“Pasolini” di Abel Ferrara

Ultime ventiquattro ore, qualcosa di più, della vita di Pier Paolo Pasolini nella ricostruzione di Abel Ferrara presentata all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Dal risveglio a Roma dopo una trasferta a Stoccolma fino al ritrovamento del corpo senza vita all’idroscalo di Ostia all’alba del 2 novembre 1975. In mezzo c’è spazio per le lotte contro la censura per Salò o le 120 giornate di Sodoma, il rapporto con la madre e la famiglia, un pranzo in casa con Laura Betti di ritorno dalle riprese di Vizi privati e pubbliche virtù e da una sessione di doppiaggio per L’esorcista, un’intervista con Furio Colombo che verrà pubblicata su “Tuttolibri” con il titolo Siamo tutti in pericolo l’8 novembre, a sei giorni dalla morte, una cena tarda con Ninetto Davoli, consorte e figlio neonato. Poi il bar della stazione, Pelosi, il Biondo Tevere, Ostia, le botte, la morte.

Tra tutto questo c’è il lavoro: Pasolini che invia a Moravia il manoscritto di Petrolio per avere un’opinione; Pasolini che batte a macchina; Pasolini che scrive a Eduardo De Filippo per parlargli del film mai realizzato Porno-Teo-Kolossal e convincerlo a esserne il protagonista. Le lettere, gli appunti, le riflessioni, prendono vita sullo schermo, diventano narrazione nella narrazione, non più semplici idee ma forme.

Ecco, è proprio in questa scelta che Abel Ferrara dimostra di aver capito poco non solo del Pier Paolo Pasolini personaggio pubblico, ma anche e soprattutto della sua opera. Perché non c’è fedeltà, non c’è aderenza al linguaggio, allo stile, ai meccanismi sia cinematografici che di scrittura. Nella ricostruzione del quotidiano dello scrittore (come per brevità si era fatto etichettare Pasolini sul passaporto) si può usare come alibi la distanza culturale classica e inevitabile di chi dagli Stati Uniti prova a descrivere un’Italia lontana nella geografia e nel tempo, in cui si dichiara di non poter andare all’estero perché «so cucinare solo gli spaghetti» e in cui gli scontri del disordine politico sono ridotti al rango di vago e generico riferimento.

È nel confronto diretto con il linguaggio pasoliniano che ogni giustificazione cade, che emergono tutti i limiti di un film incapace di cogliere l’essenza della materia raccontata. Ferrara non vuole parlare della vita di Pasolini, o meglio, attraverso la sua morte vuole parlare della sua opera, della sua grandezza di intellettuale totale, di personalità capace di essere tutto ciò che fosse arte e cultura. Lo chiarisce nell’apertura che ricostruisce la sua ultima intervista televisiva alla televisione francese in occasione dell’uscita di Salò o le 120 giornate di Sodoma in cui viene ribadito il legame tra sesso e politica, il connubio tra scandalizzare come diritto ed essere scandalizzati come piacere. Posta questa chiave, Ferrara non fa niente per delineare un quadro preciso dell’opera pasoliniana, la butta lì per far vedere e capire che Pasolini è come lui: un provocatore, uno che fa dello scandalo un linguaggio per parlare di morale, per scuotere. Gli piacerebbe, a Ferrara, essere minimamente come Pasolini, che del sesso e della mostra del sesso, dell’abominio, aveva fatto un universo disturbante e simbolico capace di incidere coscienza e immaginario e incapace di lasciare indifferenti. Quella di Pasolini era una ribellione colta alla società piatta in cui l’istruzione obbligatoria aveva reso tutti uguali, tesi agli stessi bisogni da soddisfare, dividendo in soggiogati e soggiogatori (dall’intervista con Furio Colombo). Ferrara fa del ribellismo goffo pensando di parlare la stessa lingua di quello che chiama Maestro, mostra un pompino omosessuale nei primi minuti, con dettagli, per far vedere che non ha paura di niente, e quando prova a fare Pasolini immaginando un possibile Porno-Teo-Kolossal rischia il ridicolo (la scena dell’orgia nella Sodoma romana di gay e lesbiche uniti per la procreazione al grido di «Fica, fica, vaffanculo! Cazzo, cazzo, vaffanculo!»).

Insistendo sul tema dello scandalo e della provocazione, soprattutto nella prima parte, Abel Ferrara cerca di cogliere l’essenza dello scrittore ma si limita in verità a scalfirne la superficie. L’attitudine provocatoria tipica del cinema di Ferrara, il parlare dell’alto partendo dal basso del vizio, la ricerca della fede, di una verità morale, nei vicoli bui dell’agire umano, si scontra qui con un modello troppo più grande per non risultare un tentativo fallito miseramente. Non è possibile leggere Pasolini come un film d’arte per celebrare un’artista attraverso la sua opera, mostrando il connubio indissolubile tra vita e poetica, cercando il parallelo a tutti i costi tra la sordida fine di PPP e l’ascesa finale di Epifanio e del servo nell’ipotizzato Porno-Teo-Kolossal. Non basta montarli uno accanto all’altro per creare un vero collegamento, inseguire una cometa che è una «stronzata» e dire che la fine non esiste per lasciare intendere che l’eredità, il segno nel tempo rimane.

Il Pasolini di Ferrara è approssimativo, pasticciato, generico, debole in tutto ciò che circonda un William Dafoe che oltre alla mimesi fisica non riesce a riprodurre un briciolo della rabbia, della dignità, della grandezza del vero Pasolini. Non c’è la potenza delle idee nel confronto con Furio Colombo, non c’è il pensiero di Pasolini se non in forme semplificate e fraintese. Si salva solo la sequenza cruda e spietata dell’omicidio.

Da quello che un tempo era un campione dell’irriverenza cinematografica, della distruzione del sacro nella prosaicità del concreto, ci si sarebbe potuti attendere ben altro sguardo su chi, davvero, riusciva con il suo cinema e la sua penna a scuotere le coscienze della borghesia.

(Nota a margine: è uno dei rari casi in cui è fermamente sconsigliata la visione in lingua originale. Meglio optare per il doppiaggio di un attore esperto del repertorio pasoliniano come Fabrizio Gifuni anziché preferire la doppia lingua inglese e italiana della versione internazionale mostrata a Venezia. Straniante e, ancora una volta, confusa).

 

(Pasolini, di Abel Ferrara, 2014, biografico, 87’)

 

“Le vite di Monsù Desiderio”
di Fausta Garavini

Al centro di Le vite di Monsù Desiderio di Fausta Garavini (Bompiani, 2014), c’è la curiosa figura di François de Nomé, pittore lorenese vissuto fra Roma e Napoli nei primi due decenni del Seicento: divergendo decisamente dalla linea di corposo, perfino dirompente realismo imposto alla pittura dal Caravaggio tra fine Cinquecento e inizi del Seicento, si dedicò invece a tracciare, con pennellate rapide, nervose, quasi impressionistiche, vedute d’architettura dichiaratamente irrealistiche; la figura umana, che il Caravaggio aveva spavaldamente portato a invadere il primo piano del quadro (la sensualità impudica del ragazzino-Amore, o i piedi infangati dei devoti in ginocchio avanti a Maria), qui si fa invece profilo esilissimo, minuscolo, sperso in un proliferare di arcate in prospettiva, e pilastri e guglie e pinnacoli: architettura dunque di totale fantasia, che fonde gli elementi costitutivi dell’antico e del gotico, di Roma, solenne di pietre in rovina, di una Napoli elegantemente angioina, e (forse) della ormai remota Lorena della sua infanzia.

È da lì, dal luogo e dal nodo di affetti da cui si distacca il bambino di nove anni scarsi in viaggio verso Roma, che prende le mosse la ricostruzione intrapresa da Fausta Garavini a partire da pochi evanescenti dati storicamente oggettivabili: fatta con le armi di una sensibilità sottilissima, aderente alla sostanza più umbratile dell’esperienza umana, ma anche dotata di una straordinaria capacità di ricostruzione assolutamente persuasiva – dal più minuto particolare della tecnica pittorica, fino al quadro d’ambiente più vasto e affollato, consentito da due città come la Roma e la Napoli del ‘600, fra le più brulicanti di vita, e di fermenti artistici, dell’intera Europa.

Questo infatti è uno dei pregi più accattivanti del libro: mostra in azione, in presa diretta si direbbe, l’esistenza chiassosa, sguaiata, vitalissima, dei romani d’inizio ‘600, soprattutto nei luoghi della loro socialità (le carnevalate, la corsa degli ebrei nudi, la giostra dei tori), i luoghi che a noi sono invece familiari nel modo in cui li hanno ingessati e marmorizzatati le successive sistemazioni urbanistiche settecentesche, o di epoca post-unitaria.

A un secondo livello, più meditato, arricchisce poi il libro la ricostruzione, che Garavini sembra compiere senza sforzo, quasi ricorrendo a memorie personali, dell’atmosfera culturale di due centri nevralgici come Roma, e più ancora Napoli, nei decenni iniziali del ‘600. Ciò, per mezzo di figure sempre in bilico fra dogma e dubbio, fra magia e raziocinio: quali, per dirne una, il Della Porta, strana mistura di umanista e scienziato, nel suo approdare alla fisica del cannocchiale già prima di Galilei, o a un pre-darwinistco spirito di osservazione delle simmetrie strutturali fra esseri viventi; o, ancora, il Campanella (che farà anche una rapidissima comparsa, affacciandosi con il rude volto contadinesco da una finestra a inferriate del suo carcere napoletano), visto meno come il riformatore politico che a noi viene subito in mente, quanto come un quasi mistico adepto della insondata sacralità della natura.

Ricostruzione, si è detto; ma va subito precisato che non consiste mai in un procedimento freddo, da archivista, piuttosto è tutta giocata all’interno delle perplessità e del metafisico attardarsi del ragazzo e poi del giovane uomo Francesco sul limitare di un possibile senso, di questo nostro trascinarci verso la distruzione e l’annullamento beffardo nella morte.

Morte che, prima ancora di comparire nei suoi quadri, qua come crollo di colonne e sfacelo di cupole, là attraverso l’inquietante, spesso incongrua figura del toro trascinato al sacrificio, si annuncia già al bambino di Metz, nel corpo degli impiccati lasciati alla mercé degli uccelli e delle piogge, e poi torna, insistente, in quasi tutti gli snodi narrativi della sua pur breve esistenza: da quando gli uccidono il padre in una rissa di strada, a quando il suocero e maestro d’arte pittorica Croys cede allo sfacelo fisico della malattia, e perfino nel formarsi dell’unico, quasi preterintenzionale frutto del suo amore per la dolce, positiva Isabella («ha il dono di schiarire i pensieri neri che Francesco cuoce in sé»), che, nel darlo alla luce morto, ne verrà a sua volta avviata al suo stesso nulla.

A noi sembra, tuttavia, che a portare il libro forse ancora più in alto che sul piano narrativo, a un tono di elevatissima qualità nella lavorazione, si vorrebbe dire, da oreficeria, sia lo stile: brevi, asciutte, vibrate, o, se serve, fluenti al modo di panneggi, le frasi sono rifinite ognuna come i versi di una composizione poetica, il lessico è trascelto con gusto attentissimo, pregiato in alcune sue punte, anche se pronto a mimetizzarsi al parlato (che però, stranamente, non viene distinto, come una convenzione plurisecolare ci abitua, tipograficamente dal testo narrativo: forse, perché ne sia parte più intima); detto francamente: lo stile di questa vita d’artista riporta alla mente il sovrano magistero di grandi novecenteschi come Longhi, o la Banti di Artemisia.

Due parole, infine, sull’aspetto iconografico: ottima scelta, quella di incorniciare nel testo via via tutte le opere del de Nomé, come poi quelle dei suoi maestri, o rivali, e colleghi: tale quel Monsù Desiderio, Didier Barra, che, furbescamente, alla fine del libro si affretta a sostiuirsi al collega appena morto ereditandone le pingui committenze, e perfino la fama, fino ai nostri giorni di meritori studi filologici in grado ridare, a questo bizzarro lorenese venuto a fiorire in Italia, quello che gli spetta.

(Fausta Garavini, Le vite di Monsù Desiderio, Bompiani, 2014, pp. 324, euro 22)

“Errori necessari”
di Caleb Crain

Caleb Crain, noto fino a ora come critico di testate prestigiose quali The New Yorker The New York Times Review of Books (si parlò di lui sui giornali italiani per esempio per gli accidenti solenni che gli mandò Alain de Botton, in seguito a una stroncatura), esordisce come scrittore con il romanzo Errori necessari (66tha2nd, 2014).

Fra «sedie tipicamente socialiste» e «gente orgogliosa», un passato comunista pesante e una gran voglia di cambiamento, il giovane americano e aspirante scrittore Jacob Putnam si mette alla prova nella Praga della rivoluzione di velluto che non sapeva di avviarsi a non essere più magica e a terremotare la propria impareggiabile bellezza con l’impatto di orde fittissime di turisti. A Putnam – neolaureato a Harvard, alle prese con una personale linea d’ombra fatta di incertezze, timidezze e vaghe speranze – la città che si affaccia alla democrazia liberale e prova a lasciarsi alle spalle la cupezza di un soffocamento culturale che aveva oscurato persino un gigante come Kafka, sembra il luogo ideale per accordare inquietudini personali e svolte epocali della grande storia. Lo farà incontrando altri occidentali come lui e praghesi che spesso farà fatica a comprendere. A partire dall’ambito erotico-sentimentale. In un paese i cui abitanti «hanno la fama di rispettare le promesse di matrimonio più in senso figurato che non alla lettera», anche l’incontro, all’inizio della storia, con Lubos, l’uomo con cui il goffo protagonista azzarda una relazione, pare ricca di ambiguità. Mentre si impegna a sviscerare la realtà in transizione di quel mondo, così nuovo per lui, e in parte anche di sé stesso – esposto com’è alla pura potenzialità del mutamento – Putnam si misura con il processo che dovrebbe fare di lui un uomo con qualche certezza in più.

Eppure è evidente che gli errori contano più dell’approdo (ciò che rende problematico e non dà oggi il romanzo di formazione) – passano attraverso l’esperienza e la sua decifrabilità, la molteplicità degli incontri, l’ibrido, nello specifico, fra etero e omosessualità: speculari in un certo senso al caos implicito nella Cecoslovacchia che come Putnam cerca nei primi anni Novanta di capire cos’è e in che direzione sta andando.

Crain trascorse egli stesso un periodo della sua vita a Praga, sicché non è difficile parlare di Errori necessari come di un romanzo di formazione dall’impianto assai tradizionale costruito su materiale anche autobiografico. È un romanzo godibile ma qua e là prolisso, forse anche perché il protagonista Jacob, spiantato (campa a Praga insegnando inglese) e persino imbranato, solitario nonostante la folla di ragazzi che lo circondano, non di rado esibisce un che di patetico e lezioso. I dialoghi svolgono un ruolo essenziale nella narrazione, e mettono in scena molti personaggi, indigeni e non, le cui vicende pian piano relegano in secondo piano quelle del protagonista – forse perché ha imparato nel frattempo a darsi più tempo per capire, e a farlo attraverso l’osservazione degli accidenti altrui.

(Caleb Crain, Errori necessari, trad. di Federica Aceto, 66tha2nd, 2014, pp. 560, euro 20)

“L’ultima confessione”
di Morris West

Sentir raccontare di un Giordano Bruno che dopo essersi intrattenuto con una prostituta scruta il cielo stellato e pensa all’immanenza di Dio in tutte le cose potrebbe, se non altro, disorientare. Il riuscire poi a sorriderne senza troppa sorpresa sembra quasi una diretta conseguenza dell’iniziale confusione, in fondo una simile immagine, per quanto singolare, ha una sua ragion d’essere, indiscutibile: il Nolano fu a dir poco un uomo sopra le righe. L’ultima confessione (Castelvecchi, 2014) è il diario dei giorni che precedono la sua morte, è «il ritratto fedele, anche se non sempre tenero, di un genio nato nel secolo sbagliato», voluto tra immaginazione e ricostruzione da Morris West.

Ogni sistema ha una logica che lo sottende, una costante, e complessità a diversi gradienti, principio che, Bruno, proprio su questa Terra, ha assorbito e superato; perché nel filosofo de l’eroico furore il pensiero si fa vita. Come si può pretendere di contenere tra le ombre di un chiostro, hortus conclusus, il desiderio di un’infinita espansione della coscienza? Pampsichismo, magia e mnemotecnica: il sapere è animazione originaria e universale, preso d’assalto sin dalla notte dei tempi da filosofi, da maghi, da teologi.

Quando il potere, però, del sapere stratifica il senso rendendolo dottrina, cultura, storia, Giordano Bruno non può che bruciare sul rogo il 17 febbraio del 1600, in Campo de’ Fiori, a Roma.

Arrestato dall’Inquisizione di Venezia nel 1592, Giordano Bruno nell’anno successivo venne trasferito all’Inquisizione di Roma. Denunciato, processato e condannato, l’eretico non abiurò mai; le pagine di West si riempiono allora dei ricordi di Giordano Bruno, i viaggi e le fughe, l’insegnamento e l’amore, e sopra ogni cosa uno sguardo appassionato dentro al proprio sé: egli ha in definitiva vinto su Dio e sul Nulla.

E se da una parte i supplizi, con Michel Foucault, avevano il loro splendore – perché non si potesse non vedere ciò che spettava in sorte al corpo del condannato – dall’altra le fiamme di Campo de’ Fiori ancora ardono dell’essenza del filosofo, che resta dunque assoluto: un uomo, il cui pensiero e la cui esistenza si collocano in prima linea, una vita dedita al pensiero e all’azione, la storia, eccezionale, del lógos che si fa èthos.

Morris West muore alla sua scrivania e lascia lo scritto incompiuto; L’ultima confessione potrebbe quindi assumere i tratti di un testamento spirituale. Viene però facile rappresentarsi quello che per l’autore, forse oltre le sue stesse intenzioni, è divenuta l’opera: un’avventura, come poche e assai rara, della carne e dello spirito. Come la vita tutta del Nolano.

(Morris Langlo West, L’ultima confessione, trad. di Francesco Paolo Crincolo, Castelvecchi, 2014, pp. 190, euro 17,50)

“Una promessa” di Patrice Leconte

Periodo di grande considerazione da parte del cinema per lo scrittore austriaco Stefan Zweig (1881-1942). Dopo l’omaggio da parte di Wes Anderson in Grand Budapest Hotel arriva la trasposizione di Il viaggio nel passato da parte del regista francese Patrice Leconte in Una promessa.

Nella Germania all’alba della prima guerra mondiale (l’anno è il 1912), il giovane Ludwig, laureato in chimica, scala i favori del magnate dell’acciaio per cui lavora, Karl Hoffmeister, con la sua solerzia e precisione. Quando Hoffmeister si ammala, Ludwig ne diventa il segretario personale, sostituendolo, di fatto, nell’amministrazione dell’impresa e mantenendo l’assoluto riserbo sulle condizioni del padrone. Durante le numerose visite in casa Hoffmeister, Ludwig conosce Charlotte detta Lotte, la giovane moglie dell’industriale, amante della musica e carica di irrefrenabile vitalità. Con il tempo, il ragazzo finisce per assumersi anche l’incarico di dare lezioni private all’unico figlio della coppia, il piccolo Otto, finendo per diventare sempre più parte integrante della famiglia. La necessità del contatto costante tra i due per monitorare l’andamento dell’impresa convince Karl a far trasferire Ludwig nella sua immensa casa. È durante la convivenza che il rapporto con Lotte assume nuove sfumature, in un corteggiamento cauto e lento, bloccato dal timore e dalle condizioni di Karl in costante peggioramento.

È la prima produzione in lingua inglese per Patrice Leconte, questo Una promessa. Ha attraversato ogni tipo di genere cinematografico, nella sua lunga carriera, Leconte, dimostrandosi regista eclettico e padrone di diversi linguaggi, alternando momenti fortunati (Tandem, Il marito della parrucchiera, La ragazza sul ponte, Confidenze troppo intime) a soluzioni meno riuscite, come la recente escursione nel cinema di animazione con La bottega dei suicidi.  

Ora con la vicenda di Ludwig, Lotte e Karl si misura per la prima volta con il melodramma classico. Ci sono tutti gli elementi: un amore all’apparenza impossibile e l’improvvisa lontananza, una serie di rapporti padre e figlio surrogati (Karl con Ludwig; Ludwig con Karl), la vecchia Mitteleuropa, il fantasma della guerra su tutto, il vento di una rivoluzione (l’ascesa al potere di Hitler) pronta a cambiare un’epoca, lutti e dolori. Eppure, Leconte non riesce ad andare oltre una confezione pressocché perfetta. Perché dietro ai costumi e agli ambienti manca una struttura solida.

L’ottima prova dei tre interpreti (Richard Madden, che è stato Rob Stark nella serie Il trono di spade; Rebecca Hall, che inizia a poter mostrare il suo talento come protagonista, dopo tanti ruoli di supporto; il grande Alan Rickman, che è facile ricordare come Severus Piton nella saga di Harry Potter), che riescono a dare il meglio anche quando l’eccesso di pathos finisce per scivolare nel patetismo, sembra sprecata a fronte di scelte di regia che finiscono per vanificare gli elementi di forza su cui Una promessa avrebbe potuto fare leva. La musica di Charlotte, ad esempio, e la sua maestria al piano che cattura entrambi gli uomini e finisce troppo presto in secondo piano anziché essere centrale, o il puzzle che gli aspiranti amanti costruiscono insieme nelle lunghe e lente sere di indiretto corteggiamento.

Leconte sembra giocare con gli elementi del melodramma senza curarsi di altro. Sembra interessargli solo confezionare un film di genere con tutti i limiti impliciti nel genere stesso. Solo a tratti sembra consapevole dei rischi che la materia prescelta può portare con sé, quando abbandona inquadrature convenzionali (che come sempre, dal 1987 di Tandem in poi, ha curato personalmente) per affidarsi a movimenti di  camera leggeri e improvvisi, con un uso rapido e nervoso dello zoom completamente fuori registro, quasi a voler scuotere le immagini. Neanche così, però, riesce a vincere l’assoluta freddezza generale, l’esposizione priva della partecipazione del racconto.

Anche il rapporto con la storia, fondamentale nell’opera di Zweig, è incompleto, gestito a metà. Fino allo scoppio della guerra (e anche dopo, in verità), la dimensione sociale ha una rilevanza praticamente nulla nel riflesso sulle vite dei protagonisti. Potrebbe essere una vicenda ambientata in ogni epoca, in ogni luogo, talmente insignificanti sono gli elementi di contorno. Leconte, anche sceneggiatore con Jérôme Tonnere, non si cura di inserire i suoi tre protagonisti nella realtà storica fin quando non è la Storia stessa a separarli.

È questo il difetto, il limite: la piattezza, l’adattarsi a una narrazione scialba, senza guizzi, nonostante temi universali che potrebbero pretendere di più. Perché i confronti tra amore e tempo che passa, tra distanza e desiderio, tra guerra e pace ed equilibrio e dolore, nel loro essere eterni e classici, meriterebbero di essere resi all’altezza delle loro grandi possibilità.

Presentato fuori concorso alla Mostra internazionale del cinema di Venezia del 2013.

(Una promessa, di Patrice Leconte, 2013, drammatico, 98’)

 

“Bella mia”
di Donatella Di Pietrantonio

«Accadde in questi anni dopo il terremoto, mi sveglio di soprassalto con la certezza di non aver preso ieri sera una pillola indispensabile alla sopravvivenza. Prima di capire che non assumo nessun tipo di farmaco passano gli attimi necessari a chiedermi se sono ancora in tempo a mandar giù la medicina o se devo morire. Saranno gli incubi dei traumatizzati, forse anche altri sognano così. Dovrei chiedere un po’ in giro qui alle C.A.S.E., ma non parlo molto con i vicini. Non parlo molto in generale».

Non è facile riuscire a esprimere il dolore di una perdita, di una assenza, soprattutto se questo si accompagna al dolore simbiotico di migliaia di persone cadute sotto il peso dello stesso ingestibile male.

È il dolore di chi resta in quella che un tempo fu L’Aquila, decadente come le sue fondamenta dopo il sisma del 6 aprile 2009, raccontato dalla voce autentica di Donatella Di Pietrantonio nel libro Bella mia (Elliot Edizioni).

Bella mia perché è così che viene definita L’Aquila in un canto popolare, un canto che dopo quel fatale giorno ha assunto un significato completamente diverso per chi l’ascolta, un canto strozzato e innaturale che non ha più eco.

Ma anche nelle macerie la vita seppur dimezzata torna a occupare i vuoti, fuori dalla Zona Rossa e nelle periferie dove derisori acronimi hanno sostituito la parola casa.

Come «deportati» i sopravvissuti continuano le loro esistenze in questi appositi e sterili complessi antisismici, senza voler conoscere i propri vicini sapendoli provvisori come la certezza di un futuro. Ed è qui che vive anche la voce narrante che non ha nome, come se non dovesse più portarne uno, come se l’uno senza il suo doppio migliore cessasse di essere.

Separarsi per sempre da una gemella è come smarrire un po’ se stessi, non riuscire più ad affrontare gli specchi. Una incompiutezza che si è concretizzata nella dissolvenza di una terra, ma che consuma l’animo della protagonista già da tempo; non è possibile essere felici vivendo all’ombra di una versione più riuscita di sé, lo è ancora di meno quando all’improvviso quella versione non è più lì ad attutire le cadute.

«Non reggo uno stato di benessere duraturo, da sempre cerco un male o una colpa che mi consumi. Ne ho bisogno, per sapermi al mondo. Non sono capace di felicità, ma trascorro a volte momenti di insopportabile grazia».

Cosa resta alla fine? Un forzato accumulo di giorni senza testo, un nipote adolescente lasciato in eredità e mantenuto controvoglia, una madre spezzata che necessita di un capro espiatorio per accettare l’inconcepibile e il dolore, un dolore esausto che definisce malgrado tutto il confine da cui ripartire.

«Ovunque vedo catastrofi, in un futuro non so quanto prossimo. Così mi difendo, scommetto sempre sul peggio, perché non mi sorprenda ancora».

(Donatella Di Pietrantonio, Bella mia, Elliot Edizioni, 2014, pp. 192, euro 17,50)

“L’uomo di Kiev”
di Bernard Malamud

Speditissimi, i primi due capitoli de L’uomo di Kiev di Bernard Malamud (minimum fax, 2014), raccontano il viaggio di Yakov Bok dall’Ucraina alla Russia, la voglia di riscattarsi dal disonore inflittogli da una moglie sterile e infedele, l’assunzione in una fabbrica di mattoni, l’arresto per un crimine non commesso. Esemplificano, con quella frettolosità che non temporeggia né psicologicamente né descrittivamente né dialogicamente, la poetica di Bernard Malamud: «Storie, storie, storie: per me non esiste altro». Un incontro amoroso si esaurisce in mezza pagina, il dilemma di un ebreo sul lavorare per un antisemita viene spazzato via dal narratore in una dozzina di righe, un interrogatorio passa dai convenevoli a un dibattito su Spinoza in poche battute.

Come scrive Alessandro Piperno nell’introduzione, «Malamud elude programmaticamente qualsiasi piacioneria, non concede niente allo spettatore. E questo è un rischio immenso per uno scrittore. Devi avere fegato, carattere e una straordinaria fiducia nella storia che ti accingi a raccontare per non blandire il lettore sin dalla prima riga».

Dal terzo capitolo, all’andamento iperprogressivo s’addiziona un movimento ciclico, un va-e-vieni di pensieri, di ricordi, di ritorni a fatti manipolati da procuratori, preti e testimoni incolleriti col popolo eletto: «nessun ebreo è innocente», perché «gli ebrei dominano il mondo, e noi sentiamo il peso del loro giogo», urla Grubeshov. Il lettore viene segregato nei pochi metri quadri di una cella e, non visto, assiste inerte agli strazi del protagonista – ingiustamente accusato, come Mendel Beilis nel 1911, d’aver «ucciso e dissanguato a scopi rituali» un bambino.

«Non c’era una “ragione”, c’era soltanto un complotto contro un ebreo, un ebreo qualsiasi, e lui era l’uomo scelto casualmente come capro espiatorio. L’avrebbero processato perché era stata formulata un’accusa, non c’era bisogno di altre ragioni. Nascere ebreo significava essere vulnerabili alla storia e ai suoi errori più spaventosi».

Malamud anticipa di pochi anni la riflessione di René Girard sul capro espiatorio, ed è acutissimo a focalizzarsi sulla figura di Cristo – «se è andata così, e questo fa parte della loro religione e loro ci credono, come possono tenermi in prigione sapendo che sono innocente?» – e a cogliere la dimensione collettiva del meccanismo sacrificale, suffragata dall’interesse dello zar in persona al caso di Yakov – «Lo zar lo voleva condannato e punito».

Se scrivi di persecuzione ebraica ante-Shoah nel 1966, è improbabile che la tua storia ambientata nella Russia zarista del 1911 non rievochi quelle delle vittime del Nazismo. Come loro, Yakov soffre fisicamente – «I suoi piedi tumefatti […] erano come sacchetti gonfiati e pronti a scoppiare» – e mentalmente – col terrore di, che pian piano diventa desiderio di morire. Come loro, familiarizza col degrado: «Uno scarafaggio nella scodella non gli dava più noia, ora: lo tirava fuori e continuava a mangiare, e dopo leccava pure la ciotola». Come loro, e soprattutto come Primo Levi, trova sollievo nella memoria delle «cose che aveva letto». Si differenzia, invece, in quanto isolato e inattivo – stati che ne condizionano la percezione temporale: «Il terzo giorno è il primo, il quarto è il primo, il settantunesimo è il primo. Il primo giorno è il tremillesimo».

Se leggi L’uomo di Kiev, è vero che te ne stai rinchiuso in quella cella senza far nulla, ma quando, finito il romanzo, ne evadi, sai che «la storia è piena di limiti e di barriere, come se in una casa avessero inchiodato le porte e per uscire bisognasse saltar già dalla finestra», e ti viene un’indomabile voglia di schiodare quelle porte.

(Bernard Malamud, L’uomo di Kiev, trad. di Ida Omboni, minimum fax, 2014, pp. 405, euro 14,50)

“Sin City – Una donna per cui uccidere” di Frank Miller e Robert Rodríguez

Ci sono voluti nove anni per convincere Robert Rodriguez a richiamare Frank Miller e preparare il secondo capitolo di quel Sin City che nel 2005 aveva sorpreso critica e pubblico ponendo un nuovo standard nell’immaginario cinematografico collettivo. Nel frattempo, i passi falsi, in termini di incassi, sia di Miller (The Spirit) che di Rodríguez (il progetto Grindhouse; il secondo capitolo della serie di Machete), e il dubbio su quale albo scegliere per continuare a trasportare sul grande schermo la Basin City di Frank Miller hanno rallentato il progetto. Alla fine i due registi hanno deciso di puntare principalmente su Una donna per cui uccidere, secondo volume della serie pubblicato per la prima volta a puntate a partire dal 1993. Attorno al Kadies Club di Sin City si muovono varie storie e vari strati di umanità. Marv siede impaziente al bancone in attesa di qualcuno con cui venire alle mani, mentre sul palco la spogliarellista Nancy medita vendetta contro il senatore Roark che ha fatto uccidere il suo amore di sempre, il detective Hartigan. Non è la sola; anche Johnny, un giocatore d’azzardo arrivato da fuori città, ha un conto in sospeso con il senatore. E poi c’è Ava (che non si sa bene perché nel doppiaggio italiano diventa Eva), la donna per cui uccidere, che dà appuntamento a un vecchio amore che non vede da quattro anni, il fotografo Dwight, per supplicarlo di liberarla da un marito violento.

Sono quattro i capitoli che si intrecciano in Sin City 3D: “Solo un altro sabato sera, “Quella lunga, brutta notte”, “La grossa sconfitta” e appunto Una donna per cui uccidere che dà il titolo all’intero film. È, quest’ultimo, senza dubbio l’episodio più interessante, oltre a essere quello a cui viene concesso più spazio. E il merito è solo della donna, di Ava Lord, femme fatale manipolatrice che ha il volto, e il corpo soprattutto, di Eva Green. È lei la novità più felice di questo secondo capitolo di Sin City, l’unico personaggio, assieme al monumentale Marv di Mickey Rourke, concentrato di violenza e pazzia, a essere davvero memorabile. Lo sanno, Miller e Rodríguez, e ci insistono senza ripensamenti, mostrando porzioni abbondanti di pelle, concedendosi i maggiori virtuosismi registici nel riprendere la donna (il tuffo speculare in piscina, sviluppato in orizzontale), insistendo con le esplosioni di colore che sono diventate il tratto distintivo nel bianco e nero del film per sottolinearne la sensualità. Eva Green, come già in 300: L’alba di un impero (e secondo un’abitudine piuttosto consolidata nella sua carriera sin dall’esordio con Bertolucci), si mostra senza pudori e diventa femmina letale e irresistibile. La verità, però, è che le novità di questo secondo capitolo funzionano molto meno del primo Sin City. Perché il giocatore interpretato da Joseph Gordon Levitt non offre un contributo sostanziale in termini di carisma: parte bene, con la giusta dose di arroganza da biscazziere, ma poi si perde, sfuma, anche perché la divisione in capitoli scelta da Miller e Rodríguez lo abbandona per un lungo periodo.

A non funzionare in Una donna per cui uccidere è proprio il ritmo narrativo, lo spessore di un racconto non all’altezza delle immagini mostrate. Il primo Sin City riusciva in un equilibrio, proprio dell’opera di Miller, tra azione e scrittura, giocando con rimandi alla letteratura noir e hard boiled e pescando a piene mani da stereotipi e retorica funzionale alla costruzione di un mondo. In questo secondo capitolo sembra non ricercarsi un livello di scrittura per affidarsi piuttosto all’azione pura e semplice, a inseguimenti scazzottate e sparatorie. Certo, la qualità visiva dello spettacolo è elevatissima, con un contributo tecnico enorme, retto interamente da Rodríguez che si occupa anche di fotografia e montaggio (e della colonna sonora), che riesce a innovare i già innovativi presupposti di Sin City e ad adattare il 3D allo stile fumettistico di Miller, trasformando il bidimensionale in tridimensionale e dando nuova profondità alla città e ai suoi protagonisti. Il punto però è che superata la confezione impeccabile, e tralasciando Ava Lord, niente riesce a lasciare il segno. Così, nessuno degli episodi funziona realmente, tra sottotrame accennate e momenti che vanno oltre l’uso sapiente degli stereotipi per riproporre invece dinamiche piatte e convenzionali (soprattutto nell’episodio di Nancy/Jessica Alba). Il clamore che Sin City aveva suscitato alla sua uscita nel 2005 lascia ora il posto all’inevitabile riconoscimento della suprema qualità tecnica ed estetica di Una donna per cui uccidereche non si accompagna a niente se non a una sensazione di già visto, di già sfruttato. Però fa piacere rivedere Christopher Lloyd al cinema in un breve, splendido, cameo.

(Sin City – Una donna per cui uccidere, di Frank Miller e Robert Rodríguez, 2014, noir, 102’)

“I detective selvaggi” di Roberto Bolaño

È il 1998 quando Roberto Bolaño pubblica per la prima volta in Spagna I detective selvaggi – riproposto in Italia da Adelphi, lo scorso aprile, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani. Ha quarantacinque anni e da sei è a conoscenza della grave malattia epatica che lo porterà alla morte, nel 2003. Con questo romanzo, di oltre seicento pagine, lo scrittore cileno si aggiudica il Premio Herralde e il premio internazionale Rómulo Gallegos, ottenendo finalmente la fama di cui è degno. Come narratore, certo, benché lui si ritenga prima di tutto un poeta.

Approda infatti alla narrativa per necessità Roberto Bolaño: alla nascita del primogenito Lautaro inizia a partecipare a concorsi di narrativa con premi in denaro. Così, dopo La letteratura nazista in AmericaStella distante e Chiamate telefoniche, ecco che dà vita al «nuovo Gioco del mondo», «il tipo di romanzo che Borges avrebbe accettato di scrivere», I detective selvaggi, appunto. Ma il legame con la poesia rimane alla base della sua scrittura, al punto da incentrare la storia dei Detective sulla ricerca ossessiva della misteriosa poetessa Cesárea Tinajero (personificazione della poesia stessa?) da parte di un gruppo di giovani intellettuali, i realviscerali, anch’essi poeti.

E non è raro cogliere in alcuni suoi versi celebri – sembra assurdo ma l’opera poetica di Bolaño è ancora inedita in Italia – certi elementi cardine del suo capolavoro: «Gli autentici poeti tenerissimi / che si cacciavano sempre nei cataclismi più atroci, / più meravigliosi, / che gliene importasse / se bruciavano la loro ispirazione / bensì donandola / regalandola / come chi tira pietre e fiori. / Senti, poeta, gli dicono, / infila la presa dell’alba»; o ancora «Una cosa inevitabile, / innamorarsi 100 volte della stessa ragazza»; e infine «La certezza di una morte svelta e precoce». L’esuberanza giovanile, il senso di rivolta impunita che caratterizza lo stesso Bolaño, Mario Santiago e il gruppo degli infrarealisti che irrompono alle cerimonie letterarie creando imbarazzo e a cui sono ispirati Arturo Belano, Ulises Lima e i loro compagni realviscerali; il sentimento amoroso che in parte guida e unisce i giovani intellettuali sbandati su bus notturni per le strade di Città del Messico o su Ford Impala bianche disperse nel deserto del Sonora; la consapevolezza di dover soccombere prima degli altri, perché, come sosteneva il greco Menandro: «Muore giovane chi è caro agli dei» – oltre Bolaño, anche l’amico Mario Santiago morirà precocemente, il 10 gennaio del 1998, investito da un’auto. Tutto questo è I detective selvaggi, ma non solo questo.

I detective selvaggi è un libro-mondo: la struttura, divisa in tre macro-sezioni e ulteriormente frammentata in più di novanta micro-narrazioni, è costruita sulle testimonianze di oltre cinquanta narratori o testimoni che raccontano del loro rapporto con i due personaggi principali, Arturo Belano e Ulises Lima, durante l’arco temporale di ventuno anni – dal novembre 1975 al dicembre 1996. L’assenza e la ricerca a cui questa conduce sono i motori della storia: la scomparsa della poetessa Cesárea Tinajero prima, e dei due giovani protagonisti poi, innesca un gioco di rimandi infinito che filtra la realtà rendendola pulviscolo inafferrabile. Bolaño depista il lettore, lo conduce per sentieri ciechi, ammaliandolo, lungo il cammino, a volte persino istruendolo – come quando ci racconta, senza nessun preavviso, dell’errore di traduzione della parabola «così famosa di Gesù Cristo, quella dei ricchi, del cammello e della cruna dell’ago».

È anche il libro dei libri di Bolaño, perché sono numerosi i passi che lo scrittore riprenderà nelle sue opere successive – tre esempi su tutti: la storia di Auxilio Lacouture che sarà protagonista di Amuleto; il passaggio tipicamente “realviscerale” in cui distingue «nell’immenso oceano della poesia […] varie correnti: frocioni, froci, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi» che costituirà l’incipit di I dispiaceri del vero poliziotto; la testimonianza del fotografo di guerra Jacobo Urenda che ricorda da vicino l’ambientazione del racconto “Fotografie” incluso nella raccolta Puttane assassine. Per non parlare del misterioso riferimento temporale di Cesárea Tinajero nelle pagine finali del libro, rimando nemmeno troppo velato a 2666, altro capolavoro dello scrittore cileno: «Ma Cesárea parlò dei tempi che stavano arrivando e la maestra, per cambiare argomento, le domandò quali tempi e quando sarebbero arrivati. E Cesárea indicò una data: verso il 2600. Duemilaseicento e rotti».

Ma soprattutto I detective selvaggi è il libro della vita di Roberto Bolaño e di un’intera generazione di giovani latinoamericani, dispersi e disperati, ma pur sempre vivi. Così il romanzo diventa il deposito esistenziale della personale «stagione all’inferno» di ognuno di loro. Un romanzo che è carne viva, pulsante, come solo i grandi capolavori irregolari sanno essere.

(Roberto Bolaño, I detective selvaggi, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2014, pp. 688, euro 25)

“La buca” di Daniele Ciprì

Continua la carriera solista di Daniele Ciprì dopo il divorzio dal sodale storico Franco Maresco. A due anni di distanza da È stato il figlio, premiato a Venezia per la fotografia (Premio Osella per il miglior contributo tecnico), Ciprì torna con un nuovo carico di grottesco con La buca.

Armando è uscito dal carcere dopo ventisette anni di detenzione per un reato che non ha mai commesso (rapina a mano armata e omicidio). La madre, malata di alzheimer, non lo riconosce e non vuole riprenderlo in casa, la sorella e la sua famiglia non lo vogliono, lo additano come assassino e gli chiedono comprensione. Non gli resta niente per far ripartire la nuova vita se non un vecchio cappotto della madre e un cane sporco che ha iniziato a seguirlo da fuori il carcere. Sarà proprio il cane, chiamato Internazionale, a fargli incontrare Oscar, un avvocato truffatore perennemente alla ricerca di un rimborso da pretendere, di un risarcimento da reclamare. Oscar accusa il cane di averlo morso e intima ad Armando di coprire le spese mediche. Conosce la sua storia, si interessa alla sua innocenza e lo convince a riaprire il caso per ottenere un conguaglio dallo stato che possa fare ammenda per l’ingiusta detenzione. Chiaramente, Oscar è mosso da interesse personale, intravede una fetta per sé, vede Armando come un mezzo per un nuova truffa, non come la vittima di un’ingiustizia. Con la mediazione di Carmen, barista che un tempo aveva amato Oscar, i due vanno alla ricerca di indizi passati per provare l’innocenza negata.

Cambiano l’impostazione, il contesto, il tipo di sguardo. Cambia il linguaggio, ma solo in parte. Con La buca Daniele Ciprì continua a raccontare una suprema virtù italiana e le sue sfumature lungo l’orizzonte della legalità: l’arte di arrangiarsi. La famiglia di È stato il figlio faceva del cavarsela uno stile di vita, del saper cogliere dalle disgrazie il barlume di una possibilità una soluzione. L’Oscar interpretato da Sergio Castellitto in La buca ne è stretto parente, anzi, ne è l’evoluzione. Non è più uno stile di vita, l’arte di arrangiarsi, è diventata un mestiere, l’unico possibile. Oscar si aggira alla ricerca di un inghippo, distribuisce false invalidità, progetta una mega causa contro l’amministrazione comunale per la buca enorme di fronte al suo portone. Ogni cosa può portare a pretendere un risarcimento.

A differenza di È stato il figlio, ora a Ciprì non interessa descrivere un possibile reale. Non c’è più il collegamento diretto con un luogo e un tempo come era la periferia palermitana degli anni Settanta. Oscar, Armando, Carmen e Internazionale si muovono in un non luogo privo di connotati specifici che riferiscano un Nord o un Sud, senza accenti evidenti, senza elementi che indichino un’epoca (niente cellulari, nessuna moda apparente nel vestire, c’è addirittura un negozio di bottoni). È come se a Ciprì non interessi limitare a una specifica condizione la sua vicenda quanto piuttosto renderla il più possibile universale.

C’è l’Italia, in quello che racconta, è evidente. C’è un’umanità miserevole oltreché misera nello stesso Oscar e nella famiglia di Armando, pronta a riaccoglierlo nel momento in cui si prefigura il denaro, c’è la tendenza alla truffa, alla ricerca di una soluzione al di fuori della legalità. E poi c’è tutto lo stile grottesco di Ciprì, che qui si spinge ancora oltre rispetto all’opera prima (solista) e carica i personaggi, le situazioni, il contorno. La sua narrazione è farsesca, caricaturale, gonfia, sempre a rischio eccesso. E non ce la fa, a evitarlo, l’eccesso. Perché La buca esagera nei suoi meccanismi comici, si appesantisce di momenti macchiettistici che funzionano all’inizio e poi ridondano (il messicano imbecille, la corte persa appresso al pallone, il finto cieco), che si saturano costantemente, così come l’Oscar di Castellitto, tenuto sempre sopra le righe, chiamato ad esagerare in tic e smorfie, mentre Papaleo confeziona un Armando di incrollabile e dimesso ottimismo. Sarebbe bastato, probabilmente, una maggior misura, un equilibrio più volto alla commedia che al comico, per evitare eccessi.

Ciprì sta definendo ancora il suo stile, dopo la separazione da Maresco. C’è meno assurdo, rispetto al cinema – e alla televisione – che facevano insieme, una forma nuova di cinismo, un nuovo modo di essere grottesco. Rispetto a È stato il figlio sembra aver confuso la direzione da voler tenere. Ci sono troppe mani sulla sceneggiatura (oltre a Ciprì e Masismo Gaudioso, che già collaborava, anche la produttrice Alessandra Acciai e Miriam Rizzo) e qualcosa si perde nel mezzo.

È un anno intenso, quello di Daniele Ciprì al cinema: oltre a La buca tornerà in sala come direttore della fotografia con La trattativa di Sabina Guzzanti, La vita oscena di Renato De Maria, L’attesa di Piero Messina, I calcianti di Stefano Lorenzi e L’ultimo vampiro di Marco Bellocchio.

(La buca, di Daniele Ciprì, 2014, commedia, 90’)

“Lucy” di Luc Besson

Lucy, come il nome della prima donna, della specie Australophitecus afarensis, ritrovata dagli archeologi Yves Coppens, Donald Johanson, Maurice Taleb e Tom Gray in Etiopia nel 1974. È questo il nome scelto dal regista Luc Besson per la sua nuova eroina. La Lucy di Besson, interpretata da Scarlett Johansson è un altro tipo di prima donna, pioniera di un nuovo livello di consapevolezza.

Mentre è in viaggio di studio a Taiwan, la venticinquenne statunitense Lucy si trova suo malgrado a dover consegnare una valigetta a Mister Jang, un boss della malavita coreana che la accoglie nella sua suite d’albergo ricoperto di sangue. Lucy non sa cosa ci sia nella valigia, ma a Jang non importa. L’unica cosa che gli interessa e di aver trovato un nuovo corriere. Perché Lucy viene anestetizzata, aperta chirurgicamente e usata come contenitore. La valigetta conteneva quattro buste di una nuova droga chimica, il CPH4, sintetizzata in cristalli di un blu acceso. Una delle buste è stata piazzata nell’addome della ragazza per essere introdotta e venduta negli Stati Uniti dall’organizzazione di Jang, solo che l’involucro si rompe, e Lucy ha modo di sperimentare gli effetti della droga, capace di aumentare la capacità cerebrale oltre i limiti umani. Diventando sempre più intelligente e potente, Lucy deve decidere come gestire le sue nuove, enormi, doti e cerca aiuto nell’esperienza in neuro scienze del professor Norman.

Da sempre a Luc Besson piace piazzare donne al centro dei suoi film, da Nikita fino alla Aung San Suu Kyi di The Lady. Si tratta sempre di donne guerriere, in modo diverso, che sanno far valere le loro ragioni e difendersi. A Lucy tocca farlo con le pistole in pugno, e Besson ha modo di scatenarsi.

Se si prende senza nessun tipo di serietà – ed è evidentemente quello che vuole il regista –, Lucy è un action fantascientifico dalla spettacolarità contenuta, con un’ironia basata sul contrasto tra l’ultraconsapevolezza della nuova donna e l’incredulità di chi la circonda e un susseguirsi di sparatorie e inseguimenti che riconducono Besson al suo lavoro di produttore delle serie Transporter Taxxi più che alle sue regie.

Se si vuole provare a dare a Lucy valori ulteriori allora c’è da ridire, e parecchio. In primo luogo perché la premessa fondamentale – l’uomo usa solo il 10% della propria potenzialità cerebrale – è stata smentita in numerosi ambiti scientifici, e già questo indebolisce gran parte del costrutto. Inoltre, le possibilità che si verrebbero a liberare da un ampliamento dell’uso del cervello sono state già immaginate, e di recente, in film come Limitless e Transcendence, il che fa venire meno anche l’elemento dell’originalità. Ma è proprio il confronto che si può fare con Transcendence a evidenziare la differenza di Lucy. Wally Pfister, nel suo esordio alla regia, ci teneva ad avvertire dei rischi di un uso arbitrario di poteri troppo grandi, dei rischi della perdita di umanità che l’ultraumanismo della potenza potrebbe comportare. A Besson non importa di dare lezioni, di dilungarsi in considerazioni o morali o da supereroe Marvel alla «da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Tiene i dialoghi al minimo indispensabile, condensa la sua eroina in un’ora e mezzo scarsa di film e non si dilunga in altro che non sia spettacolo.

Fedele alla sua idea di cinema esagerato, ridondante e ironico, Luc Besson si preoccupa esclusivamente di divertire. L’unico messaggio in più che prova a far passare è quello che pone l’uomo in collegamento perenne con la natura, con i suoi istinti, e lo fa alternando immagini da National Geographic ad accelerazioni in CGI, a tratti discutibile, che sfiorano 2001: Odissea nello spazio. Ma Lucy non ha alcuna pretesa di verosimiglianza scientifica o di insegnamento etico, e questo è il suo pregio maggiore, forse l’unico, insieme a Scarlett Johansson che dopo Under the Skin infila un altro personaggio che di umano ha molto poco.

Tornando ai fasti del Quinto elemento, e a quel livello di budget, Besson cerca di coniugare fantascienza, fumetto e gangster movie in stile Hong Kong. Il risultato è confuso, caotico, rumoroso, ma efficace, almeno per quello che riguarda il box-office: siamo già oltre i duecentocinquanta milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

(Lucy, di Luc Besson, 2014, fantascienza, 89’)

Gli effetti di “Gomorra” al cinema

Lunedì 22 settembre Gomorra – La serie ha fatto  il suo debutto al cinema in un evento che si ripeterà altre volte, a tre episodi alla volta. Dal libro al film, poi dal libro alla televisione e di nuovo al cinema, quindi. Dopo i risultati eclatanti dalla messa in onda su Sky Atlantic, con uno share medio tra il 2 e il 3%, impensabile per una pay tv, la serie prodotta da Sky, in collaborazione con Fandango, Cattleya, La 7 e la tedesca Beta Film, è stata portata con successo al Toronto Film Festival, ha incassato cinque premi al Roma Fiction Fest ed è stata venduta in oltre cinquanta paesi arrivando in mercati prestigiosi come quello statunitense, dove la Weinstein Company sta pensando di realizzare una versione locale di Gomorrah.

Ora, considerati i risultati ottenuti, ha senso pensare di portare al cinema una serie di successo? Ha senso introdurre un prodotto pensato e realizzato per la televisione in un altro medium, sfruttare la serialità per portare spettatori al cinema? È chiaro, Sky e i suoi soci puntano tutto sulla creazione dell’evento per trascinare in sala quanti più spettatori possibile, con un’operazione analoga a quella compiuta da Lucky Red redistribuendo il catalogo di Hayao Miyazaki solo per poche date, e a prezzo maggiorato, o a quanto fatto periodicamente con classici del cinema popolare come Ritorno al futuro o i film di Sergio Leone.

La riflessione si sposta su un altro livello: ha senso in Italia, vedendo i risultati degli ultimi anni, portare la televisione al cinema? Ha senso, per il mercato italiano, continuare a guardare al cinema come principale canale di destinazione?

Prendiamo dei dati numerici, molto semplici. Il fenomeno cinematografico della passata stagione, quel Sole a catinelle di Gennaro Nunziante con Checco Zalone, ha incassato qualcosa di più di cinquanta milioni di euro, infrangendo record su record, per un totale di otto milioni di spettatori. Il secondo incasso della stagione, il cartoon Frozen – Il regno di ghiaccio, è fermo a più di diciannove milioni di euro registrati, con circa tre milioni di biglietti venduti.

Prendiamo un po’ di numeri della televisione. Lunedì 15 settembre è andata in onda su Rai Uno la replica del Commissario Montalbano tratta da uno dei romanzi di Andrea Camilleri, Il gioco degli specchi. Ha totalizzato quasi sei milioni di spettatori risultando il programma più visto del cosiddetto prime time. Quando lo stesso film tv era andato in onda per la prima volta nell’aprile 2013, gli ascolti erano stati vicini ai dieci milioni fissando un nuovo record per la serie. La media per le prime tv dei film del commissario di Vigata è superiore ai nove milioni di spettatori, le repliche stazionano sempre intorno ai quattro e mezzo/cinque.

 

Non è solo il fenomeno Montalbano. Giunta alla sua nona stagione, ad esempio, la serie dedicata alle avventure del prete detective interpretato da Terence Hill, Don Matteo, sempre su Rai Uno, continua a registrare ascolti medi superiori agli otto milioni di spettatori.

La tv, quindi, attira un pubblico nettamente superiore al cinema. Zalone è stato un fenomeno unico, per di più; il suo incasso record rappresenta un’anomalia nel panorama italiano, a cui corrisponde invece il successo medio di un film televisivo di Rai Uno del lunedì sera.

Se si prendono i dati relativi agli incassi e al numero di biglietti staccati dei film italiani al cinema nel 2014, ci si rende conto di come la televisione attiri fette di pubblico nettamente superiori alla media cinematografica. Scendendo nel box office al secondo miglior risultato italiano in classifica (e si arriva alla sesta piazza), si trova Un boss in salotto di Luca Miniero, con circa dodici milioni di incasso per qualcosa di più di un milione e mezzo di biglietti strappati, ben al di sotto quindi di quello che è ritenuto il successo medio televisivo.

Si può obiettare in vari modi sul confronto tra dati tv e cinema. La televisione, ad esempio, ha dalla sua la dimensione domestica, la passività della visione (non devi, necessariamente, scegliere cosa vedere e quando) e la sensazione di gratuità, ma i prodotti televisivi godono ormai di un trattamento di favore anche in fase di produzione, non solo da parte degli spettatori. «È semplice capire la differenza tra televisione e cinema», ha detto Pupi Avati, «se a Roma vedi un set sul lungotevere, conta i camion parcheggiati. Se ce n’è uno solo è cinema, se sono almeno tre è televisione». Avati lo sa bene. Dopo tanto cinema è tornato nel 2011 a realizzare un progetto per la televisione, Rai ancora una volta: la serie in sei puntate (seicento minuti complessivi) Un matrimonio, con a disposizione un budget di circa otto milioni di euro, nettamente superiore alla media a disposizione per il cinema. Stando ai dati forniti dal ministero per i beni e le attività culturali e dall’Anica, nel 2013 il budget medio per un film interamente prodotto in Italia è stato di 1,7 milioni di euro, in calo di centomilaeuro rispetto all’anno precedente. Ma la media è sperequata, perché nel panorama cinematografico sono le produzioni a basso costo a prevalere, mentre pochi titoli, principalmente di natura commerciale e da distribuire nel periodo natalizio (tra cui ancora Sole a catinelle, costato la cifra record di otto milioni di euro) contribuiscono a innalzare la media. Per lo stesso periodo, la Rai ha investito in film televisivi quasi 200 milioni di euro, con un costo medio di 600.000 euro per realizzare un’ora di un episodio di una serie tv.

 

 

A fronte di una relativa parità di spesa, il prodotto televisivo conserva un ritorno economico maggiore rispetto all’esportazione di titoli cinematografici. Il commissario Montalbano, ancora, ha mercato in tutta Europa, oltre che in America Latina e negli Stati Uniti, al punto che la compagnia aerea Ryan Air ha inaugurato delle linee internazionali per raggiungere più facilmente Ragusa e visitare i luoghi usati come location (e proprio le location sono ora oggetto di scontro tra Rai e Regione Sicilia), mentre l’ultimo premio Oscar italiano, La grande bellezza, ha incassato nei cinema di tutto il mondo solo 21 milioni di dollari (di cui nove provenienti dal mercato italiano). Al momento del primo passaggio televisivo su Canale 5, all’indomani della vittoria della statuetta, il film di Sorrentino ha coinvolto invece una media di dieci milioni di spettatori.

C’è un’anomalia che salta all’occhio osservando questi dati, che va oltre la fredda precisione dei numeri. I prodotti televisivi italiani, soprattutto quelli delle televisioni cosiddette generaliste, incontrano un enorme successo di pubblico ma hanno una capacità praticamente minima di influire in alcun modo la cultura popolare, di creare un fenomeno di discussione e condivisione che renda l’oggetto mediatico memorabile al di là del consumo. In sintesi: la proposta televisiva italiana non è in grado di replicare il successo di quella statunitense. E con successo non si intende il dato numerico degli spettatori quanto l’impronta che il prodotto lascia. Perché, a osservare ancora una volta i semplici numeri, il tv show di maggior successo degli ultimi anni negli Stati Uniti è The Big Bang Theory del network CBS, con ascolti medi di quasi venti milioni di spettatori a episodio. Spostandosi sulla televisione via cavo, The Walking Dead del canale AMC si piazza al primo posto con un dato di circa sedici milioni. Quello che rende il mercato televisivo USA completamente diverso da quello italiano, è che nel confronto con il box office cinematografico risulta nettamente sconfitto. Il maggiore incasso del cinema nel 2014, finora, è Guardiani della galassia, con più di trecento milioni di dollari di incasso per un totale di circa trenta milioni di spettatori. Continuando a osservare la top tensi scopre che tutti i titoli presenti hanno una media di spettatori superiore ai risultati di The Big Bang Theory.

 

 

Eppure, appunto, le serie tv made in USA sono capaci di lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo ben maggiore rispetto ai prodotti italiani, che in proporzione riscuotono un successo di pubblico nettamente superiore (per concludere con i numeri, The Big Bang Theory ha uno share medio compreso tra il 15 e il 17%, l’ultima stagione di Don Matteo si è attestata su una media compresa tra il 28 e il 30%).

Nel mercato italiano si arriva al paradosso. True Detective, la serie evento HBO della passata stagione con Matthew McConaughey e Woody Harrelson, è già un fenomeno da noi prima ancora della messa in onda su Sky Atlantic del prossimo ottobre. Lo è grazie allo streaming illegale, ovviamente, ma quello che va sottolineato è come una serie che deve ancora andare in onda sia data come già per acquisita dal pubblico italiano anche dal lato della distribuzione. Così, Mondadori rimanda in stampa il primo romanzo dell’autore della serie, Nic Pizzolatto, con un bollino che riconduce lo scrittore alla serie; Rai Due manda in onda la parodia Du Detective realizzata dal gruppo The Pills, dando per scontato che lo spettatore conosca già non solo la serie, ma anche le sue dinamiche interne, i suoi dettagli. Paradossalmente, si riconosce pubblicamente la conoscenza di un prodotto che non può ancora essere stato fruito in Italia se non per vie illegali (o attraverso l’acquisto del cofanetto dvd dagli Stati Uniti, vabbé).

Questo perché True Detective fa già parte della cultura anche del nostro paese, è stato oggetto di articoli a profusione sulla sua qualità assoluta, o paraculaggine, prima ancora che venisse trasmesso, questo perché le serie statunitensi (e un discorso simile si può fare, infatti, andando indietro nel tempo con Game of Thrones, Breaking Bad, The Walking Dead, o con How I Met Your Mother, la cui ultima puntata ha deluso, e fatto discutere, anche il pubblico italiano che ancora non conosce la data della messa in onda del primo episodio dell’ultima stagione) sono capaci di catalizzare l’attenzione del pubblico giovane, di rimbalzare al di fuori del mezzo televisivo e creare fenomeni culturali multimediali che si spostano sulla rete, sui social network e da lì conoscono la strada per invadere nuovamente i mezzi tradizionali.

 

 

Ora, in Italia prodotti di questa portata è riuscita a crearli solamente Sky, finora. Romanzo Criminale e Gomorra hanno stabilito degli nuovi standard non solo per la qualità della realizzazione ma anche per l’impatto che hanno avuto sull’opinione pubblica. In entrambi i casi è riuscita l’operazione di dare nuovo slancio a un materiale che aveva già avuto una vita cinematografica, oltreché letteraria, e di amplificarne la portata, creando quel fenomeno di discussione, imitazione e parodia che è lo standard dell’offerta televisiva statunitense.

Tornando quindi alla domanda iniziale, ha senso la scelta di Sky di proporre al cinema, in eventi speciali, Gomorra? Certo, essendo il primo mercato di destinazione della serie una tv satellitare la fetta di pubblico ufficiale raggiungibile è stata sicuramente limitata rispetto al potenziale di Rai o Mediaset (e infatti i dati sono circa di un decimo dello share di un prime time di successo di Rai Uno). È però Sky stesso ad aver offerto metodi alternativi per la fruizione del programma, attraverso la registrazione o le visioni on demand sul decoder o tramite internet, per non parlare, ancora una volta, delle infinite opportunità per le visioni pirata sui siti di streaming e download.

Al dato della rilevazione Auditel, quindi, va aggiunta una cospicua fetta di pubblico differito o digitale che non ha seguito la serie in televisione e al momento della messa in onda.

Il cinema conserva il fascino antico dell’evento, dell’uscire di casa, della dimensione mondana e partecipata di un numero di spettatori che assistono assieme a una rappresentazione. Ma nella logica dei freddi numeri, lontano dalla poesia del buio della sala, il cinema ha perso, in Italia, ormai da anni la guerra contro la televisione. Saranno solamente i numeri, a questo punto, a poter dire se l’operazione Gomorra avrà un senso.