, parti. In fondo si tratta di aspettare una settimana, al massimo due, nella peggiore delle ipotesi sei mesi, se è un finale di stagione, per sapere come si risolverà il sospeso. Al cinema no, funziona in un altro modo.

È chiaro, l’interesse degli studios è rivolto esclusivamente agli incassi, quindi raddoppiare un film rappresenta un automatico raddoppio delle entrate, ma l’artificio dell’attesa costruita a tavolino compromette, in modo inevitabile e indelebile, la tenuta narrativa di Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I.

In questo primo-ultimo capitolo non succede niente di sostanziale se non negli ultimi dieci minuti, questo è il tasto dolente. Tutto quanto il film è costruito per aumentare l’attesa della conclusione, della battaglia definitiva che si terrà nella seconda parte e che non sarà nelle sale prima del novembre 2015.

La saga di Hunger Games aveva stupito sin dal suo apparire cinematografico per la capacità di coniugare l’intrattenimento dello spettacolo con una riflessione a diversi gradi su vari aspetti della società contemporanea, mostrando tutta la forza dei romanzi di Suzanne Collins. Attraverso il ricorso all’espediente del futuro distopico, Hunger Games e La ragazza di fuoco (il secondo capitolo) analizzavano il ruolo dei media nella società, la spettacolarizzazione di qualsiasi momento della vita, anche il massacro di adolescenti, a uso e consumo del pubblico televisivo. Si spingevano poi a un livello superiore, ossia la creazione di verità posticce da parte dell’informazione e la manipolazione che il potere è in grado di esercitare sulle masse attraverso l’intrattenimento, in nome del panem et circensem insegnato da Roma.

Nel Canto della rivolta parte I la riflessione sulla comunicazione prosegue, ma sottotraccia. Nella base dei ribelli Katniss diventa strumento pubblico per animare il popolo contro Snow. Anche al Distretto tredici le cose funzionano in base a una forte gerarchia alla cui cima c’è la presidente Coin (Julianne Moore, nuova entrata della saga, che appare molto poco coinvolta in quello che fa). Al suo fianco si muove e tesse Plutarch (Phillip Seymour Hoffman nella sua ultima – ennesima – interpretazione), l’esperto di comunicazione che aveva già affiancato Snow come infiltrato e che ora è chiamato a costruire la mitologia di Katniss. I ribelli la sfruttano, la mandano in giro sempre seguita da una troupe televisiva che riprende tutto quello che fa e dice, che cerca lo spot perfetto per la rivoluzione. Dall’altra parte, Capitol City fa leva invece sull’altra metà dell’amore pubblico, Peeta, portato in città direttamente dall’arena dei giochi, per convincere il popolo che ribellarsi è inutile, che tutto va bene, che tutto è giusto. Sono due forme diverse di manipolazione. Una, quella del governo, basata sulla costruzione di un’immagine rassicurante di ordine e pace, con gli studi televisivi e le luci, gli abiti eleganti e i sorrisi, l’altra, quella dei ribelli, che si immerge nella morte e nel sangue, che fa vedere i bombardamenti e le lacrime vere dell’orrore. Il tutto a uso di telecamera.

Lo scontro tra le due fazioni si consuma, in questa prima parte, su uno scenario indiretto, quello della comunicazione. A mancare, infatti, è soprattutto l’elemento dell’azione, il fuoco della rivoluzione che viene riservato alla seconda parte. Senza il punto forte della battaglia per la sopravvivenza nell’arena che aveva fatto la forza dei primi due capitoli, questa prima parte di Il canto della rivolta non può contare sullo spettacolo ma solo sulla costruzione delle premesse dello scontro finale. Tutto quello che succede, quello che dicono, non è nient’altro che accumulo.

Del resto, anche la Katniss di Jennifer Lawrence brucia solo a momenti, preoccupandosi soprattutto di piangere per mostrarsi straziata e vulnerabile, prima di tornare a usare il suo arco. Katniss è combattuta tra la preoccupazione per Peeta e l’odio per Snow. Questo è il filo conduttore del Canto della rivolta – Parte I, che viene tirato all’inverosimile in inutili ripetizioni. L’effetto cliffhanger è stato ottenuto. A rimetterci è stato il film.

(Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I, di Francis Lawrence, 2014, fantascienza, 123’)

“Teoria idraulica delle famiglie”:
a tu per tu con Elisa Casseri

Sentimenti che scorrono come acqua nelle tubature di una vecchia casa, dove le emozioni si sedimentano come il calcare e ostruiscono le condutture che dovrebbero innaffiare un albero genealogico di una complessa famiglia fatta di persone che portano nomi di fiori.

Il romanzo d’esordio di Elisa Casseri, Teoria idraulica delle famiglie (Elliot, 2014) parla un po’ di questo, un po’ di ritorni a casa e di problemi irrisolti, ma anche di parole (s)composte, delle persone minuscolemaiuscole che entrano a far parte della nostra vita e del modo in cui i pensieri possono riempirci fino a farci traboccare. In quell’intricato gomitolo di affetti, sbagli, ansie e contraddizioni che è la sua famiglia, Iris è il recipiente nel quale si raccoglie ogni cosa, dove ogni problema può, forse, trovare comprensione, o almeno un rifugio temporaneo.

Le parole che ci conducono attraverso la storia di questa famiglia imperfetta appartengono a una lingua nuova, dove con una «chirurgia quasi fisica» vengono sezionate, studiate e cucite tra loro in un singolare, rifinito disegno, che trova nelle pagine di questo romanzo una compiutezza, a modo suo, perfetta: «Ti avrei insegnato a dire “compiutezza”, che è una parola che contiene tutte le vocali, ti avrei spiegato che non potevi non saperla. E poi ci sono due zeta: “Chissà quando ti ricapiterà di usare due zeta” avrei aggiunto».

Dopo essere riemersa dalle pagine sottolineate di fresco di Teoria idraulica delle famiglie decido di fare qualche domanda a Elisa Casseri, che qualcuno di voi forse ha già conosciuto leggendo il suo racconto “La geometria della notte”, apparso sul numero zero di effe – Periodico di Altre Narratività.

Una laurea in materie scientifiche ma un lavoro incentrato sulle parole e sui libri, un trasferimento da una piccola realtà all’enormità di Roma, un linguaggio, per certi versi, molto “ingegneristico”. Quanto c’è di Elisa nella protagonista Iris?

Come dice il mio amico Alessio Trabacchini: la grappa non si ricorda dell’alambicco o della vinaccia, la grappa quando diventa grappa è solamente grappa. La percentuale di Elisa presente in Iris è stata distillata, separata, purificata, filtrata attraverso un immaginario che è mio, ma che è stato messo al servizio di Iris.

La laurea, le parole, la provincia ci sono perché mi servivano a raccontare la storia che volevo raccontare. Per quanto riguarda la lingua, invece, quella non sarebbe esistita se non ci fossero stati gli anni di Ingegneria tra i romanzi che ho letto, le persone incontrate, i ricordi famigliari e le storie inventate; durante quegli anni la mia voce si è riempita di tramogge, rullette e reazioni vincolari.

E se queste cose fanno la vinaccia del processo alcolico che ha fatto nascere il libro e Iris è la grappa che ne è venuta fuori, a me rimane il ruolo dell’alambicco, che è, in pratica, un contenitore.

Questa è la cosa che io e Iris avremo sempre in comune: siamo entrambe dei contenitori collegati a valvole di ritegno, siamo entrambe sempre sul punto di tracimare.

Come scrivi a un certo punto, nella nostra esistenza ci sono persone maiuscole e minuscole, e dei parametri per distinguerle. Sono persone identificate dal corsivo. Nel tuo romanzo la struttura del linguaggio sembra spesso un modo per razionalizzare gli eventi della vita e tentare di risolvere le difficoltà. Pensi che nella “vita reale” questa tecnica possa funzionare?

Non credo possa funzionare, no. E, infatti, alla fine dei conti, non funziona nemmeno nel romanzo. Non c’è nessuna tecnica, nessuna razionalizzazione, nessuna scappatoia: le persone arrivano nella tua vita e sono lì, che tu lo voglia o no; le cose che ti succedono senza premeditazione non sono sempre sbagliate così come quelle che fai succedere tu non sono sempre giuste; la verità è funzione del tempo, non è assoluta, non è stabile, si cambia i connotati.

Teoria idraulica delle famiglie, infatti, non è un romanzo di formazione, ma un romanzo di deformazione. Iris si deforma per cercare di liberarsi; e come lei, anche Ortensio, Margherita, Verbena, Miriam, Flora, Giovanni, Luigi e tutti gli altri affrontano le loro persone maiuscole, le minuscole, il corsivo di alcuni sentimenti e la cancellatura di altri.

«Le parole non sono un tentativo, sono una tentazione», scrivi a un certo punto, proprio quando Iris si appresta a riscrivere per nonno Giovanni un documento privo di valore legale ma ricco di valore affettivo. Ci dici qualcosa in più su questa “tentazione”?

Il nonno di Iris, Giovanni, ha un terreno che per lui è un rifugio, ma quel terreno non gli appartiene legalmente, gli è stato donato da Mancini Pasquale in seguito a una scommessa su chi dei due sarebbe riuscito a sposare Flora, la nonna di Iris. Giovanni ha paura che Mancini Pasquale torni sulla sua decisione o che qualche erede, dopo la sua morte, arrivi a reclamare quel pezzo di terra, quindi, non appena Iris impara a scrivere, inizia a farle redigere dei finti atti di vendita.

Nelle pagine in cui è presente quella frase, Iris e suo nonno sono in campagna, proprio nel terreno di Mancini Pasquale: lei è appena tornata a casa e lui sa che le serve un punto di partenza, un appiglio da cui iniziare a districare le cose, quindi fa la punta a una matita e le dice «Scrivi», riferendosi all’atto di vendita. Anzi le dice: «Riscrivi».

Le parole sono per Iris quello che per suo nonno è quel terreno: un rifugio; le possiede, anche se non le appartengono legalmente. Nonno Giovanni le dà la matita per offrirle una possibilità, per farle fare un tentativo, ma lei ha paura di trasformarlo in una scappatoia, in un atto finto, nello stesso nascondiglio di sempre. In quel momento, per lei, le parole sono una tentazione.

C’è una figura costante nei pensieri e nella vita di Iris: quella di zia Petunia, che muore ogni volta in un modo diverso. La sua quasi-presenza lascia tante cose in sospeso: Ci racconti qualcosa su questo personaggio e sui significati che gli hai attribuito?

Zia Petunia ha due funzioni in questa storia.

Innanzitutto è la rappresentazione fisica del dolore di Iris: muore tutte le volte che lei soffre. Esiste e non esiste, è consolatoria o devastante, a volte si ingegna per morire e altre volte si abbandona alla morte: ha l’ambivalenza del dolore.

Ma, oltre a morire, zia Petunia risorge. Risorge tutte le volte perché, se non ci fosse quella resurrezione, non potrebbe tornare a morire: segnando i limiti della sofferenza, diventa anche un personaggio di speranza.

In secondo luogo, zia Petunia racconta la nascita dell’immaginario di Iris: a partire da un ricordo famigliare confuso e mistificato, da una zia che non si sa se è realmente vissuta, Iris crea una persona, un personaggio che esiste solo se lei lo immagina, solo se lei lo racconta.

Riprendendo l’esempio della distillazione: zia Petunia è la grappa di cui Iris è l’alambicco.

Tornando a Iris, questo è anche il tuo nome d’arte (nonché voce fuori campo) nel tuo blog Memorie di una bevitrice di Estathè, dove c’è molto di te ma anche qualche traccia della Iris del libro. Che progetti hai per Iris? Continuerà ad essere protagonista della tua scrittura?

Ho conosciuto una Iris, una volta, la nonna di un mio ex fidanzato: era stata una donna attivissima, in gioventù, ma quando l’ho incontrata io, si era stancata di tutto, non faceva altro che stare seduta nella cucina di sua figlia a leggere. Leggeva e rileggeva. E basta.

«Mi spiace che ci siamo conosciute così tardi», mi ha detto, per giustificarsi del fatto che non mi dedicava alcun tipo di attenzione.

Mi ha colpito così tanto che mi sono rubata quel nome e l’ho dato alla mia protagonista (era il 2011 quando ho iniziato a scrivere il libro).

Quando poi, nel 2012, a Scritture Giovani Cantiere del Festivaletteratura di Mantova, io e gli altri aspiranti scrittori selezionati abbiamo deciso di aprire un blog (La banda della tisana), la regola era che dovevamo avere nomi di erbe. Non potevo che essere Iris Versicolor.

Sono diventata subito molto produttiva, forse troppo, quindi mi sono trasferita in un altro spazio, solo mio, una specie di spin off (infatti il nome completo è Memorie di una bevitrice di Estathè. Come sono diventata il Giuda degli apostoli della Tisana). Il blog è un blog umoristico che racconta la mia vita vera, quella goffa e divertente, quella che non finirà mai in nessun romanzo.

Iris e Iris Versicolor non sono la stessa persona, ma sono entrambe molto attive all’interno della mia vita: non so che fine faranno, che fine faremo, so solo che, almeno loro, le ho conosciute quando non era ancora troppo tardi.

(Elisa Casseri, Teoria idraulica delle famiglie, elliot, 2014, pp. 250, 16,50 euro)

“My Old Lady” di Israel Horovitz

Si può essere degli esordienti a settantacinque anni. È successo a Israel Horovitz, che in carriera ha vinto premi su premi come drammaturgo, regista teatrale e sceneggiatore. Nel corso della sua carriera vicino e lontano da Broadway ha fatto calcare il palcoscenico a gente come Al Pacino e Diane Keaton. Nel 2002 aveva già provato a mettersi dietro la macchina da presa con il documentario 3 Weeks After Paradise, di cui era stato anche protagonista raccontando le conseguenze dell’undici settembre sulla sua famiglia. Ora torna con My Old Lady, con cui porta sul grande schermo una sua pièce del 2002.

Mathias è un quasi sessantenne spiantato che lascia New York per Parigi al seguito di un’eredità. Suo padre, con cui aveva interrotto i rapporti da anni, è morto e gli ha lasciato un sontuoso appartamento nella capitale francese. In verità, Mathias non ha alcuna intenzione di trasferirsi in Francia. Vuole solo liquidarsi della casa e tornare negli Stati Uniti con l’incasso. Quello che non sa, però, è che l’appartamento è vincolato da un contratto viager che il padre aveva stretto con la proprietaria – una raffinata signora di novantadue anni di nome Mathilde – quasi cinquant’anni prima. In sostanza, non potrà vendere niente finché la signora Mathilde sarà ancora in vita. Anzi: dovrà corrisponderle una rendita mensile di più di duemila euro, e lasciarla vivere in casa, insieme alla figlia sessantenne iper-protettiva. Niente soldi, quindi, ma debiti. Mathias è deciso a trovare comunque il modo di liberarsi della casa e delle donne, ma la convivenza coatta si rivelerà un’occasione per capire tante cose rimaste in dubbio nella sua vita.

Un contratto viager è una possibilità del diritto francese (prevista anche nel codice civile italiano) che consente la compravendita di immobili a un prezzo avvantaggiato rispetto al reale valore del bene in cambio di una rendita vitalizia riconosciuta al venditore, che mantiene il diritto a vivere nella casa venduta. È simile alla nuda proprietà, solo che comporta anche un’esborso dilazionato nel tempo, oltre all’usufrutto dell’immobile. È quindi su una tipologia di contratto che Horovitz basa il suo esordio al cinema.

Il pretesto della condivisione obbligata dalla legge di una casa è stato già sfruttato altre volte (nel 2003 nello statunitense Duplex, di Danny De Vito, mentre nel 1997 venne realizzato per la televisione italiana e francese Nuda proprietà vendesi, con Lino Banfi e Alessandro Gassmann). Horovitz però accantona presto l’elemento della coabitazione per concentrarsi su quello che è il vero tema di My Old Lady, che ha vedere con il tempo e il rapporto che si ha con esso, con l’eco dell’infanzia sulla vita adulta e sulle conseguenze delle scelte dei padri e delle madri sulla vita dei figli.

Mathilde conosceva molto bene il padre di Mathias, quello stesso padre di cui Mathias aveva sempre patito la mancanza, che lo ha reso insicuro e fragile, incapace di costruirsi una vita, con tre matrimoni falliti, uno per ogni romanzo che gli è stato respinto nei suoi tentativi di definirsi come scrittore. Nei ricordi della donna, Mathias non può riconoscere l’uomo che si è trovato costretto a odiare per sopravvivere. Il padre aveva una vita sospesa a Parigi, una potenziale alternativa che la famiglia newyorkese non ha mai fatto sbocciare, e lasciando la casa al figlio ha fatto un tentativo post-mortem di farla finalmente partire.

Quella casa di cui Mathias vuole liberarsi diventa il legame più autentico, nel suo valore simbolico, con un passato che gli è sempre stato mostrato solo in parte, nascosto dietro a bugie e verità negate.

Kevin Kline, Maggie Smith e Kristin Scott Thomas sono tre attori straordinari. Soprattutto Lline riesce a essere brillante e drammatico insieme, repellente e fragile in quella Parigi in cui quasi vent’anni fa era stato mattatore assoluto in French Kiss, con Meg Ryan. Sono loro tre, con le loro dinamiche relazionali, a reggere un film che risente molto dell’impianto teatrale originale nei dialoghi e nella struttura narrativa, con una netta prevalenza degli interni, soprattutto quelli domestici. È in questa dimensione, quella dialogica, che Horovitz ha modo di mostrare tutta la maestria maturata a teatro. È quando si confronta con il mezzo cinematografico puro che fatica a trovare un equilibrio. C’è una netta cesura tra la prima parte di My Old Lady, venata di commedia, e la seconda che si immerge nel dramma, senza una sfumatura graduale che accompagni. Alle prese con un mezzo nuovo, Horovitz fatica ad adattarsi non riuscendo ad appropriarsene.

C’è un pezzo del Don Giovanni di Mozart che Mathias/Kline ascolta passeggiando lungo la Senna da una cantante che si esercita, e che nel finale finisce per cantare anche lui: «Andiam, andiamo mio bene / a ristorar le pene / D’un innocente amor». C’è tutto il senso di My Old Lady.

(My Old Lady, di Israel Horovitz, 2014, commedia, 106’)

“Oltre il fiume”
di J.R. Moehringer

Francois Mauriac affermava che «uno scrittore è essenzialmente un uomo che non si rassegna alla solitudine». Può darsi. È probabile che la fantasia serva principalmente a farcire le cavità più feroci. A imbandire pareti sempre troppo bianche. A inventarsi compagnie di ogni peso e dialetto. Ma è bello anche immaginarlo un po’ diverso. Berretto accanito, stivali al petrolio e stagione della caccia. Spugnato nel suo pantano. Efferato e morboso. Perché un narratore in fondo è anche un vampiro di storie. Ne annusa il sangue a distanza, s’invaghisce del collo indifeso e si abbevera fino a saziarsi. Un tempo asciutto, ristretto come un sorso.

Finché la sete non torna a pulsare. J.R. Moehringer evidentemente ha la gola secca. Oppure in cerca di amici. In effetti è soltanto una traduzione del bisogno. Quello che è certo è che gli basta captare un sussulto, un sibilo anemico, una piccola scatola di fatti per non sentirsi più solo. O appunto, per reclamare il suo quarto di plasma. Per chi non lo conoscesse ancora, basta ritrovarsi fra le mani Open, formalmente firmato da Andre Agassi e dai rovesci delle sue vicende. Dove, neanche troppo imbucato, c’è lui come gran burattinaio. Risultato avvincente, molto più di un doppio. Troppo per non procedere, con il suo libro migliore, Il bar delle grandi speranze e poi con Pieno giorno.

Per ultimo in Italia, sbarca Oltre il fiume (Piemme, 2014). Sgorgato più di dieci anni fa e non come un mero processo creativo, ma da un’inchiesta giornalistica. All’epoca Moehringer lavorava come corrispondente da Atlanta per il Los Angeles Times e per due anni ha infilato pancia e occhi in una delle comunità più oscure e dimenticate d’America, Gee’s Band, villaggio di neri leccato quasi per intero dal fiume Alabama. Una penisola semplice, una bolla di tempi immobili, dove il corso d’acqua è più del suo getto. Fa e smatassa, stritola e accarezza. Accudisce e castiga. Accorpa a divide. Gee’s Band resta un rettangolo di «terra color caramello», lontano dai bianchi clamori di cui diffidare. Mary Lee lo sa bene. Sa che il suo era un posto di schiavi e sa che il loro sudore è servito a realizzare il miracolo. O la rivoluzione. O la svolta necessaria, scegliete voi. Riscattare tutte le schiene dimesse, le vite incurvate. Reclamare quell’angolo e farsi padroni. E battezzare la vittoria con i propri nomi. La sua è gente orgogliosa e combattiva, gente con la pelle notturna e la pazienza sempre in tasca.

È lei il filo narrante di tutto quel popolo, lei che aspetta un traghetto, il solo mezzo capace di trapassare il fiume, di spingersi oltre. Verso altro, verso fuori, verso il distretto di Occidente da cui quello stesso fiume lo ha sempre protetto, da madre preoccupata che i figli si accorgano del mondo e lo trovino attraente. Un traghetto per evolversi, per velocizzarsi, ma anche per mescolarsi al resto, adulterarsi. Per sentirsi minacciati da un’opportunità. In questo dilemma la presenza di Mary Lee è una voce portante. Stanca e inossidabile. Pacata e ferma, percossa ma non piegata. Una quercia con addosso figli (morti e vivi),nipoti e parenti malati. Anche lei lo è, ma non per questo decide di fermarsi. Anche lei è come il suo fiume. Procede malgrado i detriti e poi scava altre strade anche grazie a loro. Ha tanto da dire Mary Lee. Sessant’anni di spine. Le sue gravidanze, la sua minuscola compatta esistenza, la luce nel fiato di Martin Luther King, un uomo in cui credere per sentirsi uguali. E liberi.

Grandina di aneddoti questo romanzo-verità. Un’enclave nascosta ed il suo polso di sforzi., ed è tutto ospitato nel tenue ripostiglio di appena ottanta pagine. Stampate a caratteri abbondanti. Un’inchiesta in cui il giornalista ha lasciato il posto allo scrittore. Alla sua fame di eventi, alla sua comitiva di storie. Impugnando una lingua breve e profonda. Immagini limpide e coraggiose. Nient’altro da aggiungere. Non servirebbe.

(J.R. Moehringer, Oltre il fiume, trad. di Giovanni Zucca, Piemme, 2014, pp. 96, euro 10)

“Favola selvaggia”
di César Vallejo

Balta e Adelaida sono una coppia d’altri tempi, apparentemente felice e spensierata: giovani e nel pieno di un amore ancora nuovo, vivono in una fattoria alle pendici delle Ande peruviane. Questo il preambolo al racconto Favola selvaggia, recentemente pubblicato da Arcoiris che propone il recupero di un altro classico della letteratura latinoamericana fino a questo momento sfuggito all’editoria locale: César Vallejo, amatissimo poeta e giornalista peruviano, tra gli intellettuali più significativi del primo Novecento in America Latina.

E solo di preambolo si tratta, poiché basta addentrarsi di poche pagine nella lettura per essere immediatamente catapultati in una storia tutt’altro che serena e lineare.

Una mattina Balta guarda il suo riflesso in uno specchio e nulla di ciò che lo circonda è più come prima. Non è solo: un’ombra si riflette nello specchio oltre il suo volto, un baleno e qualcuno – qualcosa – lo sta osservando. E basta questo, a fare di una premessa felice una storia tragica. Basta questo a instillare nella mente di un uomo la persecuzione.

Gli elementi del racconto sono pochi, immagini-simbolo di un presagio funesto: un specchio rotto, un temporale che impazza per una notte intera, il canto lagnoso e inquietante di una gallina. Dopo quell’episodio fugace Balta non è più lo stesso: il sospetto, il terrore, si insinuano in lui, andando a minare – lentamente ma con precisione, come piogga battente sulle rocce – la sua vita quotidiana, e soprattutto l’amore per Adelaida. È forse il suo amante la misteriosa figura che si fa beffe di lui nello specchio?

La perplessità del protagonista va di pari passo a quella del lettore, ed è riflessa, e magistralmente descritta, nella natura circostante, che si fa astiosa, provocatoria, inquieta e inquietante, ergendosi a ulteriore personaggio al corrente dei fatti: un albero di canfora, testimone immobile ma vivo, racconta nei suoi mutamenti una versione parallela della storia, in un gioco di riflessi reali e metaletterari che è il vero fascino del racconto.

È con un linguaggio estremamente evocativo e lirico che Vallejo descrive il lugubre insinuarsi della gelosia e della paura nella mente di Balta, il suo progressivo chiudersi al mondo, l’ira e la debolezza con cui affronta la lenta distruzione in cui trascina la sua vita.

La prosa satura di immagini di Vallejo ci trasporta verso una conclusione oscura, tersa di disperazione, che ricorda a certi racconti di Poe, in cui l’atmosfera soprannaturale non è altro che un pericoloso affacciarsi sugli abissi della mente umana.

(César Vallejo, Favola selvaggia, trad. di Raul Schenardi, Arcoiris, 2014, pp. 74, euro 8,50)

“Un giorno triste così felice”
di Lorenzo Iervolino

Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto o Doutor, o Magrão, per il suo fisico esile, è stato un calciatore brasiliano di importanza fondamentale nel suo paese. In Europa lo si conosce meno, o piuttosto lo si conosce male. Arrivò alla Fiorentina nel 1984, fece molto poco per farsi notare in positivo (si parlava delle sue birre e del suo ritardo di condizione, soprattutto) in una stagione in cui la Viola provava a tutti i costi a fare un grande campionato. Il brasiliano era stato preso per sostituire l’infortunato Giancarlo Antonioni, capitano e simbolo della città, più che della squadra. Non ci riuscì. Segnò poco, solo sei gol, appariva lento, fuori forma, distante dal calcio europeo. Aveva un contratto di due anni, rimase per uno solo. Si parlò di saudade, quella nostalgia sottile che prende i calciatori brasiliani lontani dal loro paese, costretti in gabbie dorate dall’altra parte dell’Oceano. La verità è un po’ più complessa. Perché Sócrates nel suo paese è stato molto di più di un calciatore. È stato l’incarnazione della possibilità di un cambiamento, di un nuovo modo di intendere lo sport e la condizione di atleta che andava oltre il semplice momento calcistico per arrivare a una rivalutazione del ruolo dell’individuo della società. Perché Sócrates, oltre che un calciatore e più che un calciatore, è stato un leader politico senza mai fare direttamente politica, un filosofo senza mai aver studiato filosofia, un pensatore con il pallone tra i piedi. È su questa dimensione extra-calcistica che si concentra Lorenzo Iervolino in Un giorno triste così felice (66thand2nd, 2014), un viaggio nella vita di un rivoluzionario, come recita il sottotitolo, perché Sócrates, a vari livelli, è stato soprattutto una novità, per il calcio e per un intero paese.

Un caso unico, il Magrão, ed era evidente fin dal nome, scelto dal padre, semplice impiegato pubblico con la passione per i libri, colpito dal Socrate della Repubblica di Platone. È il primo punto di un percorso lineare di anomalie. Fedele al fondamento del gnòthi seautòn del suo illustre omonimo, della conoscenza di sé come punto di partenza per la conoscenza del mondo, Sócrates ha la forza, giovanissimo, diciassettenne, di preferire gli studi di medicina al calcio, di imporre le proprie condizioni al Botafogo che lo fa esordire per avere il tempo per preparare gli esami.

«È stato il calciatore più intelligente della storia del calcio brasiliano», dirà di lui anni dopo Pelé, uno che qualcosa vale, nella storia del calcio mondiale. Perché Sócrates ha sorpreso sempre tutti per la capacità di vedere oltre la condizione di gioco pura e semplice. I suoi passaggi, le sue giocate, l’uso del tacco, appartenevano a un’altra dimensione calcistica perché erano l’espressione di un’intelligenza che andava oltre il campo da gioco e diventava sociale, politica. Sin da quando, poco più che bambino, vede suo padre nel cortile di casa bruciare dei libri diventati pericolosi con la nuova dittatura militare (è il 1964), Sócrates capisce che il mondo è altro rispetto al pallone e che il pallone deve essere parte di quell’altro. È con questa idea in testa che negli anni al Corinthians, i migliori e i più importanti della sua carriera, dà inizio a un esperimento di auto-organizzazione con i suoi compagni e la società sportiva per promuovere una nuova idea di calcio, non più basata su un’organizzazione gerarchica ma più vicina a un modello cooperativo. Ognuno ha un voto, ognuno partecipa alle decisioni, dal presidente al magazziniere. Non c’era solo Sócrates. C’era un direttore tecnico che si era formato come sociologo, Adìlson Monteiro Alves, e una serie di giocatori, come Casagrande e Biro Biro, pronti a seguire sempre Sócrates. Un’idea di maggiore potere decisionale per i giocatori e allo stesso tempo maggiore libertà. Vivere il calcio lontano dai vincoli dell’organizzazione in ritiri e allenamenti, senza il rigore di una vita di rinunce, e allo stesso tempo viverlo con un’attitudine nuova, pronta a partecipare a ciò che è importante per il paese, schierandosi in campo con maglie e striscioni che chiamavano il popolo brasiliano a votare, a opporsi alla dittatura rimanendo all’interno degli scarsi margini democratici concessi dal governo del generale Figuereido.

Dividendo il suo racconto in tre parti – Era presocratica: l’era degli dei; Era socratica: l’era democratica; Era postsocratica: l’era degli uomini –, Iervolino percorre la parabola calcistica di Sócrates dando spazio, soprattutto, agli anni corinthiani, mantenendo al margine anche la nazionale, di cui il Doutour è stato capitano in due mondiali, quelli dell’82 – in cui componeva un centrocampo micidiale con Zico, Falcão e Toninho Cerezo – e dell’86, per mettere in mostra soprattutto l’importanza extra-calcistica del personaggio, che in quegli anni raggiunse il punto più alto. Lo fa alternando la narrazione romanzata di momenti chiave della vita e della carriera di Sócrates con le interviste e le ricerche che ha svolto direttamente in Brasile e a Firenze, cercando tracce del Doutour tra le persone che lo avevano incontrato, anche solo per poco tempo. Ha fatto un lavoro di ricerca enorme, Iervolino, dettagliato e minuzioso, che non si appesantisce, però, dei connotati della biografia pura e semplice ma riesce a creare un incrocio di generi letterari, di finzione e documento. A tratti, rasenta l’agiografia nell’esaltazione di un personaggio che si è lasciato morire d’alcol, che in Italia ha fallito in primo luogo perché non all’altezza di un campionato ben più impegnativo di quello brasiliano, ma è la partecipazione emotiva per un racconto sentito, per un calcio impossibile che per qualche anno si è realizzato.

Nel 1983 Sócrates disse che sarebbe voluto morire il giorno in cui il Corinthians avrebbe vinto il titolo nazionale, il Brasileirão. È successo il 4 dicembre del 2011.

(Lorenzo Iervolino, Un giorno triste così felice, 66thand2nd, 2014, pp. 352, euro 17)

“L’Istituto per la Regolazione degli Orologi”
di Ahmet Hamdi Tanpinar

Il narratore che finge di non avere nessun talento per le lettere  («non mi piace né leggere né scrivere, eppure questa mattina, seduto davanti a un grande quaderno, sto cercando di mettere nero su bianco le mie memorie»), che scrive mosso da una necessità ineludibile (recuperare i fili della propria vita e rendere omaggio a – e riscattarlo da brutte calunnie – un uomo morto da poco che gliel’ha cambiata), e che parla di sé come di un essere senza alcuna importanza («non crediate che io abbia sopravvalutato la mia vita, che abbia pensato che valesse la pena fosse raccontata») – ecco uno stratagemma che quando è utilizzato da uno scrittore sagace, ossia capace di mimetizzarsi davvero con il suo personaggio, può sortire effetti molto interessanti. Specie sul versante comico – cosa che succede con L’Istituto per la Regolazione degli Orologi, romanzo del 1962 (ma pubblicato a puntate già alcuni anni prima) del tutto ignoto al pubblico italiano e per la prima volta tradotto da noi (per Einaudi da Fabio Salomoni).

L’autore si chiama(va) Ahmet Hamdi Tanpinar e, a detta di Orhan Pamuk, si tratta dello scrittore più importante della letteratura turca moderna. Il personaggio da lui inventato, un povero cristo che si definisce docile e mite, è stato impiegato per una vita nell’Istituto di cui sopra, un lavoro ricco di singolari implicazioni, non solo pratiche e sociali ma giocoforza speculative, tali da dare origine a una più caustica riflessione sul tema del Tempo, non priva di elementi metafisici. Niente a che vedere con la temperatura e la tonalità di un Proust o di Heidegger beninteso, e anzi incline a prendersi gioco delle grandi trattazioni, Tanpinar tuttavia insinua nel romanzo un tema gigantesco, a partire dall’occupazione del suo personaggio, Hayri Irdal, e dello strano ente in cui lavora. Nell’istituto si scrivono sugli orologi e dunque sul tempo saggi, articoli, libri che trattano la faccenda da vari punti di vista, compresa una Psicoanalisi dell’orologio che il narratore dice di non apprezzare per l’incongruità dei riferimenti alla libido e al sesso salvo beccarsi le punzecchiature della moglie sospettosa che il suo disinteresse derivi da ben altre ragioni. L’altezza filosofica del discorso è insomma messa a dura prova da più strette e contingenti ragioni sociali e domestiche (gestione del quotidiano, organizzazione del lavoro, nessi economici) sicché lo scontro fra le due dimensioni crea di per sé un effetto comico. L’azienda – così a un certo punto la definisce il narratore – fa pagare multe salate a chi non sta in regola col minuto-secondo, specie se in ritardo. Entra così a piene mani nella vita concreta degli abitanti di Istanbul, già ingabbiati in una scansione implacabile delle ore che deriva dall’osservanza dei precetti mussulmani: le cinque preghiere quotidiane, il pasto primo dell’inizio del digiuno, il Ramadan: «l’orologio», scrive il narratore, «era il modo più sicuro di arrivare a Dio». E se la madre vede nella pendola di casa un “Santo”, il giovane Hayri Irdal comprende la portata immensa di un oggetto non qualunque come un orologio quando gliene viene regalato uno dallo zio in occasione della cerimonia di circoncisione: lì, a dieci anni, ha la sensazione di aver perduto la libertà dell’infanzia (ben altra cosa, aggiunge, rispetto a quella politica, altrimenti non si spiegherebbe come mai il popolo turco tenda così facilmente a farne a meno).

Non stupisce che l’Istituto, entrando in maniera invasiva nella vita delle persone, provochi in loro un’attenzione morbosa, il bisogno di una resa dei conti, in cui sarà invischiato proprio il nostro Hayri Irdal – di lì il motore del racconto. La comicità e verve satirica del protagonista non sono di quelle funamboliche, ma guadagnano paradossalmente d’intensità perché, come un malinconico imbranato, il narratore racconta tutto con molta candida serietà. E attraverso il romanzo scorrono davanti al lettore non solo i mille volti di una città inafferrabile come Istanbul, ma la storia turca (e in parte europea) dei primi decenni del secolo passato – lo fa notare nella breve prefazione Andrea Bajani. Un vero grande libro del Novecento che i veri lettori dovrebbero conoscere.

(Tanpınar Ahmet Hamdi, L’Istituto per la Regolazione degli Orologi, trad. di Fabio Salomoni, Einaudi, 2014, pp. 448, euro 22)

“Due giorni, una notte” di Jean-Pierre e Luc Dardenne

Presentato in concorso ufficiale all’ultima edizione del Festival de Cannes, Due giorni, una notte segna il ritorno di Jean-Pierre e Luc Dardenne, cineasti belgi rigorosamente fissati su una precisa idea di cinema che ha portato in passato a due vittorie alla kermesse, nel 1999 con Rosetta e nel 2005 con L’Enfante.

Due giorni e una notte è il tempo che Sandra, sposata e madre di due figli, ha a disposizione per convincere i colleghi dello stabilimento di pannelli solari in cui lavora a rinunciare a un bonus personale di mille euro e farle riottenere il lavoro. Sandra si era dovuta prendere un periodo di aspettativa dopo essere precipitata in una depressione paralizzante. Si sentiva inutile, nonostante l’amore della famiglia e l’amicizia della collega Juliette. Lentamente, a colpi di Xanax, si è rimessa in piedi. Nel frattempo però l’impresa si è resa conto di non avere più fondi per reintegrarla. Gli altri dipendenti sono stati chiamati a una scelta: riaccogliere Sandra nell’organico o ottenere la gratifica. Con l’aiuto di Juliette, Sandra riesce a preparare una nuova votazione dopo che il primo scrutinio era stato influenzato dal capo reparto che aveva fatto capire che l’azienda avrebbe licenziato qualcun altro, se non fosse toccato a lei.

Della coscienza di classe, dell’identità collettiva, dello spirito di unione nella contrapposizione lavoratori contro padroni, nel 2014 della crisi mondiale, nell’era del lavoro flessibile e del precariato, non è rimasto niente. È un messaggio di una brutalità inevitabile quello dei fratelli Dardenne. Il capitalismo contemporaneo ha prodotto un nuovo tipo di scontro, che non è più la lotta di classe di marxiana memoria, ma è lotta di poveri contro poveri, di lavoratori contro lavoratori. Il capo dell’azienda rimette la decisione ai suoi dipendenti senza interessarsi delle conseguenze. Il padrone, la classe dominante, la borghesia capitalistica, chiamatela come vi pare, rimane al di fuori dello scontro, lascia che sia la classe oppressa a risolverlo, a vedersela con se stessa.

È una decisione pilatesca, l’unica possibile però in un momento storico in cui anche il ceto produttivo fatica a mantenersi, in cui la meta ideale dell’impresa non è più il profitto, ma il pareggio di bilancio, schiacciata, oppressa com’è dalla competizione internazionale e dalla manodopera a basso costo. Sandra si ritrova a dover girare porta porta per chiedere a persone che hanno poco di rinunciare a quel poco in più che potrebbero avere per farla tornare a lavorare. Si tratta di gente che nel fine settimana fa altri lavori, in casa o in nero in un supermercato, che aspetta quei mille euro in più per stare a posto con le bollette, per poter fare dei lavori per evitare che frani il giardino.

Nessuno ha votato contro di lei, tutti hanno votato per il bonus. Non è questione personale, è questione di sopravvivenza. Senza alcun tipo di elegia della povertà, di lirismo dell’empatia o della compassione, i fratelli Dardenne descrivono la realtà comune di milioni di persone che non possono più, in nessuno modo, riuscire a guardare oltre la difesa del proprio interesse e dei propri bisogni primari. Lo fanno attraverso la storia di Sandra e per mezzo di una Marion Cotillard perfetta nel non essere mai attrice, ancor prima che diva, nell’immergersi con il corpo e lo spirito in una donna distrutta prima dalla depressione, poi dall’umiliazione di andare a mendicare ciò che è suo di diritto obbligando gli altri a una scelta che lei per prima riconosce come impossibile. Più che parabola di una rinascita, Due giorni, una notte diventa un vero e proprio romanzo di formazione, con Sandra che ricostruisce la propria vita, si mostra prima vulnerabile, arrendevole, pronta ad aggrapparsi al conforto delle medicine e al rifugio sicuro del letto, diventando insopportabile e indifendibile nel suo egoismo di malata che non le fa riconoscere alcun merito al marito, sempre pronto a sostenerla, e a tutti coloro pronti a rinunciare al premio per ciò che è giusto sul piano umano, più che su quello privato, per poi ricostruirsi come persona capace di affrontare le ingiustizie e di rivendicare il valore più importante, quello che la condizione del lavoro a tutti i costi finisce per far dimenticare: la dignità umana.

(Due giorni, una notte, di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014, drammatico, 95’)

“L’arte di andare a passeggio”
di Franz Hessel

«In questi “tempi austeri” raccomando caldamente di andare a passeggio. Non è affatto un piacere specificamente borghese e capitalistico. È anzi un tesoro dei poveri, quasi un loro privilegio».

L’arte di andare a passeggio (Elliot, 2014) di Franz Hessel, padre di Stephane, l’autore del recente pamphlet Indignatevi, così si rivolgeva ai suoi contemporanei.

Se la rivoluzione industriale e l’avvento del capitalismo hanno tolto l’aura all’artista, è pur vero che hanno partorito una delle figure letterarie più affascinanti, portato dei rivolgimenti economici e sociali, il flâneur.

Tra le figure letterarie quella del flâneur è quella che si è distinta dall’Ottocento a oggi per la sua presenza obliqua, inclassificabile dal punto di vista sociale e metamorfica. Al flâneur, parola introdotta dal poeta decadente Charles Baudelaire nella seconda metà dell’Ottocento, è richiesto di immergersi nella metropoli e diventare come un «botanico del marciapiede». Al di là della pregiudiziale etichetta di perdigiorno, come reazione all’alienazione imperante il poeta si vedeva quasi costretto a rifugiarsi in una sorta di eutanasia emotiva che regalava giornate di pochi affanni e nessun altro pensiero. Gli era richiesto di girovagare senza meta e limiti di orari o impegni e osservare i comportamenti come un vero e proprio sociologo o antropologo. Il flâneur è dunque un tipo sociale nato in un determinato contesto e legato in particolar modo alla capitale francese.

L’arte di andare a passeggio è il risultato del bighellonare di Hessel in giro fra case, quartieri e bar che, fingendo di descrivere, orecchiare e registrare, trasfigura. La sua gente di Berlino o Parigi è un piccolo e anomalo microcosmo in implosione. Curiosi e modesti tipi umani, discrete presenze di un mondo indaffarato e mondano, strade e città sono così colti in trasformazione.

In queste sue brevi prose, dal linguaggio semplice e a volte dallo stile favolistico, non c’è intreccio, c’è solo erranza, considerazioni annotate con il lapis in una pausa tra un tempo e l’altro della sua lenta, incessante flânerie.

Figure secondarie e dimesse al limite del grottesco popolano l’immaginario poetico e narrativo hesseliano, ma il vero protagonista dei suoi racconti è il passante solitario.

Il flâneur di Hessel, osservatore critico e distaccato della scena urbana, tenta di decifrare questo spettacolo, mai però compromettendosi e contaminandosi con esso. La sua passeggiata senza meta si oppone al flusso incessante quasi ipnotico della folla. E neppure tenta di dare un ordine al caotico labirinto della città moderna come invece cercava di fare l’amico Walter Benjamin, con cui tradurrà in tedesco due volumi della Recherche di Proust.

Incantano la grazia e il tocco felice e disinvolto di alcune pagine. Se il racconto sta al romanzo come la fotografia a un film, lo stile di questi fotogrammi narrativi fa di Hessel un illustre rappresentante dellakleine Form, ossia di quella prosa breve o minore, proveniente dal giornalismo, di carattere a volte filosofico di grande fortuna negli anni Venti, l’unico capace di raggelare il fluire ininterrotto di impressioni, percezioni del flâneur in folgoranti epifanie.

È però forse il pezzo lungo intitolato “Scuola di preparazione al giornalismo”, dal sottotitolo “Diario parigino”, il vero concentrato delle caratteristiche dell’arte di Hessel. Un ritorno a Parigi durante il primo dopoguerra, alla riscoperta di una città in parte mutata e con l’obbligo di un lavoro giornalistico dall’esito improbabile. Un viaggio nel corpo della capitale francese dettato dai ricordi del tempo che fu e dall’inesorabile impiccio di «dover guadagnar denaro».

“Scuola di preparazione al giornalismo. Diario parigino” si può considerare un manifesto di estetica del camminare metropolitano che coinvolge tutti i sensi, un’esperienza totale.

I testi provengono dalle raccolte Pasta leggermente colorata (1926) ovvio rimando alla leggerezza dei pezzi contenuti nel volume, Epilogo (1929), Esortazioni al piacere (1933). Chiude la raccolta l’ultima prosa pubblicata dallo scrittore prima di sparire definitivamente dalla scena culturale tedesca: “Il facchino di Baghdad” (1933).

Si colgono nella prosa hesseliana delle atmosfere oniriche e soffuse della tradizione favolistica romantica da Brentano a La Motte Fouqué a von Chamisso, agli incantesimi delle Mille e una notte, tanto che proprio l’episodio del Facchino di Baghdad suggella l’attività letteraria di Hessel e diviene un’allegoria della sua poetica, passando per certe forme della mitologia cristallina, essenziale e tascabile di Robert Walser. E una traccia di simili irrisolte premonizioni si ritrova pure in Robert Musil, quando descrive i cortili di Berlino o passa furtivamente in rassegna i caseggiati di Charlottenburg e il Tiergarten.

L’universo poetico di Hessel si compone così strada facendo di oggetti e personaggi proprio come chi, durante la sua passeggiata per la città, si ferma a comprare cianfrusaglie. Emblematica è la vetrina delle botteghe, simulacro della verità e vanità del mondo moderno.

Il solitario passante hesselliano assurge così, con la sua ribellione ai ritmi frenetici della metropoli e al pragmatismo imperante, a eroica figura, benché precaria, dei tempi moderni.

(Franz Hessel, L’arte di andare a passeggio, trad. di Enrico Venturelli, Elliot, 2014, pp. 243, euro 13,50)

“Il dono della menzogna”
di Ronaldo Correia de Brito

È il fascino di un Sudamerica carico di storie, di emozioni, che è sospeso tra povertà e modernità, quello che si respira a pieni polmoni tra le pagine de Il dono della menzogna, il primo romanzo di Ronaldo Correia de Brito recentemente pubblicato da gran vía edizioni. Il libro, che esce nella collana gran vía original, dedicata proprio alla narrativa spagnola e latinoamericana, è tradotto da Daniele Petruccioli ed è una sorta di riflessione, che va oltre la storia raccontata, intorno a un Brasile che si trasforma, che nostalgicamente e, forse per certi aspetti con troppa lentezza, si apre al cambiamento. È necessariamente, allo stesso tempo, un inno alla saudade attraverso le vicende di una saga familiare che richiama alla mente la letteratura di maestri come Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa o Isabel Allende. E forse il punto di forza di questo romanzo, che ha ottenuto il premio São Paulo de Literatura, è proprio qui, in questo essere perfettamente in equilibrio tra delicatezza e crudeltà, tra passato e futuro, in questo essere collocato in un limbo, nella lingua quanto nei contenuti, di una terra e di una letteratura che mutano: un “realismo” assolutamente meno “magico” e più razionale, una terra che in qualche modo si globalizza e accetta questa post-modernità ma non la incarna, ne resta comunque in qualche misura estranea. Siamo al confine, dunque, e i luoghi di confine producono innesti interessanti, sfumature indefinibili e forse affascinanti proprio in quanto tali, perché una volta catturate da una definizione si è dentro un nuovo genere.  E forse si è un po’ in gabbia.

Quasi come fosse una dimensione altra, quindi, siamo catapultati nel sertão, una regione del Brasile settentrionale, e Galilea è il nome, di chiara origine biblica, di una fazenda di questa regione. Primigenia e poverissima, lontana dal boom economico e dal progresso, Galilea è più di uno sfondo alle storie che si intrecciano sul suo suolo: qui tornano dopo diversi anni Adonias, protagonista e narratore, e i suoi due cugini Ismael e Davi, perché Raimundo Caetano, nonno dispotico e rigido estimatore della Bibbia, sta per morire. I tre, che erano emigrati altrove per cercare fortuna, si rincontrano con il resto della famiglia, reimmergendosi nella loro terra e nelle loro radici. Un incontro che li proietta all’interno di un flusso di pensieri e di ricordi, spesso poco chiari, burrascosi o clandestini, in cui la memoria individuale non può che farsi collettiva e in un certo senso potenziarsi, ma, come la doppia faccia di una moneta, al contempo si frammenta e si perde tra le pieghe del passato.

Il pretesto scatenante de Il dono della menzogna è uno dei tòpoi più sfruttati della letteratura, un ritorno a Itaca che evolve, però, in maniera moderna e straniante: Adonias, che è nel frattempo diventato psicanalista, si ritrova di fronte a un ambiente ormai molto diverso da quello che aveva lasciato, in cui non può che sentirsi estraneo. La struttura è funzionale allo scopo di tener viva l’attenzione nel lettore: ogni capitolo si propone di approfondire la figura di uno dei membri di questa numerosa famiglia, svelando retroscena e tratteggiando ritratti autentici, che insistono sul legame con questi posti. L’incontro col passato si rivela doloroso e il ritorno alle origini quasi impossibile, dato l’impatto crudo e spietato derivante dalla consapevolezza di un cambiamento, di un’evoluzione interiore.

In primis saranno la copertina e il titolo a catturarvi, accattivanti ed evocativi. E poi il testo, che è inquieto, a tratti psicanalitico e ricco di aneddoti che descrivono tradizioni e leggende brasiliane. E se tra gli obiettivi principali di un romanzo c’è quello di parlare al lettore, Ronaldo Correia de Brito lo centra in pieno, nonostante una trama piuttosto classica, grazie alla padronanza del linguaggio e alla narrazione serrata, scorrevole e coinvolgente che, come un pungolo doloroso ma necessario, porta riflessioni e considerazioni; porta a fare i conti col passato. Ognuno col suo.

(Ronaldo Correia de Brito, Il dono della menzogna, trad. di Daniele Petruccioli, gran vía, 2014, pp. 264, euro 16)

“Interstellar” di Christopher Nolan

Ci si aspettava uno science movie, un film di scienza, complesso, incomprensibile nel suo essere fondato su elementi di fisica teorica controllati costantemente durante la produzione dal professor Kip Thorne, esperto mondiale di relatività generale. Invece, Interstellar, l’ultimo, attesissimo, film di Christopher Nolan, finisce per essere soprattutto una riflessione sull’uomo più che sull’universo, un film filosofico più che un film di scienza.

In un futuro non troppo distante una piaga sta distruggendo le coltivazioni di cereali dell’umanità. Va avanti da anni, in un primo momento le nazioni si sono dichiarate guerra per contendersi le risorse, poi si è deciso di abolire gli eserciti, di togliere i fondi alla ricerca scientifica e destinare ogni sforzo dell’umanità all’agricoltura. Cooper era un pilota, un astronauta e un ingegnere. Quando la carestia è iniziata è andato a vivere nella fattoria del suocero con i due figli per coltivare la terra, come tutti. Suo figlio Tom è a suo agio nella dimensione contadina, mentre la figlia Murph è come il padre, vuole di più, continua a sognare quelle stelle che il padre ha visto. Seguendo una traccia di segnali misteriosi che partono dalla stanza della bambina, Cooper e Murph trovano quello che resta della Nasa e scoprono il piano per cercare la salvezza dell’uomo. Da qualche parte, in orbita intorno a Saturno è apparso da poco meno di cinquant’anni un ponte di Einstein-Rosen, un worm-hole, un cunicolo spazio-temporale in sostanza. Sono stati inviati dodici pionieri per cercare un pianeta su cui trasferire l’umanità. Ora Cooper ha il compito di viaggiare attraverso il ponte per vedere che cosa hanno trovato.

Si può non dire altro della trama. Succede molto altro, ma può bastare così. Perché per quanto Interstellar sia un film complesso, denso, il rischio di rivelare troppo allo spettatore è sempre lì dietro l’angolo. Tanto valgono i concetti, molto più della trama, perché in verità Christopher Nolan, in co-sceneggiatura ancora una volta con il fratello Jonathan, dimostra questa volta il pieno limite del suo cinema, già intravisto nei lavori precedenti: l’attenzione estrema alla riflessione che va tranquillamente a discapito della coerenza narrativa, della comprensibilità e dell’approfondimento. Non solo riflessione. Quello che Nolan cerca sempre è la sensazione, il colpo a effetto sullo spettatore. Per raggiungerla si possono fare dei sacrifici sul piano della credibilità (ne ha fatti molti in passato, ne fa ancora), conta solo il risultato.

E lo raggiunge ancora una volta. Perché Interstellar lascerà anche stupiti a tratti per dei momenti di autentica debolezza di scrittura, sia nella trama che nei dialoghi (c’è un «Eureka!» che non può essere perdonato. Non può), ma quello che resta davvero è il senso, il segno, il solco, di qualcosa di grande, di qualcosa da capire, di qualcosa da rivedere. È un film più di filosofia che di scienza, si diceva, questo perché Nolan si inserisce in quella tradizione di fantascienza come opera d’arte che ha i capostipiti in Kubrick e Tarkovskij (soprattutto Solaris) e ha raggiunto nuove dimensioni più pop in anni recenti con Moon e Gravity. Si può definire il genere “fantascienza esistenziale” nel porre al centro della riflessione l’uomo. L’isolamento nello spazio, la distanza dal mondo e dalla vita, il silenzio assoluto e l’immensità in cui si immergono Cooper e compagnia, diventano lo strumento attraverso cui analizzare la condizione umana, il senso stesso dell’esistenza, l’ambiente ideale in cui studiare l’uomo in sé, la sua natura e la sua potenza. La potenza, ecco, perché l’uomo di Nolan ha in sé la capacità di creare il proprio futuro e il proprio mondo. Nell’immensità del cosmo, quando tutto sembra perduto, Cooper scopre di essere non solo creatura dell’universo, ma creatore, dotato della capacità di determinare il possibile. Sommando gli studi sulla relatività generale con la fantasia della fiction, i fratelli Nolan inseriscono una quinta dimensione nell’osservazione del cosmo, una forza in grado di vincere sul tempo e lo spazio, di alterare la gravità e viaggiare nell’iperspazio: l’amore. È l’amore di un padre per la figlia a cui ha promesso che sarebbe tornato, prima o poi e a ogni costo.

A differenza di 2001: Odissea nello spazio, in Interstellar non viene posta un’autorità metafisica a governare l’universo dell’uomo e a indirizzarlo nell’evoluzione. È l’uomo stesso ad essere artefice di sé e dello spazio che abita. È l’uomo stesso il mondo. Come in Gravity (e allo stesso tempo al suo contrario), l’unico collegamento che rimane con la Terra, in ogni momento, è l’amore del genitore. Nel film di Cuarón, l’astronauta di Sandra Bullock deve trovare la forza di superare la perdita per tornare a vivere. In Interstellar, il Cooper di Matthew McConaughey (che continua a infilare ruoli sempre più grandi) ha nella promessa fatta alla figlia il motivo più forte per tornare a casa.

Se il valore preminente dell’amore può suonare come un pericoloso segnale di banalità, i Nolan riescono a evitare di precipitare in facili trappole elevando anzi il discorso a un’idea di amore come appetito così come descritta da Sant’Agostino, come tensione verso qualcosa in grado di realizzare l’uomo, come ragione unica del movimento umano. C’è una poesia di Dylan Thomas che ritorna più volte nel film e che nei suoi versi finali recita: «e tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi / Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego. / Non andartene docile in quella buonanotte. / Infuriati, infuriati contro il morire della luce», che racchiude in sé tutto: il rapporto padre-figlio, l’ignoto, la lotta.

È un film potente, Interstellar, che riesce a parlare ai sentimenti (e in questo fanno molto i protagonisti, tanti, bravissimi) e non solo alla testa e agli occhi. È esteticamente superbo, pieno di scenari che mostrano la capacità visionaria di Nolan e pongono dei nuovi riferimenti nell’immaginario cinematografico, come era già stato per Inception, come sarà per l’idea del tempo geometrico incastrato in un ipercubo. È un film faticoso, che richiede attenzione e una comprensione non solo per la trama, ma anche per i perché, per le scelte, per le debolezze. Sicuramente, è il film più ambizioso di Christopher Nolan, e d’ora in poi ci sarà un prima e un dopo Interstellar.

(Interstellar, di Christopher Nolan, 2014, fantascienza, 168’)

 

“Class”
di Francesco Pacifico

È bene che lo sappiate. Francesco Pacifico ha capito tutto. E con tutto intendo il metamorfico universo umano e la sua colonia borghese, ovvero, per noi che siamo atrocemente umani e quasi sempre almeno un pizzico borghesi, tutto quello che conta. Per constatarlo basta approcciare il suo ultimo romanzo. Class, vite infelici di romani mantenuti a New York (Mondadori, 2014). Trecentoventi pagine radiografiche. Lampanti, ineludibili.

La trama, pastorizzata all’estremo, è alquanto denutrita. Precisiamo, di cose ne accadono, aggirato l’oceano.

Ludovica e Lorenzo, coppia di coniugi che passeggia intorno ai trenta, trasmigra da Roma a New York per concedere a lui l’occasione di diventare il regista che sogna di essere. Sono entrambi annoiati e poco convinti dei loro costumi di scena, così, interporre un continente tra sé e il momento di crescere sembra rappresentare un diversivo di tutto rispetto.

Ludovica, ostaggio dell’azzimata libreria di corso Trieste di proprietà paterna, segue in America il marito confidando nel suo cortometraggio e in quel talento che spera s’irraggi da lì a breve per accordare senso al loro viaggio, ovviamente al di là di una carta d’imbarco. Quella permanenza per lei si tramuta in un mentre vorticoso, un purgatorio brulicante d’italiani aspiranti o sedicenti artisti che rischiano altrove ma con le spalle sempre al caldo. Dopo una lite al melodramma si allontana da Lorenzo per spiaggiarsi a casa di un amico, Nico Berengo, giornalista musicale a cui piace contornarsi di un’orchestra compiaciuta di cicisbei in versione aggiornata, fino ad impattare nell’asteroide Tullio, cattolico in conflitto tra il suo petto in preghiera e le mani che prudono. E nei rimpalli di continue collisioni, un dubbio pestifero serpeggia tra le serrande di una lampo e le cerniere di una smorfia modello Jasmine Trinca: «E se mio marito fosse solo un mediocre?» Certezza aritmetica già al quinto paragrafo, solo che lei impiega qualche riga in più per esserne persuasa. E prima di manipolare con discreta padronanza questo patrimonio di consapevolezza, rimbalza in soggetti pateticamente pittoreschi, con la sola attenuante di vestire hipster e quindi di sguazzare nel contesto.

A suffragare il loro sfrontato carisma, la lancinante attualità dei dialoghi ibridati a cui assiste Ludovica: «Siamo entrati nell’orbita Vuitton e ora non ci capiamo niente, è tutto un vuittonare nel vuotòn Vuitton», oppure: «Place is Belgian, bi-atch. We all love Parigi, doll, we love Roma, we’re from Kansas City and we heart Milano». E ancora: «Ma no, tu sei centrale!Troviamo il modo di metterti in ginocchio in scarpe Vuitton in mezzo ai negri déco», suggellando con «Sì vabbe’, Marce’, non è che dici cose random e io penso che sei intelligente».

Poi la voce narrante, una defunta fuori campo per intuibili ragioni, si appunta sul pianeta di Gustavo Tullio di cui è stata amante, propinandoci una sismologia accurata del suo quotidiano, costellato di figli e attrazioni indelicate verso il suo equilibrio fatto di giocattoli, chitarre e Gocciole Extra Dark.

Di fatti, quindi, se ne registrano in gran numero. Ma la trama balla ai margini, resta sempre un po’ emaciata rispetto al dato saliente dell’intero romanzo. Ciò che alluviona la lettura è lo stile inforcato dall’autore, evocativo e potente nelle descrizioni dei luoghi che Pacifico dimostra di conoscere come un ospite accanito. Le colate di neve sulle aiuole densissime, le briciole di sole tracannate dall’esofago di troppi grattacieli, «Sopra la fascia di quelle nuvole basse e lontanissime, un diffuso color aragosta e, ancora sopra, un grappolo di nuvole globulari che paiono pezzi di cervello». Insomma, autopsia di un cielo.  Arduo per chi ci è incappato non incollarsi al richiamo di Foster Wallace e al suo Una cosa divertente che non farò mai più: «E poi nella tarda mattinata le nuvole isolate si avvicinano l’una all’altra e nel primo pomeriggio cominciano a incastrarsi come pezzi di un puzzle da riordinare e prima di sera il puzzle sarà risolto e tornerà ad avere il colore delle vecchie monete da dieci cent». Con altri risultati.

Una mano ingombrante, quella di Pacifico. Che tracima nel profluvio dei suoi citazionismi, dei continui ossessivi riferimenti a film, album, indumenti, marchi di ogni genere e tipo. Un pinzimonio di consumi culturali sbucati da ogni pertugio, dovunque ci sia posto per ingommare un post-it. Un esempio per tutti: «Il tassista è puro cinema indipendente, Jarmusch anni Ottanta, Festival di Berlino anni Novanta; il ponte è la commedia newyorkese, Woody Allen, 6 gradi di separazione, “Sex and the City”, le esterne di Letterman». New York come oracolo di mode a cui abbeverarsi per sentirsi sul pezzo. Soprattutto se traslati nella vecchissima Roma, che scimmiotta sempre troppo tardi. Tutto voluto, tutto funzionale al racconto, certo.

Esattamente come il corto di Lorenzo, caso idealtipico di pastiche di altri spunti, perfetto per inchiodare un vuoto imbottito il più possibile.

Così come fanno molti personaggi all’interno del romanzo. Che restano vetrine di loro stessi, versioni antropomorfe di Zalando, perché almeno un paio di generazioni ormai sono solo il collage di ciò che a loro piace, un’insalata di clic sul più famoso social network. In questo l’operazione è riuscita.

E questo trasuda da Class. L’ostinazione borghese a sembrare meglio di ciò che si è, rimanendo in continuo autoallestimento. Comprando stimoli, tempestandosi di mondi. Parlando assurdità con pretese semi-mistiche o quanto meno originali. In ansiogena attesa di approvazione.

E nel delirio del suddetto collage, arriva lui, Pacifico, a smascherare tutto e tutti. A diagnosticare fobie e doppi fondi sulla base infallibile dei brand indossati o delle cantilene spacciate per pensieri. Non che spesso non sia vero, ma almeno un centinaio di sociologi lo hanno scoperto già da parecchio, se ancora non ce ne fossimo accorti.

È evidente e quindi innegabile che Pacifico sappia maneggiare la materia letteraria, ma lo si sapeva da tempo e non è questo il problema.

Quello che ci si aspetta da un romanzo (e quindi da uno scrittore), però, è che non si autocelebri ad ogni battuta, o che lo faccia in modo meno smaccato. Osannare la propria furbizia può diventare irritante. Abbastanza in fretta. Schietto, graffiante, lenticolare, acuto, contemporaneo.

Tutti aggettivi adattissimi a Class. Peccato che il più idoneo sia “fastidioso”.

Come precisato all’inizio, Francesco Pacifico ha capito tutto. Magari lo dimostrerà meglio scrivendo il prossimo romanzo.

(Francesco Pacifico, Class. Vite infelici di romani mantenuti a New York, Mondadori, 2014, pp. 324, euro 19)