“Cosmo più servizi”
di Antonio Riccardi

Cosmo più servizi di Antonio Riccardi (Sellerio, 2014) si potrebbe definire una spedizione nelle soffitte delle case, delle vite, delle città, dell’arte. Al centro, infatti, sono sempre i grandi o piccoli oggetti abbandonati, o messi da parte in ricordo di qualcuno poi dimenticato, che emergono a sorpresa per consegnarci anacronisticamente il loro messaggio. Una grande casa, bauli, cassettoni, solai, tutti ricolmi di antiche memorie familiari: oggetti e parole. Il poeta Antonio Riccardi torna al luogo generativo della sua famiglia, nella dimora di Cattabiano, nell’Appennino parmense, e lo fa servendosi del racconto delle storie dei suoi avi, che s’intrecciano con la sua personale, dove figurano imbalsamatori, pittori novecenteschi, Piranesi, le tombe nel Cimitero Monumentale di Milano, diorami, musei e quadri sparsi per il mondo.

Scritto in uno stile elegante e desueto, attraverso la pratica e l’arte della parola che soppesa aggettivi e virgole, il libro è un viaggio nella memoria che si colloca tra l’Ottocento e gli anni Settanta del XX secolo. Figura centrale, insieme alla casa, è l’omonimo dell’autore, Antonio Riccardi, sacerdote dal carattere strano e curioso, esiliato nell’ampia dimora, intento a tessere le memorie della sua discendenza, manifestando un profondo e duraturo stato d’inquietudine, che insieme alla malinconia, coglie il narratore stesso di queste divagazioni colte e profonde.

Libro attraversato da meditazioni su varie tematiche, Cosmo più servizi è piuttosto una riflessione alquanto coerente, non solo al microcosmo di Cattabiano, bensì all’Italia intera, a questo Paese sfortunato e disastrato, che non è capace di fare i conti con se stesso e con il proprio declino. Un libro che potrebbe essere definito un ibrido totale, caratterizzato da una grande molteplicità di stili del tempo.

Insieme alla notevole prosa di Riccardi non si può non notare una poetica che potrebbe essere definita una metafisica “accreditata”, in un’ascesi oggettuale e spirituale, condotta in forza di un sentimento al contempo agghiacciante e ferace,  come esigenza psichica di senso dell’apparizione umana sul pianeta Terra. Tutto è in Cosmo più servizi assolutamente psichico e non psicologico personale ma non individuale, poiché qui individuo è identico ad assoluto.

Antonio Riccardi, in Cosmo più servizi, in un modo estremamente diverso e e con differente potenza rispetto alla poesia di cui è autore, mette in scena una sorta di scena muta, dove  brillano in una luce spettrale tutti i racconti, resi cristallo e pietra dallo sguardo di Medusa della storia storica e metastorica, cioè dal fenomeno umano. È un’interezza ontologica coincidente con la sua espressione totale estetica che si gioca qui nella rima che frattura il tutto con il nulla.

(Antonio Riccardi, Cosmo più servizi. Divagazioni su artisti, diorami cimiteri e vecchie zie rimaste signorine, Sellerio, 2014, pp. 172, euro 16)

“L’ultimo dio”
di Emidio Clementi

La casa editrice Playground ha da alcuni mesi ristampato L’Ultimo dio del frontman e bassista della band post-rock dei Massimo Volume, Emidio Clementi. Si tratta di un’autobiografia pubblicata per la prima volta nel 2004 da Fazi e ora riproposta con alcune illustrazioni di Andrea Bruno. L’ultimo dio è un’opera scritta seguendo in filo parallelo un’altra autobiografia, Il primo dio (edita Adelphi, terza ediz. 2011) dello scrittore italiano Emanuel Carnevali, emigrato a soli sedici anni negli Stati Uniti nel 1914. Sopravvivendo con i lavori più umili, dopo aver imparato l’inglese per le strade di New York e alla Public Library Carnevali riuscì in poco tempo ad inserirsi nel cuore del modernismo americano, frequentando i circoli di avanguardia del Greenwich Village, a New York, e il Dill Pickle Club di Chicago. Tra i promotori della cultura italiana negli States, con le sue poesie, i racconti, numerosi saggi, affermò la sua voce all’interno del fervido ambiente delle piccole riviste letterarie, come Poetry, Others, The Little Review e altre ancora, che hanno inaugurato l’avvento della Nuova Poesia americana. Amico di Pound e di Carl Sandburg, Carnevali, ammalatosi di encefalite letargica, fece definitivamente ritorno in Italia non prima di aver sferrato il suo grido a una America terribilmente moderna, grandiosa e misera; non prima di aver contribuito sensibilmente alla maturazione di un altro grande poeta americano, William Carlos Williams, avvicinandolo a un modello di poesia semplice e privo di retorica.

La straordinaria e tragica avventura di Carnevali ha profondamente ispirato la vita e la carriera artistica di Emidio Clementi che già dal 1995 rende omaggio al poeta con Il primo dio, canzone inserita nell’album Lungo i bordi dei Massimo Volume. Il testo riprende un saggio-poema su Arthur Rimbaud che Carnevali scrisse nel 1919:

C’è forza nella pioggia che bagna il bordo del lavandino
e le mie braccia tese, oggi.
Non nelle colline, né nel cielo che tiene bassi gli uccelli
e ha i colori sbiaditi di una polaroid.
Emanuel Carnevali, morto di fame nelle cucine d’America
sfinito dalla stanchezza nelle sale da pranzo d’America
scrivevi
E c’è forza nelle tue parole
Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati
Sopra le cicche macchiate di rossetto
Sopra i posacenere colmi
Sapevi di trovare l’uragano
Dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano
Ecco l’unico fatto che possa compensarmi
di non essere io l’uragano
Emanuel
Primo dio
Rimbaud
Preghiera a cose più belle di me
Rimbaud
Avvento della giovinezza
Immagine perfetta
Sensazione perfetta
È nella pioggia, oggi, il vostro grido

Ne L’ultimo dio Clementi riporta la circostanza, del tutto fortuita, grazie alla quale ha scoperto Il primo dio, durante gli anni in cui il cantautore lavorava come cameriere a Bologna. L’autore-protagonista Mimì (il nome con cui Emidio Clementi ama farsi chiamare), affascinato dalle tante analogie con Carnevali, che ha rilevato leggendone il romanzo autobiografico, intravede finalmente un senso da dare alla propria vita, fino allora cercato e mai trovato nelle sue continue fughe in giro per l’Europa, mortificato dal vuoto dei tanti lavori occasionali: «Improvvisamente, allora, mi rendo conto che dentro quei lavori del cazzo a cui immolo la maggior parte del tempo, se solo riuscissi a scorgerla, c’è scritta anche la mia storia; che in quello che ho vissuto, c’è tutto quello che devo dire. Un’altra vita non mi servirebbe a niente, devo solo imparare a usare quella che ho. È da questo momento che la mia prospettiva inizia a cambiare».

Emidio Clementi avrebbe poi realizzato con i Massimo Volume quel progetto di sperimentazioni combinanti musica e letteratura che caratterizza tanto la sua ricerca espressiva. Da una prospettiva esterna potrebbe sembrare eccessivamente forzata, o addirittura esagerata, la rilevanza che Clementi sembra dare alla lettura de Il primo dio. Bisogna tener presente comunque che, come lo scrittore, il musicista scrive un romanzo autobiografico in cui narra artisticamente la storia del proprio vissuto, senza pertanto escludere che vita artistica e vita reale possano condizionarsi, sovrapporsi fino anche a coincidere. A spuntarla è «una convinzione fragile»: l’idea che due vite possano appartenersi al di là di ogni comprensione. Indiscutibile rimane l’influenza che Carnevali ha esercitato nello sviluppo espressivo di Clementi, il quale a sua volta ha dato un contributo importante e personalissimo alla fortuna del poeta. Ci sono comunque alcune somiglianze evidenti tra Carnevali e Clementi. Una prima, sicuramente banale e lampante, arriva dalla constatazione che le iniziali dei rispettivi nomi e cognomi coincidono. La seconda, molto più concreta e seria, è individuabile nella comune esperienza di una difficile emigrazione. Dopo la morte del padre che lascia la famiglia in terribili condizioni economiche, Emidio Clementi, originario di Ascoli Piceno ma vissuto a San Benedetto del Tronto, trascorre alcuni anni in Svezia e a Londra per poi stabilirsi a Bologna, vivendo di lavori saltuari come Carnevali. Ancora una somiglianza tra i due autori si riscontra in quella stessa ambizione, quella voglia di successo derivante dalla piena consapevolezza del proprio valore. Tale coscienza di sé si rileva anche nella comune preferenza di ipocoristici in sostituzione del nome di battesimo: Emanuel, Manolo, Em sono quelli di Carnevali; Mimì quello di Clementi. Una maniera per ancorarsi al proprio personalissimo io nel dramma esistenziale di una rincorsa inesauribile verso un altro sé (l’io è un altro da raggiungere sempre), ma anche un modo per amare e fare amare, quando ci si ferma, quel sé, che durante la corsa della vita, a volte rimane inesorabilmente indietro.

(Emidio Clementi, L’ultimo dio, Playground, 2014, pp. 208, euro 15)

“torneranno i prati” di Ermanno Olmi

Ermanno Olmi, nel centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, racconta l’impossibile vita di trincea in torneranno i prati.

È il 1917. Lungo il fronte alpino nord orientale, al confine tra Italia e Austria, un contingente italiano vive sommerso in una trincea di neve. A pochi metri, invisibile, c’è il nemico. Tutto intorno alberi e freddo. Un maggiore arriva a cavallo dal comando con un ordine preciso: bisogna creare una nuova linea di comunicazione in un rudere poco distante dalla trincea. Raggiungerlo vuol dire esporsi ai cecchini, vuol dire morire.

Arrivato a ottantatré anni d’età e ormai oltre i cinquantacinque di carriera (Il tempo si è fermato era del 1959), Ermanno Olmi rimane fedele alla sua idea (non solo) di cinema basata sull’incontro tra comunità umana e natura. Nel momento in cui gli uomini sono in collegamento con lo spazio che abitano, con gli alberi e le piante e le montagne, sono necessariamente in collegamento anche tra di loro. Così, i soldati di trincea riescono a chiamare casa la condizione inumana in cui vivono, a chiamare famiglia l’aggregato di sconosciuti con cui condividono la branda, a dimenticare di essere nemici quando una canzone rompe il silenzio della notte.

È quando si intromette un livello di umanità ulteriore, travisato, distante dalla comunione naturale, che l’armonia si spezza e subentrano dinamiche alienanti. Perché l’arrivo del maggiore che porta ordini che sente di non poter condividere, ma a cui sa di non potersi opporre, modifica il movimento degli uomini, costringe a esporsi al di fuori del tetto della convivenza umana e a ricordare la guerra. Il momento dell’umanità gerarchica si frappone nell’orizzontalità delle relazioni modificandone la dinamica. Arriva un altro, verticale, che impone un nuovo ordine dall’esterno senza osservare. È per questo che il capitano di trincea, piegato dall’influenza come metà del suo battaglione, rinuncia ai gradi per tornare soldato semplice: per annullare la gerarchia, per tornare come gli altri e recuperare la dignità umana.

C’è un senso di attesa costante e incombente sull’avamposto, la consapevolezza che quell’equilibrio di silenzio scosso appena dal ruggito lontano delle bombe non potrà durare per sempre. In quella fortezza Bastiani in mezzo al bianco annullante della neve tutti sanno che la tregua, per quanto bellissima e accogliente, è solo una finzione transitoria.

Il nemico, sia esso inteso come nemico dell’umano che come nemico di guerra, è esterno, mai mostrato, inconcepibile nel suo essere alieno alla comunità. I comandi del vertice italiano piombano sul caposaldo con la stessa indifferenza dei colpi dei mortai austriaci. È nemico proprio perché è posto al di fuori della relazione, perché non entra in contatto con la realtà delle cose del quotidiano della trincea.

Alla semplicità concreta della sofferenza dei soldati italiani, avvolti in strati di lana e attaccati alle lettere e alle foto di casa come fossero maschere di ossigeno, si contrappone l’invisibilità dell’altro, del comando che arriva per telefono, delle bombe lanciate da chissà dove che sventrano il rifugio.

Continuando una tradizione che unisce idealmente il cinema della Grande Guerra lungo un asse che va dagli Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick agli Uomini contro di Francesco Rosi, Olmi ricorda che esistono prima di tutto gli uomini e poi i comandi delle autorità. Senza comprendere nel suo discorso la contestazione o l’identità politica, il regista rivendica la pace come condizione naturale dell’esistenza umana. Tutto ciò che è altro è frattura.

Nel racconto di una guerra, di quella guerra che era stata di suo padre, Olmi parla di ogni guerra dell’uomo e della loro inutilità. È nel ricordare che è esistito il conflitto, che uomini hanno vissuto in buche scavate nella neve, che ci sono stati ordini che hanno significato massacri inutili, che il maestro rende omaggio alla storia. Non quella della diplomazia, degli accordi di pace o della geopolitica. Non quella dei confini contestati e del patriottismo. Quella degli uomini e della gente, perché è la gente che fa la storia, e farebbe benissimo a meno della guerra.

(torneranno i prati, di Ermanno Olmi, 2014, storico, 80’)

“La ferocia”
di Nicola Lagioia

«Perché tanta sofferenza?» La domanda sorge spontanea avanzando verso un epilogo che tarda ad arrivare tra le 418 pagine de La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi, 2014). Parte di questo supplizio è presto spiegata: si tratta di un romanzo massiccio, troppo prolisso per una narrazione che avrebbe potuto trovare il suo compimento in un volume di metà spessore. Andiamo con ordine però, partendo da una constatazione universale sulla letteratura alla quale sfugge lo specifico caso in esame, e giustifica il restante patimento: quando una storia chiede al lettore molto del suo tempo sarebbe gradito che dosasse con equilibrio il tipo di sensazioni che suscita, somministrando, accanto al dolore, parentesi dove la lettura si fa più sciolta e clemente. Chi pensa che per produrre buona letteratura si debba ad ogni costo puntare su storie dalle sfumature amare, dove il disagio è palpabile pagina dopo pagina e la diagnosi di fine lettura è che la vita è un’angoscia, si sbaglia di grosso. Non è certo avvelenando le frasi con un senso di mestizia generale che ci si fregia del marchio di romanzieri impegnati, quasi che a un intellettuale sia interdetto provare una qualche forma di piacere in vita che vada oltre il masochismo.

La trama segue una struttura abbastanza classica, con atmosfere da noir mediterraneo: Clara, la figlia di Vittorio Salvemini, un imprenditore edile della Bari che conta, viene ritrovata morta, apparentemente per suicidio. Scavando a ritroso nella sua breve esistenza attraverso i ricordi di chi l’ha conosciuta, viene fuori tutto il marcio che l’aveva circondata, un mondo equivoco fatto di adulterio e droga, al quale la ragazza sembrava ineluttabilmente destinata perché consacrata a una tristezza cronica come il resto della sua famiglia. I Salvemini, infatti, soffrono tutti a proprio modo di mal di vivere, e un senso di pessimismo cosmico ammorba l’intero romanzo finendo per aggrapparsi anche al lettore.

A questo punto, siamo d’accordo sul fatto che di negatività se ne respira parecchia, ma la lettura di un testo si può scomporre in più livelli, e se la scelta della materia da trattare e dei soggetti sui quali costruire l’intreccio trasuda affanno, c’è sempre la possibilità di compensare con una prosa passionale e stilisticamente ben calibrata. E invece no, al povero lettore nemmeno è concesso godere di questa consolazione. Il problema è che lo stile è spesso criptico, la sintassi non scorre a causa di periodi che si incartano su loro stessi e il costante ricorrere a similitudini di dubbia evocatività rallenta di molto la lettura. Quest’ultimo inghippo però si presenta solo nel caso in cui il fruitore del testo sia particolarmente caparbio e si metta in testa di provare a decifrare l’ininterrotto delirio metaforico, diversamente si può sempre decidere di rinunciare all’esegesi per accelerare il traguardo verso le pagine finali. Frasi come «a Michele sembra che sua sorella stia per disfarsi o morire, trafitta da un dolore meno penoso dell’impegno che deve metterci per non mostrarlo a lui, mostrandolo», o ancora «non era molto oltre la trentina, ma non poteva avere meno di venticinque anni a causa dell’intangibile rilasciamento dei tessuti che trasforma la sveltezza di certe adolescenti in qualcosa di perfetto», sono semplicemente troppo: troppo ampollose, troppo volutamente sibilline per sembrare davvero cariche di significato. Di un ermetismo autocompiaciuto e pavoneggiante che rende il libro un puro prodotto narcisistico al quale sono stati recisi gli scopi comunicativi.

Però insomma, nel caso in cui il romanzo venga letto da chi alla letteratura attribuisce scopi altri, che non contemplano la volontà di arrivare davvero a parlare al lettore, in tal caso il coinvolgimento sentimentale monocorde e l’impenetrabilità di certi virtuosismi sintattici de La ferocia potrebbero anche essere considerati ammirevoli.

(Nicola Lagioia, La ferocia, Einaudi, 2014, pp. 418, euro 19,50)

“La partita di pallone. Storie di calcio”
di AA.VV.

La sublimazione del calcio come fenomeno culturale. Questo il senso di La partita di pallone (Sellerio, 2014), che, con la curatela di Laura Grandi e Stefano Tettamanti, raccoglie racconti, storie e resoconti di calcio da ogni angolo del mondo e da ogni momento del Novecento calcistico.

L’obiettivo è quello di superare, una volta per tutte, il pregiudizio culturale collegato alla letteratura sportiva nel nostro paese, quello snobismo che portò un giornale come La Repubblica, nel 1976 del suo debutto in edicola, a privarsi delle pagine sportive per sottolineare la distanza dalle passioni popolari dozzinali (salvo poi pentirsene poco dopo. Lo stesso errore lo ha commesso Il fatto quotidiano, limitando la cronaca sportiva nei suoi primi mesi di pubblicazioni), o Umberto Eco a relegare la prosa innovativa, neologistica e contaminata di Gianni Brera al rango di «gaddismo spiegato al popolo». Era il 1963. Da allora, le cose sono cambiate, e tanto, a partire dalla considerazione di Gianni Brera, riferimento oggi indiscutibile per la scrittura calcistica in Italia, non solo per il giornalismo.

In Italia esiste ormai un filone sempre più nutrito di letteratura calcistica che racconta storie note o dimenticate di calciatori e di tutto quello che galleggia all’interno dell’oceano del pallone. C’è Federico Buffa, che con i suoi racconti televisivi ha ridefinito nell’ultima estate l’immaginario dei campionati del mondo, ci sono testate online come FútbologiaUltimo uomoCrampi sportivi, che fanno incontrare narrazione e analisi, e nuove forme editoriali come 11, che uniscono la tradizione del Guerin sportivo con il linguaggio di riferimenti internazionali come la rivista spagnola Panenka (dal giocatore ceco che per primo tirò un rigore “a cucchiaio”. Era la finale del campionato europeo del 1976, tra Germania Ovest e Cecoslovacchia. I cechi vinsero grazie a quel rigore. Francesco Totti sarebbe nato solo tre mesi dopo).

Come scrivono i due curatori nell’introduzione, quando la letteratura sportiva si lega all’energia e all’emozione dell’evento smette di essere «sullo sport» per diventare «dello sport», cioè parte fondamentale della portata epica e storica dell’evento stesso, canzone di gesta e testimonianza lirica.

Rifacendosi a quella tradizione di letteratura sportiva alta che ha in altri sport esponenti colossali come Hemingway e Cortázar, Grandi e Tettamanti sono andati alla ricerca di ventisette contributi che mettono insieme Osvaldo Soriano e Nick Hornby, Vasco Pratolini e Manuel Vásquez Montalbán, la seconda Roma di Zeman e l’Ajax di Cruijff, Gigi Meroni e Zinedine Zidane.

Ci sono i mondiali, soprattutto, perché i mondiali mettono d’accordo tutti, almeno in una nazione, e perché hanno in loro l’epica dell’evento, nei quattro anni d’attesa, nella replica perenne di stili di gioco e rivalità ataviche, nel riscatto possibile sul campo. E tra i mondiali ci sono soprattutto quelli del 1982, della vittoria più bella dell’Italia contro avversari impossibili come il Brasile di Zico-Socrates-Falcão e la Germania inarrestabile, raccontati con un cut-up di cronache sportive da Vittorio Sermonti, che sa quasi di filologia calcistica, e con i racconti delle scaramanzie familiari nella Sicilia di Davide Enia.

La dimensione privata si alterna indifferentemente al racconto ufficiale, al pezzo di giornale. Come si è scritto di recente a proposito di un altro testo, il calcio è l’ultimo rito collettivo rimasto, Pasolini insegna, ma l’elemento del collettivo si fonda anche sul momento del culto personale, della contemplazione domestica del televisore, della replica del gesto sul campo di terra. Nelle cinque parti che compongono La partita di pallone, quindi (“Il gioco più bello del mondo”; “Riscaldamento”; Novanta minuti”; “Dagli altri campi”; “Figurine”), la cronaca si alterna al ricordo privato, sia quello di un’infanzia svizzera di rivalità, come per Paolo Di Stefano, sia quello di una antipatia di carta per un calciatore, come per Gianni Rivera e l’altro Gianni già nominato, Brera, che diventa anche elemento di memoria di un altro calcio nel saluto di un terzo Gianni, Mura. E poi c’è la letteratura, tanta, quella splendida dei sudamericani, quella sorprendente, per uno statunitense, di Jim Shepard. Il tutto in equilibrio tra romanticismo e nostalgia, tra gloria adulta e venerazione infantile, per quel calcio che è (anche) sentimento e passione, e una forma, tutta particolare, di mancanza. Perché, come ha scritto Dylan Thomas (e riporta Gianfranco Calligarich), «la palla che da bambino ho lanciato verso il cielo non è tornata indietro».

(Aa. Vv., La partita di pallone. Storie di calcio, a cura di Laura Grandi, Stefano Tettamanti, Sellerio, 2014, pp. 424, euro 15)

“Ritorno a L’Avana” di Laurel Cantet

Premiato come miglior film nelle Giornate degli autori all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Ritorno a L’Avana è il nuovo film del francese Laurent Cantet, in trasferta a L’Avana dopo la deviazione negli Stati Uniti di Foxfire Ragazze cattive.

In una terrazza affacciata sull’Avenida Maceió, cinque amici di ormai cinquant’anni si incontrano tutti insieme dopo tanto tempo. Il motivo è il ritorno a Cuba di Amadeo, che sedici anni prima aveva abbandonato l’isola per riniziare da capo in Spagna. Erano anni difficili, quelli del periodo definito “speciale” iniziato con il crollo dell’Unione Sovietica. Erano anni di miseria e fame, di crisi economica completa, di energia elettrica contingentata. Amadeo a quei tempi era uno scrittore. Frequentava gli ambienti del teatro ed era conosciuto. Aveva qualche libertà che altri non avevano. I suoi amici della terrazza – Tania, un’oculista abbandonata dai figli partiti per gli Stati Uniti, Aldo, un ingegnere costretto a fabbricare clandestinamente batterie, Rafa, un pittore che ha perso l’ispirazione dopo il fallimento di un’esposizione a Parigi, Eddy, l’unico che ha ceduto al sistema entrando nella classe dirigente per poter prenderne dei benefici, almeno economici, per sé, per la famiglia – non hanno mai capito perché Amadeo avesse scelto l’esilio. Riuniti dopo tanto tempo, i cinque amici ballano, bevono e ricordano in un’unica festa, dal tramonto all’alba, e fanno i conti con quel passato che pesa ancora come una sentenza per il futuro.

Laurel Cantet si era già avvicinato alle latitudini caraibiche nel 2006 con Verso il sud, concentrandosi sugli ultimi anni del regime di Baby Doc ad Haiti, per poi sbarcare a Cuba nel 2012 con l’episodio Fuentes del film collettivo 7 Days in Havana. È stato allora che il regista ha conosciuto lo scrittore Leonardo Padura e che è nata l’idea di un progetto comune. Nello scrivere Ritorno a L’Avana, Cantet ha lasciato in disparte il suo storico co-sceneggiatore Robin Campillo (è l’ideatore di Les Revenants, il film del 2004 che poi ha portato alla serie), con cui aveva scritto anche quel La classe palma d’oro a Cannes nel 2008, per lavorare solo con Padura.

L’idea originale era quella di recuperare in un corto lo spunto del romanzo di Padura Le Palmiere et L’Étoile, poi hanno deciso di farne un lungometraggio. È una specie di Grande freddo cubano, Ritorno a L’Avana, nel bilancio collettivo di una generazione attraverso alcuni suoi esponenti, il racconto di un’epoca di cambiamento attraverso le parole di chi quel cambiamento l’ha vissuto in prima persona. Amadeo, Rafa, Tania, Eddy, Aldo, non sono il simbolo della Cuba dell’ultimo ventennio del ventesimo secolo. Non incarnano un ideale di resistenza o sottomissione al regime, non sono straordinari. Sono persone comuni di cultura mediamente elevata, di idee relativamente progressiste, di libertà più o meno desiderate. La loro resistenza all’ideale comunista era passiva, continua a esserlo: Cuba è il loro paese, il posto che amano. Non contestano il sistema: ne discutono le possibilità, l’intransigenza del deviazionismo ideologico, l’ottusa opposizione alla “penetrazione culturale” occidentale. L’idea della rivoluzione, del comunismo realizzato continua a essere il loro sogno. È l’unica cosa rimasta, dice Aldo, non può essere sbagliata perché allora sarebbe sbagliato tutto. Ma non è difesa del castrismo: è difesa dell’identità, del mondo in cui si è cresciuti, nel bene e nel male.

Perché nonostante la fame, il buio e la vita controllata, Aldo, Amadeo, Rafa, Tania e Eddy erano liberi nella loro amicizia, nel supporto, nella vita condivisa.

Senza mostrare nulla se non la terrazza e il suo panorama, Cantet e Padura sono riusciti a far vivere l’intera Cuba nelle parole dei loro protagonisti. Non c’è nostalgia né condanna del regime attuale. C’è la costatazione dell’evidenza di quella che è stata ed è ancora la normalità di tanta gente. Perché nonostante tutto, quello di Amadeo è un ritorno a casa, a Itaca, come dice il titolo originale, perché tutto il resto, i viaggi, la Spagna, il mercato libero, è odissea.

 

(Ritorno a L’Avana, di Laurel Cantet, 2014, drammatico, 90’)

 

“La terra della prosa”
a cura di Andrea Cortellessa

Sostiene Andrea Cortellessa che sia indispensabile risarcire la critica letteraria di un temperamento attivo e autonomo, rispetto al ruolo risicato di cui ha dovuto accontentarsi nel corso dell’ultimo decennio. Nel definire la critica come un processo esegetico a posteriori, Cortelessa si sbarazza pure delle tesi strutturaliste troppo ardite, organizzate attorno alla «morte dell’autore e al funzionamento del testo senza bisogno che la critica rintracci un’interpretazione trascendente», e guarda invece all’incontro fra lingua e stile, alla visione unica che l’autore rappresenta, in una prosa narrativa che accetta la contaminazione fra generi. La lettura dell’antologia La terra della prosa (L’Orma, 2014) è fortemente consigliata ai lettori interessati a confrontarsi con tali posizioni: Cortellessa sceglie un itinerario di lettura improntato alla polarità spazio e soglie, intesi in senso sia fisico sia interiore: così, il paesaggio risulta essere una categoria, a suo avviso, aggregante per molta parte della produzione narrativa del decennio zero italiano.

I criteri di selezione rifuggono la predilezione del critico, riconoscendo il primato della scrittura di qualità, evitando pure canoni ristretti, classifiche di vendita o tabelline letterarie care a Daniele Giglioli, la cui stima è confermata dalla sua forte presenza nell’apparato critico che accompagna i testi e i commenti del curatore. Chi rientra fra i trenta autori italiani analizzati, chiarisce il critico nella premessa, ha raggiunto la maturità letteraria in un decennio a torto considerato povero di qualità e, secondo alcuni, affollato di romanzieri a cui Calvino avrebbe consigliato di desistere. Sono autori che hanno assimilato lezioni importanti, come quelle gaddiana e márqueziana, si sono confrontati con la narrazione breve e il verso, specchiandosi nell’ostinazione della fabulazione e a far romanzo. La componente su cui Cortellessa sofferma lo sguardo è la vasta stratificazione linguistica della lingua italiana, che disegna confini antropologici e geografici: in questa operazione spiccano le descrizioni dei desolati suburbi milanesi di Giorgio Falco, i vuoti della pianura emiliana osservati da Ugo Cornia, il ritratto della decadenza napoletana fotografata da Antonio Pascale, i monti di Franco Arminio e i fiumi di Andrea Bajani e di Paolo Morelli. Lo sguardo verso il paese/paesaggio è spesso simile alla ricerca di dialogo con la natura inaugurata dall’ultimo Leopardi. Questo colloquio, a tratti disperato, a tratti fiducioso, ricorda l’intimità di Luigi Ghirri e Gianni Celati nel progetto fotografico Viaggio in Italia, alla ricerca del paesaggio agreste che resiste all’inurbamento più rapace.

Sono proprio le Operette morali uno dei grandi modelli omaggiati: la traccia di Leopardi risuona anche nella citazione «Il verso nutre la prosa», contenuta nello Zibaldone, dimostrando quanto la poesia sparga semi nelle prose odierne: chi ne fosse a digiuno, avrà un banchetto prelibato, generoso e capirà meglio i timori di Giulio Ferroni, per il quale la scena editoriale è oggi saturata da «scritture a perdere». Se gli editori rinunciano al privilegio di discernere, lo farà il critico.

L’antologia offre scoperte deliziose, annoverando oltre alle scritture più note di Cristian Raimo e Nicola Lagioia, autori come Francesco Permunian, che interpreta la scrittura come un esercizio sovversivo contro i dogmi della letteratura alta, la ricerca dell’identità culturale in un mondo a confini sbiaditi di Ornella Vorpsi, come anche la voce suggestiva di Laura Pugno e le sue sirene. C’è spazio anche per narrazioni parodiche, costruite sull’eccesso e ai limiti dell’intellegibile, come i ricordi dispersi di Giuseppe Samonà, le biografie funamboliche ed estemporanee di Eugenio Baroncelli, la sottomissione ai baroni universitari nelle prose di Gilda Policastro e Leonardo Pica Ciamarra. Il paese è osservato dalle prospettive deformanti di Giorgio Vasta, oppure nella scrittura di impegno di Roberto Saviano e Antonio Pascale. La scrittura è traccia di sé nell’itinerario autografico di Emanuele Trevi, indagine sul passaggio del tempo e sull’evanescenza del ricordo in Tommaso Pincio. Nel progetto della scuola emiliana, si recupera il tratto orale, come è per Paolo Nori, virtuoso di monologhi di coscienza o nell’estraniante dialogo coi cari morti di Ugo Cornia, alla ricerca di una felicità eudemonica. C’è poi, per la giovane Emmanuela Carbé, il gioco con la struttura narrativa. L’incrocio misterioso di stile e ricerca di meraviglia per Davide Orecchio. Le scritture del nuovo millennio ricordano l’ambiguità della parola grecapharmacon, veleno e medicina, sbirciando sia Leopardi sia D.F. Wallace, sia scrittori come Calvino, che hanno praticato la scrittura allontanando il riferimento a sé stessi.

Se nel complesso l’antologia si rivela un’ottima e convincente cartografia del presente, c’è da dire che sarebbe stato più interessante un raggruppamento tematico dei testi. C’è una certa dispersività, riconosciuta dallo stesso curatore, unita a un linguaggio che, in tutta onestà, potrebbe risultare astruso al profano, a differenza della limpidezza chirurgica di Daniele Giglioli. È come se Cortellessa ambisse ad aprire e chiudere troppe discorsi e indugiasse nell’esprimere in modo diretto prese di posizioni forti. Certo, è notevole la ricerca nei contenuti, anche nelle letture che corroborano i commenti del curatore, ma qua e là il linguaggio sconfina nel tecnico, in un’analisi il cui limite sta forse nella devozione allo stile, nonché in una variazione sul tema della fortunata metafora della carta e del territorio.

(La terra della prosa, a cura di A. Cortellessa, L’Orma, 2014, pp. 896, euro 30)

“La melodia di Vienna”
di Ernst Lothar

Una città cresce, vive, si trasforma. Una città ferve di umori, di idee e passioni. Una città accompagna l’esistenza dei suoi abitanti, gli fa da sfondo ma il più delle volte ne determina la sorte. Una città tramonta insieme a tutta la sua civiltà sotto i colpi sferzanti della Storia, di una follia che evolve e ingigantisce.

Leggendo La melodia di Vienna di Ernst Lothar (Edizioni E/O, 2014) mi è passata per la mente l’immagine della “vecchia imbellettata” di pirandelliana memoria, una signora che per piacere ai più giovani si concia in modo ridicolo non avendone più l’età ma al tempo stesso questo suo ostinato non arrendersi allo scorrere del tempo commuove e intenerisce.

Questa era la Vienna, bella e opulenta nella Belle Époque, tremendamente invecchiata tra le due guerre ma che si sforzava di celarlo dietro le apparenze di scintillanti rituali e tradizioni, al suo ultimo giro di valzer allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che ci racconta Lothar (Brno 1890-Vienna 1974) in questo suo libro a metà tra saga familiare e romanzo storico.

Poco conosciuto rispetto ai più noti scrittori e intellettuali dell’epoca quali Stefan Zweig, Mahler, Schonberg, Freud, Wìttgenstein, Schnitzler, Hofmannsthal, Joseph Roth, Ernst Lothar Müller, originario da una famiglia ebrea di lingua tedesca, si laureò in giurisprudenza ed esercitò la professione per un breve periodo nella burocrazia statale. Ben presto lasciò qualsiasi incarico per dedicarsi alla sua passione, la scrittura, e all’attività teatrale, lavorando prima al Burgtheater e poi al Theater in der Josephstadt quale successore di Max Reinhardt. Amico di Zweig, la sua casa alla Kochgasse divenne punto di incontro per i protagonisti dell’intensa stagione letteraria viennese. Nel 1938 l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania, lo costrinse a riparare negli Stati Uniti.

È dal salotto alto borghese della casa della famiglia Alt, illustre palazzo di costruttori di pianoforti situato nel primo distretto della capitale austriaca tra la Seilerstätte e la Annagasse, che assistiamo al dilagare degli eventi, dalla morte dell’erede al trono Rodolfo al primo conflitto mondiale, all’ascesa del Nazismo.

Pubblicato per la prima volta nel 1944 negli Stati Uniti con il titolo originale The Angel with the Trumpet, il romanzo è stato tradotto in Italia solo nel 1982 con il titolo L’angelo musicante in riferimento al blasone, la chiave di volta, che sovrastava l’ingresso principale di Palazzo Alt al n.10 della Seilerstätte: ‹‹un angelo nudo del tipo che a Vienna era chiamato angelo musicante. Suonava una tromba dall’aspetto piuttosto strano. La sua canna lunga e sottile, che lo scalpellino aveva allungato quanto più aveva accorciato esageratamente il braccio nudo che la sosteneva, si drizzava verso l’alto come una lancia; neppure il disco sottile alla sua estremità contribuiva a conferirle l’aspetto di una tromba: sembrava piuttosto un’arma. L’angelo, del quale si vedevano l’ala destra e il corpo probabilmente più grasso che si fosse mai librato su compatte nubi di pietra, si rivelava invece un classico angelo barocco austriaco. Soffiava forte nello strumento, gonfiando le gote››.

La dimora di tre piani più un mezzanino fu costruita dal patriarca Christoph Alt nel 1790. Nel testamento ordinava ai suoi abitanti di non abbandonare la casa, pena la perdita dell’eredità. Quasi una condanna per qualcuno.

La casa dai toni cupi e dalle ampie stanze che né calore umano né alcun riscaldamento riusciva a scaldare,  vede aleggiare lo spirito altero e severo della vecchia zia Sophie, unica superstite dei figli del costruttore e inquilina del primo piano, alle prese con il nipote Franz deciso a sposare la giovane ebrea Henriette Stein e segue le vicende di questi neo Buddenbrook per ben tre generazioni.

Confinata come da un decreto imperscrutabile nell’oscillare alternativamente nell’attesa della felicità o nel rimpianto, Henriette è la vera attrice principale della saga degli Alt. Una Madame Bovary altrettanto insoddisfatta ma meno autodistruttiva. Figlia di un intellettuale ebreo e osteggiata dai fratelli di Franz, cattolici e tradizionalisti, sposa Franz non certo per amore ma per puro opportunismo e per dimenticare la sua infatuazione per il principe ereditario che proprio il giorno del suo matrimonio decide di suicidarsi.

Seguiamo l’evolversi di questo personaggio, il più sfaccettato psicologicamente e segnato da un’effettiva maturazione determinata dai casi e sbagli della vita e della storia, inizialmente volubile e superficiale nei sentimenti, alla fine capace di riconoscere un affetto tardivo per il suo consorte e di ribellarsi alla furia violenta dei nuovi padroni nazisti con un moto d’orgoglio sconosciuto alla predominate vigliaccheria austriaca.

Le è affine d’indole l’amato figlio maggiore Hans, un uomo senza qualità con velleità politiche. Durante il primo conflitto mondiale, a differenza del fratello Hermann divenuto tenente e tornato in patria decorato, Hans verrà fatto prigioniero. Da reduce vivrà con sofferenza gli ultimi aneliti dell’Austria felix e si innamorerà di Selma, una giovane ebrea rappresentante del nuovo mondo moderno e più libero anche per le donne.

Anche se si posiziona sicuramente un gradino sotto i Buddenbrook di Thomas Mann cui chiaramente si ispira, La melodia di Vienna di Ernst Lothar è certamente un prodotto ingiustamente trascurato della letteratura mitteleuropea, un canto del cigno malinconico del mondo di ieri che aggiunge un tassello altrettanto accattivante, epico e originale all’affresco della stagione crepuscolare di uno fra i Paesi europei più importanti della storia.

(Ernst Lothar, La melodia di Vienna, trad. di Marina Bistolfi, Edizioni E/O, 2014, pp. 608, euro 18)

“Acqueforti di Buenos Aires”
di Roberto Arlt

Di Roberto Arlt, ultimamente, si sta dicendo davvero tanto qui da noi. Tra i volumi ultimamente pubblicati in Italia che portano la sua firma, appare ora anche Acqueforti di Buenos Aires (Del Vecchio, 2014), un’ampia raccolta di articoli pubblicati da Arlt, nel 1933, sulle pagine del giornale «El Mundo» (con cui l’autore collaborò scrivendo Acqueforti dal 1928 fino al 1942, quando gli toccò passare a miglior vita). Grazie a questo libro, il lettore italiano potrà venire a conoscenza dell’estesa regione giornalistica che contraddistingue l’eclettica produzione del nostro portegno, della sua vena tagliente, graffiante e abrasiva, come si direbbe utilizzando un infausto linguaggio da rotocalco per sale d’aspetto per il quale chiediamo immediatamente indulgenza. Acqueforti, ovvero impressioni passeggere segnate col nero sul bianco, profili incisi di punta e al negativo sul metallo, piccoli ritratti messi a comporre intere ali di quella polifonia di voci umane, urbane e piuttosto disastrose, talvolta in scordatura, che già abbiamo visto appartenere all’universo letterario di Arlt.

Sappiamo infatti, dalla lettura di libri come I sette pazzi (SUR, 2013), Il giocattolo rabbioso (Cargo, 2012) e ancora Un viaggio terribile (Arcoiris, 2014) e Scrittore fallito (SUR, 2014), con quanta attenzione e quanto spasso Arlt abbia lavorato al tratteggio dei personaggi del suo mondo narrativo, esseri per lo più marginali, sconfitti, indolenti abitanti dei quartieri del primo Novecento (quando le città diventavano definitivamente città), dettagli corali di un quadro d’insieme che proprio nella marginalità spinge i limiti centrifughi del suo nucleo più intimo, trascinando la sua coerenza nella sottigliezza del bordo, laddove gli uomini e le cose, per non precipitare nella siderea assenza che il vuoto imporrebbe loro, devono inventarsi nuovi equilibri, rovinose evoluzioni ginniche grazie alle quali aggrapparsi agli appigli più disparati per non scivolare, strategie di sopravvivenza che si accomodano per esempio sull’invidia, sullo scrocco, sul dolo, sull’ignoranza, sull’inanità, sul soccorso offerto dal sotterfugio alle anime inermi che calpestano i marciapiedi o che si nascondono nell’atra atmosfera della suburra.

Sicché, con Acqueforti di Buenos Aires scopriamo una scrittura complementare a quella dei testi sopra citati (che forse le è pure necessaria), in cui Arlt, disilluso vagabondo per le strade della sua Buenos Aires, girovago munito di occhi attenti e di taccuino, rintraccia modelli da ritrarre in bozzetti passeggeri rifiutando in tutto e per tutto il bello stile che si richiede all’intellettuale, rifuggendo il ragionamento allungato a dismisura dalle parole imponenti di cui spesso s’arma chi scrive per mestiere. Piuttosto, in questi suoi articoli, Arlt indugia sull’acre e sarcastica invettiva. Come se per descrivere la strada e i suoi bizzarri abitanti ci sia bisogno di parlare una lingua abbastanza populista e alquanto condivisa, probabilmente figlia anche di un morbido sentimento un po’ confuso, che tra civiltà e barbarie propende evidentemente per la seconda, grazie al quale trovare la compiacenza degli altri, i lettori nella fattispecie. Una lingua, in sostanza, che non ponga distanza tra chi scrive, chi legge e colui di cui si scrive e si legge, giacché tutti e tre questi soggetti sono pur sempre attori della medesima farsa, del medesimo dramma.

(Roberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires, trad. di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio Editore, 2014, pp. 291, euro 15)

“Frank” di Lenny Abrahamson

Ispirato alla vita del musicista e commediografo Frank Sidebottom, Lenny Abrahamson dirige una commedia su un aspirante musicista e il suo incontro con una band pop d’avanguardia, capitanata dall’enigmatico Frank, un genio della musica che si nasconde all’interno di una finta testa gigante.

Jon Burroughs (Domhnall Gleeson) scrive canzoni insignificanti e sogna di sfondare come musicista. Un giorno per puro caso è testimone del tentativo di auto-annegamento del tastierista dei Soronpfrb, uno sconosciuto gruppo d’avanguardia. Il manager del gruppo, Don (Scott McNairy) offre a Jon di sostituirlo e di suonare quella sera stessa con loro. La serata è una catastrofe, ma nonostante tutto Jon accetta di entrare nel gruppo. Non immagina che dietro al tentato suicidio del tastierista ci sia la follia collettiva della band: c’è Clara (Maggie Gyllenhaal), la violenta e intransigente suonatrice di theremin che odia Jon dal primo istante; ci sono Nana (Carla Azar) e Baraque (Francoise Civil), che parlano esclusivamente francese; e poi c’è Frank (Michael Fassbender), il geniale leader, polistrumentista e cantante, che indossa sempre un’enorme maschera di cartapesta. Nessuno lo ha mai visto in faccia, nessuno conosce la sua storia, né perché si nasconda; e a nessuno interessa, solo al nuovo arrivato Jon. La band si trasferisce a Vetno, in Irlanda, per registrare del nuovo materiale. Al centro di questo ritiro musicale c’è ovviamente Frank, con il suo fare amichevole, a volte da recluso, ora eccentrico, ora esigente, mai banale, e la sua capacità di trovare ispirazione in ogni cosa. Passano così mesi e mesi di duro lavoro. Jon, non si sente soddisfatto come cantautore. Nonostante la profonda ammirazione per Frank, comincia a domandarsi cosa stia facendo. Usa i suoi soldi per risolvere le difficoltà finanziarie della band e inizia a pubblicare su youtube e twitter filmati e pensieri legati a questo vortice creativo di cui fa ora parte; i Soronpfrb diventano così un fenomeno di nicchia e vengono invitati a suonare al SXSW, un festival musicale in New Mexico. Ma le cose non andranno secondo i sogni di gloria di Jon.

L’esperienza autobiografica di Jon Ronson, sceneggiatore di Frank assieme a Peter Straughan, nonché ex-tastierista di Frank Sidebottom, alter ego del comico Chris Sievey, ha giocato un ruolo fondamentale nella stesura del film. Frank inizia infatti come un adattamento degli scritti di Ronson per poi svilupparsi in una storia originale; la scena in cui Jon Burroughs viene a contatto e poi reclutato dai Soronpfrb in cerca di un tastierista ricalca a grandi linee come Jon Ronson sia realmente entrato a far parte della band di Frank Sidebottom.

Frank inizia come una commedia surreale che parla di una band dal nome impronunciabile e dei suoi pazzi membri, per poi svilupparsi e cambiare tono, portando a concetti e riflessioni più profonde; una velata critica ai social network e quindi al rapporto tra viralità e popolarità; uno sguardo alla non necessaria e mai sufficiente convivenza tra il genio artistico e un’anima mentalmente travagliata, il dono e la croce di nascere musicista; la non accettazione, nel caso di Jon, della propria mediocrità e il sacrificio autoindotto di chi si crede un musicista senza averne reale capacità; il controsenso di un uomo come Frank, che anela a essere accettato e conosciuto da molti eppure teme il contatto visivo con il proprio interlocutore; un disarmante talento che non crede di potersi esprimere se non dietro una maschera, mostrandosi inerme e fragile come uno Ian Curtis, storico cantante dei Joy Division, rinato, sensibile come un eterno bambino sconfitto dalla vita, come Daniel Jonhston.

Il cast di Frank è perfetto. Tutti gli attori hanno suonato dal vivo i loro strumenti; Domhnall Gleeson (Questione di tempo, Il Grinta) riesce a bilanciare un uomo qualunque, un colletto bianco, e un aspirante artista, e a esprimere la sua difficoltà nell’essere il membro più normale di una band di pazzi; uno che non si dà per vinto neanche quando gli altri non prendono minimamente in considerazione le sue idee o sono violenti con lui. Michael Fassbender interpreta magistralmente un ruolo per niente facile, recitando per la quasi totalità del film sotto una maschera che lo lascia senza lo strumento più importante per un attore; si inventa alternative per esprimere la fisicità di una mente disturbata utilizzando il corpo durante le scene di registrazione, come se fosse pervaso dal processo creativo.

Ma cosa ci lascia Frank, in definitiva? Ci lascia il quesito se la pazzia, la normalità e la creatività possano coesistere in un artista, o se piuttosto debbano coesistere; Ronson non risponde a questa domanda, ma nel finale afferma che non è la sofferenza a rendere (Frank) un musicista migliore, a fargli raggiungere una particolare profondità; piuttosto lo rallenta.

Frank è stato presentato per la prima volta al Sundance Film Festival del 2014 per poi girare per vari festival internazionali, incluso il Biografie film festival di Bologna.

 

(Frank, di Lenny Abrahamson, 2014, commedia, 95’)

 

“Pietroburgo”
di Andrej Belyj

Leggere Pietroburgo di Andrej Belyj (Adelphi, 2014) è come entrare in un mondo singolare, beffardo, vacillante e rovinoso, sempre prossimo a collassare nella liquida e macilenta sostanza su cui si erige una geometria a dispetto delle maestose ambizioni poco cartesiana – e abitato da un’umanità  volta per volta umbratile o febbrile ma sempre, a dir poco, fantasiosa. Basta leggere quant’è detto del primo capitolo, «nel quale si narra di un insigne personaggio, dei suoi giochi mentali e della precarietà dell’essere».

Ableuchov è un senatore che dovrebbe emblematizzare il dominio oscuro quanto irragionevole della burocrazia zarista, che «ha elevato a principio la freddezza» – il che spiega perché nella sua casa i subordinati vivano in un clima di marcata soggezione, figlio a parte. Ma non è che gli altri personaggi siano più solidi di lui.

Intanto c’è Pietroburgo. Sontuosa e mefitica insieme. Ne sapevano qualcosa già Gogol, Dostoevskij, per tacere degli altri: ce lo ricorda nella splendida introduzione al romanzo di Belyj quel grande scrittore che fu Angelo Maria Ripellino (sua anche la traduzione che Adelphi riesuma per l’occasione dalla vecchia edizione Einaudi). Al netto di alcuni stilemi diremmo avanguardistici (la stessa Adelphi presenta il libro come «il capolavoro romanzesco del simbolismo russo») che al lettore d’oggi possono parere stranianti e lato sensu esoterici, la compagine della città (le cui strade in autunno continuano «a scorrerti nelle vene come una febbre») vale da sé la forza sensoriale (non solo visiva o persino visionaria) del libro.

I suoi personaggi gli appartengono. Dal senatore in avanti sembrano macinati da una instabilità psichica che sembra provenire anch’essa dalla materia lutulenta della Pietroburgo più nascosta. L’uomo di stato che si reca al suo Dipartimento si perde nell’infinità delle nebbie di una città sfagliata nella fitta umidità, tra la brina che «irrora le strade e le prospettive»: lo sguardo che vi proietta non può che essere allucinato. Se di un politico siamo abituati a leggere le nefandezze, l’ipocrisia, la stupidità, i crimini pubblici e privati, il senatore qui in questione è un uomo che vive di acuti strappi neuronali, di visioni che intercettano lo spazio sbilenco e fantasmagorico delle prospettive sfalsate dalla fuliggine pietroburghese – e ne esce disfatto. S’imbatte in esemplari sparsi di una Russia non meno sghemba di quanto sia lui, una distesa periclitante di figure che sgusciano e scompaiono come ombre in una città oltre la quale – nonostante tutto – pare giacere il nulla. E non sa, l’omino, che qualcosa di ancor più terribile si sta abbattendo su di lui. Il centro narrativo del romanzo sta infatti nella macchinazione di un parricidio – tema “europeo” quant’altri mai. Che Belyj, rivoluzionario ma eterodosso, teosofo e bevitore non occasionale (e tante altre cose), sentiva particolarmente. E che vira nel romanzo in una direzione tragicomica anche a dispetto della cupezza – del kafkiano «odore di fumo» – implicita nel piombo di una rivoluzione (imminente: il romanzo è ambientato nel 1905…). La manovra si risolve in un gioco vertiginoso di ombre, fantasmi, deliri: maschere dietro le quali avrebbe ancora detto Kafka si celano altre maschere. Ribelli e burocrati da ancien régime roteano tutti nello stesso vortice fosforescente – mettendo in scena il lato farsesco del Novecento. A suo modo, un classico.

(Andrej Belyj, Pietroburgo, Adelphi, a cura di Angelo Maria Ripellino, Adelphi, 2014, pp. 384, euro  22)

[RFF9] “La spia – A Most Wanted Man” di Anton Corbijn

Ultima grande prova di Philip Seymour Hoffman prima della prematura scomparsa dello scorso febbraio per il giorno conclusivo del Festival Internazionale di Roma. Dopo essere passato per i festival di mezzo mondo (a gennaio scorso era in concorso al Sundance), A Most Wanted Man arriva all’Auditorium nella sezione Gala.

Ad Amburgo un’unità speciale, e non ufficiale, dei servizi segreti vigila sulle attività della comunità islamica presente in città. In particolare, l’attenzione si concentra su un giovane appena arrivato clandestinamente dalla Turchia. È Yssa Karpov, un ceceno figlio di un militare russo arrestato per una serie di attentati contro gasdotti e strutture energetiche. In Germania non conosce nessuno, ma ha un nome da contattare, quello di un grande banchiere, Tommy Brue, che conserva l’eredità del padre. I servizi lo seguono per capire se è arrivato ad Amburgo per collegarsi al terrorismo islamico europeo o solo per fuggire dalle torture russe. Diventerà un elemento centrale in un’inchiesta più grande, che coinvolge un grosso benefattore musulmano sospettato di contatti con il mondo terroristico.

È il nono film tratto dai romanzi di John Le Carré, il ventunesimo se si tiene conto delle produzioni televisive. Un bacino eterno, quello della letteratura spionistica dell’ex agente segreto britannico, che era stato in servizio proprio ad Amburgo, tra le altre destinazioni. In Italia, A Most Wanted Man è stato pubblicato da Mondadori con il titolo Yssa il buono. Per il film si è deciso un più generico La spia, probabilmente per assonanza con l’ultimo lavoro di Le Carré portato sul grande schermo, La talpa. Alla terza regia dopo l’ottimo Control e il trascurabile The American, Anton Corbijn costruisce un thriller spionistico sfumato di politica internazionale classico e solido. Fotografia livida e cupa, grandi alberghi che si alternano a locali sordidi, cielo grigio, pedinamenti e sequestri. C’è tutto il repertorio. Reggendo la tensione investigativa con equilibrio, dilungandosi eccessivamente nel rapporto tra l’avvocatessa e Karpov, Crobijn confeziona un thriller elegante e coeso, anticonvenzionale nel suo rifiuto di qualsiasi momento di azione e spettacolo. È questo l’elemento da sottolineare. Le spie di Amburgo non sono uomini da pistole in pugno e omicidi a mani nudi. Niente acrobazie alla Mission Impossible, niente sangue freddo alla Bourne, nemmeno i complotti di La talpa. Sono degli organizzatori, dei tessitori di trame, dei costruttori di scenari in cui far muovere le loro pedine. Sono architetti del sospetto.

Sul sistema di istituzioni e servizi segreti, agenzie ufficiali e controllo statunitense, si proietta l’ombra della paranoia post undici settembre che continua a serpeggiare nelle relazioni internazionali di tutto il mondo e a sancire l’impossibilità di fiducia e reale convivenza pacifica, priva di sospetto, tra il mondo occidentale e l’Islam.

L’unità guidata dal Günther Bachmann di Philip Seymour Hoffman lavora in autonomia dalle istituzioni, ma in costante contatto. Sono gli Stati Uniti, però, attraverso un funzionario dell’ambasciata a Berlino, a controllare tutto. Sono stati loro, alcuni anni prima, a far crollare la rete di contatti di Bachmann a Beirut e a costringerlo di fatto al rientro. Sono loro, nella sostanza, a determinare le operazioni di intelligence anche nei paesi europei.

Bachmann crede di pilotare un sistema in cui riesce a coinvolgere l’avvocatessa per i diritti dei rifugiati politici che per prima aiuta Karpov e Brue, ma è solo un elemento. In mezzo rimane Yssa, combattuto perennemente tra le sue identità, russo e ceceno, islamico nel nome ma russo nel cognome, rifugiato e latitante.

Philip Seymour Hoffman rende un Bachmann sgualcito e compassato, tutto sigarette e superalcolici, su cui pesa perenne il senso del lavoro che svolge. Lo allontana con il distacco, con l’indifferenza. Intorno a lui, ad accompagnarlo nell’ultimo grande ruolo (e sono stati troppo pochi i ruoli da protagonista) si muovono bene Willem Dafoe, Rachel McAdams, Robin Wright e la tedesca Nina Hoss.

 

(La spia – A Most Wanted Man, di Anton Corbijn, 2014, thriller, 121’)