“Io sono Jonathan Scrivener”
di Claude Houghton

La vita di James Wrexham appare inquieta da subito. La madre gli muore prestissimo, è figlio unico di un padre eccentrico che muore in circostanze non chiare quando lui non è ancora ventenne: e si ritrova così male in arnese da dover pensare presto a come mantenersi. Per sua fortuna lo chiama un agente immobiliare, sedicente amico di suo padre, e lo fa lavorare con lui. Saranno anni di una noia mortale, passati i quali Wrexham decide di rispondere a un annuncio sul giornale per un lavoro a Londra.

E lì inizia un’altra storia, la storia di questo romanzo, Io sono Jonathan Scrivener dello scrittore inglese Claude Houghton (1889-1961), che l’editore Castelvecchi rimette ora in circolazione con un prefazione di Henry Miller – che il libro lo amava – e la traduzione efficace di Allegra Ricci.

L’affaire intorno a cui ruota il romanzo è quantomeno bizzarro, secondo tradizione consolidata di certa letteratura inglese.  Anzi, a leggere Miller, «in Claude Houghton questa singolare follia inglese – una sorta di demenza alla rovescia – acquista un’intensità notevole». Wrexham è stato assunto da un certo Scrivener: un incredibile fantasma che si è accontentato della sua lettera di presentazione, che non ha visto in faccia, e che ha bisogno di un segretario che gli sbrighi la corrispondenza e gli tenga in ordine la biblioteca. Tutto questo mentre è in viaggio senza sapere se e quando farà ritorno a Londra.

Per quanto stravagante sia la situazione, Wrexham accetta (lo stipendio è ottimo) e occupa presto l’abitazione di ScrivenerSe ne gode il lusso, la considerevole quantità di tempo a disposizione e intanto medita sullo strano caso che gli è capitato. Che si fa ancora più misterioso quando, ben presto,una successione di visite comincia a inquietarlo, anche considerando l’avvenenza delle prime due, una tale Pauline, e poi Francesca Bellamy, nota alle cronache per essere stata la moglie di un celebre finanziere morto suicida. Entrambe fanno irruzione nella casa chiavi in mano e hanno l’aria di essere donne interessanti. Cercano Scrivener, mostrando di non sapere nulla della presenza di Wrexham – il quale, anche in seguito ai racconti tutt’altro che omogenei che gli fanno del suo fantasmatico datore di lavoro, comincia a sospettare di essere finito in un crudelissimo gioco (non sarebbe esatto dire spaventoso: come nota ancora Miller «quel che forse è più inconsueto, tra le creature inconsuete che ci consegna Houghton, è il loro totale distacco»), le cui sole certezze sono: la bizzarria dei casi e una certa diffusa convinzione che la stessa sia il segnale di un’intelligenza sopraffina, diciamo pure superiore.

L’editore definisce il libro un thriller psicologico, ma il romanzo ha più il passo di un giallo compassato e senza sangue: la trama che lo compone è fatta soprattutto di un’ambiguità che si fa presto e francamente enigma, non tanto e solo sui fatti (chi è Scrivener, dove si è ficcato, è vivo o morto) quanto sulla nozione stessa di identità. Quella di Scrivener assume mille facce, anche divergenti, a partire dai racconti dei suoi amici. A tratti emerge direttamente con una certa sinistra quanto elegante fascinazione: nelle lettere che invia al povero Wrexham per dargli disposizioni. Assieme ai dialoghi del segretario con l’avvocato di Scrivener, sono i momenti stilistici più interessanti del libro. Il che non è secondario o esornativo: la nebulosità della storia è costruita attraverso la narrazione in prima persona di Wrexham, linguisticamente così minuziosa e accanita nella ricerca del dettaglio rivelatore da contribuire paradossalmente a infittire la mappa degli indizi e a lasciare il lettore a trovare da sé una soluzione. Scrivener, per alcuni un imbroglione, un fanfarone di genio che si stufa di tutto, molla amici conoscenze e occupazioni per sparire all’improvviso salvo a volte tornare più brillante e inafferrabile di prima, ecco, chi è Scrivener? E soprattutto, cosa vuole dal nostro narratore?

(Claude Houghton, Io sono Jonathan Scrivener, trad. di Allegra Ricci, Castelvecchi, 2014, pp. 288, euro 18,50)

[RFF9] La memoria al cinema

Sono film che non hanno niente in comune, i primi film visti al Festival Internazionale del Film di Roma, ma su cui è possibile tendere un filo unico per riunirli e raccoglierli. Quel filo è la memoria e i rapporti che ci si possono costruire.

Memoria di ogni tipo, sia essa personale come in Still Alice, presentato nella categoria Gala, sociale e collettiva come in We Are Young, We Are Strong, o il frutto di un’alterazione di un intervento esterno come in The Lies of the Victors, entrambi in concorso nella sezione Cinema d’oggi. Sono indagini che si delineano in forme diverse, ricerche sul senso del tempo che è stato e che rischia di essere perso.

Nello statunitense Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, Julianne Moore interpreta una docente di linguistica della Columbia University innamorata del proprio lavoro e della propria famiglia, di suo marito e dei suoi tre figli ormai adulti. Un giorno, durante una conferenza, si dimentica una parola proprio mentre sta spiegando il rapporto tra impulsi neuronali e sviluppo del linguaggio. Poco tempo dopo si perde mentre è fuori a correre, non riconosce i posti dove è sempre stata. Si spaventa, va dal medico e scopre che ha una forma precoce di Alzheimer. È un trauma, come è normale che sia, per una donna ancora giovane e in perfetta forma.

Il punto forte di Still Alice, tratto dal romanzo di Lisa Genova del 2009 pubblicato in Italia da Piemme con il titolo Perdersi, è nella non convenzionalità del personaggio malato. Non solo la Alice interpretata da una enorme, strepitosa, Julianne Moore non è una donna anziana come la malattia lascerebbe supporre (e come era stata, ad esempio, Julie Christie in quell’altro bellissimo film sulla malattia che era Away From Her del 2006 – tratto da Alice Munro), ma è addirittura una ricercatrice del linguaggio, del rapporto tra pensiero e parola, l’autrice di studi come Dal neurone al nome. È proprio questa posizione di assoluta competenza che getta uno sguardo ulteriore sul dissolvimento del ricordo, su quel perdersi di cui parla Alice in una conferenza quando ormai è malata e rassegnata. C’è tutta la potenza di un film struggente, della ricerca di una resistenza alla fuga della memoria. Alice non vuole rassegnarsi a smettere di essere quello che è. Riesce a essere ironica sulla propria malattia, fino a un certo punto sembra quasi usarla come velata arma di ricatto nei confronti dei suoi familiari, ma sa che si sta perdendo, e non lo può accettare. Senza insistere sul pedale del sentimento, Glatzer e Westmoreland costruiscono una famiglia che sta per essere distrutta con pochi tratti, mostrando quel tanto che basta per descrivere rapporti (del figlio Hunter Parrish con il padre Alec Baldwin, bravissimo, umanissimo) e rivalità secolari (le due figlie Kate Bosworth e Kristen Stewart, emancipata per sempre dalla saga di Twilight e di nuovo attrice). Non c’è ostentazione del dolore, non c’è ricerca del pathos. C’è il quotidiano che sta per essere spazzato via dalla memoria, ed è mostrato benissimo.

 

 

La memoria che indaga invece il tedesco We Are Young. We Are Strong (Wir Sind Jung. Wir Sind Stark) del figlio di rifugiati afghani Burhan Qurbani, è quella collettiva di una società che ignora, o accantona, il proprio passato per ricadere negli stessi errori. All’origine c’è un fatto realmente accaduto: la violenza di gruppo che sconvolse la città di Rostock la notte del 24 agosto 1992, quando un gruppo di giovani, prevalentemente di ispirazione neo-nazista, prese d’assedio e diede alle fiamme un comprensorio popolare, Lichtenhagen, la Casa dei girasoli, abitato prevalentemente da rifugiati politici provenienti da varie parti d’Europa – Romania, Bulgaria – e dal Vietnam tra gli applausi di quasi tremila persone. Qurbani, che ha scritto il film con Martin Behnke, concentra il racconto su Stefan, giovane appartenente alla borghesia e figlio di un politico locale che sceglie la compagnia di un gruppo di estrema destra per vincere la noia.

I protagonisti di We Are Young. We Are Strong hanno un rapporto paradossale e contraddittorio, sul piano politico, con il passato. A soli due anni dalla riunificazione delle due Germanie (Rostock era a est), rimpiangono il conforto dell’organizzazione comunista, in cui magari mancavano le alternative, ma non il lavoro. È di fronte alla povertà e alla indeterminatezza del paese da ricostruire che parte la rabbia contro gli immigrati che arrivano a pretendere come parassiti quello che dovrebbe essere solo dei tedeschi. È qui che lo sguardo alla memoria nazionale si rivolge ancora più indietro, al nazismo, al razzismo aprioristico della difesa del simile contro il diverso. Il ricordo recente del comunismo, quello più antico del nazismo, non bastano per esorcizzare gli errori. La violenza è sempre possibile di fronte alla presunta ingiustizia. Il capro espiatorio è sempre l’espediente più comodo.

Qurbani prepara la violenza dividendo il film in capitoli orari, avvicinandosi all’ora X seguendo sempre Stefan e la vita della comunità vietnamita, tra speranze di integrazione e paura. Sceglie un potente bianco e nero che diventa colore solo quando l’assedio è iniziato, muove la macchina da presa con innovativo talento, fa riflettere sul presente (di razzismo, al giorno d’oggi, ce n’è quanto se ne vuole, in ogni parte d’Europa) guardando al passato e si interroga, nella scena finale, sul futuro che si forma.

 

 

È invece una memoria alterata quella di The Lies of the Victors (Die Lügen der Sieger, da una poesia di Lawrence Ferlinghetti: «La storia è fatta delle menzogne dei vincitori, ma non riusciresti ad indovinarlo dalle copertine dei libri di testo») di Christoph Hochhäusler. Il giornalista d’inchiesta Fabian Groys, diabetico dissoluto dedito ai dadi, indaga sull’apparente suicidio di un ex militare che si è gettato nella gabbia dei leoni allo zoo. Ad aiutarlo c’è una giovane tirocinante, Nadja Sloman, con cui finisce per intrattenere una relazione sentimentale. Quando i due confezionano il loro migliore articolo, che gli vale la prima pagina del settimanale per cui lavorano, Fabian inizia a sospettare che non tutte le informazioni che hanno raccolto siano autentiche. E ha ragione, perché l’indagine è stata manipolata e indirizzata sin dall’inizio da qualcuno.

Hochhäusler, che scrive anche la sceneggiatura, parla di un passato che non esiste e che è stato costruito appositamente per ingannare Groys e Sloman per pilotare un voto politico. La memoria su cui si concentra è quella creata dai poteri forti per ottenere nuove verità e conseguenze favorevoli. I due giornalisti scandagliano un mondo che è stato costruito per loro, parlano con vedove che non esistono, vedono foto che non sono mai state scattate.

Il tentativo di fare del (grande) cinema giornalistico guardando ai modelli statunitensi (come Tutti gli uomini del presidente o Diritto di cronaca) non riesce a Hochhäusler, che procede confuso senza riuscire a portare a unità i vari momenti dell’indagine. Rimane però il valore della riflessione su cosa sia realmente autentico di quello che mostrano i media, di quale sia la vera influenza di poteri sotterranei che muovono tutto, dall’ informazione alla politica, creando un presente, e un passato, che non esistono.

“Il giovane favoloso” di Mario Martone

Dopo il passaggio in concorso a Venezia, Elio Germano diventa Giacomo Leopardi per Mario Martone in Il giovane favoloso, biografia cinematografica di uno dei più importanti scrittori italiani.

Giacomo, figlio del conte Monaldo Leopardi, trascorre l’infanzia e l’adolescenza con i fratelli minori Carlo e Paolina e una madre severa e distante. L’ambizione culturale del padre e la salute cagionevole lo costringono a passare più tempo in casa sui libri di quanto ne possa dedicare ai giochi. Lo studio diventa il suo unico conforto e la sua maledizione, l’unico linguaggio per avvicinarsi al padre e allo stesso tempo il trampolino per immaginare voli di fuga verso altre realtà più grandi della provincia dello stato pontificio. Manda le sue opere agli autori che stima, riceve la risposta di Pietro Giordani che lo incita a proseguire e lo va a trovare nella casa del padre, progetta la fuga e viene sorpreso. Con gli anni, riuscirà a essere altrove, a Firenze, a Roma, a Napoli, legato a doppio filo all’amico Antonio Ranieri, sempre più minato nel fisico, sempre più rancoroso nei confronti della natura che non gli ha concesso un normale svolgimento dei giorni.

Dopo la biografia d’Italia con Noi credevamo, Mario Martone prosegue l’indagine sull’identità del paese volgendo lo sguardo al più importante tra i poeti, e pensatori, dell’Ottocento, romantico e patriota. Il tentativo è quello di sottrarre il poeta di Recanati al grigiore del testo scolastico per consegnarlo alla piena dignità della gloria di uomo di lettere e uomo totale.

Perché favoloso il giovane di Martone? In fondo, il Leopardi descritto ha sì una reale voglia di vivere ad animarlo, ma è costretto in primo luogo da se stesso a impedirsi a vivere. La prigione dorata di Recanati prima, la gabbia distorta del corpo poi, appaiono come pretesti per una rinuncia al tentativo ulteriore, alla ricerca di una piena possibilità. Sono rari i momenti in cui si vede Leopardi godere realmente di una vita potenziale, come quando si unisce ai popolani alla locanda a Napoli. A prevalere è un ripiegamento in se stesso, una costruzione di solitudine.

L’amicizia con Ranieri, di cui invidia ai limiti dell’omofilia e della gelosia la giovinezza e il dinamismo, ancor più della bellezza, è il riflesso di un appagamento. Anziché cercare di essere come lui, di ottenere le grazie della adorata Fanny per vie più dirette rispetto al fugace corteggiamento letterario, Leopardi si accontenta di osservarlo. Certo, è minato nel fisico che ne limita la piena espressione, ma nel complesso appare pavido, refrattario all’esibizione di sé.

Del resto, questa refrattarietà si manifesta anche nel rapporto con la sua stessa opera, vissuta con sicura confidenza nel confronto privato con persone note e ben disposte (i fratelli, Ranieri stesso) e pronta invece a essere sminuita, se non addirittura abiurata, nel momento pubblico, come quando ragazzo si propone per lettera a Giordani, o nel confronto con la società letteraria che gli rifiuta il premio.

In un film di qualche anno fa, Auguri professore, Silvio Orlando interpretava un professore di liceo perseguitato per tutta la sua carriera di studente dal mito della concezione del dolore di Leopardi (e Manzoni). Quando finalmente ha possibilità di insegnare esplode in un liberatorio rifiuto della negatività di Leopardi, vantandone invece la smania di vita, l’appetito feroce e curioso di tutto ciò che è mondo e la rabbia che derivava dall’impedimento fisico del pieno godimento. Ecco, quello era un giovane favoloso, animato da collerica tristezza per l’opportunità negata, per la gioventù sottratta. Martone invece mostra un uomo che osserva non osservato la vita degli altri, dei giovani che giocano a pelota, dei contadini che inseguono galline, di Ranieri che conquista e ama, e poi si rifugia in soffitta a scrivere. Non riesce, se non a tratti, a far vivere la potenza insita nelle parole del poeta, la voglia di una vita ipotetica che viene presentata come pessimismo.

Nel descrivere i componimenti, Martone ha scelto la strada del collegamento con l’immagine. Le poesie più celebri, i pensieri più alti, scaturiscono direttamente sullo schermo dalla contemplazione diretta del suo Leopardi della natura e del paesaggio, di quella siepe che da tanta parte e della ginestra, animando con la sensazione interiore lo spettacolo esteriore.

Una scelta simile espone al rischio della figurina scolastica, del santino contemplativo, dell’aneddoto compositivo, della retorica dell’ispirazione fulminante. È una precisa scelta stilistica che però nella somma degli elementi finisce per essere una debolezza, non la sola. Perché a tratti la sensazione fiction Rai è in agguato, perché nel complesso dell’offerta, tolta la portata principale di un Elio Germano che è sì favoloso (non fa il gobbo, è il gobbo. Si modifica, piega, contorce, senza essere macchietta. Scrive come Leopardi, siede come lui, diventa lui), il contorno è scarso in quelli che sono i personaggi secondari. Isolati dal rapporto col poeta non esistono, non hanno autonoma ragione di essere, non hanno dimensione o struttura, nonostante la caratura degli interpreti.

Si fa apprezzare l’apparato scenografico, con la parte dell’adolescenza girata nella vera casa di Recanati e, per contrasto, la colonna sonora tra elettronica e post-rock di Sascha Ring, più noto come Apparat.

(Il giovane favoloso, di Mario Martone, 2014, biografico, 137’)

“Ogni giorno è per il ladro”
di Teju Cole

Lagos è una città spietata, e non si addolcisce per augurare il benvenuto a uno dei suoi tanti figli che vi fa ritorno. Teju Cole questo lo sa bene: nel suo Ogni giorno è per il ladro (Einaudi, 2014), cronaca amara e raffinata del viaggio verso casa di un ragazzo nigeriano che studia Medicina a New York, l’impatto con le origini è crudo e autentico. Il protagonista, del quale non si fa il nome ma che ha tutta l’aria di essere lo Julius di Città aperta, il romanzo con il quale Cole si è garantito un posto d’onore tra i migliori scrittori africani contemporanei, gira per la città consapevole che i quindici anni di lontananza non gli garantiranno un trattamento di favore, anzi. Più esplora, ricerca, si perde nel dedalo infernale della metropoli africana, più si rende conto che la vita in Inghilterra e negli Stati Uniti ne ha irrimediabilmente intenerito il carattere, rendendolo inadatto al luogo che l’ha cresciuto.

Ci sono momenti, tuttavia, nei quali riemerge un sentimento di appartenenza, un orgoglio per la propria terra troppo spesso ferito dal constatarne la continua corruzione, la violenza e la criminalità diffusa: quando visita il Muson Centre, spazio innovativo dedicato alla musica; quando vede una donna sull’autobus intenta a leggere Michael Ondaatje; quando visita Jazzhole, uno dei pochi negozi di libri e dischi con un’offerta artistica stimolante.

Ogni giorno è per il ladro è anche la geografia di una città, la mappatura di uno spazio urbano preda di un’espansione frenetica e spesso ingestibile. Lagos è una madre giovane e una donna infedele, che accoglie nel suo grembo l’umanità più varia e si fa sempre più multietnica nelle sfumature di pelle dei suoi abitanti, ai quali offre continue possibilità di mettersi in gioco senza però garantirne la sopravvivenza. È un luogo che si è reinventato dopo il disorientamento lasciato dalla decolonizzazione britannica, adattando il concetto di globalizzazione a una versione tutta originale di progresso: tra il pullulare di nuove attività commerciali e una religiosità cristiana onnipresente, il ladro e l’onesto, il povero e il benestante lottano per continuare a galleggiare nel ribollente magma cittadino.

L’operazione compiuta da Cole è uno dei tòpoi più classici della letteratura, la cronaca di un ritorno a Itaca che si sposta però a un’altra latitudine, dove tutto è più estremo, intenso. L’autore è consapevole che il materiale che ha a disposizione per la sua storia è roba prolifica, bollente, che si presta con naturalezza alla narrazione, e lo maneggia con consapevolezza e misura. Dopotutto, tramite il suo personaggio confessa ai lettori: «provo una vaga compassione per quegli scrittori che devono esercitare il loro mestiere in sonnolenti sobborghi americani, descrivendo scene di divorzio simboleggiate da un lentissimo risciacquo di piatti. Se John Updike fosse stato africano, avrebbe vinto il Nobel vent’anni fa. Sono convinto che il suo materiale lo ostacolava. Shillington, Pennsylvania, semplicemente non era all’altezza della sua stravagante genialità». La Nigeria, invece, il talento di Teju Cole lo sa assecondare eccome.

(Teju Cole, Ogni giorno è per il ladro, trad. di Gioia Guerzoni, Einaudi, 152 pagine, euro 16)

Il cinema popolare e il Festival di Roma

Sarà un’edizione dedicata al pubblico e agli spettatori questa nona del Festival Internazionale del Film di Roma. Al suo terzo anno, il direttore artistico Marco Müller ha deciso di aumentare la vocazione popolare della kermesse romana ponendo il giudizio del pubblico al centro della manifestazione. Non più giuria di qualità, quindi, non più registi o attori internazionali chiamati a presiedere i gruppi di giudizio. Ad assegnare i premi saranno esclusivamente gli spettatori, votando i film a caldo al termine delle proiezioni. Niente più Marco Aurelio d’oro, quindi, né giurie collaterali, solo premi del pubblico.

Il cammino che ha avvicinato il Festival Internazionale del film di Roma all’attenzione del grande pubblico è iniziato da anni, dalle grandi anteprime della serie di Twilight fino alla passata edizione, all’insegna di Scarlett Johansson e di Her, del secondo capitolo di The Hunger Games e dell’apertura affidata al tentativo di Giovanni Veronesi di replicare i fasti della commedia all’italiana con L’ultima ruota del carro. Eppure, la presenza di una giuria di qualità aveva continuato a portare a una netta cesura tra il consenso popolare e i premi assegnati a fine manifestazione anche nelle edizioni targate Müller, con titoli che nella maggior parte dei casi non sono stati in grado di lasciare alcun tipo di impronta, né al botteghino né nella cultura generale (l’anno scorso ha vinto Tir, di Alberto Fasulo, due anni fa si era scelto di premiare E la chiamano estate di Paolo Franchi, entrambi avendo deluso sia il pubblico che la critica).

La decisione del direttore artistico e del presidente Paolo Ferrari per il 2014 è stata quindi definitiva: basta idiosincrasie, ha ragione il pubblico, viva il pubblico, il pubblico è sovrano e premia. Sopravvivono solo la giuria per decidere la migliore opera prima e il miglior documentario italiano.

Dopo anni passati a vagare alla ricerca di un’identità contesa tra vocazione autoriale e successo, Roma ha scelto di schierarsi dalla parte della platea. Ci sarà da vedere se sarà una scelta destinata a durare per le prossime edizioni, vista la perenne indeterminatezza del Festival dell’Auditorium.

Nel programma, quindi, si è puntato sopratutto su film in lingua inglese e su pellicole italiane, cercando di raccogliere sul tappeto rosso vecchie e nuove glorie del cinema internazionale, da Kevin Costner a Richard Gere, da Benicio Del Toro a Willem Dafoe, passando per le nuove dive Rooney Mara e Lily Collins, e volti noti del grande schermo italiano. E se i premi speciali andranno a registi lontani dalla grande notorietà come il giapponese Miike Takashi (Maverick Director Award per lui), il russo Aleksej Fedorčenko (premio Marc’Aurelio del futuro), con l’eccezione del Marc’Aurelio alla carriera che andrà al brasiliano Walter Salles (che ha 58 anni), ecco riequilibrare la prospettiva verso il pubblico con il Marc’Aurelio Acting Award a Tomas Milian, che viene presentato sì come interprete per registi come Visconti, Pasolini, Maselli o Zurlini, ma che ha conquistato imperitura gloria nei panni di Er Monnezza.

Superata la giuria, si superano anche le distinzioni tra film in concorso e fuori concorso. Ogni film presentato può essere votato dal pubblico per i premi finali. Sarà un premio per ogni categoria, con delle suddivisioni totalmente nuove. Delle precedenti sezioni rimane solo Prospettive Italia, riservata ai nuovi linguaggi del cinema italiana. Gli altri film sono raggruppati in Mondo Genere, riservata a film appartenenti ai più diversi generi cinematografici, tutti in anteprima mondiale, nazionale o europea, tra i quali spicca Nightcrawler di Dan Gilroy con Jake Gyllenhaal, già visto a Toronto e di cui si parla già per la notte degli Oscar; Cinema d’oggi, in cui sono stati selezionati lungometraggi di autori sia affermati che giovani, scelti principalmente tra i film in anteprima mondiale; e soprattutto la sezione Gala, che raccoglie film «popolari ma originali» in anteprima. È qui che si concentrano i grandi titoli, è a questa sezione che Müller e soci puntano principalmente. C’è Gone Girl di David Fincher (ancora da confermare la presenza del regista e dell’interprete Ben Affleck); c’è Love, Rosie, che in Italia diventerà #ScrivimiAncora, destinato a un grande successo tra i giovanissimi; la storia del signore della droga Pablo Escobar interpretato da Benicio Del Toro; l’anteprima integrale della serie The Knick, diretta da Steven Soderbergh e interpretata da Clive Owen; l’omaggio a Philip Seymour Hoffman con la proiezione del suo ultimo film, La spia – A Most Wanted Man. E poi il cinema italiano, a cui è affidato il compito di aprire e chiudere il festival.

 

Cinema italiano di chiara e immediata identità popolare, con Soap Opera, l’ultima commedia di Alessandro Genovese con Fabio De Luigi e Diego Abatantuono, chiamato a inaugurare il red carpet, e Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone selezionato per la serata di chiusura del 25 ottobre. Film difficili da digerire nell’ottica di un festival cinematografico che hanno quegli elementi tipici che preludono il successo al botteghino. Soap Opera, con il suo impianto teatrale, gli elementi abbozzati tra il surreale e il favolistico, aveva lasciato sperare nei primi minuti in un tipo nuova di commedia, con Fabio De Luigi per una volta non confinato nel ruolo dell’imbranato e un avvio sicuramente innovativo (basta la sequenza dei titoli di testa), ma la tentazione di volare alto viene accantonata in fretta per tornare sui terreni più classici e convenzionali e, di conseguenza, affidabili. Ecco: ad Alessandro Genovesi, che le sue idee ce le ha e sono pure interessanti (ha scritto Happy Family di Gabriele Salvatores, e questo Soap Opera in alcuni elementi generali lo ricorda), è sembrato mancare il coraggio di osare di più.

Ancora una volta, quindi, il Festival Internazionale del Film di Roma cambia se stesso per cercare un’identità che possa essere definitiva. Il direttore artistico Marco Müller ha frenato la sua proverbiale passione per il cinema asiatico e, in generale, per i nuovi linguaggi internazionali, scendendo a un compromesso di popolarità con cui si auspica di sollevare le sorti di una manifestazione alla perenna ricerca di un equilibrio e di una collocazione nel panorama cinematografico internazionale.

“La ragazza dai capelli strani”
di David Foster Wallace

L’opera di David Foster Wallace assomiglia a un’enorme costellazione intitolata al linguaggio umano e alle sue più recondite possibilità espressive. Alla padronanza magistrale del linguaggio, si unisce un’attenzione incandescente e vigorosa volta a creare disinvolti giochi di incastro, una pluralità di voci che si alternano nella narrazione, fra gerghi inventati e lemmi riscoperti. Parole che guizzano di pensiero, esseri pulviscolari, che combattono il linguaggio preconfezionato dei media, lo deformano, restituendo significanti altri.

Se fosse per la rivoluzione linguistica, si potrebbe liquidare l’imponente opera wallaciana come una logica conseguenza di una passione autentica per la lingua e un riflesso degli studi linguistici. Tuttavia, l’acume narrativo sfocia sì in una struttura lucida e controllata, ma pure in un amore viscerale per la lingua e in una spontanea forza emotiva che avvicina al lettore anche i personaggi più immorali.

La ragazza dai capelli strani, (minimum fax, 2003) è la sua prima raccolta pubblicata in Italia, tradotta con una lingua limpida da Martina Testa. Il primo dei racconti, “Piccoli animali senza espressione”, considerato il manifesto della poetica dell’autore, si avvale di una contrapposizione di piani narrativi, una formula che ritorna spessissimo nelle successive narrazioni. In primo piano, la rappresentazione dell’intrattenimento, la martellante corsa al successo televisivo, attraverso i quiz, il senso di abbandono dei protagonisti a cui si intrecciano le vicende di una determinata concorrente che vince ogni puntata, per pagare le cure del fratello. Sull’evento quotidiano più prosaico si imprime lo sguardo lieve e profondo di Wallace, la ricerca stilistica che smentisce la trivialità delle esperienze e le rielabora in una dimensione iper-reale.

Nello stesso racconto, il sentimento amoroso fra due donne è tratteggiato con grazia e ironia. Con lo stesso pretesto, Wallace accenna la cultura dell’alterità, mostrando i leitmotiv culturali e i tabù collettivi, meccanismi analizzati anche nel “La mia apparizione”, dove un’attrice ospite di David Letterman si diverte a prendersi gioco di lui, umiliandosi al contempo da sola. Due parole sulla libertà personale, una nozione che oscilla sempre tra farsa e principio americanamente inviolabile, oltreché imprescindibile. In fondo, come sottolineato nel celebre discorso ai laureandi del 2005, la libertà americana riposa sull’accesso a una quantità grandiosa di consumo, intrattenimento e successo personale, ma non di meno nella libertà di pensiero. Attraverso i suoi personaggi, Wallace ritrae un’intera nazione ricattata da moventi economici e alle prese con un complesso rapporto con quest’ultima. Emblematico è il racconto “Lyndon”, costruito attorno all’ascesa presidenziale dell’ambizioso Johnson, che fronteggia le proteste hippy con cinismo. Con motti taglienti e persuasivi, Lyndon riesce a imprimere i suoi discorsi di sincero patriottismo, che comporterà responsabilità belliche verso la nazione. Il racconto gioca sul punto di vista di un giovane collaboratore che assiste alla costruzione di una figura dotata di notevole carisma: Wallace ne restituisce il ritratto l’immagine di un politico abile, mosso da ambizione sfrenata, diretto seppur aspro.

“Per fortuna il Funzionario Commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco” coglie le ambizioni yuppie di due impiegati, separati da carriere paralleli, che si incrociano alla fine di una giornata di lavoro. Pensieri minimi, gesti abitudinari si fermano di fronte a un inatteso e repentino momento di reciprocità, forse il solo, quando il più anziano dei due, il Vice Presidente Responsabile della Produzione Estera, è colto da malore: una scena allargata che mette in gioco, per una volta, una relazione più intima fra i due.

Un paesaggio umano irrisolto, autoironico e impertinente appare e scompare nelle saettanti narrazioni. La forma-racconto è aggredita, l’artificio imbastisce relazioni che, nell’evasione della struttura e nella precarietà, si rincorrono senza sfilacciarsi, cosicché ciò che resta così nascosto in bella vista si riveli, un’umanità che seppur afflitta da malesseri, illumina un presente, furioso e incerto nel suo incedere.

Si tratta di narrazioni che anticipano le atmosfere di Oblio. Il Lete travolge sentimenti, umori e passioni, sommergendo nel disordine, non solo metafisico, le vite dei personaggi, che tuttavia continuano ad appellarsi alla ragione. Grappoli di dialoghi e flussi di coscienza, surreali assenze, vuoti e paradossi confermano quanto questi racconti, scritti alla fine degli anni Ottanta, abbiano precorso le tendenze emotiva anni Zero e segnato, grazie all’entusiasmo da esordiente, una svolta nella narrativa contemporanea.

(David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani, trad. di Martina Testa, minimum fax, 2003)

“Tutto può cambiare” di John Carney

Dopo il successo di Once (2008), il regista e sceneggiatore irlandese John Carney torna con Tutto può cambiare, unendo catarsi e seconde opportunità, chitarre e redenzione, in una commedia di sentimenti amari e musica.

Dan Mulligan (Mark Ruffalo) è un produttore musicale un tempo di successo; separato, padre distratto e assente di cui la figlia Violet (Hailee Steinfeld, Il Grinta) cerca disperatamente l’attenzione, e co-fondatore imbarazzante e alcolista di un’etichetta indipendente da cui viene fatto fuori perché non è più in grado di scovare talenti. Gretta James (Keira Knightley) è una giovane cantautrice di Bristol arrivata a New York quando il suo ragazzo, Dave Kohl (Adam Levine), ha firmato un importante contratto con una major. Gretta è la principale autrice dei testi, ma la notorietà con le sue tentazioni porta presto Dave ad abbandonarla in una città che non sente sua. La sera in cui sta per lasciare New York, Gretta finisce per esibirsi nel Village a una serata open-mic. Dan, ubriaco e scornato, è tra il pubblico. Gli basta un pezzo per riconoscere subito un timido talento, immaginando arrangiamenti che possano farlo esplodere, in quella che è probabilmente la scena meglio riuscita del film: un palco vuoto colmo di strumenti, una cantante con la propria chitarra e un pubblico distratto; la canzone comincia, la voce canta come se si esibisse solo per chi ha voglia di ascoltarla. E tra questi c’è Dan; uno sguardo alla batteria, ora al piano, poi al violoncello e al violino, e gli strumenti prendono vita, mostrando allo spettatore cosa Dan senta e veda. Greta inizialmente non mostra interesse quando Dan propone di produrle un disco. Non vuole lavorare sul proprio look e sulla propria performance, non vuole compromettersi: «La musica è per le orecchie, non per gli occhi». È l’autenticità quello che conta, ciò che la contraddistingue, ciò che per Gretta è importante. E Dan lo deve accettare. È in questa ricerca di autenticità che i due trovano la svolta geniale: l’intera città di New York, con i suoi rumori, il traffico, le sirene, sarà il loro studio di registrazione.

Come in Once, anche in Tutto può cambiare permane la dinamica “talento inespresso – catalizzatore del talento” , e anche questa volta a beneficiarne sono entrambi i protagonisti; se in Once avevamo il busker che veniva scoperto e “costretto” dalla tenacia della ragazza a esprimere e mettere in gioco le proprie capacità senza secondi fini, in Tutto può cambiare i protagonisti beneficiano equamente della collaborazione; il potere catartico e l’autenticità senza compromessi della musica di Gretta la porteranno a rimettersi in piedi e a scoprire chi è realmente, mentre Dan intraprenderà un viaggio che gli ricorderà chi è e cosa sa fare meglio, riportando ordine nella propria vita.

Oltre alla bella fotografia di Yaron Orbach, e al naturale tributo a quella «bella, dannatamente pazza e caotica città spezzata» che è New York nella scelta delle locations per le registrazioni, Mark Ruffalo e Keira Knightley si mettono in mostra con un’ottima intesa. Ruffalo gioca con il repertorio del fallito prossimo alla disperazione; l’attrice inglese, dopo i ruoli principalmente in costume degli ultimi anni (Anna Karenina, A Dangerous Method, Espiazione, impegnati e impegnativi, ritrova un ruolo leggero, si esprime al suo massimo e mostra anche delle buone doti canore. Il leader dei Maroon 5, Adam Levine, al suo esordio al cinema dopo aver partecipato alla serie tv American Horror Story: Asylum, riesce bene in un personaggio ambiguo.

In un film sulla musica, la colonna sonora non può che essere rilevante. Le musiche sono composte principalmente da Gregg Alexander dei New Radicals, qui con lo pseudonimo di Cessyl Orchestra, con qualche eccezione firmata CeeLo Green (cantante, produttore e voce dei Gnarls Barkley), che appare nei panni del rapper Troublegum.

Il pregio di John Carney, che sa scrivere e soprattutto dirigere i suoi attori, è nel saper condurre gli spettatori verso una fine inevitabilmente felice, sì, ma mai scontata. Lo ha fatto in Once, lo fa in Tutto può cambiare, in cui la purezza del rapporto fra i protagonisti, questa collaborazione quasi purificatoria, non viene banalizzata con una prevedibile, e forse anche giustificata, conclusione.

 

(Tutto può cambiare, di John Carney, 2013, commedia, 105’)

 

“Gloria agli eroi del mondo di sogno”
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

La costruzione di un olimpo con le fondamenta ben piantate nell’infanzia, di un pantheon di idoli sudati, lontani dall’occhio perché impossibili (quasi sempre) da vedere, ma vivi e vividi nell’immaginazione capace di far muovere e correre le immagini immobili dei giornali, le parole concitate delle radiocronache.

È quello che fa Gianfranco Liviano D’Arcangelo con Gloria agli eroi del mondo di sogno (il Saggiatore, 2014), ricostruzione personale e autobiografica di una cosmogonia calcistica. Il calcio, in Italia sicuramente più di ogni altro sport e ormai di qualsiasi pratica esteriore, ha la capacità di proiettare l’immaginario individuale in un universo esterno concreto ed empirico. Chiunque abbia avuto un’infanzia si è figurato anche solo per un istante calciatore, ha vissuto con spasimi da finale del mondiale partitelle tra amici, si è immedesimato nella gloria o nella frustrazione di un rigore, si è sentito campione. È su questo corrispettivo tra mondo individuale e realtà oggettiva dei campioni veri che D’Arcangelo costruisce la sua Gloria in un racconto che alterna romanzo e autobiografia, racconto e cronaca sportiva, disegnando un arco temporale privato che va dalla contemplazione del calcio fino al tentativo e al fallimento che porta via il sogno.

Nella sua fantasia di bambino passa il tempo a costruire un tempio per celebrare il calcio, quando ancora il mito è superiore a lui e alle sue potenzialità, esterno ed eterno, quindi inavvicinabile. Sul rettangolo di moquette strappata in giro per casa, con reti fatti di tulle di costumi di carnevale e tribune e stadi edificati con volumi di enciclopedie, pupazzetti Playmobil si affrontano sul campo della Futbolandia privata progettata rinunciando con orgoglio alla scorciatoia del Subbuteo. Siamo negli anni Ottanta personali di D’Arcangelo, i giocattoli assumono le forme e i nomi dei suoi miti superiori, di quella squadra lontana nel tempo ma celebre per essere inarrestabile, l’Aranycsapat di Puskás e Kocsis, il mito oggettivo e storico, e di un insieme di idoli privati presi tra i giocatori sentiti alla radio o visti in televisione, Maradona, Matthaüs, Platini, forgiati nel mito soggettivo in un’unica entità. È crescendo che l’azione si fa imitativa e mitica, cercando sui campi della periferia barese – il Fabbrica Rossa conteso a un altro gruppo di ragazzini – di diventare il mito adorato.

È questo il collegamento costante che pone D’Arcangelo, il ponte che si disegna tra l’individuale dell’immaginazione, o del gesto, e l’oggettivo della storia sportiva. È questa la forza del calcio che sottolinea. C’è Pasolini, dietro, e il calcio come ultimo rito collettivo, ma è declinato, il rito, anche in forma personale. Il calcio è una religione che non si pratica necessariamente nel tempio dello stadio o del campo da gioco. È anche altari privati e contemplazione del gesto, dell’idea. Non solo dei miti esterni, dei «principi del mondo di sogno» come Platini e Baggio per D’Arcangelo, ma anche nell’identificazione con ibeautiful losers, con quelli che non ce l’hanno fatto per pigrizia o paura (o fobie, come l’aereo per Bergkamp), o nei miti semplici, come Butcher sanguinante dalla fronte che continua a colpire il pallone di testa fino a vedersi tingere di rosso il bianco della maglia, o il capitano del Martina, squadra di C2, che diventa l’olandese Krol in una diagonale difensiva e assume gloria anche nei campi di terra, prima di precipitare nel quotidiano di un bancone di videonoleggio, o nelle leggende di passaggio, come il Malines di De Mos e Preud’homme o nel Nottingham Forest giusto e rapace come Robin Hood.

Per D’Arcangelo il calcio è il «mezzo migliore per osservare e assimilare il mondo circostante», nei suoi occhi di bambino, il libro illustrato attraverso cui apprendere realtà come il sacrificio, l’impegno, la gloria. Cerca nei volti dei giocatori in televisione la fatica, la tensione o la gioia del trionfo per comprendere il segno esterno del mondo interiore delle sensazioni.

L’elemento soggettivo e quello oggettivo si impastano in continuazione nel racconto. L’elevazione dello sport a mitologia è l’essenza dell’attenzione mondiale capace di rivolgersi interamente a una singola partita di pallone. Nel costruire questo mondo di miti ed eroi, D’Arcangelo immerge la sua scrittura nell’epica omerica, nei cicli della canzone bretone, nell’antropologia tribale che pone il pallone come totem, come oggetto sacro di identità e possesso. Forma uno stile solenne e lirico, disegna la gloria anche con le parole, non solo con l’idea di renderla tale. E stride, questo linguaggio cerimoniale, con la concretezza dell’azione, con la descrizione della finale dei mondiali 2006 e la canzone delle gesta degli atleti italiani. Stride in un momento in cui il calcio ha perso ogni connotato di gloria epica, ogni dignità di eroismo presunto ed è diventato semplice giro di denaro e interessi esterni, semplice «romanzo polifonico totale» in cui ognuno conosce la propria parte, in cui i miti hanno il connotato dell’automa, della macchina più che dell’uomo, e viaggiano più veloci della velocità stessa, in cui il segno esterno riconoscibile non è più quello della mitologia, ma quello dell’industria. Lo ribadisce D’Arcangelo stesso nell’appendice dedicata a Messi.

Il linguaggio mitopoietico trova la sua dimensione ideale quando si sposa con il momento della formazione e dell’adolescenza, riuscendo a far scaturire l’ironia dal contrasto tra la solennità del tono e la piccolezza dei fatti raccontati. Ma l’abuso della retorica, di una scrittura intrecciata di riferimenti epici negli elenchi e nel catalogo degli eroi, pesa e schiaccia la lettura, la fa scorrere lenta, allontana la purezza del ricordo d’infanzia, in cui è facile immedesimarsi, per contaminarla con un registro che più ostico risulta ostile.

(Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Gloria agli eroi del mondo di sogno, il Saggiatore, 2014, 296 pagine, euro 16)

“Le luci di Pointe-Noire”
di Alain Mabanckou

Quanto pesano i ricordi? Quelli di Pointe-Noire più di quanto sembri. Dopo ventitré anni di assenza, Alain Mabanckou torna nella sua città natale per presenziare a una serie di conferenze dell’Institut Français, e lo fa da scrittore affermato, dopo aver dato eco internazionale a Pointe-Noire nel best-seller Domani avrò vent’anni. Giorno dopo giorno, perciò, stila qualche pagina a caldo sulle impressioni lasciate dal ritornare al proprio passato. Ma se guardarsi indietro non è cosa facile, ancor meno lo è rimettere piede in un luogo con il quale si è sempre rimandato l’incontro, intimoriti all’idea di realizzare chi si è diventati.

Partito con una borsa di studio per studiare legge a Parigi, Alain Mabanckou ha assecondato la sua vocazione per la scrittura, diventando negli ultimi anni un personaggio di spicco del panorama culturale francofono, e meritandosi un posto tra le cinquanta personalità africane più importanti al mondo nella classifica stilata dalla rivista Jeune Afrique nel 2014. Eppure in Congo, adducendo pretesti e posticipando, Mabanckou non era mai ritornato, sino al viaggio che è preludio di questo libro.

Ecco perché Le luci di Pointe-Noire (66thand2nd, 2014) è un atto di disarmo totale, un’operazione di onestà estrema verso il pubblico, un’autoanalisi sentimentale e non troppo lucida: l’autore sceglie di scalfire la parete che aveva innalzato tra il suo Io attuale e quello originario, e lo fa consegnando in tempo reale le sue sensazioni al lettore, spogliandosi completamente. Se i ricordi d’infanzia di Domani avrò vent’anni erano stati manipolati con il distacco che si riserva alle cose lontane, quelle ormai relegate in uno spazio mentale dove gli angoli più spigolosi sono smussati e le immagini si fanno sfocate, gli stessi ricordi, ne Le luci di Pointe-Noire, devono scontrarsi con la loro proiezione reale.

Il liceo che ha cambiato nome, il cinema trasformato in chiesa pentecostale, la casa d’infanzia, i parenti defunti e quelli nati troppo recentemente per far parte della memoria: la vecchia e la nuova Pointe-Noire si sovrappongono nella prospettiva dello scrittore, che cerca di far combaciare la sua rappresentazione mentale della città a quella attuale, curioso ma cauto nella necessità di riempire un ventennio di mancanze.

L’operazione che Mabanckou compie lascia trasparire una dolcezza disarmante, dolorosa anche. La scrittura è malinconica, ma concede spazi di ironia e fotografa nitidamente luoghi e abitanti della sua città affacciata sull’Atlantico. Il tono dell’autore è quello del narratore navigato, che con ritmo da cantastorie racconta di sé e dei personaggi che ne hanno segnato i primi anni di vita con tale scorrevolezza da elevare la sua storia a uno statuto universale, a un mito sulla conoscenza di sé che deve passare inevitabilmente per l’infanzia, per quanto si tenti di sfuggirle. L’infanzia e le origini, l’eterno dilemma. Dopotutto, come la madre dell’autore era solita dirgli, «L’acqua calda non dimentica mai di essere stata fredda», e a certi confronti non si sfugge.

(Alain Mabanckou, Le luci di Pointe-Noire, trad. di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, 66thand2nd, pp. 256, euro 17)

“Joe” di David Gordon Green

Violenza, alcol e redenzione sono i tre cardini su cui gira Joe, film di David Gordon Green visto nel 2013 in concorso a Venezia e a Toronto e che ora viene distribuito nelle sale italiane con più di un anno di ritardo.

Figlio di un alcolizzato violento, il quindicenne Gary Jones cerca di prendersi cura della madre e della sorella muta Dorothy e di costruire una vita migliore rispetto alle baracche cadenti, il cibo preso dalla spazzatura e al nomadismo a cui il padre li costringe. Dopo essersi dovuti trasferire per l’ennesimo problema del padre, i Jones arrivano in una cittadina del Texas dove Gary trova lavoro con Joe Ransom e la sua squadra di disboscatori incaricati di avvelenare vecchi pini, deboli e inutili, per piantarne di nuovi. Joe è un uomo silenzioso e solitario, beve molto, frequenta un bordello e ha passato due anni in carcere per aver menato tre poliziotti. Lì in paese lo conoscono tutti, e lo rispettano, tranne un rivale storico con cui si azzuffa nei bar e fa emergere la sua natura violenta in un’escalation costante di provocazione e risentimento. Tra Joe e Gary si sviluppa un rapporto inatteso di solidarietà e amicizia che porta i due a crescere insieme, Gary sempre più uomo, Joe alla ricerca di una dignità che possa riscattarlo.

Sono gli Stati Uniti più putridi quelli che racconta David Gordon Green in Joe. Quelli delle statali e del nulla, dell’alcolismo ovunque e delle armi sempre in pugno. È una realtà rurale e primitiva, lontana da una civiltà che sia intesa come urbana o come condizione umana. È una sorta di medioevo barbarico, quello del Texas di Green, con l’autorità che deve essere sempre pronta al compromesso con la violenza e lo sbando, in cui la vita di un uomo ha un valore diverso rispetto al senso comune, in cui è possibile uccidere per rubare del vino, spararsi in pieno giorno per strada, lasciare i cani a sbranarsi per godere dei servizi di una prostituta. Come gli alberi che avvelenano, i personaggi di Joe si lasciano morire dell’infezione che si procurano, lasciano imputridire la piaga sociale in cui annegano. Non è prevista una fuga, non ci pensano. Il mondo è quell’orizzonte ristretto di drug store e pick up, di bottiglie di bourbon e lattine di birra. C’è la morte del sogno americano illuso da se stesso, c’è la decadenza delle terre desolate, c’è l’orrore delle possibilità dell’uomo esposto al pericolo più grande che possa incontrare: se stesso. Ma c’è anche la possibilità di un riscatto, di una rivalutazione del senso comune dell’umanità, della riscoperta, o definitiva affermazione, di una nobiltà dimenticata.

Basandosi sul romanzo di Larry Brown del 1991, e servendosi della sceneggiatura di Gary Hawkins, quasi esordiente dopo documentari e corti, Green racconta l’incontro improbabile tra un uomo buono ma violento e un figlio che ha solo bisogno di un padre che non passi il tempo a bere, che sappia apprezzare il valore dei soldi e del lavoro, che rispetti la famiglia che ha creato. Lo aiutano Nicolas Cage, che a distanza di quasi vent’anni da quel Via da Las Vegas che gli valse l’Oscar, e dopo pochi momenti brillanti in un oceano di film e ruoli trascurabili, torna a dare corpo a un personaggio intenso, tutto giocato sulla sottrazione e pronto a esplodere di collera alcolica, di rabbia di fronte alle ingiustizie, e il diciassettenne Tye Sheridan. che ha ricevuto a Venezia il Premio Marcello Mastroianni destinato ai giovani attori, al terzo film e destinato a una carriera enorme.

Dopo le commedie, per lo più demenziali, su commissione Strafumati, Sua altezza e Lo spaventapassere, David Gordon Green è tornato nel 2013 con Prince Avalanche alla tematica centrale del suo cinema: il rapporto tra uomo e ambiente, non solo inteso come natura ma come contesto sociale che si riflette nei comportamenti e nelle abitudini. Con Joerecupera l’altro fulcro tematico, cioè quell’adolescenza che, dall’esordio con George Washington nel 2000 e nel successivo thriller Undertow del 2003, non lascia spazio alla crescita per portare a maturazioni brutali e necessarie.

Quando fa il suo cinema, Green si inserisce, insieme a Jeff Nichols (di cui aveva prodotto nel 2011 Shotgun Stories), in quella tendenza del cinema statunitense che guarda come riferimento principale alle Badlands di Terrence Malick (quelle del film La rabbia giovane del 1973) nel descrivere la vita degli Stati Uniti centrali, fatta di semplicità e noia contadina, di alcol bevuto in eccesso e lavori degradanti. Non a caso, Malick aveva prodotto Undertow. Non a caso, Tye Sheridan era già stato figlio di Brad Pitt  e Jessica Chastain in The Tree of Life,e poi protagonista per Nichols in Mud a fianco di Matthew McConaughey, a tracciare una sorta di linea di collegamento tra i tre registi.

(Joe, di David Gordon Green, 2013, drammatico, 117’)

“Il fiordo di Killary”
di Kevin Barry

Cambiar vita, l’idea ingenua e velleitaria quanto si vuole di mollare tutto e ricominciare daccapo da un’altra parte, in tutt’altra veste, in tutt’altra maniera: capita ad alcuni personaggi dei racconti contenuti ne Il fiordo di Killary di Kevin Barry (Adelphi, 2014), scrittore irlandese tradotto per la prima volta in italiano in una silloge che include storie sparse fra due raccolte diverse. Non è al patetico però e per fortuna che bisogna pensare ma all’intensità comica dell’arte narrativa di uno scrittore tanto interessante quanto divertente. Abilissimo nel distribuire pensieri (dei protagonisti) sul che fare nella vita e la quotidiana messa in scena di casi strampalati solo in apparenza, talentuoso nella scelta del ritmo con cui infilare battute secche e stranianti, Barry offre squarci fulminei di vita irlandese vivida secondo tradizione di una letteratura nobilissima.

Ne è un ottimo esempio il racconto eponimo, brillante resoconto in diretta di un abbaglio: un poeta instabile e perplesso, in fuga da se stesso, di fronte all’alluvione che sta per distruggergli l’albergo sul fiordo e alla temperatura erotico-alcolica dei suoi avventori che sale assieme all’acqua per le scale, medita sulla sciocchezza che ha fatto ad acquistarlo. Abbandonare la città per un luogo in fondo ostile (se «gli indigeni erano dediti a formidabili variazioni d’umore», il personale estivo era costituito da «un vociferante branco di bielorussi pieni di ormoni, che non facevano che trombare da mane a sera») non pare esser stata una grande idea, tanto da pensarne un’altra ancora più stravagante: vendere tutto e comprarsi «mezza Cambogia». Le distanze, i chilometri da percorrere per andare da un luogo all’altro, suonano peraltro come argomento di conversazione ricorrente fra i personaggi: forse perché corrispondono a passaggi esistenziali, come sa la donna che abbandona il marito violento. E anche la gioventù sembra null’altro che un tempo da lasciarsi alle spalle, un tempo di sviste, di inciampi: via da lei, dopo le prime delusioni amorose, la vita prova davvero a cominciare. Ma fra pub e sale-giochi che fanno da contraltare alle «colline pietrose fuse nella luce verdastra» prossima all’oceano, fra vino e birra che non mancano mai (a meno di non avere problemi a pagare le bollette per mantenere un locale), e cani ululanti, non è detto che la vita adulta offra garanzie certe. Non è detto che saperne qualcosa in più su se stessi salvi i personaggi di Barry, faccia percorrere loro sentieri meno accidentati. E a volte sorprendenti com’è nel caso di due sinistre, terribili vecchiette che scopriamo scorrazzare su una Toyota in cerca di bambine…

Lo humour nero (punteggiato da improvvise inserzioni liriche e da taglienti scarti grotteschi) è il collante che tiene insieme queste storie, del cui stile la bella traduzione di Monica Pareschi restituisce la purezza cristallina. Uno scrittore, Kevin Barry, da cui c’è da aspettarsi felici sviluppi.

(Kevin Barry, Il fiordo di Killary, trad. di Monica Pareschi, Adelphi, 2014, pp. 171, euro 17)

”Mi ricordo“
di Joe Brainard

Due semplici, banali parole, una specie di formula magica che si ripete senza sosta come un mantra, voce iniziatica che di volta in volta può far scattare un flash, soffiare via la polvere del passato e schiudere un mondo. Mi ricordo. La voce è quella di Joe Brainard (1942-1994), pittore, illustratore e poeta legato alla Scuola di New York. La casa editrice Lindau ha pubblicato per la prima volta in Italia quest’opera unica e molto amata, che ha ispirato tutta una serie di epigoni, tra cui anche il George Perec di Je me souviens.

Non si tratta di una semplice autobiografia. Non ne ha la coerenza né la linearità. Non c’è una storia. Semmai, una miriade di micro-storie (a volte fatte di una sola riga) che scappano in tutte le direzioni e sono appese a un unico gancio, quello di un io narrante (o meglio, ricordante) tramite cui fuoriescono come schegge impazzite.

Infatti, quello che può sembrare un vuoto esercizio autoreferenziale, un puro gioco narcisistico, diventa in realtà il ritratto «impressionista» di un’epoca, con le sue manie, le sue speranze, le sue contraddizioni. A partire dal dato individuale, privato, persino minuscolo e apparentemente significante, prende forma un respiro comune, un insieme di rituali collettivi, ma anche di sfide e di deviazioni dalle strade maestre tracciate dalla società… Una serie di frammenti che, in un amabile disordine, vanno a comporre un mondo fatto di briciole quotidiane, prodotti di consumo, oggetti qualunque di una vita qualunque (hot-dog, frigoriferi, dentifrici, giocattoli, dischi, riviste, film, show televisivi…), personaggi destinati a essere dimenticati, piccole grandi esperienze che segnano un’infanzia e un’adolescenza, capaci di rimanere dentro per sempre.

Un mondo straordinariamente colorato e ricco perché pulsante di vita, pieno di sfaccettature: un mondo che risuona al ritmo placido della provincia americana dell’Oklahoma e a quello elettrizzante del Greenwich Village di New York in piena epoca di contestazione. Dall’american way of life alla trasgressione, la ricerca della libertà esistenziale ed espressiva nel fermento ideologico-politico degli anni Sessanta. E il sesso. Scoprire presto di essere omosessuali e vivere con audacia la propria sessualità, senza rinunce né compromessi. Nulla sfugge a questa corsa spericolata a ritroso nel tempo, a questo viavai continuo e sfacciato di ricordi: conformismo e trasgressione, spirito critico e nostalgia, confessione e dissimulazione di sé, emozione e controllo.

Ma soprattutto tanta ironia, che in un libro del genere diventa necessariamente autoironia, la vera arma vincente contro la drammatizzazione e la retorica del sé autobiografico, e il vero grande antidoto alla monotonia dell’elencazione fine a sé stessa. Quel che ne risulta è una sincera e divertente ricostruzione caotica del proprio mondo e di quel che si è diventati facendo i conti con esso, spesso – inevitabilmente − barando.

(Joe Brainard, Mi ricordo, trad. di Thais Siciliano, Lindau, 2014, pp. 168, euro 14)