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È permesso, don Andrés?

Non è facile scrivere di calcio nel Paese che più degli altri, insieme a tre o quattro, vive di calcio. Non è facile perché dagli anni Settanta del Novecento è cominciata una sorta di damnatio ad bestias da parte degli intellettuali e di chi voleva distinguersi dalla «massa nazional-popolare». Eppure, abbiamo avuto grandi scrittori e intellettuali che amavano il calcio senza farne mistero, Pasolini e Bianciardi giusto per fare due nomi.

Gianni Montieri da tempo sfida questo tabù. Poeta, critico, narratore, ha voluto anche spingersi oltre. Infatti ha deciso non solo di narrare la vita calcistica di un giocatore, ma ne ha scelto uno fuori dal mainstream, dall’iconicità pop alla Maradona, alla Ronaldo (scegliete voi se il Fenomeno o CR7), alla Messi etc. Si è impegnato, riuscendoci, a raccontare un fuoriclasse assoluto ma poco incline a roboanti uscite mediatiche e a grandi boutade extracalcistiche come Andrés Iniesta. Lo ha fatto con un libro un po’ biografia, un po’ romanzo, un po’ saggio, Andrés Iniesta, come una danza, edito da 66thand2nd.

Il primo grande problema che si pone al narratore, quando si addentra nel mondo del calcio, è non cadere nelle sabbie mobili delle metafore e luoghi comuni usati e abusati da giornalisti, da radio e telecronisti, peraltro nella gran parte dei casi pensate, create e scritte da quel genio del giornalismo sportivo che è stato Gianni Brera. Ma Montieri, che con Brera condivide il nome, come detto è un poeta, ancor prima che un narratore, e forse proprio questo aspetto gli ha reso il compito meno gravoso. Solo un poeta, del resto, poteva provare a raccontare un calciatore come Iniesta, che non è un romanziere del campo alla Xavi o alla Busquets (per restare in casa di quel Barcellona che per un decennio ha imperato nel calcio europeo), ma è un poeta: pochi tocchi, qualche stoccata e in brevi versi ha detto tutto nella e della partita.

E Montieri ci restituisce questa magia, a cominciare dalla ricerca accurata di immagini che possano raccontare una sfida – sagace quella in cui per descrivere la finale mondiale del 2010 in Sudafrica tra Spagna e Olanda, risolta al 116° minuto proprio da Iniesta, ci dice che fino a quel fatale minuto «si contano più feriti che occasioni da gol».

E proprio da quella finale prende il via la storia, in cui si intrecciano la bellezza e l’amore per il calcio, usando Iniesta come perno. Però Montieri fa di più: talvolta fa slittare questa storia in un romanzo, inframezzando e sovrapponendo un altro io narrante al suo, quello di Iniesta stesso che immagina, che racconta, che ricorda.

Così, dalla finale del 2010, in cui la Spagna diventa per la prima volta campione del mondo, grazie a un suo gol, si passa per balzi all’infanzia nel bar di famiglia dove il bambino Andrés giocava col pallone tra le sedie e i tavolini. Un bar di Fuentealbilla, nella regione di La Mancha, famosa per il Don Chisciotte, dove il vento fa muovere i mulini e sospinge il piccolo Andrés verso un futuro fatto di magie e trucchi alla Copperfield, che gli varranno appunto il soprannome di «Illusionista». E chi meglio di Pep Guardiola può spiegarlo? «[Iniesta] salta l’avversario quando questi non se l’aspetta più, quando ha intravisto la possibilità di portargli via il pallone. Aspetta e poi se ne va. Nessuno ha capito come, ma è passato».

La capacità di Andrés di passarsi il pallone da un piede all’altro, la famigerata croquete come la chiamano gli spagnoli, il suo movimento aggraziato, da ballerino appunto, motivo del titolo del libro, fanno sì che a un certo punto Iniesta «scompaia e ricompaia al limite dell’area» o che si accorga di «uno spazio laddove i compagni non vedono nulla» e ci si infili per «mettere ordine in regioni del campo in cui sta regnando la confusione». Se averlo in squadra è una sorta di benedizione, per gli avversari è il contrario, tanto che «per capirci qualcosa dovranno accontentarsi del replay» a partita finita. Come avrà fatto don Andrés a passare?

Come dicevo, Montieri talvolta dà la parola a lui, lo fa parlare, una perfetta illusione anche per noi lettori. È pacato, timido, non ama stare sotto i riflettori se non è in campo, così senza vanità né egocentrismo (del resto si sa che Iniesta ama più far fare gol che segnare): «Quando gioco sono tranquillo, non mi faccio prendere dal panico».

Così il libro procede a strappi, come una croquete di Iniesta, Montieri ci racconta gli esordi e le tre Champions League che Andrés vince. Poi i trionfi nella Liga spagnola, la grande opera di quel Barcellona creata da Guardiola e cantata magicamente a centrocampo insieme altri due tenori Xavi e Busquets. Ma ci sono anche le sconfitte, e gli addii di Guardiola e di Xavi.

È un profilo tridimensionale quello che delinea Montieri, non tralascia niente, neanche quel momento buio che colpisce don Andrés prima del mondiale sudafricano, che lo incoronerà nuovo re di Spagna. Infatti l’estate precedente, la morte improvvisa del suo amico e avversario dell’Espanyol Dani Jarque lo precipita nel «male oscuro» di bertiana memoria. «Intorno a me era esploso il buio. Non vedevo più nulla, mi trascinavo», gli fa dire l’autore. Iniesta sembra stordito, gioca poco, non danza più, è fermo. Saranno la sua compostezza, la sua discrezione, la sua disponibilità verso gli altri che lo salveranno. Sì, perché Guardiola e i suoi compagni comprendono il momento, lo aiutano, lo proteggono davanti alla società, alla gente, finché lui ritrova la luce. E va in Sudafrica.

Si ha l’impressione per tutto il libro che Iniesta ascolti quello che racconta Montieri. Poi interviene, commenta e dice la sua dal Giappone, da Kobe dove gioca e vive adesso con la famiglia. Non ha rimpianti, non ha rancori, anche se non gli hanno dato il Pallone d’oro che forse avrebbe meritato, ma del resto il caso ha voluto che giocasse nello stesso tempo di Messi e Cristiano Ronaldo, e il Pallone d’oro è una questione privata fra loro negli anni Dieci.

Ma non importa, perché come i grandi artisti Iniesta sopravvivrà ugualmente nella memoria del calcio. Non a caso Montieri accompagna la narrazione con citazioni di Foster Wallace, di Szymborska, di Ballestrini, di Bolaño, di Penna e tanti altri grandi – Iniesta è a suo agio tra loro.

Alla fine del libro hai la sensazione di conoscerlo personalmente. Ti viene voglia di bussare alla sua porta, chiedergli, È permesso, don Andrés?, e farsi offrire un bicchiere di vino della sua tenuta. Poi, mentre sei lì con lui a capire se possa danzare e dribblare anche seduto a un tavolo, magari quello del bar di quando era bambino, ti accorgi che l’illusionista ha sospeso il tempo. Ed è in questo «tempo sospeso» nel quale vive il gioco di Iniesta, Montieri costruisce e decostruisce la narrazione, la frammenta e la ricompone per poi restituirla al lettore direttamente sotto porta. Se poi non si è capaci di spingerla in rete sarà colpa nostra e non certo di don Andrés.

 

(Gianni Montieri, Andrés Iniesta, come una danza, 66thand2nd, 2021, pp. 192, euro 16, articolo di Fernando Coratelli)

Ho cambiato tante case dei Tiromancino

È possibile che non ci sarebbe stato l’itpop senza La descrizione di un attimo o che comunque quella cosa sarebbe stata diversa?  Senza essere monolitici nel cercare una risposta, è innegabile che parte di quello che è successo nell’ultimo decennio in Italia da un punto di vista musicale abbia origine anche da quel  momento. Ventun anni e diversi album dopo, i Tiromancino fanno uscire Ho cambiato tante case.

Zampaglione è da sempre un personaggio interessante nel panorama musicale. Riesce essere semplice, diretto e allo stesso tempo ambiguo. Non si è mai capito in quale porzione del mondo musicale si volesse collocare, o se volesse, per opportunità e limiti, navigare a vista in un limbo fatto di irresolutezza e, per forza di cose, rimpianti. Fino al 2000 pareva ovvia la risposta, da allora in poi decisamente meno.

Alla lunga, nella sua poetica, ha preso il sopravvento un certo fatalismo posticcio alla Ligabue. Un Ligabue che guarda il mondo da camera sua e non da un’auto che sfreccia in un deserto ideale – con la stessa voglia, poi, di far parte di un circuito radiofonico senza alterare lo status quo.

È banale ricordare quanto la carriera del gruppo romana sia  stata influenzata dal loro quinto album, in particolare dai due singoli “La descrizione di un attimo” e “Due destini” – troppo riconoscibili, troppo canzone rispetto a parte del resto dell’album, che invece è meno metabolizzabile, più sfuggente, quasi etera. Ed è stato un bene, per loro: le porte del successo erano spalancate. Ma la direzione intrapresa è stata poi, artisticamente, rivedibile e piena di equivocità.

Non c’è mancato molto che potessero diventare delle meteore (e in quegli anni ce ne sono state molte) e ricordati a livello mainstream esclusivamente come quelli di La descrizione di un attimo.

Ho cambiato tante case è un album in linea con quello che sono diventati i Tiromancino: il livello non è mai altissimo, si tende spesso al ribasso, a volte si sopravvive  attorno a un sei politico dove covano  i rimpianti del cosa sarebbe potuto essere se; ci sono ballate romantico nostalgiche con la voce di Zampaglione oramai di casa, un po’ di elettronica, un po’ di dance pop e la perenne sensazione di rincorrere qualcosa raggiunta con La descrizione di un attimo che non potrà mai essere raggiunta. Sarebbe potuto uscire un lavoro peggiore, questo è sicuro, e il fatto che comunque non sia successo in qualche modo tirare un sospiro di sollievo.

In più, Zampaglione butta in mezzo il più o meno nuovo (Gazzelle, Franco 126, Galeffi, Leo Pari) e pilastri della musica italiana (Carmen Consoli): il vecchio e nuovo, due mondi che si incontrano e lui idealmente in mezzo: una metafora un po’ stucchevole e tendenzialmente autoriferita, ma che ci racconta parte di tutto un processo stratificato che ha influenzato la musica pop italiana degli ultimi vent’anni.

Quello che ne esce fuori è un lavoro con alcuni punti interessanti (l’onestà di “Eccoci papà“;  “L’odore del mare” con Carmen Consoli, una canzone che comunque  sarebbe potuta uscire senza problemi nel ’96 o nel 2005) e altri molto meno, tra cui l’imbarazzante incrocio con Franco 126 in “Er musicista” o “Questa Terra Bellissima“, dove   viene raccontato un tema fondamentale con un testo che sembra scritto da Povia per i Pro Vita – non ce ne voglia Alan Clarke.

Ho cambiato tante case è questo, i Tiromancino sono questo, Zampaglione è questo, la sensazione che il loro tempo sia finito non da oggi non è una novità. Non serve accanirsi, ma accettare che le cose siano andate in un certo modo e lasciar perdere gli “e se”.

 

Ritratto di André Frénaud

André Frénaud, «Gli anni e i giorni non prendono sonno»

A partire dal 1958 la casa editrice Il Saggiatore avvia la collana Biblioteca delle Silerchie. Volumetti cartonati, dall’innovativa veste grafica – particolarmente colorata ed elegante – che fin da subito conquistano migliaia di lettori. Il termine Silerchie, che attira immediatamente l’attenzione anche del semplice curioso, ha un senso e un significato del tutto particolare. La risposta giunge grazie alla domanda posta da un lettore. Nel catalogo n. 2 Primavera-Estate 1959 si legge: «Le Silerchie è una via, una strada di campagna che si stacca dalla nazionale Camaiore-Lucca, si inerpica sulle Apuane, poi diventa sentiero tra i boschi.

Nell’ideare una collana di brevi libri attraenti e spesso illustri come il paesaggio della Versilia, mi è parso di invitare il lettore a una poetica passeggiata». Grazie a questa semplice e al contempo grandiosa suggestione ha inizio una collana destinata a ospitare titoli di un certo rilievo culturale, non sempre – appunto – conosciuti al grande pubblico. Si tratta di autori da riscoprire oppure anche di opere reputate secondarie di scrittori illustri.

Nel 1962, al prezzo di quattrocento lire, tra i vari titoli esce un libretto decisamente interessante e non più riedito in Italia. Si tratta del poema biografico L’agonia del generale Krivitski del francese André Frénaud per la traduzione di Franco Fortini.

 

Una «poesia a statura d’uomo»

 

Nonostante sia un nome noto oltralpe, Frénaud fatica a imporsi all’attenzione del lettore italiano. La Biblioteca delle Silerchie, in linea con la propria missione, scommette su questo libro di una settantina di pagine. I versi sono presentati dallo stesso autore che si impegna a raccontare la genesi del poema, permettendo così al lettore di cogliere i riferimenti biografici, altrimenti difficilmente rinvenibili. Definita da un suo critico come una «poesia a statura d’uomo», la produzione poetica di Frénaud subisce varie evoluzioni.

Nato a Monceau-les-Mines nel 1907, dopo gli studi in lettere, filosofia e diritto, soggiorna in vari Paesi europei. Durante la Seconda guerra mondiale riesce ad evadere dalla prigionia in Germania ed entra a far parte della Resistenza, collaborando anche a un fascicolo della rivista Poésie 42. I suoi versi vengono presentati da Georges Meyzargues, pseudonimo di Louis Aragon, uno dei massimi esponenti del surrealismo francese. Al pari di Aragon, però, anche Frénaud riesce a superare l’esperienza dei vari manifesti artistici del Novecento e si contraddistingue per una poetica riconoscibile, intellettuale ma anche di denuncia sociale, vicina alle esigenze del popolo.

La maggior parte della sua opera in versi fino al 1962 si trova raccolta in Il n’y a pas de paradis, edita da Mondadori nel 1998 col titolo letterale Non c’è paradiso. La produzione dell’autore prosegue anche negli anni successivi e gli vengono conferiti premi a livello nazionale e internazionale. Fra tutti si ricordano il Grand Prix de poésie dell’Académie française e il Grand Prix national de poésie. Frénaud si spegne a Parigi nel 1993, senza che in Italia sia stata pubblicata la sua opera in maniera significativa. Oggi, fortunatamente, possiamo almeno riscoprire in parte la sua poetica grazie a questo volume, sicuramente figlio del secondo dopo guerra e della Guerra fredda, ma che mantiene immutato il suo fascino.

 

«Era il mio sangue a urlare sotto la frusta del capo»: la nascita di un generale

 

Krivitski è stato conosciuto dall’autore a Montmartre nel 1937 in gran mistero e con le dovute precauzioni. Come scrive Frénaud nella presentazione: «Quarantenne, bolscevico dal 1917, ufficiale dell’esercito e agente segreto, si trova a Parigi in qualità di capo del controspionaggio sovietico in Europa occidentale quando aveva deciso, un mese innanzi, di non tornare a Mosca, dove lo aspettava la purga». Krivitsky racconta a Frénaud la sua vita e questi brevi, ma ricchi incontri ispireranno l’opera a distanza di anni. Il poema si apre immediatamente con la morte del protagonista: d’altronde Krivitski muore nel 1941 e il testo viene pubblicato per la prima volta nel 1960. La fine del generale è tragica: viene trovato assassinato nell’appartamento newyorkese di un parente del senatore Lafolette. «Sette colpi hanno traversato l’aorta, / le circonvoluzioni tanto tenere. Allora / si svegliano le alghe rosse dell’agonia / e prendono a sommuovere l’acqua delle meningi».

Dall’incipit d’effetto, il lettore è inevitabilmente attratto ad approfondire la storia di questo personaggio singolare, ucciso da un misterioso e non meglio identificato Jim – lo stesso Krivitski ne faceva un vago riferimento nelle sue conversazioni, senza entrare mai nel dettaglio. Seguono ricordi, riflessioni sula sua terra d’origine, l’Ucraina: «Ucràina, frontiere d’infanzia … Come laggiù il grano piega / sotto il respiro dei Signori!».

Alla memoria emergono anche i primi soprusi di cui il futuro generale è testimone. Il particolare, il fatto più rilevante per la sua infanzia – che gli infonde quell’accentuato senso della giustizia – è quando vede un operaio frustrato: «quando cascò, a Nicolaiev, nella neve quell’operaio, / era il mio sangue a urlare sotto la frusta del capo, / ero io allora, per sempre, colpito, / era voi, ero io, fratelli che libererò; / e uomini metterò al mondo, innocenti, se è / necessario, col ferro».

Emerge, però, già da questi primi componimenti come il destino di Krivitski sia segnato dalla violenza, anche in quanto lui stesso non la rifugge. Si tratta, dunque, di una visione totalmente differente rispetto all’insegnamento pacifista impartitoci da Tolstoj. Ne segue la sua partecipazione alla Rivoluzione d’ottobre di cui diviene un estenuo sostenitore. La morte della casa reale («e, principesse morte, via dalle dita i diamanti!») viene considerata come un fatto necessario per sovvertire l’ordine in Russia. La rivolta violenta è accompagnata da momenti di uno spiccato lirismo, come se il sangue versato purificasse in vista di un futuro radioso: «Ma nell’anima avevo ridenti danzanti germogli / come i verdi licheni del mare al mattino / e i girasoli levavano un brusìo di capi felici / verso la luce dove andavo, forse, / verso di me traverso le mani mie rosse».

Frénaud non condivide – come d’altro canto emerge più volte nella presentazione – le idee del suo soggetto, eppure ne compie una profonda analisi psicologica. Quindi siamo di fronte a un fedele – e ossessionato, potremmo aggiungere – seguace della Rivoluzione che si fa promotore di essa nelle diverse città dell’est Europa. Nel poemetto Krivitsky si definisce un agitatore della propaganda, un «buon pastore dell’odio di classe».

Col passare della giovinezza e dei suoi fervori, diviene una spia per conto dell’Unione sovietica. Il generale si rifugia nel «perfido calore» dell’Europa e si dedica alle più svariate professioni: prima antiquario ad Amsterdam – dove acquista persino un Modigliani – poi rifugiato a Parigi. Nel frattempo continua a raccogliere informazioni segrete. Intanto in Russia ha inizio la Grande Purga e il generale ne risulta particolarmente colpito, anche a seguito della morte dell’amico e collega Ignace Reiss. Al momento dell’incontro con il Poeta, Krivitski appare stanco: «avrebbe voluto, mi diceva qualche volta, abbandonare ogni attività politica e limitarsi a vivere». Questa impressione ispira, in particolare, uno degli ultimi versi del poemetto: «a quella nostra impresa io non ci credo più».

 

«Non sono più un agente di Stalin»: la defezione

 

Eppure, Lenin è ormai morto e con esso l’idea primigenia della Rivoluzione bolscevica («il gigante Ottobre si sbriciola»). Il generale per un primo momento appoggia lo stalinismo, ma poi ne condanna gli «eccessi mostruosi». È impossibile quindi restarsene inerti «nelle immobili ali della solitudine dentro la storia»: bisogna reagire contro il Partito tramutatosi in un «tiranno selvaggio», traditore. Krivitski diviene nemico della rivoluzione o – per dirla con parole migliori –: è «come se prendesse nuovamente posizione a favore d’una positività della Rivoluzione. Il Partito dei proletari torna a essere, come egli ha creduto per tutta la vita, la forza capace di realizzare nella storia un intento di giustizia». Ma andare contro Stalin significa dire addio una volta per tutte all’Unione sovietica, entrando così a far parte del folto gruppo degli esiliati: «Non sono più un agente di Stalin … / E non le vedrò più le mie vie lungo la Neva / né le cupole di Kazàn come i gran soli / nell’orto di mio padre, né la isba / dove son nato nei vimini umidi».

In maniera perspicace Frénaud evidenzia come Krivitski sia probabilmente incapace di continuare la propria lotta contro il sistema; tuttavia, la rivolta è stata talmente parte fondante della propria esistenza che la semplice mancanza gli procura malessere. E se lo stesso concetto di lotta fosse per lui divenuta la unica ragione di vita? Anticipando l’avanzata nazista, nel 1938 emigra in America («in questa grande America / dalle vaste avenues di infiniti possibili») e continua la sua opera contro Stalin pubblicando su diverse testate giornalistiche. Giunge persino a testimoniare davanti al Comitato per le attività antiamericane.

Con l’assassinio di Trotsky nell’agosto del 1940, Krivitski si sente ulteriormente minacciato: «Sei sempre là, Rivoluzione. Ti ritrovo che m’aspetti / come se non m’avessi mai lasciato. / Non più quando inganni e prometti vittoria / in un mondo che si disfa e che si forma, / ma quando neghi a piena voce derisoria, / o mia grande, e io sto nel tuo rombo d’angoscia!».

 

Un epilogo disincantato

 

Il nichilismo prende il sopravvento secondo la libera interpretazione di Frénaud e il generale accetta il proprio trapasso con un’abnegazione quasi ascetica. «E oggi è venuto l’istante che non avrà fine, / e sono come un cavallo volante, enorme criniera di raggi, sulle città e le fiumane svanite».

Quella di Krivitski non è una morte gloriosa, è il trapasso di un uomo saldo e radicato nei propri princìpi e al contempo disincantato. Il suo vivere intensamente ogni attimo della propria esistenza, soprattutto in relazione al concetto di lotta, lo porta gradualmente a indebolirsi con l’età e con il susseguirsi degli eventi storici che tutti conosciamo. La sua è un’agonia, lenta e senza un attimo di requie. Solo la morte gli dona la tranquillità sperata: il riposo a ricordare i suoi campi di Ucraina. Frénaud rende omaggio a un uomo, figlio prediletto del suo tempo e condannato a finire con esso.

Copertina di Come fanno le volpi di Iorillo

Nuova fiaba antica di volpi, lupi e janare

Come fanno le volpi (Italic Pequod, 2021) è l’esordio letterario di Ulderico Iorillo, un romanzo coraggioso che fonde in sé molteplici anime.

In un’Italia postunitaria, dove l’Ottocento si sta trasformando nel nuovo secolo, dove la modernità si insinua nella vita di persone ancora profondamente radicate a un sentire terreno e ctonio, Iorillo delinea con penna sinuosa e asciutta la storia di Aris, principe delle montagne, fanciullo-ragazzo che in questo universo arcaico e in transizione compie il proprio viaggio iniziatico per fuggire dal mondo, e darsi così al mondo.

Narrare una fiaba di formazione con approccio mistico restituisce la prova di maturità di un autore, che si allontana volutamente dai canoni del romanzo picaresco tanto cari a quell’Ottocento letterario smanioso di “santificare” i suoi eroi umili. Il romanzo-fiaba di Iorillo si nutre dei riferimenti storici dell’epoca – uno su tutti la ferocia del brigantaggio come spettro capace ancora di far tremare gli animi –, ma li incastona all’interno del racconto quali fossero pietre cristallizzate nel fluire della narrazione e non se ne lascia sopraffare, per non sporcare la storia senza tempo del suo protagonista.

Ambientato in una terra poco raccontata, dove si incontrano Molise e Campania, dove l’Appennino domina il paesaggio e il mare è solo qualcosa su cui favoleggiare, Come fanno le volpi è una storia dal lessico plurimo, commisto di termini dialettali, costruzioni frasali che sanno di lingua viva. L’autore, però, forse per timore di eccedere, dosa con parsimonia queste incursioni di realismo e le relega ai soli modi di dire, detti e cantilene, che hanno comunque lo scopo di ricordare qual è la musicalità delle conversazioni lette nel romanzo e solidificano la patina di magia che permea tutto il libro.

Potrebbe sembrare che Iorillo abbia costruito il suo romanzo-fiaba partendo dalle carte di Propp. Nella storia di Aris si incontrano tutti i topoi del caso: da un contesto iniziale inospitale a causa sia della prematura morte della madre sia di un padre violento e frigido, buono solo a percuotere, passando per il dolce aiuto di una figura materna e salvifica come una madonna, incarnata però da una nomade ebrea, per proseguire poi in mezzo a diavoli, lupi e janare – le streghe del folklore di quei luoghi – per arrivare all’amore di Sofia.

Come base su cui poggiare tutto, un incantesimo – dichiarato fin dall’inizio, sebbene oscuro – che necessita di essere spezzato, per ripristinare così un ordine sovvertito in seguito a patti maligni, come si legge sin dalle prime pagine: «Il bambino nasce col fuoco e il fuoco è dentro il bambino. Crescerà come un signore, come un animale. Nascerà da un assassinio, da un vecchio conto da regolare, da un tiro coi dadi, mentre Dio ci gioca e ci scherza, ma non abolisce il caso, almeno non stavolta».

La scrittura si compatta in un presente storico che rende eterno il racconto. Il flusso narrativo si sposta per blocchi di immagini che si susseguono e restituiscono vividezza, con l’eleganza raffinata dei cantastorie.

Il tempo nel romanzo sembra rarefatto e lo scorrere dei giorni, dei mesi viene restituito con immagini di pregiato valore («Sopra, il cielo è più vecchio di alcuni anni e gli alberi intorno hanno anelli giovani e nuove radici»).

Un qui e ora che prende corpo e segue la fuga del giovane protagonista da Calena – paese inospitale e isterilito, con una sola voce e un solo pensiero «quasi sempre l’uno diverso dall’altro» – per rispondere al monito: «Aris, trova il tuo posto».

Eppure, sebbene il protagonista scappi da un paese e da un padre che lo stringono e lo soffocano con la loro violenta indifferenza, la narrazione non diviene mai incalzante, ma riesce a distendersi e ad accorciarsi senza strappi pur restituendo l’inquietudine derivante dall’apparente incapacità nel risolvere l’aspro rebus dei monti che si chiudono intorno al protagonista e che gli impediscono di vedere che la propria casa è «il posto dove hai tutto».

Un esperimento complesso, quello di Iorillo, soprattutto se si tiene a mente che ci si trova davanti a un esordio, una volontà forte di non venire meno alla voglia di sperimentazione letteraria, che ben si innesta all’interno di una narrazione che fiorisce e riesce a utilizzare gli stilemi classici senza farsene travolgere.

Come fanno le volpi è il romanzo audace di una nuova voce nel panorama letterario italiano che non ha timore di raccontare una storia dal sapore passato, in grado di eternizzare – all’interno di una fiaba vecchia eppure nuova – concetti che da sempre accompagnano le esistenze umane, che siano l’amore o l’odio, la morte o la vita.

E quando la fiaba troverà la sua conclusione, «allora sarà il momento del riposo, dell’inizio di un nuovo racconto e di un futuro senza diavoli e padroni».

 

(Ulderico Iorillo, Come fanno le volpi, Italic Pequod, 2021, 152 pp., euro 15, articolo di Giulia Eusebi)

 

Copertina di La politica della rabbia di Franco Palazzi

Perché «gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone»

Per una volta cedo anche io alla tentazione di parlare di un tema partendo con uno spaccato auto-narrativo. Non più tardi di una sera di questa estate, ho avuto un confronto acceso con un caro amico che, a proposito di Black Lives Matter, si è messo a dire che sì, lui capisce le rivendicazioni, e sì, sa benissimo che negli Stati Uniti c’è un problema sistemico di razzismo, e ancora che sì, la rabbia è una modalità di azione comprensibile davanti ai soprusi subìti. Comprensibile ma non legittima, sembrerebbe: spesso a sinistra ci si ritrova infatti a disquisire se, invece che scendere in piazza e rinfocolare il proprio dissenso, non sarebbe meglio fare rappresentanza nelle istituzioni, parlare pacificamente, far valere con calma i propri diritti inviolabili. Abbiamo interiorizzato l’ossessione di tenere un profilo basso e una voce pacata per non passare dalla parte del torto, dando per assunto che il torto stia nel “come” e non nel “cosa”.

Sebbene mi fosse chiaro che la risposta alle questioni sollevate del mio amico fosse un assertivo “No”, credo di aver farfugliato qualcosa di contrariato, dicendo che no, non mi importa del buon senso quando la parte politica avversaria, ossia chi sta agendo oppressione, non usa le maniere cortesi, per così dire. E proprio perché mi rendo conto che, vissuto personale a parte, questo è un grosso tema sociale – ovvero che, nell’agone politico, «non tutti i tipi di rabbia vengono trattati ugualmente» –, quando ho iniziato a leggere il libro di Franco Palazzi ho sentito tanto una familiarità concettuale quanto un vero potenziale combattivo.

La politica della rabbia, infatti, è un proiettile diretto contro l’insidioso adagio propugnato da quanti credono che «[…] all’interno di un regime rappresentativo che garantisce una serie di diritti fondamentali, puntare sull’uso politico della rabbia costituirebbe una “mossa obsoleta”».

In questo senso non è casuale l’immagine del proiettile: è il sottotitolo stesso – Per una balistica filosofica – a indicare che una lettura possibile è quella che accomuna il contenuto del libro alla sua funzione, cioè sbaragliare il tradizionale tavolo di gioco.

Muovendo da una vera e propria “genealogia della rabbia”, in cui è palese fin da subito l’intreccio tra “rabbia-patologia” e “rabbia-sentimento” – «La rabbia è stata sin dall’inizio sia malattia che metafora, un groviglio di significati e rimandi dove medicina e politica, sapere e potere sono avviluppati irrimediabilmente […]» –, l’autore enuclea il senso profondo di una condizione dell’umano che dà problemi e che si trascina fino al nostro presente: cosa farne di queste folle rabbiose e arrabbiate?

Ancora oggi, nel contesto di un sistema politico (post)democratico, la rabbia appare come quell’indicibile sporco che si auspica possa essere annientato da una forclusione collettiva e potentissima. Ciò sembra essere vero solo per quanto riguarda la moltitudine – «la folla non è un gruppo di persone qualunque: essa è bassa tanto nell’estrazione sociale quanto nella morale» –, è di ben altra natura la risposta sociale alla rabbia di chi occupa posti di comando nelle varie gerarchie di potere: chi mai si sognerebbe di additare come illegittima l’arringa irata di un politico contemporaneo? Nessuno; sembra, anzi, esistere una sorta di patentino della rabbia a cui ha accesso chi si trova in una posizione da cui la sua voce è già udibile e tonante, mentre, ad esempio, «dai manifestanti immigrati ci si aspetta che ricoprano […] il ruolo delle vittime passive e silenziose».

Eppure è proprio quando la rabbia viene «dal basso come un pugno sotto il mento» – prendendo in prestito il titolo della raccolta di poesie di Alice Diacono – che si può sperare in una aleturgia: manifestazione di verità.

In questo passaggio, Palazzi si appoggia alla lettura di Pierre Hadot e Michel Foucault della tradizione dei cinici, i filosofi-cani della Grecia Antica, e in particolare di Diogene di Sinope, la cui esistenza riluce di un’inscindibile coerenza tra vita e pensiero. Nei cinici, infatti, «coraggio della verità e coraggio della rabbia diventano tutt’uno: la verità cinica poteva venir detta solo rabbiosamente»: la pretesa veritativa non emerge perciò da un concetto assoluto e universale di verità, ovvero non c’è qualcosa di univoco da comunicare. Al contrario, è il fatto stesso che questa verità venga urlata dal basso verso l’alto a rappresentare l’unica risposta credibile per combattere la subalternità perché le feste «non si guastano sul serio se non si è nella condizione adatta, se il nostro grido non è squillante e la nostra risata fragorosa».

Proprio contro questa subalternità – che, traslata all’oggi, è spesso subalternità tanto culturale quanto politica nei confronti della rabbia “legittima” delle destre – il libro di Palazzi ribadisce la necessità del conflitto tra blocchi socio-politici, e lo fa, da una parte, attraverso la programmatica elaborazione di una balistica della rabbia che sappia rendere conto dell’efficacia dei movimenti collettivi in atto; dall’altra, una filosofia politica della rabbia che guardi ai fenomeni in potenza e che aiuti a mettere a fuoco perché sia giusto esercitare un certo tipo di rabbia.

In un testo in cui la volontà è far sì che la filosofia illumini gli eventi del mondo senza la pretesa di arrivare per prima a dettare la linea – «In filosofia politica è di certo più frequente chiedersi cosa un movimento dovrebbe fare piuttosto che quali lezioni, anche teoriche, esso possa insegnarci» –, è lineare il fatto che venga dato ampio spazio a figure notevoli di un’ipotetica fenomenologia della rabbia.

La Seconda prte si occupa dei “franchi tiratori” e segue da vicino le vite e le opere di Valerie Solanas, Malcolm X e Audre Lorde: se la prima «predicò il proprio verbo in solitudine, restando spesso inascoltata e quasi sempre incompresa» e il secondo – rinominato da più parti “il nero più arrabbiato d’America” – mieteva consensi con il crescere della sua fama anche in quanto recepito come voce complementare a Martin Luther King Jr., è Audre Lorde a rappresentare il caso di studio più elettrizzante (nell’opinione di chi scrive, va da sé).

Lorde, infatti, non solo si esprime sulla rabbia diretta verso l’alto – «La rabbia è esattamente il tipo di strumento politico che vale la pena espropriare al padrone» – ma nel perimetro del suo ragionamento rientra anche l’idea di una rabbia orizzontale “erotica” agita nei confronti di alleate e compagne.

“Erotico” ha in Lorde un suo peso concettuale specifico; è una sorta di “radicalizzazione femminista della potenza”, un sentire parente alla gioia e nemico dell’oppressione, ed è in questo contesto che per la prima volta vediamo come la rabbia possa essere impugnata non solo contro qualcosa, ma anche in favore di qualcuno: una volta espropriata al padrone, la rabbia può cambiare di segno e diventare forza creatrice e pedagogica.

Volendo poi chiudere il cerchio per tentare di rispondere a un quesito antico e fondante come “Che fare?”, nella terza e ultima parte del saggio Palazzi analizza le pratiche e le iniziative del movimento Non Una Di Meno con riferimento alle esperienze di Argentina e Italia. Al netto della specificità del movimento transfemminista, è chiara una cosa: nel sistema sociale che delle disuguaglianze ha fatto il perno del proprio potere, per non soccombere alle cupe vampe «avremo bisogno della nostra rabbia migliore».

 

(Franco Palazzi, La politica della rabbia. Per una balistica filosofica, Nottetempo, 2021, pp. 300, euro 15, articolo di Silvia Gola)

Il punto di non ritorno dei Coldplay

A luglio di quest’anno esce un singolo di dieci minuti con rimandi floydiani firmato Coldplay. Forse in qualche modo abbiamo recuperato Chris Martin. Everyday life non è stato un caso. L’album viene pubblicato il 15 ottobre e si chiama Music of The Spheres.

A ridosso dell’uscita avverti qualcosa. Una sensazione poco chiara ricollegabile al prodotto Coldplay. Qualcosa non va. Inizi a pensare che “Coloratura” sia una trappola. Guardando la copertina new age oppure osservando la pubblicità per strada con quei quattro faccioni che puntano da qualche parte nello spazio, ti rendi conto che sei ancora in tempo per scappare. Non puoi cascarci sempre.

Invece no, perché dai credito a una band che nel bene o nel male ti ha segnato e ha segnato una o più generazioni. Quindi ci credi e già l’apertura stile Eno (alla lontanissima Apollo, per esempio) sembra incanalare il discorso verso una direzione compatibile con “Coloratura“.

Gli dai credito oggi soprattutto perché Everyday life è stata la cosa migliore scritta da loro dai tempi di X&Y (insieme parzialmente a Ghost Stories) e oramai è diventato davvero triste ricordare i Coldplay di Yellow e di quanto erano bravi e di quanto poi, artisticamente, siano caduti nel degrado più totale. Ancora più triste del fatto in sé.

Music of The Spheres, invece, è il peggio del peggio che i Coldplay avrebbero potuto immaginare. Che ci saremmo mai potuti aspettare. Ci sono  le stelle, l’universo. Quell’altrove patinato.  Se prima poteva funzionare, oggi, in un lavoro del genere, è solo deprimente.

Ci sono canzoni che si chiamano con emoji. Ci sono i fuochi d’artificio e i palloncini. Un’estetica tristemente convenzionale. Lo stadio e la musica intesa solo come intrattenimento. I balletti.  Collaborazioni che esistono solo come sinonimo di espansione del mercato. (“My Universe“,  nella combo canzone+video, in questo rappresenta il punto più basso della loro carriera – o più alto, certo).

Un lavoro che poi – e questo è il punto che lo rende disonesto a livelli estenuanti – non ha neanche il coraggio di prendere una direzione così netta. Facciamo una cosa davvero sporca e basta. No, perché poi ogni tanto ci sono degli sprazzi di cose che sembrano pure interessanti, ma che perdono immediatamente il loro significato prigioniere nelle architetture pensate da Chris Martin e compagnia, dalla smania della semplificazione come profitto.

Frammenti pseudo Eno (canzone emoji Saturno e quella con emoji stelline), ballate alla Bon Iver (“Let Sombody Go“, che poi si trasforma in canzone Disney, e la presenza di Selena Gomez non pare casuale),  preghiere laiche di forte impatto emotivo (sempre alla Bon Iver, e il fatto che il meglio lo dia scopiazzando l’autore di “Skinny Love” rende il tutto ancora più disarmante), e poi quel pezzo floydiano che è “Coloratura“: tutto buttato lì e lasciato marcire.

Music of the Spheres è caotico, deforme, kitsch. Inutilmente brutto: Music of the Spheres è offensivo, per noi e per loro.

Tutto l’orrore delle mappe

Secondo Michele Mari, una delle caratteristiche che rendono Stephen King un grande scrittore dell’orrore è la sua «poetica delle cose, fondata sul presupposto della reificazione del male»: nei suoi libri tutto – anche ciò che immagineremmo più vago e indicibile – è concreto, preciso, tangibile. King unisce un alto grado di speculazione fantastica a un realismo minuzioso, quasi documentaristico, fatto di «frigoriferi coperti di decalcomanie, cruscotti, portafogli bisunti, flaconi di trementina». Sembra che siano gli oggetti stessi, e i personaggi, i luoghi, a generare il male, e non viceversa. Forse dipende da questo la costante produzione di film basati sulle sue opere (è come se King, con la sua scrupolosità, desse continuamente indicazioni a registi e scenografi); forse è per questo che leggendolo il lettore prova un senso di immedesimazione a tratti insopportabile.

Per parlare dell’ultimo libro di Orazio Labbate, Negli States con Stephen King (Giulio Perrone Editore, 2021), si può partire proprio da qui, dal legame morboso tra male e mondo reale. L’autore siciliano, infatti, ha scritto per la collana Passaggi di dogana (dedicata a insolite guide di città che seguono le orme degli scrittori, e non solo, che vi sono connessi) quella che è in apparenza una mappa dei luoghi, reali e immaginari, dei libri di Stephen King. Un’operazione interessante in primis per il suo carattere di topografia fantastica: d’altronde, chi potrebbe dire che Derry, o Jerusalem’s Lot, non esistono? Un lettore affezionato del Re, sfogliando le pagine di Labbate, si sentirà pervaso da una strana nostalgia, dall’emozione di un ritorno a luoghi familiari anche se inventati. Il “luogo”, si diceva prima, non è per King un semplice contesto dove far “accadere delle cose”; il luogo è parlante, agente, decisivo. Derry, la città di It, ne è un esempio calzante. Il romanzo più importante di King (quello che sintetizza tutta la sua opera e forse tutta la letteratura dell’orrore) è soprattutto la storia di una città maledetta: il resto – il pagliaccio, i perdenti, le fogne – deriva da qui. È un topos dell’horror, in effetti, quello per cui i veri protagonisti sono sempre i luoghi. Si pensi a Hill House, la «casa schifosa» ideata da Shirley Jackson (grande modello di King), ma anche allo stesso H.P. Lovecraft, per cui a essere infetto, maledetto, è l’universo intero.

Quello che però rende Negli States con Stephen King qualcosa di più di una guida per turisti del macabro e del fantastico è il tono doppiamente metanarrativo: stiamo parlando infatti di un libro che parla di libri, ma che vuole anche essere esperienziale. Labbate fa agire all’interno dei luoghi kinghiani un fantomatico «viaggiatore», che altri non è che il lettore stesso. Il patto che lo scrittore stringe con noi è semplice: io favorisco la tua immedesimazione, lettore, ti faccio diventare, se mi seguirai, un personaggio dei romanzi di King, e solcare i suoi luoghi, affrontare i suoi mostri; tu, però, dovrai fare attenzione, limitarti a guardare, non toccare nulla. Dovrai evitare, insomma, di farti risucchiare dal male intrinseco in ogni cosa. Ecco che Labbate consiglia, mette in guardia, come se il viaggio del lettore fosse reale, e molto pericoloso:

«Meglio che il viaggiatore non indietreggi. La contemplazione non permette al demone di alzarsi e raggiungerlo. Il mistico non deve avere accesso alla sfera prosaica del conosciuto.
Il prisma di quel diavolo femmina cadente è infatti immaginazione mostruosa godibile alla vista seppur di una crudeltà raffinata.
Con cautela si esca dalla 217.
Il viaggiatore deve bere o mangiare giacché la notte offre i suoi diversi cibi».

È un meccanismo, questo, a cui Labbate può dar vita grazie a una conoscenza dei testi intima e in divenire, che si trasforma in un percorso di interpretazione e rielaborazione. L’indagine è quindi critica e insieme narrativa, e tocca la maggior parte dei capolavori kinghiani, a ognuno dei quali è dedicato un capitolo – una tappa del viaggio. Si passa dalla neve opprimente di Misery alla casa pregna di sacrale oscurità di Carrie, dalle fogne di It all’hotel di Shining. Una grande importanza è riservata ad A volte ritornano, la raccolta di racconti giovanile di King, a cui è dedicato il lungo capitolo iniziale: il Re, insomma, è capace di creare un’ambientazione indelebile anche nel corso di una manciata di pagine. Di certo Negli States con Stephen King è un libro per appassionati, un tributo che tratteggia una panoramica su tutta l’opera, e la poetica, dello scrittore statunitense. Quella di Labbate, però, è soprattutto un’esplorazione filosofica (sempre nell’accezione di “filosofia del male”). Sorprende, sfogliando le pagine, quanto la visione del male di King sia sfaccettata e irriducibile a una definizione unitaria. Tant’è vero che Labbate si richiama, nell’“Avvertimento” iniziale al lettore, a tre grandi maestri di un tipo di indagine che potremmo definire labirintica, cha fa cioè della ricerca, più che del raggiungimento di una meta precisa, il proprio scopo: Gesualdo Bufalino, Roberto Calasso, W.G. Sebald. A loro rimanda anche la prosa di Labbate, erudita e insieme visiva, sempre sospinta verso una metafisica degli oggetti. Questo stile rende il testo minaccioso, oppressivo, rituale. Sembra, a tratti, che l’autore si ispiri a qualche libro magico, o meglio, maledetto: uno di quelli che li leggi e ci rimani intrappolato.

Il senso di minaccia è poi acuito dal fatto che i luoghi di King sono presentati da Labbate come spazi vuoti, abbandonati, privi di ogni presenza umana, esclusa ovviamente quella del viaggiatore. Mark Fisher (che in TheWeird and the Eerie ha teorizzato l’horror del presente e del futuro) ha definito l’eerie, che in italiano si potrebbe forse tradurre con “inquietante”, in questo modo: «La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa». Nella mappa dell’orrore di Labbate la sensazione di eerie che coglie il lettore è doppia: in quei luoghi è accaduto qualcosa di malsano, che non sarebbe dovuto succedere; adesso però, mentre il viaggiatore li attraversa, di quel qualcosa rimangono soltanto tracce, e nessun testimone. Ecco allora che al lettore-viaggiatore sopraggiunge un’ansia metanarrativa, la paura di qualcosa di cui si è avuto paura in un tempo diverso, quello letterario, ma non per questo meno autentico. Oltre che guida, oltre che libro maledetto e tributo, quello di Labbate, in fondo, aspira a essere soprattutto un libro dell’orrore, cioè un libro che fa paura.

 

(Orazio Labbate, Negli States con Stephen King. I territori del Re, Giulio Perrone Editore, 2021, 96 pp., euro 15, articolo di Claudio Bello)
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Edgar Morin, le parole per parlare di cinema

Bisognerebbe leggere Edgar Morin quando si è molto giovani e la vita sembra un insieme di infinite scelte. E poi rileggerlo quando si è molto grandi e la vita sembra un insieme di infinite scelte sbagliate.
La lezione più importante che il filosofo francese ci ha regalato in questi cento anni, infatti, è imparare a comprendere il mondo, le persone, noi stessi. Per farlo occorre ricordare che «vivere è affrontare continuamente l’incertezza» e che non bisogna temere la complessità: «Quello che chiamo pensiero complesso è il pensiero che vuole superare la confusione, la complicazione e la difficoltà di pensare, con l’aiuto di un pensiero organizzatore: separatore e reliante», come scriveva nel suo Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione (Raffaello Cortina, 2015).

Nemico del sapere specializzato, delle divisioni in discipline, del distacco tra cultura umanistica e scientifica reso incolmabile dalla scuola (o quantomeno da un certo modo di pensare e strutturare la scuola), Morin si affida da sempre alle parole, al loro potere, alla loro capacità di evocare, spiegare, unire.

Non è un caso che Anna Battaglia, traduttrice dell’edizione italiana della raccolta Sul cinema. Un’arte della complessità (Raffaello Cortina, 2021) dedichi una breve ma interessante digressione proprio sul gioco linguistico intrapreso dall’intellettuale francese. E alle responsabilità inevitabili, per chi traduce, di restituirne i significati profondi: Morin è un inventore di parole, le costruisce, allo scopo di conciliare gli opposti, sovrapporre forma e contenuto, collimarli e annullarne i confini. Lo ha fatto, in passato, con il termine relianza, divenuto un caposaldo del suo pensiero. Ora, in questi scritti sulla settima arte, troviamo esempi meno celebri ma altrettanto godibili: crucidité (altra invenzione) e il gioco di assonanze, a proposito dell’opera di Michelangelo Antonioni, tra fait divers e faits d’hiver, impossibile da rendere in italiano, ma ben spiegato dalla nota della traduttrice.

 

 

Non deve stupire che in una raccolta dedicata al cinema si presti così tanta attenzione al linguaggio: Morin, come sua abitudine, è interessato a dilatare la riflessione sull’arte cinematografica affrontando lo studio attraverso le chiavi dell’antropologia e della sociologia. E utilizzando l’arma della buona scrittura.

Esperienza estetica e fatto sociale, arte e industria, cultura e divertissement: secondo Morin il cinema è lo strumento essenziale per comprendere l’uomo e la società e, allo stesso tempo, il riflesso di entrambi: «lo spettatore di cinema è posto davanti a giochi di luce e ombra. Sono proiezioni – identificazioni che danno corpo ed esistenza a personaggi e trasformano lo schermo in finestra aperta su un mondo vivo», scrive nel 1961 a proposito di quello che chiama stato estetico-ludico, e aggiunge nel 2018: «Si tratta comunque sempre di confrontare l’umanità con la propria immagine, per provocare una scossa, uno choc dal quale possa nascere una riflessione, una presa di coscienza».

Occorre dunque «far luce sul cinema attraverso la società e nello stesso tempo far luce sulla società attraverso il cinema», scrive nel 1954: bisogna però trovare un metodo, perché cinema e vita reale sono perciò inscindibili: l’esperienza del film, nonostante la sua capacità di alienarci dal mondo, «ci sveglia alla comprensione degli altri», come ricorda in Insegnare a vivere.

Sono le stesse curatrici di Sul cinema, Monique Peyrière e Chiara Simonigh, a spiegare il faticoso lavoro di ritrovamento, raccolta e sistematizzazione di questi articoli e saggi, inediti, scritti da Morin tra i primi anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, nel periodo in cui le sale conoscevano la gloria e poi, rapidamente, il declino: il percorso scelto ignora l’ordine cronologico e va dall’universale al particolare, dalla dimensione intima a quella sociale, attraverso le opposte e speculari superfici entro le quali la riflessione si estende (mimesi/catarsi; archetipi/stereotipi; eros/thanatos; felicità/crisi; cinema/essai).

Sarebbe impreciso, però, considerare quest’opera esclusivamente un manuale di ricerca, destinato solo a chi sappia destreggiarsi fra la terminologia scientifica, perché il fascino di Morin, del suo pensiero, e ciò che ne ha decretato anche il successo editoriale negli anni, sta nella capacità di fluttuare sulle cose, di spiegare l’inspiegabile, di fornire le parole per comprendere.

Edgar Morin ama il cinema, le sue pagine restituiscono la profondità e la forza di tale sentimento: lo fa in particolar modo addentrandosi nell’analisi filmica, quando, per esempio, indaga l’invenzione della good bad girl nella narrazione cinematografica; quando paragona il genere poliziesco ai drammi shakespeariani; quando esamina il mito Marilyn e l’oriente raccontato da Hollywood; quando si inabissa nel mondo oscuro di Ingmar Bergman o spiega il successo catartico e paradossale della figura del mendicante: in quei passi la scrittura di Morin sembra condurci per mano in un territorio familiare: «Come Pavese nel romanzo, Antonioni è il regista del dolore segreto. La sua Italia è quella del Po nei dintorni di Ferrara. Il suo film avanza lentamente, su una grande pianura nuda, come il Po, sotto un cielo uniformemente grigio. […] Tutto il film si svolge tra il momento in cui un uomo è colpito a morte e il momento in cui cade». Bastano queste poche righe, scritte nel 1959 in un articolo dedicato a Il grido, opera tra le più intense (e meno apprezzate da una certa critica dell’epoca) del regista ferrarese, per capire l’abilità di Morin nell’osservare, scomporre, riunire gli oggetti della sua indagine attraverso una scrittura tersa e avvolgente.

Chi ama il cinema sa che non si tratta mai di un amore contemplativo, bensì di un bisogno profondo di capire, sviscerare, comprendere il mondo e sé stessi, come ci ha insegnato anche François Truffaut nella sua lunga intervista ad Alfred Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock, il Saggiatore, 2014). Ebbene, il viaggio intrapreso da Morin in questi scritti conserva la stessa innocente, insaziabile ingordigia con cui guardiamo un film, ma mantiene intatti il rigore e la complessità a cui il filosofo francese ci ha abituati.

 

Friends That Break Your Heart

Nel 2011 James Blake è stato una folgorazione. Ciò che lo ha seguito, tra alti e bassi, non è mai riuscito a raggiungere quel livello.  Neanche a sfiorarlo. Sono passati 10 anni e ci ritroviamo in mano un nuovo album dell’artista inglese, Friends That Break Your Heart.

Ragionare attorno a Blake  ti porta ogni volta a fare i conti con il suo talento. Un talento innegabile, palese, sfacciato. Un talento eccessivo anche per i suoi album. Talento che sbuca ovunque, soprattutto nei pezzi meno riusciti.  Ma più passa il tempo e più c’è una questione ingombrante:  James Blake si sta incartando sempre di più in quella che è l’idea Jame Blake

James Blake si riduce nell’immaginario James Blake o può essere altro?

Friends That Break Your Heart, sulla scia di Assume Form, continua a dare quest’impressione. James Blake è sempre un fenomeno etc etc. Di fatto, però, quello che succede in Friends That Break Your Heart è esattamente quello che ci si aspetta da lui. E a ogni passaggio sembra che la formula perda di impatto e di significato.

In più, per buona parte dell’album, c’è un intrusione massiccia di featuring mainstream, cose che potrebbero stare bene da Beyoncé a qualsiasi altra epigona, che appesantisce il tutto. Lo sposta su un altro piano, un posto con cui lui, teoricamente, non dovrebbe avere nulla a che fare. Ne fa una strana macchietta, un subprodotto omologato simile a infiniti altri.

Che sia una questione di stile, qualcosa per cercare altre strade o semplicemente un modo per avvicinarsi a determinate fette di mercato, o magari entrambe le cose, poco (più o meno) importa:  il risultato non cambia, perché da un punto di vista artistico l’intera economia dell’album ci perde. Lo rende inutilmente ridondante.

Nonostante questo – ma in fin dei conti proprio per questo – l’album parte alla grande.  I primi due brani, “Famous Last Words” e “Life is Not The Same“, sono vivi, si sviluppano in maniera splendida, con tensione e crescendo emotivi. Blake canta come un Dio. Ma finisce tutto lì. Lì dove sembrava dovesse aprirsi chissà cosa. E dove invece si apre invece una parentesi dimenticabile, con rammarico e la sensazione che un Ep del genere sarebbe stato molto meglio.

Nel tronco finale c’è una lieve ripresa, ma sembra troppo poco e, di nuovo, un po’ sempre la stessa cosa. I pezzi rispetto a dieci anni fa, poi, sono più intellegibili, più chiari, più forma-canzone. Non è un problema di forma, ma di intenti.

In “Say What You Will” c’è forse un po’ troppo Bon Iver, “Lost Angel Night” somiglia sinistramente a una ninna nanna per bambini hipster e “If I’m Insicure” dai toni apocalittici stile Blade Runner girato nel 2050 non riesce a convincere del tutto. Solo “Friends That Break Your Heart” stupisce nella sua canonicità: una ballata voce e chitarra (chitarra vera, non filtrata da synth e simili), davvero una rarità nella carriera dell’artista inglese.

Esiste James Blake al di fuori di tutto questo?

Copertina di Liquefatto di Tiscione

Storia di un corpo

Liquefatto (Polidoro editore, 2021) è il racconto di una crisi interiore che si riversa potentemente sul presente e sulla vita. Il romanzo della genovese Hilary Tiscione si presenta come una storia dal grande respiro: dall’Italia, dove vive Maddalena, la giovane protagonista, agli Stati Uniti di Los Angeles prima e Las Vegas dopo, dove si sposterà la narrazione nella seconda parte.

Di Maddalena si conosce poco ‒ solo ciò che condivide lei stessa: convive con Romano in una relazione che cede sotto il peso dei non detti e dei numerosi tradimenti che si consumano al di fuori delle mura domestiche, il ritmo dettato dall’uso di droghe e una frenetica ricerca del diverso, dell’audace. Ne conosciamo i pensieri, le domande, persino le manifestazioni corporee: il corpo femminile con i suoi smottamenti subisce in queste pagine i colpi dell’insoddisfazione e della sregolatezza, in parte a essi adattandosi, in parte piegandosi. Quello di Maddalena è un corpo avido e fragile, in continua lotta, e sarà proprio attraverso quel corpo che Tiscione svilupperà la struttura del proprio libro.

Il deus ex machina di una routine così mal sofferta arriva via e-mail: due biglietti aerei, uno per Maddalena, l’altro per Lia, una sua amica, gentilmente offerti da Romano. Destinazione Los Angeles, dove vive Tito, vecchio conoscente ed emblema di uno stile di vita tanto caro ai sogni più segreti di Maddalena. Nonostante la scoperta di una gravidanza inaspettata, partire è l’unico imperativo per non soccombere in quella scatola emotiva che è diventata l’esistenza di Maddalena.

Ma anche in America persiste un sentimento claustrofobico che trova terreno privilegiato negli ambienti chiusi: la stanza di un hotel, una festa psichedelica, un’automobile che viaggia nel deserto del Mojave. Anche quando mutano le coordinate geografiche e si allargano gli orizzonti – gli straordinari orizzonti del paesaggio naturale americano –, non c’è spazio sufficiente per respirare a pieni polmoni e la voglia di evasione si rivela essere solo il pretesto personale e narrativo per raccontare una rottura insanabile.

«Avevo inteso di avere dentro qualcosa che non capivo neppure io, un’obliquità amara verso il dispiacere, un’unione scabrosa con gli artifici del dolore, un accostamento curioso agli esiti ammaccati delle parole.
Non ho fatto altro che abbassare gli occhi sulla punta del mio stivale nero, sulla pelle in fondo alle unghie dei piedi e poi su per il collo e ancora sull’estremità ultima di una scarpa che non c’entrava più nulla con me.
Tito ha detto ehi qualche volta. E un po’ come il mio compagno di scuola ritardato non conteneva la bava, io non tengo il pianto e vorrei essere il ritardato di cui non ricordo il nome e vorrei sparire dietro una cinta di giacche imbottite e avere la sua ragione per patire senza riserbo e poi magari ridere come faceva lui, il gigante storpio che s’incurvava come un ramo giovane.
Sei incinta?»

La vita di Maddalena non conosce pause e alterna l’eccesso dell’ebbrezza effimera del momento alle conseguenze delle numerose relazioni disfunzionali che ha voluto e quasi tutelato a ogni costo, anche a discapito della propria incolumità fisica e mentale.

L’architettura del romanzo non è indenne da questo stato semiconfusionale, da questa materia liquida in cui realtà e finzione si scambiano di continuo il ruolo straripando dai loro confini consueti: in Liquefatto mancano “i grandi insegnamenti” che ci si aspetterebbe di trovare da narrazioni così intense. La scrittura, a sua volta, asseconda questo andamento sconnesso e viene caricata di espressioni metaforiche dichiaratamente esagerate. Il risultato è una realtà che è finzione e una finzione che è realtà.

 

(Hilary Tiscione, Liquefatto, Polidoro Editore, 170 pp., euro 14, articolo di Giovanna Nappi)

 

Copertina di I miei stupidi intenti di Zannoni

Dal vangelo secondo Archy

Secondo il filosofo e pedagogo Martin Buber, «gli occhi di un animale hanno il potere di parlare un grande linguaggio». Attraverso gli animali si possono raffigurare non solo i sentimenti umani, ma anche denunciare le storture della realtà. Lo sguardo animale, infatti, parla un linguaggio universale, espressione dell’uomo e dei suoi dilemmi esistenziali.

Oltre alle favole di Esopo, due esempi molto validi di storie con animali antropomorfi sono: Il vento tra i salici (1908) dello scozzese Kenneth Grahame, che attraverso il mondo animale mostrava uno spaccato dell’Inghilterra di Edoardo VII con tutte le sue divisioni sociali, e La fattoria degli animali (1945) di George Orwell, che denunciava, invece, la deriva autoritaria dello stalinismo.

In questo panorama si inserisce anche I miei stupidi intenti del giovane Bernardo Zannoni (Sellerio, 2021), un’opera prima che ha raccolto un buon successo di critica ed è stata paragonata a La collina dei conigli di Richard Adams. Il romanzo ha per protagonista una faina, Archy, rimasta orfana di padre a seguito di un furto di galline fallito. Divenuto zoppo per una caduta da un albero, il protagonista viene ceduto dalla madre Annette all’usuraio Solomon in cambio di una gallina. Quest’ultimo, una volpe, lo tratterà inizialmente come suo schiavo per poi a poco a poco farne un suo discepolo: Archy, infatti, scoprirà grazie a lui l’esistenza di Dio, la crudeltà del mondo e la morte, ma soprattutto diventerà uomo.

Dio, crudeltà, destino: tre motivi tipici di una storia esistenzialista – non per niente l’editore menziona Albert Camus nel descrivere il romanzo in quarta di copertina – ma anche di una narrazione a sfondo teologico. Elementi, infatti, che molto si addicono a questo tipo di racconto sono il narratore in prima persona, adatto a rappresentare la lotta interiore di Archy con i suoi dubbi su Dio e la morte, ma anche il taglio metanarrativo, che riguarda sia Solomon, che al protagonista detta le sue memorie, che Archy stesso, che farà la stessa cosa con l’istrice Klaus. La metanarrazione, infatti, serve a Solomon e ad Archy da un lato a rendere esemplari le loro vite, dall’altro a cercare di attuare «l’ultimo, stupido intento: scappare, come tutti, dall’inevitabile», ovvero cercare inutilmente d’imporsi sul proprio destino.

I miei stupidi intenti è un vangelo umano con protagonista un animale; ma non uno qualsiasi, una faina: una specie solitaria, prettamente notturna, così come l’uomo, solo e abbandonato al suo destino e in balia dell’ignoto della morte. La storia di Archy ricorda, infatti, quella di Gesù: non in senso cristiano, ma laico. Il Gesù che viene in mente è in particolare quello ritratto dal portoghese José Saramago in Il vangelo secondo Gesù Cristo. Nel romanzo del Premio Nobel Gesù è una figura umana, piena di dubbi e paure sulla sua esistenza, con un Dio che si rivela distante e crudele. Il martirio del protagonista diventa il momento dell’accettazione della sofferenza e del dolore come fondamenti dell’umanità.

Come il Gesù di Saramago, anche Archy, nel corso della sua vita, impara che «forse era questa la differenza fra un uomo e un animale; io non avevo pensato, e adesso ne pagavo le conseguenze». L’essenza animale, infatti, è vista come appartenente all’età dell’oro, dell’innocenza, mentre l’evoluzione “umana” rappresenta una maturata consapevolezza da parte del protagonista della crudeltà e del male nella sua esistenza.

Archy inizia a farsi uomo nel momento in cui sperimenta il sesso e l’amore con la sorella Louise, quando conosce la violenza, la solitudine, la paura, ma soprattutto la fame, l’unico sentimento che «assottiglia il mondo a un unico bisogno. Non esiste pietà, o amore, o ancora la paura, il dolore, la vergogna; non esiste niente all’infuori di quella spinta cieca, che è sopravvivere, mangiare».

L’istinto di sopravvivenza permette ad Archy di confrontarsi con la crudeltà e la spietatezza del mondo. Nel soddisfare i suoi bisogni, la faina si dimostra sempre più crudele verso gli altri. La prima vittima della crudeltà di Archy è Gioele, il cane di Solomon, che circuirà con la promessa di rivelargli la sua vera origine in cambio dell’aiuto nel conquistare la faina Anja. Il protagonista si dimostra cinico anche verso la famiglia che costituirà con quest’ultima, che infine abbandonerà Archy con i cuccioli per non morire di fame.

In realtà, però, Archy sa che «il mondo non odia nessuno, e se è crudele, è perché noi siamo crudeli. Dio non aveva commesso altro errore se non quello di averci voluto partecipi, uomini e animali insieme». Egli impara la violenza e la perpetra negli altri perché è dagli altri che ha ricevuto la crudeltà, ma allo stesso tempo comprende la morte: se prima «nel mio esistere», afferma, «la escludevo a priori, abbandonata dietro l’evolversi dei miei giorni», ora è diventata «l’unica anomalia in un disegno che mi era già davanti agli occhi».

Archy, che pensa inizialmente di possedere le redini del suo destino, presto giungerà alla consapevolezza che tutto il male che ha ricevuto e commesso è parte di «un percorso solitario, nei meandri di se stessi, dove ogni cosa sparisce, e si tenta di riacciuffarla. È l’anima di questo mondo, la sua forza più grande; nessuno chiede di nascere, ma nemmeno di andare via». La faina, come gli altri animali – ma anche gli uomini – è costretta da Dio a lottare per difendere qualcosa – la vita – cercando di sottrarla alla morte. Il protagonista, però, si rassegnerà a vivere un’esistenza inutile, nella quale ogni sforzo di restare a galla sarà vano, e ad accettare l’idea della fine.

Sebbene sia una storia di animali, I miei stupidi intenti è un romanzo che contiene tanta umanità: un’umanità che pensa di governare la propria esistenza, che lotta incessantemente per la vita, ma che è costretta a soccombere alla morte. Umana è anche la parola, quella di Archy, che come un novello Cristo ha provato sulla sua pelle la crudeltà del destino e tenta di raccontarla per consolarci di fronte all’ignoto della morte.

 

(Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio, 2021, 252 pp., euro 16, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
Locandina di No Time to Die

Addio alle armi

Daniel Craig saluta James Bond con No Time to Die, il suo quinto e ultimo film nei panni dell’agente segreto più famoso al mondo. Un film a lungo atteso, pronto per le sale da ormai due anni e tenuto fermo in attesa di tempi migliori.

Questa nuova avventura di 007 è senza dubbio destinata a entrare nella storia. Venticinquesimo titolo della saga, capitolo conclusivo per l’interprete più longevo e di maggior successo di tutti i tempi nei panni di Bond – parlano gli incassi –, No Time to Die conferma e probabilmente conclude l’approccio più seriale che dal 2006 di Casino Royale a oggi ha caratterizzato le missioni al servizio di Sua Maestà.

I titoli con Craig hanno dato il via a un nuovo corso cinematografico che si è sviluppato in un’unica, lunga trama, marcando una netta differenza rispetto ai film episodici tipici dei precedenti interpreti, da Sean Connery a Pierce Brosnan.

In No Time to Die, James Bond si trova a fare i conti con il passato e con il futuro. Dopo essersi ritirato in Giamaica, 007 viene convinto a tornare in servizio dal suo amico Felix Leiter per andare alla ricerca di Waldo Obruchev, uno scienziato sequestrato dalla SPECTRE in possesso di una pericolosissima arma. La caccia all’uomo porta Bond a misurarsi con i segreti di Madeleine, la donna che amava, tornata nella sua vita dopo cinque anni. La donna è legata in modo misterioso con il pericoloso criminale Lyutsifer Safin.

Gli appassionati del personaggio creato da Ian Fleming troveranno in No Time to Die tutti i tratti che hanno reso uniche le sue avventure. Location esclusive, eleganza, battute salaci, grandi sequenze d’azione e inseguimenti mozzafiato.

Il regista Cary Joji Fukunaga ha assunto il non semplice incarico di subentrare a Sam Mendes alla direzione e di rialzare le sorti della saga dopo il non troppo riuscito Spectre del 2015. Il James Bond del nuovo millennio è sempre stato sospeso tra una spinta innovativa e una più tradizionale i cui due punti più estremi sono rappresentati da Skyfall – probabilmente il titolo più apprezzato dai meno bondiani, e campione di incassi assoluto nella storia di 007 – e Spectre, più canonico e prevedibile.

No Time to Die rimane a metà, con il Bond di Craig meno cinico e glaciale rispetto alle primissime uscite. Anzi, in questo film numero venticinque prevale una certa emotività, una voglia e una tendenza a mostrare un lato intimo e fragile che mai era stato rivelato sul grande schermo. Cary Fukunaga ha le carte in regola per tenersi in equilibrio tra sentimento e azione: regista della prima stagione di culto di True Detective, ma anche di un Jane Eyre del 2011.

Oltre a sedersi dietro la macchina da presa ha preso posto al tavolo della sceneggiatura in compagnia dei veterani della serie Neal Purvis e Robert Wade (al loro settimo Bond) e alla tanto anticipata Phoebe Waller-Bridge, drammaturga e attrice responsabile di una delle migliori serie degli ultimi anni, Fleabag.

Waller-Bridge sarebbe stata chiamata per togliere un po’ di patina maschilista da un personaggio ormai assolutamente impresentabile.

Il risultato finale di No Time to Die è un film che riserva il giusto congedo a Daniel Craig e a un certo modo di intendere la saga di James Bond. C’è una carica sentimentale che attraversa tutti i 163 minuti che a tratti stentano a risultare coesi e non ripetitivi.

Più concentrati sugli aspetti privati di 007, Fukunaga e gli altri sceneggiatori sviluppano con minore efficacia il resto della trama. Anche i nuovi personaggi che vengono introdotti non riescono ad apportare il giusto carico di carisma. Il villain Safin interpretato da Rami Malek trasmette veramente poco, così come la nuova 007 al fianco di Bond di Lashana Lynch. Un vento di freschezza destinato purtroppo a durare poco lo porta Ana de Armas in un breve capitolo cubano del film, forse la sequenza in cui più si nota la penna di Waller-Bridge.

No Time to Die non è il film di James Bond più riuscito, ma rappresenta il miglior saluto possibile a Daniel Craig. In attesa di scoprire se e come la storia andrà avanti.

(No Time to Die, di Cary Fukunaga, 2021, azione, 163’)