[RFF9] “Nightcrawler – Lo sciacallo” di Dan Gilroy

Passato con grande successo al Toronto International Film Festival arriva all’Auditorium Nightcrawler – Lo sciacallo, prima regia di Dan Gilroy in concorso nella sezione Mondo genere.

Louis Bloom è un giovane spiantato che gira in macchina per Los Angeles la notte in cerca di espedienti. Ruba rame, recinzioni metalliche, tombini di piombo, che poi rivende per pochi dollari. Una sera, durante uno dei suoi giri, si ferma a osservare due poliziotti che cercano di estrarre una donna da una macchina in fiamme. Sulla scena dell’incidente piombano due cameraman che iniziano a riprendere il salvataggio. È così che Bloom scopre il mondo degli “stringer”, cineoperatori freelance che vanno in giro la notte sulle frequenze della polizia a caccia di scoop da rivendere ai notiziari del mattino. Gli piace, come idea. Si procura una telecamera, una radio, e inizia a girare, andando a caccia di rapine, di incidenti d’auto, di sparatorie. Fa un colpo, poi un altro. Mostra immagini a cui nessun altro arriva. Cresce, prende un assistente, compra nuove telecamere, una macchina veloce, e ribalta la sua posizione con il canale tv con cui collabora: non più anonimo procuratore di immagini, ma elemento centrale del notiziario.

Il vantaggio, se così si può chiamare, di Bloom è nel suo essere completamente distante da qualsiasi dimensione umana. Non c’è nessun filtro di compassione o empatia tra le cose che vede e quelle che decide di filmare. Bloom non apprezza la compagnia degli altri, e lo ammette senza problemi. Non vuole una relazione che non gli porterebbe niente. Chiede sesso alla direttrice del notiziario per continuare a fornirle l’esclusiva, e lo fa con lo stesso distacco di una mediazione d’affari. Gli altri non esistono, non li vede. Vede e vuole solo l’immagine sensazionale, a ogni costo, entrando nelle case delle persone, piazzando la telecamera di fronte alla morte, componendo l’inquadratura perfetta prima dell’arrivo della polizia, creando apposta la scena del crimine per il suo servizio, se serve. Non c’è morale, non c’è dignità.

Per il suo esordio alla regia, Dan Gilroy (una carriera come sceneggiatore, dal visionario The Fall a The Bourne Legacy) ha deciso di raccontare le conseguenze estreme della crisi, lo svuotamento di significato del mondo umano di fronte al voyerismo e alla società del consumo e dello spettacolo. Non è un mostro, Louis Bloom. Non lo è nella misura in cui basa le sue azioni su una logica rigorosa e inattaccabile di profitto e reciprocità, di ottenere il massimo da tutto ciò che arriva a ogni costo. È consapevole, lo dice all’inizio mentre cerca di vendere rete metallica, che per avere cose buone bisogna lavorare tanto, che c’è da lavorare e impegnarsi qualsiasi cosa comporti. Lui impara quello che c’è da imparare, come può. Ascolta ogni lezione, ogni suggerimento, ricorda ogni parola. Con i suoi occhi sempre spalancati assorbe tutto quello che serve per arrivare al successo. E non è un mostro nel momento in cui si ritrova a offrire un servizio richiesto, a spostare poco più in là un limite già basato in tutto sulla sensazione del momento. I notiziari che serve non ricercano la notizia, cercano la traccia da lasciare nello spettatore, cercano il motivo per essere preferiti a internet o agli altri canali. Non si tratta di dire che c’è stata una sparatoria in una villa, c’è da far vedere i cadaveri, perché la notizia la possono dare tutti.

È in questa prospettiva che Bloom è il prodotto compiuto del mondo, il figlio radicale dell’orrore quotidiano. Privato di prospettive, senza neanche più l’illusione di una stabilità data dal lavoro fisso, da un sentimento eterno, Louis Bloom ha elevato il nulla a sistema. Striscia nella notte in caccia di prede non per sé ma per il pubblico da nutrire la mattina a colazione, prima di andare a lavoro, di portare i figli a scuola. È quello che vogliono, è quello che lui procura. Ed è per questo che lo sciacallo continua a lavorare.

Muovendosi in una Los Angeles livida e buia, vicina ai colori di Collateral di Michael Mann e alla solitudine devastante di Crash di Paul Haggis, Louis Bloom è un personaggio da ricordare come simbolo di alienazione e inquietudine grazie al lavoro strepitoso di Jake Gyllenhaal, dimagrito venti chili, scavato nel volto e negli occhi, e distante come non mai dall’aspetto da bravo ragazzo americano. È la sua interpretazione migliore, una delle colonne su cui regge Nightcrawler – Lo sciacallo con cui Dan Gilroy si mostra definitivamente al cinema, non più nascosto negli script ma proponendo la propria idea di cinema. Cupo, spietato, veloce quando c’è da accelerare, e in cui ognuno è solo, sotto l’occhio della telecamera.

(Nightcrawler – Lo sciacallo, di Dan Gilroy, 2014, thriller, 117’)

[RFF9] Al Festival tra la famiglia Maia e una foresta di ghiaccio

Os Maias, romanzo del 1888 di Eça de Queirós, è uno dei testi fondamentali della letteratura portoghese. Attraverso la vicenda di tre uomini della famiglia Maia – il nonno Alfonso, il figlio Pedro, il nipote Carlos – si racconta la storia dell’alta borghesia portoghese e delle sue contraddizioni e debolezze.

Al regista João Botelho, già a Roma nel 2008 con A corte do Norte, premiato con la menzione speciale, interessa fino a un certo punto approfondire il testo di Eça de Queirós. Sceglie di concentrarsi solo su alcune “scene di vita romantica”, come recita il sottotitolo, e in particolare sulla storia del nipote Carlos, recuperando le vicende di Alfonso e Pedro in rapidi flashback. Le vicende sentimentali dell’ultimo nato sembrano un pretesto per riflettere sulla condizione della società portoghese non solo nel diciannovesimo secolo, ma per riflesso anche su quella contemporanea, sulle sue fragilità e ipocrisie.

Dopo essere cresciuto nella casa di campagna con il nonno, suo unico tutore dopo la morte del padre e l’abbandono della madre, Carlos, ormai adulto, fa ritorno a Lisbona, nella casa di famiglia chiamata Ramalhete (rametto, e allude al girasole che compare sulla facciata) per avviarsi alla professione medica. Lì inizia a frequentare un gruppo di agiati borghesi di varia provenienza con cui conversa della situazione del paese e di donne. La pigrizia culturale e l’agiatezza porteranno Carlos a rallentare la sua formazione. È soprattutto con il poeta João da Ega che stringe un legame particolarmente intenso, condividendo con lui la passione per le donne sposate. Sarà proprio conoscendo una giovane sposata a un brasiliano, Maria, che Carlos farà una scoperta terrificante.

La rappresentazione vera e propria della storia della famiglia Maia non importa a Botelho. Lo mette in chiaro sin da subito dalla scelta stilistica che imposta la narrazione a una finzione teatrale. Tutto girato in interni, con gli sfondi affidati a pannelli acquerellati, luci intense e camera fissa, Os Maias strania lo sguardo dello spettatore con una confezione anticinematografica e una recitazione che non evita gli eccessi tragicomici. Il racconto dei vizi del giovane Carlos e dei suoi amici – l’adulterio come marchio d’infamia; la sostanziale mollezza di chi non esercita alcuna professione e vive delle risorse familiari – diventa simbolo del decadimento morale di un’intera classe sociale, allora come oggi, incapace di rimboccarsi le maniche se non nel momento del disastro, come nel finale incestuoso, che risveglia dall’illusione del nulla.

Nel mettere in scena la decadenza borghese, Botelho si diverte a giocare con vari strati di cultura, dal Gattopardo (il nobile Tancredi che conquista la madre di Carlos), all’accoppiata Signora delle camelie – Traviata, passando per Schopenhauer (la caduta della tenda/velo in casa Maia, nel finale di dolorose scoperte) e per l’ingenuità del Candido voltairiano.

Impeccabile nella confezione teatrale, raffinato e colto nella scrittura, Os Maias – Cenas da Vida Romntica stenta però a conquistare l’attenzione del pubblico per una eccessiva lentezza espositiva che si collega proprio al linguaggio del teatro. Ottimo il lavoro degli interpreti, in particolare di Pedro Inês, chiamato con il suo Ega a guidare l’intero cast tra i vari registri.

 

 

Esordisce invece al Festival Claudio Noce, che nel 2009 aveva vinto il premio per il migliore autore esordiente a Venezia con la sua opera prima Good Morning Amal. Lasciata Roma e la Somalia di Aman, Noce continua a parlare di immigrazione e integrazione in La foresta di ghiaccio raccontando la vita di frontiera del nord est italiano, andando a ritroso nel tempo fino al grande esodo che porto migliaia di rifugiati politici in Italia dall’ex Iugoslavia.

Pietro viene inviato in un piccolo paese tra le valli alpine per un guasto alla centrale elettrica che ha lasciato tutte le case senza corrente. Fa amicizia con Lorenzo, che lavora alla centrale gestita dal fratello di madre serba Secondo e va in giro con un quad sognando il Brasile. Lana è stata mandata lì da Lubiana. Il suo compito ufficiale è quello di rintracciare un orso che si aggira tra i boschi. In verità è una poliziotta in incognito che deve fare chiarezza sul ritrovamento del corpo di una ragazza nordafricana pochi metri oltre il confine. C’è un giro strano tra la malavita slovena e il paese, che ha che fare con dei misteriosi pacchi da consegnare. Quando Lorenzo sparisce l’indagine di Lana la costringe a confrontarsi con gli abitanti della valle.

Inverno, neve, freddo, boschi, cielo grigio, isolamento, buio. Elementi perfetti per costruire un noir. La piccola realtà del paese, con l’arrivo di due stranieri a turbare gli equilibri, un eremita sgarbato e temuto che dalla sua centrale non scende mai in paese e indossa sempre una pelliccia d’orso, una ragazza con qualche problema che tutti proteggono e sfruttano. Poi l’alcol, tanto, a ogni ora, a sostituire l’acqua, a dare calore e accendere scontri per riempire il vuoto del freddo e del tempo, e quella frontiera lì, a pochi passi, da cui entrare e uscire, con cui fare affari. Claudio Noce si è fatto affiancare in sceneggiatura da Francesca Manieri, Elisa Amoruso e Diego Ribon. In quattro hanno cercato di costruire una situazione di tensione, di sospetto continuo, di pericolo. Non ci sono riusciti, perché La foresta di ghiaccio si basa su una trama che ancor prima che confusa è improbabile nel suo tentativo di conciliare a tutti i costi momenti temporali lontani vent’anni.

Pur partendo da uno spunto interessante come può essere quello della realtà dell’immigrazione nel Nord Italia, i quattro sceneggiatori non sono riusciti a sviluppare un intreccio coeso, limitandosi ad aggiungere elementi senza preoccuparsi della coerenza e della coesione narrativa. In assenza di tensione nella scrittura, Noce ha poi pensato bene di ricorrere a ogni forma di stereotipo registico a sua disposizione, dall’abuso del rallenty, ridondante e retorico, alla sfilza di sguardi truci che i personaggi si scambiano a ogni occasione. Non aiuta la colonna sonora invasiva di Ratchev & Carratello, con l’esplosione mozartiana finale che dovrebbe comunicare una resa dei conti catartica ma contribuisce solo alla confusione generale.

Ci si può vedere una riflessione sulla natura feroce dell’uomo in una dimensione isolata e lontana dalla civiltà, sulla ferocia della contrapposizione nazionale delle terre di confine, ma sono elementi che non aggiungono spessore.

A sette anni dalla sua ultima regia, il pluripremiato Emir Kusturica continua a riproporsi come attore internazionale dopo Il paradiso degli orchi. Il suo Secondo, di poche parole, violento e forte, è notevole. In realtà tutto il cast si impegna, da Ksenia Rappoport a Domenico Diele, che interpreta il giovane ed enigmatico Pietro. Adriano Giannini si gonfia nei panni dell’alcolizzato triste Lorenzo e abbandona il ruolo di bello a tutti i costi.

“La voce dei libri”
a cura di Matteo Eremo

Ci entrano in molti. È vero, una fetta resiste, totalmente impermeabile all’istinto. Increspa la fronte, arriccia quasi tutta la faccia e poi sceglie altro, forse temendo il contagio. Ma oltre a loro, che in Italia restano troppi, un discreto plotone di passi buca la soglia, sospinto dai motivi più cangianti. C’è chi lo fa per atteggiarsi, perché sembrare pensieroso e distante con gli occhi risucchiati ribattezza in due minuti un intero pomeriggio immolato a contare sportelli da Ikea; c’è chi si crede un esperto e annusando sorgenti come un rabdomante, per irradiare consigli alla sua cricca di seguaci. C’è poi chi lo fa perché banalmente non può rinunciarci. Perché altrimenti il fiato si accorcia, il sangue recalcitra. E allora si va, aspettando l’incontro. Questo libro parla di tutti loro, li ritrae mentre pascolano tra gli scaffali, mimetizzati tra un bestseller e un pallido esemplare a rischio estinzione. E soprattutto, parla dei suoi simili. Di titoli, volumi e del loro habitat.

Matteo Eremo è partito, in cerca di luoghi. Un po’ colti, un po’ di culto. E nel suo peregrinare tra spicchi di carta, ha scelto undici avam-posti sparsi per l’Italia, undici baluardi pronti a difendere La voce dei libri (Marcos y Marcos, 2014). «Undici strade per fare libreria oggi», come palesa il sottotitolo.

Librerie che resistono, ai ruggiti dei Megastore, agli assedi del mercato on line, alle feudali ordinanze della crisi e di chi ne abusa per gambizzare sogni. Dalla Svizzera a Palermo, da Torino a Messina, piovono le storie di luoghi e di chi li ha creati. Librai per dinastia, come nel caso di Galla a Vicenza o di Casagrande a Bellinzona, che hanno navigato gli anni senza piegarsi, cambiando sede ma non passione; oppure librai per vocazione, come Andrea Geloni, trasformista dei mestieri che dopo studi giuris-prudenti, ha capito che la strada da inforcare era compresa tra due pagine. Affascinante catalogo dei tipi bibliofili.

Dal libraio decano al maratoneta, dal fotografo che arreda i muri con le sue immagini alle affabulatrici che ipnotizzano i clienti. E poi c’è da spulciare tra gli aneddoti, perché ogni vetrina contiene più di ciò che mostra. Un caso su tutti è quello della libreria Fogola, spuntata nel petto medioevale della Lunigiana, nipote della favola dei librai ambulanti. Una ciurma di mercanti arrampicati su un dorso di montagna per vendere almanacchi, lunari, immagini sacre e poi spalmati in pianura e sempre più lontano, fino a fondare case editrici in Spagna e in Argentina, come i Maucci, o librerie disseminate in tutta Italia, proprio come i Fogola.

Librai erranti di cui si capta ancora l’eco, che impastano d’incanto un angolo minuscolo di quaranta metri quadri, dove la gente si accalca e si trattiene per sentirsi dire di quale titolo ha bisogno. Molto più di quanto accada con un medico di famiglia. Perché, a quanto pare, è ancora questo a fare differenza. A tracciare il displuvio, tra un magazzino di pagine all’ingrosso e una libreria. Non solo sconti e locandine ammiccanti, obelischi di strenne e soliti autori, ma professionisti, uomini e donne innamorati dell’avventura di leggere e di restituire il viaggio. Custodi di scorci, pastori di storie.

Librai, non commessi. Esperti di valori, non sudditi d’incassi. Ognuno con la sua ricetta, con l’indomita spinta ad ascoltare La voce dei libri e a farsi interprete per gli altri. L’elemento di spicco di questo album non è di certo il suo linguaggio: a tratti basicamente giornalistico e più spesso sentimentale, dolciastro, ingenuamente retorico. Il suo punto di forza dimora in ciascuno dei mondi che descrive. Nelle parole dirette di chi sopravvive di libri e di chi con i libri prova a espandersi. Sorridendo, lavorando, crescendo nonostante.

Attualmente anche la scena editoriale sembra essersi accorta del potenziale ammaliante delle tane di autori, proponendo scie di titoli ciclostilati tra cui Lo strano caso dell’apprendista libraia di Deborah Meyler, La libreria degli amori inattesi di Lucy Dillon, La libreria dei nuovi inizi di Anjali Banerjee o ancora La libreria del buon romanzo di Laurence Cossé, fiutando il successo e disossandolo di nuove uscite.

Ma al di là di una quinta ideale per un romanzo rosa, ogni libreria (soprattutto se indipendente) è una storia di coraggio, di ribellione cosciente al silenzio meccanico di un braccio che tratta i libri come sugo precotto. È in questo che riesce La voce dei libri. Nella speranza profusa che l’amore trinitario tra libraio, libro e lettore non si appanni sulla cassa di un supermercato assieme a due ciuffi di macinato. Perché nessun vero racconto ha la data di scadenza. Scritto da chi, quando si aggira tra le ceste di novità, cerca di non essere solo un’addetta alla vendita.

(La voce dei libri. Undici strade per fare libreria oggi, a cura di Matteo Eremo, Marcos y Marcos, 2014, pp. 288, euro 12)

[RFF9] Tra la Colombia e il manicomio

Andrea Di Stefano principalmente attore, con Escobar – Paradise Lost fa il suo esordio come regista e sceneggiatore. Idea originale per la collocazione nella storia esistente e il mischiarsi di personaggi reali e non. Piazza la storia d’amore tra un canadese in Colombia, a caccia del paradiso di surf, spiagge e chioschi sulla spiaggia, e una nipote del signore della droga (e del paese) Pablo Escobar. Gli anni d’amore coincidono con l’ascesa del boss, la guerra tra il cartello Medellin e il governo colombiano, la trattativa e la consegna. Nick, il giovane canadese, conosce Maria per caso, chiedendole in prestito il furgone. Scatta subito qualcosa, lei sta organizzando un evento per lo zio, che ha appena ristrutturato l’ospedale di un pueblo e andrà in piazza a raccogliere consensi. Era ancora senatore, all’epoca, era ancora un personaggio pubblico. Nick ignora chi sia questo zio potente anche quando inizia a frequentare Maria. Va a casa Escobar, in elicottero, per il compleanno di Pablo, lo conosce, si stupisce per le posate in oro e allora chiede come faccia a essere così ricco. E viene fuori la cocaina, ch è normale per i colombiani. Lo zio Pablo si limita a esportare un prodotto nazionale, niente di più. Tutto sommato, comunque, c’è poco da temere dallo zio Pablo, secondo Nick, perché sarà pure un signore della droga, ma in famiglia è gentile e simpatico. Fino a un certo punto.

Pablo Emilio Escobar è stato il re della cocaina colombiana tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Nel 1991 si consegnò alle autorità colombiane per evitare di finire nelle mani della polizia statunitense o vittima di un agguato dei suoi, sempre più numerosi, rivali. Fu detenuto in un carcere privato che si era fatto costruire con molte poche caratteristiche in comune con una vera prigione. Nel 1993 è morto in uno scontro a fuoco.

È tutto giocato sulla doppia dimensione del più importante signore della droga della storia, Escobar – Paradise Lost, già visto a Toronto, al festival di San Sebastian e a Zurigo, e su un gigantesco Benicio Del Toro che sprigiona minaccioso carisma anche sfatto nelle tute, nella barba e nella pancia del boss. Per il resto c’è poco altro. Una lunga parte introduttiva, piuttosto piatta, sull’amore dei giovani e la lenta presa di consapevolezza di Nick sulla vera identità di Escobar, il contrasto tra la leggenda criminale e il pacato uomo di casa, tra il capo cartello e il capo famiglia, prima di lasciare spazio all’azione finale, alle sparatorie e alla caccia all’uomo che non dicono molto di nuovo. Ha un limite nella serenità con cui il ragazzo qualunque Nick si relaziona con una realtà come quella del narcotraffico colombiano e nell’eccessiva facilità con cui uno sconosciuto, per di più straniero, viene coinvolto nella vita privata di un boss. L’esordio dell’italiano Di Stefano è, paradossalmente, rassicurante nel suo essere convenzionale, nel suo inserirsi nei meccanismi del genere.

Ha ricevuto il Marc’Aurelio del futuro, il regista russo Aleksej Fedorcenko, già premiato a Venezia nel 2010 con il premio della critica per Silent Souls e ancora prima vincitore nella sezione Orizzonti della kermesse lagunare con il finto documentario First on the Moon. All’Auditorium ha portato Angeli della rivoluzione, rilettura artistica di un fatto realmente accaduto nell’Unione Sovietica centrale.

Nel 1934, a dieci anni dalla salita al potere di Stalin, l’Unione Sovietica non è ancora una realtà completamente coesa. Nella regione della Yugra, a nord del Kazakistan, le tribù locali degli Ostiachi e dei Nenci, spinti dai loro sciamani, rifiutano la realtà dei soviet e aspettano il ritorno dello zar. Per trovare una soluzione, viene inviato lungo le sponde del fiume Ob un gruppo di agenti scelti che negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d’ottobre era specializzato nel raccogliere consensi al regime. Le cose sono cambiate da allora. Tutti gli agenti hanno lasciato l’esercito, sono diventati artisti d’avanguardia e servono il regime in nuovi modi. Solo Polina la Rivoluzionaria, una leggendaria combattente comunista protagonista di tante imprese, ha continuato il suo lavoro in prima linea. È lei a guidare il gruppo. Nella città di Kazim verrà fondato un avamposto culturale per portare le novità dell’avanguardia sovietica.

All’origine di Angeli della rivoluzione c’è la storia vera della ribellione di Kazim che negli anni Trenta del secolo scorso colpì la Siberia occidentale. Le popolazioni rurali indigene rifiutavano il sistema sovietico delle collettivizzazioni coatte e opposero un assoluta resistenza all’avanzata del regime che portò a una violenta repressione armata da parte di Mosca.

Il pretesto storico serve a Fedorchenko principalmente per porre sullo schermo il contrasto tra cultura centrale e natura, tra struttura del regime e naturalezza della vita delle tribù, tra finzione e realtà espressiva. Appellandosi ai valori della Dea, che venerano come grande cacciatrice, gli Ostiachi e i Nenci si oppongono al sistema esteriore di tecnica e rappresentazione che i sovietici vorrebbero portare. Mosca tenta la conciliazione attraverso la finzione artistica, inviando registi, musicisti, architetti e scultori, che propongono un’immagine di realtà diversa dalla natura, spinta oltre la figura per sublimare nel simbolo.

Il regista di Spose celestiali dei mari di pianura (visto a Roma nel 2012), fa un cinema soprattutto di immagini. Sfrutta i paesaggi per comunicare, contrapponendoli agli interni simmetrici, quasi teatrali nel loro rigore compositivo, per evidenziare il contrasto tra la libertà naturale degli indigeni e il rigore esterno imposto dal regime, tra la rappresentazione dell’avanguardia e il contatto con l’espressione immediata. Visivamente, offre molto. Narrativamente, molto meno.

C’è invece Edgar Allan Poe dietro Stonehearst Asylum, precisamente il racconto Sistema del dottor Catrame e del professor Piuma, già base narrativa per un cortometraggio francese di più di cento anni fa.

È la vigilia di Natale del 1899. Il giovane dottor Newgate arriva al manicomio di Stonehearst per fare pratica di medicina psichiatrica dopo gli studi a Oxford. Ad accoglierlo trova il professor Lamb che lo stupisce subito con i suoi metodi apparentemente lontani dall’ordinario. Newgate è un medico di nuove vedute, concepisce la psichiatria come riabilitazione dei malati e non come semplice internamento, come voleva la medicina dell’epoca. Lamb è oltre i metodi classici e oltre le aperture. Nell’istituto i degenti, appartenenti alla alta società europea e inviati lì da famiglie che se ne vogliono liberare, girano liberi unendosi al personale nelle ore dei pasti, mentre il primario progetta di smantellare le celle di contenimento con l’avvento del nuovo secolo. Newgate rimane subito colpito da una paziente affetta da isteria patologica, Eliza Graves, che ha aggredito il marito colpendolo a un occhio e a un orecchio e trova conforto solo suonando il pianoforte. È durante la sua prima notte alla struttura che il giovane dottore scopre che Lamb non è il vero direttore e che nessuno del personale è quello che sembra.

Brad Anderson aveva già portato il suo cinema in manicomio nel 2001 con quel Session 9 che aveva colpito non poco la critica. Tre anni dopo, con L’uomo senza sonno, aveva continuato a indagare le contraddizioni della mente indotte dalla psicosi. C’era attesa, per Stonehearst Asylum. Attesa perché Anderson sembrava in grado di saper reggere una materia che narrativamente avrebbe poco da invidiare a quello Shutter Island di Martin Scorsese che ha lasciato una grande impronta nel cinema degli ultimi anni. Attesa perché intorno al manicomio si era raccolto un cast di livello, con attori britannici del calibro di Michael Caine e Ben Kingsley, di Jim Sturgess e Kate Beckinsale. Invece non funziona nulla, o quasi. Tutto l’apparato gotico tipico della letteratura di Poe si perde in fretta. Senza essere un horror, senza essere un thriller, Stonehearst Asylum fatica a trovare una direzione verso cui evolversi inciampando troppe volte nella trama sentimentale che lega Newgate a Eliza. Manca inquietudine, manca tensione drammatica.

Ci si può leggere una riflessione sul cambio d’epoca legato alla fine del secolo, al passaggio da una concezione della psichiatria come cura per la società (liberarsi dei malati ritenuti pericolosi o sconvenienti) a una visione rivolta alla salute del paziente, senza ricorrere ai metodi medievali – definizione di Lamb -basati sulla sanzione fisica, ricercando invece l’indagine sulle origini dei traumi. Sotto questa lettura, i pazienti sono molto più evoluti dei medici, che si preoccupano solo di soddisfare le famiglie dei pazienti. Ma anche l’eventuale dimensione sociale, la ricostruzione storica dei metodi psichiatrici, è appena accennata. Si riscatta, in parte, con il colpo di scena finale.

“Gli eroi imperfetti”
di Stefano Sgambati

Dopo un paio di pubblicazioni, tra cui Fenomenologia di Youporn, arriva il vero e proprio romanzo d’esordio per Stefano Sgambati: Gli eroi imperfetti (minimum fax, 2014), ambientato a Roma, in una Ponte Milvio indolente, dove si intrecciano le vite di cinque persone.

Fabula e intreccio, sviluppate con coscienza, in un’architettura stabile e senza fragilità, producono un ritmo narrativo che si avvale della potenza intrinseca dell’artificio del noir, ma in cui la centralità concettuale non risiede nella soluzione del mistero (l’equilibrio narrativo viene spezzato dal racconto di un presunto omicidio avvenuto quindici anni prima, a cui, nel corso della storia, si lega un ulteriore presunto stupro) – che comunque è trascinante per tutto l’arco della narrazione –, ma alloggia nel modo in cui i vari personaggi reagiscono alla storia stessa, un aspetto che nobilita il romanzo senza bisogno di categorizzarlo.

Una coppia (lui vinaio, lei dipinge per passione) invita a cena Gaspare, un distino uomo sulla sessantina che lavora in un negozio di cornici vicino l’enoteca che gestiscono i due. Decidono di fare il classico gioco delle verità, in cui ognuno deve raccontare un aneddoto della propria vita, e Gaspare racconta un fatto talmente atroce che l’esistenza della coppia non sarà più la stessa.

A loro si aggiungono le vicende di Irene, figlia di Gaspare, ragazza che ama bere e va dalla psicologa, che ha una relazione non stabile con Matteo, libraio che lavora nella libreria vicino all’enoteca e al negozio di cornici, perdutamente innamorato di lei, in un crescendo narrativo che trova il suo climax e successivamente sbocco nel simbolismo di una piena del Tevere dove, attorno ai cinque protagonisti degli Eroi imperfetti, gruppi di persone se ne stanno a fare foto e a documentare ciò che sta accadendo, per poter pensare, e dire, “io c’ero”, – sempre interessante il modo in cui l’autore riesce a delineare il tipo di conformismo che attanaglia gli esseri umani, soprattutto in quest’era dove l’ingerenza della tecnologia è onnipresente.

Sgambati si focalizza per lunghi tratti sulla relazione tra Irene e Matteo, e su come il rapporto di Irene con Gaspare sembra il perno su cui si muovono le loro incomprensioni. Matteo pensa che Irene viva una sorta di ossessione per il padre (aspetto che lei smentisce categoricamente ogni volta), e che questa ossessione la porti a non avere stabilità nei rapporti affettivi, con lui in particolare. Per Irene, Matteo è uno come un altro: per lei tutti gli uomini sono uguali, non ci sono differenze. E lo ripete insistentemente anche alla psicologa. Matteo non si dà per vinto. Lotta, urla, sbraita, si dispera. Ma niente, Irene non sposta di un centimetro le sue convinzioni.

Una specie di Don Chisciotte che invece dei mulini a vento prova a combattere le turbe, la psiche, i non risolti di una ragazza intrappolata in un passato troppo scomodo.

I personaggi si muovono in una Roma concreta, in una Roma iper dimensionata dagli articoli dei quotidiani – con fonti di giornali, Repubblica ad esempio, e luoghi materiali dove cresce l’altro elemento noir, lo stupro in cui pare essere coinvolto il vinaio – che si troverà seduto sul divano con la moglie, che non saprà a chi credere, se al marito o alla tv, a guardare servizi all’interno del proprio negozio, il luogo dove lavora il presunto mostro –, che viaggia parallelamente al presunto omicidio della moglie di Gaspare, dando nerbo a tutto ciò che accade, a cui si aggiunge la psicosi moderna dell’essere presenti, sempre e comunque, estremo diametralmente opposto all’indifferenza (la solidarietà umana non sta in nessuno dei due estremi), nel guardare, nel giudicare, nel decidere-chi-è-stato-a-fare cosa, un’azione che sembra perpetuata nel tempo come catarsi, come pentimento, come sollievo: il che rende il tutto contestualizzato e profondamente vero.

E vi è anche il tema della deformazione della realtà attraverso i media, come i giornali, i telegiornali, i programmi di approfondimento basati sul luogo comune e sul conformismo – luoghi che hanno come santona nei pomeriggi di Mediaset Barbara d’Urso – riescano ad appassionare, a creare dibattiti, seppur sterili, creando capri espiatori, al di fuori dei diritti dell’uomo e della sua dignità, estranei per scelta etica ed estetica dal garantismo. Come la realtà diventi finzione, e viceversa. E il presunto omicidio della moglie di Gaspare è una potenziale storia che non è uscita allo scoperto. Ed è proprio Gli eroi imperfetti ad uscire prepotentemente, con forza, piegandosi sulla realtà e definendola relativa e ambigua.

Dal caso di Alfredino Rampi – parlando esclusivamente di questo fenomeno in Italia –, passando per Alberto Stasi, Raffaele Sollecito, per arrivare oggi a Massimo Giuseppe Bossetti, sembra crescere a dismisura il bisogno di estirpazione delle erbacce della società, in un vortice malato che disumanizza, che porta a un nuovo bisogno di esecuzioni in piazza. E Gaspare, in questo contesto, cos’è?

Un romanzo intelligente e rassicurante; la stessa sicurezza che giorno dopo giorno ricercano gli eroi imperfetti, che a volte, come spettatori di un fiume in piena, non riescono a far altro che guardare la vita che straborda.

(Stefano Sgambati, Gli eroi imperfetti, minimum fax, 2014, pp. 279, 15 euro)

“Partenza” di Fantasmi, Mai stato altrove e Joe Victor

Se si deve pensare al cuore di Bravo Dischi, nuova etichetta indipendente, non si può non pensare a Le Mura, club romano collocato a San Lorenzo che negli ultimi anni si sta distinguendo per offerta, qualità e competenze. È qui, infatti, che quattro ragazzi spendono gran parte del loro tempo: sono tutti musicisti che si ritrovano giorno dopo giorno a sudare, a impegnarsi, a lavorare, a divertirsi. Ed è qui che nasce l’idea di unire le proprie forze e tirare su un etichetta che promuova, senza alcun limite dettato dai generi, “buona (e brava) musica” – come dicono loro stessi.

I discorsi sul come, il perché, tutti i contro – di matrice economica – che possono derivare dalla scelta di dare vita a una nuova etichetta, oggi, con la crisi, la mancanza di stimoli da parte della gente per uscire e andare ad ascoltare uno sconosciuto, Amazon, la pirateria, sono questioni importanti, roba su cui ragionare. Ma ci soffermiamo a parlare solo dell’aspetto qualitativo, dal tipo di proposte, dalla musica – il tutto verrà approfondito successivamente, quando usciranno i dischi veri e propri.

Scelti i primi tre gruppi: Fantasmi, Mai Stato Altrove, Joe Victor. Tre gruppi con una propria identità ben distinguibile, approcci alla musica diversi, con una potenza espressiva non trascurabile. Scelta la modalità per inaugurare questa nuova avventura: uno split di sei pezzi (due per ognuno dei gruppi sopra citati) dal titolo Partenza. Semplice, diretto, sincero. Una partenza vera e propria, l’inizio di un progetto, la sicurezza di aver dato il via a qualcosa.

Si inizia con il primo dei due pezzi dei Fantasmi, “Notte”. Poche frasi cantate, flash di qualcosa che è successo e che sembra essere oramai irreversibile, sullo sfondo un tappeto fatto di un loop di voci ed elementi che un po’ alla volta entrano in scena sfociando in un’apertura strumentale, accompagnata da un bel riff, che sembrerebbe il pre di qualcos’altro; la tensione viene repressa – e in questa repressione esce fuori la forza del brano, nobilitando ciò che gli è preceduto -, e lasciata fluire in un outro classico. “Kimi”, il secondo brano, che si distacca dal precedente per una maggiore frequenza di bpm, dove spicca un riff à la Strokes, è interessante per il triplo passaggio dinamico caratterizzato da due cambi di accenti della batteria che si incastrano mano a mano, fino al terzo cambio di accento, che rallenta il pezzo producendo una frattura, un momento di stacco che fa da collante alla parte finale.

Due note di synth basso intrecciate a un rhodes accompagnano il cinismo di “City Life”, il primo dei due brani di Mai stato altrove, che sembra una sorta di manifesto di una generazioni allo sbando che vaga per la città perché «in fondo non ha un cazzo di niente da fare». Un viaggio individuale lungo le strade, le stradine, la tangenziale, dove anche il cielo pare essere parte integrale della composizione della città. Riuscire solo guardarsi intorno, gustarsi i turisti (un parallelismo sofisticato sull’essere turista della propria vita): c’è molto di drammaticamente vero e molto di drammaticamente sincero. Sembra esserci un filo conduttore, da un punto testuale, che lega “City Life” a “Sogni”, la seconda traccia. Una medesima sensazione di fondo, una disperazione contemplata e contemplabile, senza resa delle armi: quelle, le armi, non ci sono neanche mai state, in un brano che negli arrangiamenti può ricordare qualcosa di pop italiano anni ’60 – ’70 e qualche lavoro dei primi Baustelle.

Joe Victor si distingue maggiormente per la scelta della lingua, non più italiana, ma inglese. Ci si trova di fronte a qualcosa di già ascoltato, ma allo stesso tempo di mai ascoltato, un connubio di tradizionale e fuori dagli schemi che sprigiona due brani massicci dove la voce spicca per potenza e raffinatezza. “School Bus” è un pezzo camaleontico, dove c’è Prince, I Creedence Clearwater Revival, il folk americano, il soul. Qualcosa di estremamente elegante che non ha avuto paura di sporcarsi le mani. “Slip Away” è una ballata di una bellezza cristallina, contraddistinta dai contrappunti della chitarra acustica, con continui cambi di scala, passaggi di accordi minori a maggiori, che segnano un percorso dove la voce si adegua con naturalezza: sembra di essere di fronte a un Neil Hannon dei The Divine Comedy affiancato da un gruppo country di Nick Cave.

Bravo Dischi produce uno split dalle ottime potenzialità, puntando – per ora – su tre gruppi che possono avere nel tempo degli sviluppi diversi tra di loro, ma sicuramente importanti. Ora è necessario aspettare l’uscita dei tre album per capire cosa sono realmente i Fantasmi, Mai Stato Altrove e Joe Victor.

(Fantasmi, Mai Stato Altrove, Joe Victor, Partenza, Bravo Dischi, 2014)

[RFF9] “Guardiani della galassia” di James Gunn

Evento speciale nella sezione collaterale Alice nella Città, martedì al Festival Internazionale del Film di Roma, con la proiezione in anteprima di I guardiani della galassia, ultimo titolo targato Marvel Studios che ha incassato finora più di settecento milioni di dollari in tutto il mondo.

All’origine c’è, come sempre, un fumetto, questa volta ideato da Arnold Drake e Gene Colan, comparso per la prima volta nel 1969, con un reboot nel 2008. Non è una delle serie di maggior successo della casa statunitense, eppure I guardiani della galassia è probabilmente il miglior film Marvel visto al cinema finora.

Siamo nel 1988. Peter Quill è un bambino seduto su una sedia nel corridoio di un ospedale. Ascolta musica con il suo walkman. Sulla cassetta, su un pezzo di scotch di carta, è scritto a penna “Awesome Mix”. Quella cassetta gliel’ha preparata sua madre, che ora sta morendo in un letto poco lontano da lui. Peter non ha un padre, o meglio non l’ha mai conosciuto, ma verrà a prenderlo, dice sua madre, quando lei non ci sarà più. E quando la donna si spegne e il bambino è solo, fuori dall’edificio a piangere il suo dolore, un’astronave arriva a portarlo via. Ventisei anni dopo, Peter Quill è diventato un predone spaziale del gruppo dei Ravenger. Vorrebbe essere chiamato Starlord, ma nessuno gli dà retta. Del suo passato di terrestre ha conservato la cassetta che ascolta in ripetizione sulla sua astronave scassata e un sistema di riferimenti rigidamente basato sulla cultura pop. Quando entra in possesso di una misteriosa sfera, Quill si ritrova a essere un fuorilegge ricercato in tutta la galassia, con una coppia di cacciatori di taglie formata da un procione mutante e da un albero animato a dargli la caccia, e l’assassina dalla pelle verda Gamora pronta a recuperare l’artefatto a ogni costo. Da quella sfera dipende la sorte del pianeta Xandar, minacciato dal folle Ronan, e probabilmente il futuro dell’intero universo.

La squadra dei Guardiani della galassia – formata da Starlord, Gamora, dal procione Rocket, dall’albero Groot (che dice solo «Io sono Groot», nient’altro), a cui si aggiunge Drax il distruttore, un corpulento e ottuso guerriero in cerca di vendetta contro Ronan – non ha l’appeal cinematografico degli Avengers. Nessun retroterra cinematografico come per The Avengers, pochi i volti noti, con Chris Pratt che interpreta Quill che si è visto finora in ruoli secondari in film importanti (Zero Dark Thirty, Her) e nella serie tv Parks and Recreation, poco noto il regista James Gunn, se non per i suoi lavori al confine con i b-movies per la Troma Productions. È proprio per questo che le premesse sono ottime. Perché in combinazione con un marchio poco noto come quello del fumetto, alla Marvel sono stati liberi di inventare e spaziare con la fantasia, lontani dall’ortodossia dell’albo che ha richiesto finora l’adattamento dei personaggi più famosi.

I Guardiani della galassia ha tutto il potenziale per diventare un film (e poi una serie, visto che è già stato confermato il secondo episodio) adatto anche a chi non sia un appassionato di cine-comic. Perché il film di Gunn ha tutto quel bagaglio di azione e autoironia che lo pone in collegamento diretto con classici intoccabili della cinematografia popolare come Guerre Stellari (la prima trilogia, ovviamente), come Ritorno al futuro, come Indiana Jones. È evidente che l’effetto ricercato sia proprio quello della nostalgia, basta la presenza del walkman, basta la colonna sonora che si regge su classici soul anni Settanta e Ottanta, basta l’elevazione a leggenda della storia di Footloose con cui Quill prova a strappare un bacio a Gamora.

James Gunn, che scrive anche con Nicole Perlman, è lasciato libero di contaminare di comicità dissacrante tutto quello che vuole. Con J.J. Abrams, che ha già raddrizzato le sorti di Star Trek e ora è chiamato alla stessa impresa con l’episodio VII di Guerre Stellari, Gunn diventa uno dei riferimenti della nuova fantascienza e del nuovo cinema d’azione, in quella tradizione che vede in George Lucas e Steven Spielberg i modelli di venerato riferimento.

C’è molta scorrettezza, ma senza esagerare, il giusto grado di turpiloquio. E poi c’è lo spettacolo, puro e semplice, di inseguimenti e battaglie e combattimenti. Basterebbe solo questo, solo l’elemento spettacolare, a farne un gran film. Ci si aggiunge un sistema di personaggi che funziona alla perfezione, un susseguirsi di giochi interni e riferimenti esterni che avvolge. È un meccanismo perfetto, puro intrattenimento, di altissima qualità.

Per i puristi del marchio, comunque, I guardiani della galassia si colloca perfettamente nel cosiddetto “Marvel Cinematic Universe” che vuole tutti i film di casa Marvel collegati, in qualche modo, l’uno all’altro. Appare Il Collezionista, il personaggio interpretato da Benicio Del Toro anticipato nel finale di Thor: The Dark World, appare Thanos, l’ultracattivo già visto in The Avengers. Insomma, pur essendo lontani dalla Terra siamo sempre nella stessa galassia, con nuovi guardiani.

(Guardiani della galassia, di James Gunn, 2014, fantascienza, 121’)

“Libro”
di Gian Arturo Ferrari

Un tempo il libraio era un personaggio afferente a una specifica corporazione e si chiamava stationarius, termine che nella cultura tardo antica indicava colui che aveva una postazione fissa, ossia un soldato della guardia, o anche un mastro di posta. Quando il vocabolo inizia a designare, in contrapposizione agli ambulanti, i venditori che hanno un banco fisso o addirittura un locale, gli stationarii iniziano a prendere parte nel mondo librario. Nel XVII secolo a Londra, la loro eredità viene raccolta dagli stationers, riuniti nella corporazione Stationer’s Company. Nel 1667 il celebre poeta John Milton vende a uno di loro, Samuel Simmons, quello che oggi sarebbe il copyright del suo Paradise Lost. E Simmons gli dà in cambio 10 sterline, cifra all’epoca per nulla elevata. Dite la verità, lo sapevate?

Questo e molti altri aneddoti ce li racconta Gian Arturo Ferrari nel suo Libro (Bollati Boringhieri, 2014). Grazie a lui, per la prima volta il libro si mette a nudo e si racconta ai suoi lettori.

Ma più che un libro, quello di Ferrari è un viaggio, che conduce il lettore lungo un percorso affascinante che muove dalla nascita della scrittura, per approdare all’avvento dell’eBook. Un percorso organizzato sapientemente attraverso tre unità principali, che, come i poemi classici, non potevano non essere denominate anch’esse «libri».

In primis il libro manoscritto, in cui Ferrari dedica le sue osservazioni a un’archeologia del libro, riesumando le fondamenta dell’oggetto libro, mediante un’attenta ricognizione che va dalla nascita dei logogrammi, alla scrittura sillabica, all’alfabeto, dalla nascita dell’autore, a quella del lettore e del libro stesso, affrontando ogni questione con semplicità, senza ricadere in eccessivi tecnicismi.

Il libro stampato, in cui si descrivono tutti gli aspetti legati alle tecnologie della stampa, alla nascita dell’industria editoriale, dei generi letterari, senza tralasciare gli interrogativi che più hanno scaldato il mondo dell’editoria, come quello che Ferrari enuclea sfruttando una metafora biblica: pubblicare i libri di Dio, dall’alto contenuto letterario, o di Mammona, ritenuti di gradimento al pubblico? Ogni argomentazione è corredata da aneddoti, come si diceva, che alleggeriscono la lettura, evitando così la sensazione di leggere un manuale.

Infine, il libro elettronico, di cui si evidenziano pro e contro e su cui si fornisce un’analisi interessante e aggiornata, cercando di delineare anche un possibile scenario futuro.

Tramite quella che non vuole essere una storia del libro, ma che, solo in parte, finisce inevitabilmente per diventarlo, Gian Arturo Ferrari ha l’eccezionale capacità di introdurci in un universo che lambisce diversi mondi (economico, tipografico, letterario, industriale) e ci fa notare come un oggetto così radicato nella nostra – e non solo – cultura di occidentali abbia affrontato un lungo processo di maturazione, per il quale ha assunto forme e strutture diverse nella sua lunga vita, certamente di volta in volta definite, ma mai definitive.

Quali di preciso? Be’, la risposta vi aspetta in libreria.

(Gian Arturo Ferrari, Libro, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 215, euro 10)

[RFF9] Gli invisibili e la latitanza

Ci sono invisibili che vivono in mezzo alla strada, sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno li vede, e altri che fanno una vita invisibile, muovono traffici e denaro senza essere mai riconosciuti, fino a sparire nella latitanza. Sono i protagonisti di Time Out of Mind di Oran Overman, con Richard Gere nei panni di un senzatetto, e di I milionari di Alessandro Piva, presentati entrambi nella sezione Cinema d’oggi.

George vive per la strada da ormai dieci anni. Alle spalle ha la morte della moglie, da cui aveva divorziato, per un doppio tumore al seno, un inevitabile problema con l’alcool, i rapporti complicati con la figlia e il collasso del mondo che lo definiva come uomo: via il lavoro, la casa, i documenti, gli amici. Resta solo la dignità, o meglio la sua difesa estrema. Perché nonostante il suo vagare di rifugio in rifugio, tra appartamenti abbandonati e ricoveri per indigenti, panchine e pronto soccorsi, George non ammette di essere un senzatetto. Lui sta solo «attraversando un periodo difficile» e la casa non ce l’ha «solo per il momento». Rifiuta l’evidenza della sua condizione, dei cappotti venduti per pochi spicci nonostante il freddo, del sollievo che gli dà la vodka. Segue la figlia, da lontano, la sua vita, non sa come parlarle e lei lo sa, e lo disprezza per questo e per tutto il resto. È quando entra in contatto con la realtà organizzata dei senza fissa dimora, con gli alloggi assegnati dal comune di New York, la burocrazia necessaria per essere dichiarato ufficialmente un homeless che qualcosa cambia.

È un progetto portato avanti per anni, Time Out of Mind, e fortemente voluto da Richard Gere che oltre che interprete ne è anche produttore. Lo scorso inverno le foto dell’ex sex symbol di American Gigolò in abiti di scena tra le strade di New York avevano fatto il giro del mondo. Nessuno dei passanti lo aveva riconosciuto, qualcuno gli ha dato degli spicci, persino. Il punto è che il regista Oren Overman (che aveva già lavorato con Gere in Io non sono qui, di cui era sceneggiatore), ha deciso di riprendere i suoi attori da lontano, quasi spiandoli, con un ampio uso di zoom e focali lunghe, per immergerli nella realtà e osservarli dall’esterno con fare quasi documentaristico. Non ci doveva essere un set evidente, Gere e gli altri dovevano diventare barboni, muoversi come loro nella città. È per questo che l’inquadratura è perennemente invasa da elementi esterni – rami, foglie, vetrine, finestre –, è per questo che i lunghi, ripetuti, silenzi vengono riempiti dalle conversazioni che George sente senza ascoltare per strada.

Senza essere la storia di una rinascita, anche se il finale prelude a sviluppi positivi, Time Out of Mind si limita a testimoniare la realtà dei senzatetto newyorkesi, sempre di più nelle conseguenze del cataclisma economico, e il sistema amministrativo in cui sono irregimentati, con regole precise di accesso ai dormitori e controlli rigidi, quasi militari, sui comportamenti nei centri di assistenza.

Di George si sa poco. Ha una cicatrice che gli attraversa un lato della testa, ma nessuno dice il perché. Parla continuamente di un’amica, Sheila, ma non si sa se esista o meno. Si sottrae alle umiliazioni dell’elemosina, prova a conservare un certo stile anche nelle situazioni più deplorevoli, finché non cede.

C’è poca empatia, però. Richard Gere ci prova, ma senza elementi a sostegno non c’è modo di entrare in sintonia con il suo personaggio. Overman costringe il pubblico a guardare con insistenza quegli uomini da cui di solito si volge in fretta lo sguardo, ma senza il supporto di una vera e propria trama si fa fatica a provare compassione.

In Italia, e precisamente a Secondigliano invece, Alessandro Piva parla di un altro tipo di invisibili, quei camorristi che si muovono nell’ombra, senza sporcarsi troppo le mani, fino a costruire imperi e a vederli crollare e sperimentare un altro tipo di invisibilità nella latitanza. Sono I milionari.

Marcello Cavani è poco più di un bambino quando suo padre gli muore d’infarto davanti agli occhi. A mandare avanti la famiglia ci pensa allora il fratello Gennaro, che non ha troppi problemi a sporcarsi le mani con i boss. In fretta, Gennaro diventa un uomo fidato del Faraone, uno dei capi della criminalità locale. Marcello non capisce troppo, ogni tanto si fa coinvolgere per mettere qualche soldo in tasca, ma fa finta che non ci sia niente di grave. A lui interessa di più fare la bella vita, vestirsi preciso e farsi chiamare Alendelòn. E gli interessa una ragazza, Rosaria, che riesce a conquistare e far diventare sua moglie a patto di tenere gli affari sporchi fuori di casa. Per mantenere lo stile di vita che sogna, Marcello si deve coinvolgere sempre di più con quella malavita per cui non è tagliato, come gli dice il fratello Gennaro. Finché non sarà troppo tardi per rendersene conto.

Dopo l’ottimo esordio con La capagira nel 1999, Alessandro Piva si è un po’ perso. Ha cambiato generi, città, fino ad approdare alla Campania criminale già oggetto di tanto cinema (e televisione). Alle spalle ha un libro inchiesta di Giacomo Gensini (che collabora anche alla sceneggiatura) e del magistrato Luigi Cananvale, I milionari. Ascesa e declino dei signori di Secondigliano (Strade Blu Mondadori, 2012), che racconta nascita e trasformazione delle associazioni criminali napoletane fino alle recenti faide degli scissionisti. Una specie di Gomorra minore (in termini di successo, non di rilevanza).

Sarà per concomitanza temporale, scelta delle scene, ambientazione, ma I milionari di Piva finisce per ricordare non poco la serie tratta da Gomorra targata Sky. Solo che qui non c’è il titanismo tragico dei personaggi e delle rivalità, c’è una certa superficialità, quasi trascuratezza nel descrivere i dettagli, a partire dalla gestione dello scorrere del tempo. In fondo, Alendelòn e compagni si muovono lungo circa trent’anni di storia italiana ma non c’è niente che lo sottolinei, nessun collegamento – tranne il terremoto in Irpinia del 1980 – con i fatti esterni. È una debolezza che non aiuta a capire il senso dell’ascesa, la portata dell’organizzazione camorristica. Tutto è accennato e non c’è ritmo che giustifichi lo scarso approfondimento. Riesce a raddrizzarsi nella parte conclusiva, con un paio di momenti ironici inattesi, ma in generale, con tanto cinema criminale che c’è stato negli ultimi anni, I milionari non aggiunge molto.

[RFF9] “Gone Girl” di David Fincher

Era probabilmente il film più atteso di questa nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Gone girl di David Fincher, arrivato all’Auditorium dopo essere passato già per i festival di New York, Atene e Zurigo, tra gli altri, e ha ripagato le attese. Una presentazione senza glamour, senza tappeti rossi, ospiti internazionali e conferenze stampa. È bastato il film, perché Gone Girl, senza essere un capolavoro, si impone come uno dei punti di riferimento della filmografia di David Fincher.

Prendendo ispirazione dal romanzo del 2012 di Gillian Flynn (pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo L’amore bugiardo, che verrà adottato anche per il film), Gone Girl racconta il crollo di una coppia dall’apparenza perfetta. Nick e Amy stanno per festeggiare il loro quinto anniversario di matrimonio. Si sono conosciuti sette anni prima, a New York, dove entrambi provavano a diventare scrittori. Quando la madre di Nick si è ammalata si sono dovuti trasferire in Missouri per starle vicino. Tutto sembra andare bene, eppure la mattina dell’anniversario Amy sparisce. Non si sa cosa sia successo, in casa c’è un tavolino ribaltato, una minuscola macchia di sangue in cucina e nient’altro. La stampa e la televisione si dedicano con attenzione morbosa al caso, interpretando ogni gesto di Nick come sospetto, dai sorrisi in pubblico al rapporto con la sorella gemella. Amy sembrava la ragazza ideale. I suoi genitori l’avevano fatta diventare protagonista di una serie di romanzi per l’infanzia di grande successo, Amazing Amy, prendendo spunto dalle storie di lei bambina. Nick in verità sembra conoscerla poco, o almeno è quello che sospetta la detective Boney incaricata dell’indagine: ignora le sue amicizie, cosa faccia durante il giorno, come sia la sua vita in Missouri. In poco tempo, tra la pressione dell’opinione pubblica, che gli rimane incollata ogni momento, e le indagini della polizia, Nick passa dal ruolo di vittima a quello di sospettato numero uno dell’omicidio della moglie, pur in assenza di prove, pur in assenza di un cadavere. Le cose sono molto più complesse di quello che appaiono.

Non è facile, non lo è affatto, riuscire a ingannare gli spettatori in continuazione, portarli a empatizzare per un personaggio, poi a detestarlo, a sospettare il peggio, poi a cambiare idea di nuovo. È questo quello che è riuscito a fare David Fincher in Gone Girl. Perché Nick è un personaggio che cambia con l’evolversi della trama. È una vittima, evidente. Non sa dove sia la moglie; noi lo vediamo nei minuti iniziali parlare con la sorella e poi tornare a casa e non trovare più nessuno. Deve essere successo qualcosa mentre era via. Poi arriva il sospetto, un’amante giovane e pericolosa, un rapporto al collasso che rivela sempre di più le sue crepe. C’è la crisi economica, e il risentimento per i sogni lasciati a marcire e i soldi volati via, c’è la frustrazione del cambio di vita, dalla grande città alla provincia del Mid-West. E poi c’è l’insofferenza per un amore che si è fatto sempre meno autentico, per una moglie che controlla e giudica, fa sentire piccoli, falliti. Diventa lecito sospettare, allora, immaginare che dietro ci sia altro. Si inizia a guardare Nick con altri occhi, anche perché fuori campo la voce di Amy legge pagine del diario che parlano di violenze domestiche, prepotenze e paura. Eppure c’è un’altra direzione verso cui guardare, altre cose che possono essere rivelate. Amy aveva preparato una caccia al tesoro per l’anniversario, come faceva ogni anno, seminando indizi che solo Nick può interpretare. Sono queste tracce che mostrano altro.

Quello su cui Fincher si concentra (con il sostegno di Flynn che ha curato anche la sceneggiatura) è il potere della manipolazione, a ogni livello. Non esiste una verità assoluta, solo l’interpretazione che viene data della realtà. Nick diventa colpevole ancora prima che venga formulata un’accusa precisa, ancora prima che ci siano elementi a suo carico. Prima di un processo giudiziario è vittima di un processo di opinione, della costruzione esterna fatta dai media della sua storia, della sua vita, del suo rapporto con la moglie.

Non è solo un thriller, Gone Girl, per quanto il sistema di inganni e doppie piste ne faccia l’opera di Fincher più vicina al modello di Alfred Hitchcock. È, forse soprattutto, una satira sociale sul ruolo dell’informazione nella costruzione delle verità pubbliche. La colpevolezza o l’innocenza di Nick non sono rilevanti. L’unica cosa che assume realmente valore è l’immagine esterna che trapela, la convinzione sociale che si concretizza a partire dal semplice sospetto. La capacità di manipolazione non è a senso unico: i personaggi, Nick per primo, imparano in fretta a gestire la comunicazione, a mostrare immagini pubbliche ben lontane dalla convinzione individuale.

Nel costruire questo sistema di verità apparenti, Fincher finisce per scivolare in contraddizioni e approssimazioni di non poco conto nella parte finale, quando la verità inizia a rilevarsi. È come se, tutto sommato, importasse poco mantenersi pertinenti quanto piuttosto portare avanti la riflessione a ogni costo. A risentirne è soprattutto la trama del giallo che finisce per disperdersi e soccombere all’esigenza della critica sociale.

Si diceva, non è semplice ingannare gli spettatori più volte nello stesso film. Per riuscirci, David Fincher chiede al pubblico una sospensione di credibilità, uno sguardo capace di trascurare debolezze e contraddizioni. Se si riesce a osservarlo con quelle lenti, accettandone il cinismo, l’ironia feroce, e ad andare oltre l’accusa di misoginia che sembra continuamente pendere sul film, Gone Girl è capace di lasciare un segno profondo.

È probabile che se ne riparlerà al momento delle nomination agli Oscar. Rosamund Pike e la sua enigmatica Amy meritano senza dubbio di essere prese in considerazione.

(Gone Girl, di David Fincher, 2014, thriller, 147’)

[RFF9] La noia e la ribellione

Si può arrivare in vari modi a non farcela più. Si può essere giovani, schiacciati dalla noia e sedotti dall’aspirazione di un ordine nuovo, di una realtà in cui identificarsi, o si può essere anziani, a un passo dalla pensione, e soprattutto stufi di subire prevaricazioni, ingiustizie, violenze. L’unica cosa che si può fare è reagire per raddrizzare l’ordine che non va bene, oppure rendersi conto, quando ormai è troppo tardi, che il mondo che si voleva cambiare, che la noia che schiacciava e privava di senso i giorni, era da preferire rispetto al nuovo, orribile, che si impone.

È quello che capisce Shun, il protagonista di As the Gods Will, ultimo film del giapponese Takashi Miike, presenza quasi fissa del Festival di Roma che riceverà quest’anno il Maverick Director Award per la sua capacità di essere «un continente a sé stante del cinema contemporaneo». In un liceo di Tokyo i ragazzi di una classe sono costretti a giocare a una versione estrema di “1-2-3 stella” da un bambola Daruma (una statuetta votiva tradizionale giapponese) che ha misteriosamente preso vita. A chi verrà sorpreso a muoversi verrà fatta saltare la testa. Da dove arrivi la bambola non si sa, o meglio, tutti hanno vista uscire dalla testa del professore in una normale mattinata di scuola, ma perché sia sbucata e soprattutto perché sia animata e violenta, nessuno lo sa. Non è il solo gioco che gli studenti sono costretti a subire. In palestra, un enorme maneki-neko (altra scultura tradizionale nipponica rappresentante un gatto) mangia ragazzi travestiti da topi; quattro bambole del tipo kokeshi uccidono chi non le riconosce dalla voce, mentre un orso polare che non sopporta le bugie fa delle semplici domande pretendendo sempre la verità in risposta. A sopravvivere, ad arrivare alla prova finale, sono in cinque, tra cui Shun, la sua amica d’infanzia Ichika e il misterioso e violento Amaya. Shun si è sempre lamentato della noia della sua vita sempre uguale, pregando gli dei di avere un mondo nuovo con più stimoli. Amaya si sente un predestinato, un prescelto per il nuovo mondo che non sa neanche dove cercare. Mentre provano a sopravvivere, tutto intorno, a Tokyo e nel resto del mondo, dei giganteschi cubi arrivati da non si sa dove galleggiano nel cielo e tutti hanno modo di vedere quello che succede nelle scuole, venerando i sopravviventi come “figli di dio”.

Dietro As the Gods Will c’è un manga di grande successo in Giappone (con tanto di seguito) da cui il visionario Miike ha attinto per costruire una convenzionale (per lui) storia di violenza e ironia. Il sangue è ovunque, sin dai primi, esplosivi (è il caso di dirlo), minuti con l’1-2-3 stella del Daruma. È talmente tanto, il sangue, che persino Miike non se la sente di motrarlo tutto e lo fa diventare perle rosse su cui scivolare cercando di mettersi in salvo. Il senso ulteriore di questa escalation splatter è la noia che attanaglia i giovani giapponesi (tutti belli, provenienti da scuole private) che apre le porte a tutto, anche ad accettare un gioco al massacro come stimolo. È simile, come impostazione, al romanzo Battle Royale di Koushun Takami portato al cinema da Kenta Fukasaku. Lì, i giovani erano arrivati a un tale livello di insubordinazione e mollezza morale da dover essere presi e deportati su un’isola dove solo il più forte sarebbe riuscito a sopravvivere. In As the Gods Will viene meno la logica del tutti contro tutti che era già stata di ispirazione per The Hunger Games per lasciare spazio a un andamento a livelli da videogioco. Bisogna risolvere l’enigma per andare avanti, pena la morte, premio la sopravvivenza. Proprio questo procedere così, per piani successivi, rivela il limita maggiore del film di Miike nella ripetitività. Il regista non vuole prendersi sul serio e non pretende di essere preso sul serio, ma il meccanismo dell’ironia funziona solo a tratti. I vari giochi e indovinelli appaiono come semplici pretesti per mostrare violenza e sangue, niente di più. Relegando il senso ulteriore dell’abbrutimento morale dei giovani alla periferia del messaggio cinematografico rimane solo una confezione registica impeccabile, poi il vuoto.

All’opposto dei protagonisti di Miike, Gianni, alter ego del regista Gianni De Gregorio, di Buoni a nulla non vorrebbe altro che la noia. Gli mancano pochi mesi alla pensione, non vuole sconvolgimenti alla sua vita non perfetta ma basata su solide abitudini di lentezza. Invece, la nuova normativa sul lavoro lo fa entrare nel mondo degli esodati e gli regala una sorpresa non gradita. Per arrivare alla sua pensione di impiegato comunale non bastano più quei pochi mesi, ci vogliono tre anni. Non solo: il suo ufficio non sarà più al centro di Roma, a due passi da casa, ma nella periferia fuori dal raccordo, nella nuova sede ultramoderna. Gianni, abituato a non fare molto in ufficio, è costretto a sopportare le prepotenze dei nuovi capi, le richieste dell’ex moglie e della figlia che vorrebbero che lasciasse il suo appartamento al centro per andare più vicino al nuovo lavoro. È il nuovo fidanzato dell’ex moglie a dargli il suggerimento che gli cambia la vita: basta subire, è arrivato il momento di incazzarsi. Gianni capisce che finché continuerà ad abbassare la testa non otterrà nulla e allora decide di affrontare la vita in un altro modo. Impara a dire no, a rispondere alle prepotenze e sta subito meglio, trova un amore, un amico e discepolo nel collega timido e impacciato Marco che prova a iniziare sulla strada della rabbia catartica, e una nuova dimensione.

Dopo Il pranzo di ferragosto e Gianni e le donne, lo sceneggiatore, regista e attore Gianni De Gregorio torna con una nuova commedia che pone, ancora una volta, al centro il suo alter ego quasi fallito per osservarlo nel momento del riscatto e della risalita. È il riscatto di impiegati abituati ad abbassare la testa verso i superiori, la società, la famiglia. È una specie di rivolta dei Fantozzi di tutta Italia che non anelano tanto alla parità, quando a diventare come il geometra Calboni.

C’è il consueto garbo, la solita leggerezza e la carrellata di personaggi semplici e onesti e lo stesso fondo di scorrettezza politica nell’affermare il principio che è giusto rispondere con mezzi scorretti alle scorrettezze.

La novità è nella scelta della tematica sociale che apre all’attualità e mostra uno stato che è per primo ingiusto e mal organizzato. Per il resto, Buoni a nulla funziona soprattutto fino al cambio di registro che porta alla lite tra Gianni e Marco, che aggiunge una sfumatura drammatica superflua. Con il suo stile ormai caratteristico, De Gregorio continua comunque a fare il suo cinema tutto particolare. Per una volta ha con sé un cast di volti noti, da Marco Mazzocca che interpreta il collega Marco a Valentina Lodovini, che è la procace Cinzia, passando per Anna Bonaiuto, Gianfelice Imparato e Ugo Gregoretti.

“Morte di un uomo felice”
di Giorgio Fontana

Non esistono assiomi. E se anche fosse confesso d’ignorarli. Mi accade l’inspiegabile. Tra occhi e falangi. Latifondi di libri quasi invisibili e poi lui. Quello in cui m’incaglio. Sortilegio variabile. A volte è uno spiffero, la punta di un odore. O la buccia più ipnotica della copertina. Stesa lì, solo per intrappolarmi. Questa volta invece è stato un titolo.

Pochi frutti di parole antiche, assolute, universali. Quasi una formula magica. Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014) di Giorgio Fontana. Trentatré anni, lombardo, vincitore del Premio Campiello 2014. E calendari prima di applausi e proclamazioni, senza il sospetto allampanato di una recensione, questo titolo ha assolto il suo dovere. È stato un semplice richiamo. Stava poi alla storia ossequiare la promessa. Raccontarsi per strada.

Il protagonista, Giacomo Colnaghi, fa il magistrato. E lo è, ancor prima di farlo. Lo è nello strascico impazzito degli anni di piombo, nel delirio invasivo di un turbine che non ha scopi, se non quello di espandere il sangue. Fa caldo a Milano nell’estate dell’81, un caldo che schiaccia come una fatwa e Giacomo, lontano da Saronno e dalla sua famiglia, versa quei mesi indagando sull’attività di una nuova banda armata, responsabile di aver freddato un esponente democristiano. Lo è magistrato perché sa. Sa che le sue ipotesi, i suoi interrogatori, le rotazioni indefesse intorno a quei crimini gli hanno cucito addosso una data veloce, a breve scadenza. Su una strettoia in cui non può leggerla. E comunque non smette. Di lavorare e sperare. Di sudare e mediare. Non vuole limitarsi a rintracciare i colpevoli. Vuole studiare le colpe, scrutarle, maneggiarle con cura. È stanco di quell’odio. E ha fede in tasca. Nel cielo abitato, nell’uomo errante. Vuole spezzare la spirale, perché «alla fine di tutto resta solo la morte. Non c’è spazio per la conoscenza, per l’amore, per una pizza, per una passeggiata: il mondo svanisce completamente, il mondo che volevi salvare. Restano solo il gelo e la vendetta».

È un padre Giacomo, di figli che accarezza a distanza, non abbastanza. E prima ancora è stato figlio. Di un partigiano, morto troppo giovane per lasciargli più dei cromosomi e di un biglietto, vergato col tremore di chi sta per assaggiare tanta terra.

Era un ragazzo, Ernesto, nella primavera del ’44 e non sapeva spiegare cosa fosse il comunismo. Però sapeva che per quella sola alternativa all’orrore nazista valeva la pena mettersi in gioco. Abbrancare un momento, anche un solo coriandolo di libertà.

Le loro vite galoppano in parallelo, compenetrandosi. Il cattolicesimo di Giacomo, lo scetticismo di Ernesto. I loro sogni, le loro religioni si abbracciano senza toccarsi. Il destino di due generazioni, sacrificate ai propri ideali, si palesa in assenza di trucchi. Con l’incantesimo dell’onestà. Ognuno svolge il suo compito e basta. Sceglie di non sottrarsi alla propria natura, reclama il diritto di assecondare se stesso. Ed è forse questa, la sola indispensabile forma di eroismo. Che cerca ossigeno e non clamore. E anche in questo romanzo non c’è niente di altisonante. C’è la chiarezza dell’urgenza, la bellezza di una forza necessaria. E i dettagli diventano essenziali.

L’ironia umile di Colnaghi, le serate di vino e risotti con il collega Roberto, le tazzine invecchiate di caffè, l’aria incollata di luglio a Milano. E sul fronte paterno, che continua a mancargli e che comunque lo integra, gli scioperi in fabbrica, lo sbando dopo l’armistizio, i volantini di lotta e la speranza clandestina. Tutto ricostruito con dovizia e rispetto del narrato. Leggendo di terrorismo e di resistenza. Tesaurizzando gli aneddoti e schivando con cura il dolore gratuito. Anche perché non c’è alcuna ferita pagata solo a metà.

Fontana si documenta, sprofonda nei giorni lividi, nella furia di una guerra mondiale e di un’altra tutta nostra e infine scrive, senza sbavare neanche una riga. Linguaggio secco, fendente, praticamente geometrico. Cesella i personaggi con tratti asciutti e mirati. La giovinezza di Giacomo che ammuffisce di stanchezza davanti allo specchio, dentro un matrimonio qualunque con una moglie mediocre. La sua indomita fame di pace e la voce di Ernesto nella vita di Giacomo, la memoria rammendata a suon di racconti, le due vicende dipanate come canto e controcanto di una stessa traccia.

Pieno di umori questo libro. Quelli partigiani di Fenoglio e Pavese, quelli malinconici di Magrelli di Geologia di un padre e quelli militanti degli archivi di Lotta Continua. Ma c’è di più. E non c’è nulla che non serva.

Padre e figlio si riecheggiano pur non essendosi mai visti. E la morte spezza il battito, ma non la missione che lo ha innescato. Giacomo muore leggero. Felice. Perché è stato uomo. Non ha più tempo, è vero, per il suo ottimismo, ma ha ancora le sue intenzioni. Che riempiono il petto, più di quei proiettili.

(Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice, Sellerio, 2014, pp. 280, euro 14)