“La pazzia di Dio” di Luigi De Pascalis

Luigi De Pascalis è uno scrittore abruzzese, lancianese, con una notevole vena inventiva sorretta da una struttura narrativa di ampio respiro, come si è visto nei suoi romanzi di cui Il mantello di porpora è attualmente all’attenzione della critica, con apprezzamenti da parte di studiosi del calibro di Claudio Strinati o Filippo La Porta. Sempre storico, ma di tutt’altra ambientazione, è un altro suo romanzo, La pazzia di Dio, (La Lepre Edizioni, 2010), che vede protagonista la Grande Guerra vissuta da un ragazzo di un paesino dell’Abruzzo montano.

È un grande affresco di famiglia e di un’intera comunità che ricorda il romanzo classico ottocentesco, ma con un aggancio a Ignazio Silone, pur con una minore presenza dell’aspetto socio-politico, e per certi versi tendente al romanzo di formazione.

Siamo a Borgo San Rocco, un paese della valle del Sangro, vicino Chieti. Da queste parti, la vita, a fine Ottocento, è sempre uguale a se stessa, legata alla terra e al lavoro dei campi, con una fatica dura ma comprensibile, e quindi accettata come destino. I Sarra sono la famiglia possidente del paese, in cui nel 1895 nasce il secondo figlio di Filippo ed Elvira, Andrea.

Con loro vive Sigismondo, il fratello di Filippo, che esercita la professione di medico come si poteva esercitare allora in paese, cioè come un padre energico che segue i suoi pazienti come pecorelle smarrite. A questi personaggi si aggiunge Cicco, un figlio naturale di Filippo, che è accettato in casa benché Elvira gli sia ostile. Tuttavia Andrea e Cicco cresceranno come fratelli veri, uniti più di quanto Andrea lo sia con gli altri fratelli.

Gli anni passano. Dopo gli studi liceali a Napoli, in un tetro collegio di gesuiti, Andrea decide di partire per la guerra, dove avrà la più grande lezione di vita. Inoltre, deve abbandonare Rosa, la sua amante a Borgo San Rocco, amante in paese, e tutta la sua vita, i suoi sogni e la passione per la pittura, per perdere la sua umanità e ritrovarsi, lupo tra i lupi, nell’insensatezza di una guerra che è il macello di una generazione intera.

Ma il grande sacrificio collettivo è lo sradicamento di un popolo contadino dalle antiche consuetudini di vita, un popolo che nel giro di pochi anni si trasforma in qualcosa di totalmente diverso. L’esperienza di quegli uomini era unicamente volta a ciò che conoscevano, l’ubbidienza e l’umiltà le sole armi di cui disponevano. Ritrovarsi in un ambiente ostile come quello del fronte sarà un’esperienza che non sapranno interpretare.

Come la caduta della neve, per esempio, vista nella vecchia vita come portatrice di riposo, poiché d’inverno la campagna è in periodo di stasi, e dunque una possibilità di pausa, ma in guerra la neve non ferma le armi, anzi aumenta i disagi con il ghiaccio e il freddo, in una indifferenza apatica che congela anche gli animi, ma che rimarrà dentro quegli uomini ben oltre la fine della guerra.

Andrea partecipa a battaglie e al tempo sfinito della trincea, ma ha un dio benevolo che lo protegge: il suo attendente, detto Riccio, abruzzese come lui, che lo salva in più occasioni. Riccio è una figura vivida, piena di umanità, con il quale De Pascalis vuole forse adombrare il carattere “forte e gentile” dell’abruzzese.

Quando torna a casa, Andrea è cambiato. Trova il divario tra la vita ordinata della sua infanzia e il caos maligno della guerra, del fronte, con la loro inesplicabile ineluttabilità. Si rende conto di quanto sia stato inutile partire, lui che aveva pensato potesse essere solo un modo per farsi accettare dal padre, ma tutto è stato inutile perché ha perso anche la sua Rosa, che nel frattempo si è sposata. Perfino a casa sua, sembra che non ci sia più posto per lui, non perché rifiutato ma perché è lui stesso a sentirsi fuori posto.

Eppure, in quegli anni, la sua gente ha continuato a vivere, e a morire, con un certo ordine naturale; a lui invece è toccata l’insensatezza della guerra, con il “lupo” che è rimasto dentro di lui perché non è semplice liberarsene e tornando padrone della propria umanità.

A casa, un’altra terribile prova è in attesa: la spagnola. La grave epidemia che ha falcidiato ila popolazione europea all’inizio del secolo scorso è come una seconda guerra. Il padre e la madre moriranno, e la sorellina Margherita, e lo zio Sigismondo, e molti altri servi e amici del paese. Sarà Andrea ad accompagnare ai funerali la sua famiglia, i Sarra che soccombono alla spagnola, come un pastore pietoso che porti le sue pecore al sicuro.

La vita continua a scorrere, ma nulla sarà come prima, anche se i membri superstiti della famiglia tenderanno a prendere il posto degli scomparsi: Camillo, il fratello maggiore diventato medico, somiglia allo zio Sigismondo, medico anche lui; la sorella Carlotta, con la cura maniacale per la casa, sembra la madre; e lo stesso Andrea, nei suoi silenzi, insoddisfazioni, delusioni, tristezze, sarà sempre più uguale a suo padre.

Ma in paese arrivano nuove figure tristi, che approfittano dei tempi per ottenere la loro parte nella Storia. Il mondo agricolo muta, con lo scomparsa di tanti personaggi che avevano riempito la vita semplice dell’infanzia di Andrea, come mastro Alfredo, il ciabattino, che temeva il silenzio ma amava la musica con cui poteva sconfiggerlo.

Nel corso del romanzo incontriamo anche figure storiche reali, in particolare artisti come Gabriele D’Annunzio, che Andrea conosce per caso in una pausa del conflitto, e Boccioni, di cui egli sente parlare da un collega ufficiale come di un genio artistico irripetibile – e questa è un’altra sacrilega conseguenza della guerra, che annulla le nobili aspirazioni e tutto quello che l’Arte può suggerire di alto, per deviare là dove la Storia conduce il destino degli uomini, attraverso vie faticose anche per lo spirito. Solo con la pace si potrà ricostruire poi, oltre che le città, anche il pensiero, con la trama dei progetti e la volontà di procedere nel bene comune.

Un romanzo commovente e corale, pieno di spunti, con un senso di concretezza quasi terrosa e vicina al passato, ma anche con la speranza nel futuro, con Andrea che, ritrovata una sua vecchia amica d’infanzia, ha il coraggio di intraprendere con lei una nuova vita.

Di fronte alla “pazzia di Dio”, che altro non è che la pazzia enigmatica dell’uomo che non si sa spiegare se stesso, forse possiamo solamente dispiegare, allo stesso modo degli antichi filosofi, la sospensione di giudizio, l’epochè, ripetendo con i contadini abruzzesi nel loro dialetto: «Chi c’appura?»

 
(Luigi De Pascalis, La pazzia di Dio, La Lepre Edizioni, 2010, pp. 302, euro 22)

“Molto rumore alla corte dei… buffoni” di Claudio Jankowski

Oggi e domani (21 e 22 maggio) presso il Teatro Greco di Roma va in scena Molto rumore alla corte dei… buffoni, un intenso spettacolo di Claudio Jankowski che rivisita Shakespeare in chiave ironica e contemporanea.

Al centro di tutto l’amore e la follia: sentimenti umani e universali, ma anche passione per il teatro, la finzione, il gioco e le combinazioni molteplici della vita.

Uno spettacolo che affianca ai topoi shakespeariani, l’originalità espressiva che da sempre contraddistingue i lavori di Jankowski, uno degli autori più interessanti dell’attuale panorama.

Grande merito va anche all’adattamento drammaturgico di Veronica Boscarello che riesce nell’intento di fondere i piani narrativi, le vicende e i personaggi, con arti performative disparate, quali la circense e la danza, in un unico grande vortice.

Tra personaggi classici dell’opera e altri ripresi qua e la da altri lavori sempre di Shakespeare (Puck, Oberon, Ariele, etc) si assiste a una narrazione grottesca e giocosa, dove il mondo della fantasia si incontra con quello della realtà, in un continuo rimando dialogico e allegorico.

Anche il trucco si fa maschera (come nella migliore tradizione di Jankowski) e l’attore diventa, al contempo, attore e spettatore.

Importanti le collaborazioni artistiche di cui si avvale, anche questa volta, lo spettacolo portato in scena dal Teatro Studio Jankowski; dagli elementi scultorei di Arte Vetrina Roma al trucco della scuola Ro&Ro, dagli allestimenti scenografici di Gianluigi Contesini e Francesca Galofaro alla splendida locandina di Lele Vianello, dalle musiche originali che accompagneranno l’intero spettacolo di Marco Raoul Marini, Andrea Castelli ed Andrea Ruscitto, all’affettuoso sostegno di Marisa Laurito.

Nel foyer del teatro saranno esposte alcune opere dell’artista Bruno Cannucciari.

Emozioni fortissime che assumono una luce ancora più chiara visto che, anche quest’anno, infatti, il ricavato degli spettacoli andrà a favore del Telefono Azzurro.

 

Molto rumore alla corte dei… buffoni
di Claudio Jankowski
21 e 22 Maggio
Ore 21.00
Teatro Greco, via R. Leoncavallo, 10 Roma

“Frida Kahlo” in mostra alle Scuderie del Quirinale

Le Scuderie del Quirinale ospitano fino al 31 agosto 2014 la prima mostra monografica organizzata in Italia su Frida Kahlo, in un progetto congiunto con il Palazzo Ducale di Genova. La mostra, curata da Helga Prignitz-Poda, ripercorre la vita artistica di Frida e i suoi contatti con i movimenti novecenteschi attraverso 130 opere provenienti da Messico, Europa e Stati Uniti.

Impossibile restare indifferenti davanti ai capolavori rivoluzionari di una delle donne più affascinanti del ’900, icona inconsapevole del femminismo contemporaneo, con i suoi baffi, le sue folte ciglia. Impossibile comprendere l’arte di Frida senza conoscere gli eventi drammatici che caratterizzarono la sua esistenza, senza aver conosciuto lo struggente amore che la consumò e il penetrante dolore fisico e mentale che la accompagnò durante la sua vita.

L’incontro con la pittura fu letteralmente fatale: in seguito a un incidente stradale che la obbligò a un lunghissimo periodo di convalescenza, iniziò a disegnare e dipingere autoritratti. Solitaria ed egocentrica scriveva nel suo diario: «Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio».

Le sue potenzialità si intuiscono sin dal bellissimo Autoritratto con abito di velluto (1926), dipinto a soli diciannove anni, per riconquistare Alejandro Gómez. Il matrimonio con Diego Rivera, il più importante pittore messicano dell’epoca, l’uomo a cui Frida fu legata tutta la vita da una passione travolgente, con il quale condivise oltre all’amore per la pittura anche la fede nel comunismo – la falce e il martello le ritroviamo disegnate anche sul corsetto che la castigò durante l’ultimo periodo della sua vita –, il viaggio negli Stati Uniti al seguito del consorte e le frequentazioni artistiche internazionali del periodo consolidarono il suo genio, permettendole di raggiungere una maggiore consapevolezza che si rivela completamente nel forte impatto icastico delle sue opere.
 


L’arte di Frida è contemporaneamente intima e realistica, simbolica e cruda, sempre sospesa tra due eccessi, tra la voglia di vivere e la morte, tra il dolore e la felicità, tra l’uomo e la donna. Frida attraversa i linguaggi avanguardistici del Surrealismo, del Modernismo messicano e del Realismo magico non perdendo mai di vista però le sue origini, le sue radici, valorizzando le tradizioni folkloriche e i costumi messicani.

I suoi quadri parlano, di solitudine, di dolore che attraverso la pittura riusciva a esorcizzare e sacralizzare come nel magnifico Autoritratto con collana di spine e colibrì del 1940. Questa collana le cui spine s’incuneano sotto pelle provocando profonde ferite e sofferenze non altera lo sguardo impassibile di Frida che, guardando avanti a sé, prosegue per la sua strada; fissando gli occhi dello spettatore ribadisce in quella sofferenza la sua dignità, la sua forza. La forza di sopportare. Il dolore fisico e i tradimenti di Rivera, che la devastarono più della malattia. Uomo grottesco ma carismatico e affascinante, Rivera riuscì ad ammaliare anche Cristina, la sorella di Frida. Dopo quest’ultimo tradimento lei decide di allontanarsi, ormai, distrutta come ogni osso del suo corpo. Scrisse: «Ho subito due gravi incidenti nella mia vita. […] Il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego».

La mostra curata da Helga Prignitz-Poda non si sofferma però in maniera morbosa sugli aspetti più intimi dell’artista messicana, si limita ad accennarli per rendere comprensibili le opere. Il percorso espositivo segue invece una linea cronologica, a cui si affianca la volontà di contestualizzare i dipinti, offrendo spunti e svelando fonti di ispirazione. Completano la mostra le celebri foto di Nickolas Muray dedicate a Frida ed esposte al piano superiore.
 


Frida Kahlo
a cura di Helga Prignitz-Poda
Scuderie del Quirinale
Fino al 31 agosto 2014
Qui maggiori informazioni.

“Festa d’amore” di Charles Baxter

L’idea di Festa d’amore è semplice: uno scrittore trascorre il tempo passeggiando nei boschi accanto alla sua casa come «quasi ogni giorno negli ultimi vent’anni». Forse cerca concentrazione, forse va a caccia di storie – la sua selvaggina è quella. Anche quando dovrebbe dormire non smette di camminare. Un amico gli fa notare che sembra un vagabondo, un teppista. E tutto questo non va bene. «TI ci vorrebbe un cane, un cane rende il vagabondaggio legale. Il cane lo legittima». Siamo in America, e gli americani hanno una loro visione delle cose che un europeo non capirà mai sino in fondo.

A ogni modo. L’amico sa che uno scrittore vive di tensioni tutte sue, peculiari. Così gli suggerisce che se è preda di un’impasse creativa forse sarebbe il caso di abbandonare la mera finzione – meglio, la mera invenzione di personaggi e storie immaginarie. E guardarsi intorno, dentro il loro tranquillo quartiere di un posto sperduto nel Michigan, fra caffè, centri sportivi e commerciali.

Charles Baxter, lo scrittore, che è anche il nome del vero autore del romanzo che noi leggiamo, ci pensa un po’ su. E poi decide che quell’idea semplice, persino banale, merita di essere saggiata. Ciò che deve fare è ascoltare, mettersi a sentire ciò che raccontano tizi e tizie dei paraggi, vedere se hanno qualcosa di interessante da dire, qualcosa di essenziale da raccontare sulla propria vita – vedere se funziona.

Scopriamo presto che Charles è un uomo fortunato: i suoi interlocutori sono bravi, ben disposti, non hanno grandi avventure o delitti da narrare, solo vite quotidiane (ancora una volta, persino banali, a meno di non considerare un’attrazione fatale fra lesbiche un prodigio, o il bisogno di un cane da compagnia un mistero) ma le raccontano bene. Se Kathryn non si sente amata a dovere e perde la testa per una donna a partire dalla bellezza dei suoi gesti di raffinata giocatrice di softball c’è da stupirsi? Se il marito non capisce perché viene mollato e si lega dannatamente a un cane per non soccombere alla solitudine e al dolore ci si può meravigliare? Quello che rende tutto amabilmente attraente è in realtà la capacità di Baxter (l’autore empirico questa volta) di intrecciare non solo storie ma punti di vista, sguardi diversi sulle stesse cose e persone che vanno e vengono e rendere perciò ragione della letteratura nel suo significato più profondo di approssimazione alla verità. Lo scrittore americano – per la prima volta tradotto in Italia per i tipi di Mattioli 1885 (dall’infaticabile Nicola Manuppelli) – lo fa lasciandosi attraversare da voci che scorrono una accanto all’altra e rimescolando continuamente le carte delle loro relazioni: perché di questo di stratta essenzialmente in Festa d’amore (romanzo di racconti in un certo senso), di storie d’amore, di rapporti felici e disperati, del desiderio-bisogno di amare e essere amati, dell’eterno ritorno di questa incancellabile condizione umana. C’è una leggerezza di fondo in questo libro, una dichiarata disponibilità a prendere il buono delle cose – per quante corna e travagli e meschinerie affliggano uomini e donne, per quanto la scrittura non si privi dell’affondo crudele; non è materia corrente nella letteratura seria ma in casi come questo è benvenuta.

(Charles Baxter, Festa d'amore, trad. di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 2014, pp. 300, euro 17,90)

“Helix” di Cameron Porsandeh

[Serie inedita in Italia]

In piena mid-season – ormai siamo vicini a fine anno, all’appello manca solo qualche ritardatario ma si possono cominciare a tirare le prime somme – ancora non vi abbiamo presentato tantissime novità. Abbiamo scavato sempre a fondo alla ricerca delle serie più pregiate del momento, ma questo anno sono venuti alla luce pochi tesori. Qualche capolavoro (largamente annunciato) si è palesato, come True Detective, ma non siamo stati certo noi a scoprirlo. Molte altre serie, come consuetudine, sono scomparse dalla programmazione in un battito di ciglia, al massimo in alcuni casi giunte per inerzia al finale di stagione. Capita di giocare sempre più col fuoco a furia di azzardare con le idee innovative. Capita anche di andare sul sicuro riproponendo schemi in grado di fare presa sul pubblico, e riuscire a fare risultato. Parliamo ad esempio di Helix, l’ultimo successo targato SyFy.

“Play God, pay the price”. Cosi ci è stato presentato lo show fin dal primo momento. Le vicende infatti partono da alcuni dottori del CDC (il centro di controllo delle malattie americano) pronti a partire alla volta dell’Artico per indagare sul pericolo dello scoppio di un’epidemia in una stazione in cui si effettuano ricerche ed esperimenti biochimici. Ora, rimanga tra noi: dopo anni ed anni di serie TV, non avete avuto quel piccolo sussulto da “potevo farlo anch’io?”. Con una premessa simile difficile pensare nel nuovo capolavoro del genere.

Ed infatti Helix non vuole e non deve essere questo. Troppo spesso, forse, ci è capitato di cercare serie capaci di stupire e di entrare nell’Olimpo dei migliori. Ma indubbiamente la componente intrattenimento deve avere la sua parte, e in questo caso ci riesce perfettamente. Nonostante una scena continuamente chiusa e fissa (tutta la prima stagione si svolge all’interno dell’istituto all’Artico) e alcuni cliché sia per quanto riguarda lo sviluppo narrativo, sia per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, la serie riesce a tenere “incollato” lo spettatore allo schermo grazie soprattutto ai continui cliffhanger (per i digiuni di questi termini il classico colpo di scena di fine episodio in grado di tenere tutti sulle spine). Giunti a fine puntata scatta il desiderio di scoprire cosa avranno da offrire le ore successive.

Per aggiungere un po’ di pepe a quanto detto fino ad ora, va sottolineato come praticamente tutti i personaggi tramino qualcosa di nascosto o abbiano un segreto da nascondere. Non ci saranno intrecci alla Twin Peaks, non ci saranno rivelazioni alla Lost – ma occhio al dottor Hatake, al secolo Hiroyuki Sanada, già presente proprio nello show di J.J. Abrams –, ma la situazione sarà un continuo divenire spesso imprevedibile. Sulla trama meglio non dire altro, sia perché può bastare quanto raccontato finora, sia perché in una serie che punta cosi tanto sui colpi di scena ogni rivelazione potrebbe essere inutile se non dannosa.

Come al solito, il successo in questo caso è avvalorato dalla rapida conferma per una seconda stagione che sarà il vero banco di prova per lo show, “costretto” ad uscire dai confini dell’istituto per, chissà, farci girare il mondo assieme ai protagonisti. Di questi tempi aver passato la crudele sfida del primo anno va festeggiata come una vera e propria vittoria.

Bisogna cercare di fare chiarezza e di ripetere di non cercare in questa serie i vari Black Mirror, Utopia o Les Revenants. Sorvolate anche, se possibile, su alcuni difetti come una computer grafica a tratti “approssimativa”. Helix non è la classica “the next big thing”. Ma è vero intrattenimento, è una serie classica e lineare, dove i colpi di scena hanno la meglio sulla trama in sé. Staccate dai vostri impegni, interrompete la ricerca del prossimo capolavoro e “divertitevi”. Alla fine è proprio vero, spesso le idee più semplici sono le migliori.

 

“Le meraviglie” di Alice Rohrwacher

Secondo film per Alice Rohrwacher che tre anni dopo essere passata con Corpo celeste nella Quinzaine des Réalisateurs ingaggia la diva internazionale Monica Bellucci e calca il tappeto rosso del concorso ufficiale del Festival de Cannes con Le meraviglie.

Ci sono dei fari, che come occhi si muovono nel buio. È campagna e silenzio tutto intorno. In una casa una luce si accende, delle bambine parlano. La casa si anima, si svegliano i genitori. Il padre dorme sul divano, dice alla figlia grande di andare a cambiare il secchio, poi si sposta a dormire su una branda in giardino. Il secchio è quello del miele. Sono apicoltori, è il padre, Wolfgang, che lo impone. Tedesco trapiantato nel cuore etrusco d’Italia, porta avanti la sua convinzione contadina trascinando tutta la famiglia. È l’unica cosa che conta, il miele, l’unico centro di attenzione e l’azienda l’unica cosa per cui valga la pena fare dei sacrifici. Come accogliere in casa Martin, quattordicenne in prova dal riformatorio per farlo lavorare, muto e distante da tutti, o assecondare il sogno stupido della figlia di provare un concorso televisivo patrocinato da una fata con i capelli d’argento che fa vincere un sacco di soldi.

È un immaginario semplice, quello messo in scena da Le meraviglie, infantile come è giusto che sia passando per il filtro di Gelsomina, nome di fiore in un mondo di api, interpretata dalla sorprendente bambina Maria Alexandra Lungu. Alice Rohrwacher attinge dal proprio passato e dalla propria storia (figlia di tedesco trapiantato in centro Italia con agriturismo e allevamento d’api) chiamando sua sorella Alba a fare la madre, il centro intorno a cui gravita una famiglia anomala, per raccontare una dimensione rurale che troppo spesso ci si dimentica ma che ancora esiste e ancora è fondamentale nel concetto di tradizione. L’interesse è nella narrazione di realtà esistenti ma marginali nell’idea generale del paese. Girato tra Grosseto e Siena, è fortemente legato al territorio italiano e alla tradizione locale, ma lo stile di Alice Rohrwacher non localizza ma eleva a condizione internazionale, superando tentazioni alla Olmi per volgere lo sguardo oltre i confini.

È emblematico che Wolfgang (il belga Sam Louwyck) sia solo a lottare per conservare la dignità rurale, senza intrusioni turistiche e illusioni d’agriturismo, mentre intorno a lui si cerca di allargare l’orizzonte. Wolfgang difende un’idea di campagna pura che non ha bisogno dell’idea di nazione, del progresso, delle norme igieniche, di consorzi e diserbanti. È il contatto con la natura costante, quello che cerca, a costo di sacrifici, di condannare e relegare le figlie in una condizione contadina non voluta ma imposta. Gelsomina è curiosa come la sua età impone, vorrebbe essere come la fata con i capelli d’argento di Monica Bellucci o vivere tra le canzoni di Ambra e le mille e semplici normalità della sua amica del cuore, ma cerca il consenso costante del padre lavorando con lui.

L’intrusione del mondo esterno (Martin, soprattutto, ma anche il sogno televisivo), sovverte l’ordine delle gerarchie, rivelando il padre dipendente dalla figlia, la figlia disperatamente alla ricerca di un’autonomia, e la madre paziente raccordo, chiamata incessantemente dalle quattro figlie, mentre la sorella di Wolfgang, anomala tra gli anomali, agita adolescenze e ribellioni.

La fine delle illusioni, con la stanchezza svelata da una parrucca rimossa, e del sangue e del miele versato, lascia una famiglia unita su un letto all’aperto, con un cammello di guardia, a cercare ogni giorno di costruire e difendere la propria normalità.

È una realtà che sta per finire, quello di Wolfgang e di Le meraviglie, come le api che ogni anno sono sempre di meno senza un motivo, senza nessuno che stia ascoltare il lamento di un mondo che si vuole ancora che sia fatto di canti tradizionali e nonne sorridenti.

Alice Rohrwacher, unica italiana e unica donna nella selezione ufficiale insieme alla giapponese Naomi Kawase, alza il livello dopo Corpo celestee si mostra consapevole e capace, pronta a immagini evocative, in possesso di un linguaggio proprio che coniuga verismo e magia, semplicità e simbolo.

(Le meraviglie, di Alice Rohrwacher, 2014, drammatico, 110’)

“Il sale della terra” di Józef Wittlin

La guerra – che sia la Grande Guerra  cambia poco –, costante secondo molti inevitabile della storia umana, come fosse consustanziale alla sua famigerata “natura”, vista dagli occhi di un povero cristo, grottesco, imbranato assai, per niente attrezzato nemmeno dal punto di vista fisico: Il sale della terra, romanzo del 1935 di Józef Wittlin(Dmytrów, 1896-New York, 1976) racconta questo. E nei momenti migliori lo fa nella chiave poetica che ci si può aspettare dalla premessa: una percezione tragicomica della sciagura che apre e ci fionda verso l’abisso di una violenza prima psicologica e morale che sanguinaria. La guerra, la sua organizzazione, la costruzione stessa di un apparato militare si disegnano, ben prima che la parola diventi un paradigma della storia novecentesca, come un plumbeo frame totalitario. All’interno di questa cornice difatti si strutturano definiti rapporti fra il potere, la macchina bellica e le masse di disgraziati costretti a prendervi parte.

Che sia in certi momenti sgangherata – pensiamo all’esercito italiano – non cambia nulla, anzi; ne è un esempio il caso del più che subordinato Piotr Niewiadomski, protagonista del romanzo, che mostra come i rapporti con i suoi superiori non siano altro che una via sicura per vivere nel terrore. «Lo sapete cosa facciamo adesso ai disertori?», dice il gendarme incaricato di annunciargli che è arrivata l’ora di lasciare la sua avventizia occupazione di casellante (sarebbe in realtà un pastore) per andare a servire l’impero asburgico. «Procedimento sommario e una pallottola nel cranio», aggiunge. Piotr cerca di riprendersi dallo sgomento; il gendarme gli aveva appena letto l’incipit del foglio fatale: «Il signor Piotr Niewiadomski deve presentarsi alla visita di controllo», e quel “signore” gli era parso una tale lusinga.

Personaggio assimilato dalla critica allo Sc’veik di Jaroslav Hašek, declinazione pauperistica e miserabile dell’idiota dostoevskijano, emerge da questa traduzione di Silvano De Fanti (autore anche di una preziosa introduzione) non tanto come un “semplice” in cui riporre le sole possibilità di salvezza dalla ferocia dei potenti che della guerra sono responsabili. Il candore che lo contrassegna, intriso di distorsioni contadine cui si aggrappa per cavarsela nella durezza del mondo (fuori dalla sua portata) non è la premessa di una qualche redenzione ma la carne debole su cui un’epica tronfia e allucinata può dettare legge. Il corpo sottomesso, piegato e piagato alle necessità belliche è innanzitutto materia cerebrale, ferita psichica e biologica: «all’improvviso la parola guerra fece una capriola nel suo cervello e cadde dentro l’aorta. L’avrebbe fatta scoppiare se il sangue non l’avesse trasportata al cuore. Da lì si aprì un varco verso la pancia e qui si esaurì con un dolore acuto, come una trafittura di spada». Milioni di corpi sono assoggettati all’arbitrio di un dominio che prima di manifestarsi nella violenza fattuale delle armi si esercita con il senso di una minaccia costante, opprimente – totalizzante, appunto.

E la prosa di Wittlin nel tentativo di dire tutto sembra rischiare, come si vede, esiti retorizzanti, ma tiene all’erta i sensi con passo robusto, di grande impatto plastico, che pur non lesinando aggettivazione sontuosa, enumerazioni reiterate, e nella traduzione persino una spiccata sensibilità fonica, si mantiene credibile, capace di sondare in profondità e con satirica intelligenza la tragedia della guerra. Cui l’autore oppone una prudente, perplessa speranza francescana e pacifista che l’ironia mai banale sorveglia da una distanza che è solo di chi ha molto vissuto e imparato senza abbracciare la noia mortale del cinismo.

Uscito nel 1935 e concepito come primo di una trilogia, il libro esce nella collana di classici centroeuropei Gli anemoni della casa editrice Marsilio. Cosìl’ebreo galiziano di lingua polacca Józef Wittlin trova un suo degnissimo posto nella ricezione italiana di quella strepitosa congerie culturale che con il nome di Mitteleuropa segna di una fascinazione senza pari la prima metà del Novecento.

(Józef Wittlin Il sale della terra, a cura di Silvano De Fanti, Marsilio, 2014, pp. 398, euro 23)

Micah P. Hinson live @Circolo degli Artisti, 16 maggio 2014

Appena sale sul palco, Micah P. Hinson mostra in contemporanea tutta la sua fragilità e tutta la sua grandezza. Il passato e il presente nella figura, nelle movenze. Il fisico minuto, il volto reso adolescenziale grazie agli occhiali dalla grossa montatura, gli orecchini e il ciuffo ingelatinato all’indietro. Il gilet da punk, i tatuaggi. Ma soprattutto quel bastone che lo accompagna durante l’ingresso mentre il boato lo abbraccia. Un bastone che ricorda il terribile incidente automobilistico a cui è sopravvissuto: anche le braccia ne sono rimaste coinvolte, e lui stesso racconterà qualche aneddoto dell’accaduto durante il concerto.

Il Circolo degli Artisti, è pieno. Dog Byron ha fatto una bella apertura, scaldando ancora un di più il già estivo clima all’interno del locale. Ma il pubblico – fedelissimo e innamorato – è tutto per Micah, che mi raccomando si pronuncia Maica. Per chi ascolta un certo tipo di musica, indipendente, libera e lontana da tutte le convenzioni commerciali e stereotipate, sapere che esiste un pubblico che segue con tanto interesse ed affetto un personaggio così unico e particolare è una bella soddisfazione.

 

 

Con fare barcollante, Hinson imbraccia la chitarra elettrica e fin da subito inizia a raccontare le sue storie, tra Dio e Bellezza, dolore e furia. E subito il pubblico può ascoltare un brano immenso come “The Life, Living, Death And Dying Of One Certain And Peculiar L.J. Nichols“, tratto dall’ultimo capolavoro And the Nothing. Il ritornello dedicato al nonno è di una struggente meraviglia. Dal vivo le canzoni sono scarne, essenziali: voce, chitarra. Una chitarra che a fine brano tende a sfogarsi in assoli noise.

Poi entra una donna e si siede alla batteria. Hinson la presenta come la sua bellissima moglie, e chiede un applauso. E’ Ashley Bryn Gregory, immortalata più di una volta negli scatti delle copertine dei dischi del marito. Ashley è l’angelo custode di Hinson: lo si percepisce al volo, ascoltandolo anche nei momenti in cui lo accompagna vocalmente nei brani. Una rarità per i fan, che dimostra come il nostro Micah abbia ben saldi i modelli non solo a livello musicale: la proposta di matrimonio è stata “servita” alla sua Ashley sul palco alla fine di un concerto a Londra del 2008, proprio come fece un certo Johnny Cash.

I pezzi forti dell’ultimo disco ci sono tutti: “On The Way Home (To Abilene)“, “I Aint Movin“, “Good is God“, “The Same Old Shit.” Hinson si mette anche alla tastiera e sembra scegliere i pezzi leggendo sull’agenda bianca poggiata vicino ai tasti. E’ a suo agio, ringrazia il pubblico per la fedeltà, scherza e sorride. Risponde anche agli insulti di qualche patetico frustrato. Racconta dell’incidente alle braccia, del medico e dei suoi miracoli, dei nervi distrutti e quindi prima di imbracciare la chitarra acustica per folk fulminante, non perde tempo a sgranchire le dita. Il concerto prosegue, e Hinson intona – tra una smorfia e l’altra – anche i momenti più alti del capolavoro And the Gospel of Progress, come “Beneath The Rose“. Da segnalare anche la chitarra, con la stampa della copertina del disco sotto le corde e gli adesivi Fuck You, Im Batman e soprattutto This Machine Kills Fascists.

Ci sono i bis, c’è ancora tempo per i brividi. E con non poca sorpresa, Hinson rientra sul palco per dire che se qualcuno vuole un autografo, lui l’aspetta sotto il palco. In un concerto bellissimo, il pubblico di Roma ha avuto modo di riascoltare e di ammirare la cristallina bravura di un cantautore ormai già nel mito e nei cuori dei sempre più numerosi fan.

A presto, Micah.

“Il sonnambulo” di Valerio Aiolli

Un salto indietro nel tempo di vent’anni, un ritorno alla vituperata Prima Repubblica, ai suoi vizi e alla sua corruzione: con Il sonnambulo (Gaffi, 2014) Aiolli ci porta indietro verso alcuni degli anni più dibattuti della storia italiana.

Il romanzo narra di due amici, Leonardo e Corrado, che, dopo essere cresciuti insieme, dopo essersi persi e dopo essersi ritrovati, raggiungono i vertici della Alutec, una società di proprietà statale, proprio quando lo Stato sembra essere l’istituzione più fragile di quei primi anni Novanta che, con le loro tinte sbiadite, la loro corruzione e la loro incertezza, fanno da sfondo alle vicende narrate. “Narrate”, forse, è un’esagerazione: il libro ci colpisce, infatti, per la quasi-assenza di narrazione, per il fatto che potrebbe essere definito da una sola parola, “attesa”. In effetti, sia Leonardo sia Corrado attendono una nomina alle poltrone più alte della società in cui lavorano; le loro mogli attendono un cambiamento nelle loro vite, consolandosi, nel mentre, con storie di sesso più o meno occasionale che le lascia non del tutto soddisfatte; Monica, l’amante di Leonardo, invece, ha vissuto nell’attesa che lui si decidesse finalmente a diventare a tutti gli effetti il suo compagno, ma se lo vede rubare dall’ultima arrivata, Carla, che impareremo a conoscere durante la lettura e che scopriremo essere un personaggio a sua volta in attesa, in attesa questa volta di un colpo di scena preparato con cura.

La figura di Leonardo sembra di particolare interesse e risulta molto ben definita, figlia del suo tempo o, per essere ancora più precisi, rappresentativa di quel particolare momento storico: scolorita dal trascorrere del tempo, delusa dalla vita che gli ha negato un figlio o una figlia, attaccata al denaro e facilmente corruttibile. In mezzo allo scandalo Mani Pulite, non riesce a comprendere a fondo la rivoluzione e il cambiamento radicali che la società italiana è sul punto di subire e sta effettivamente subendo, e si presta così a una mera prosecuzione delle attività illecite della Prima Repubblica, alla cieca dedizione al partito, alla troppo tardiva conversione a un controllo dei conti e del denaro sporco che lo inghiottirà e avrà in breve la meglio su di lui. Lui, che non è che un sonnambulo, come recita il titolo. Riferendosi ai difficili anni Novanta, e paragonandoli a quelli del terrorismo, infatti, Aiolli dice di Leonardo che «mentre il terrorismo non lo aveva riguardato […], oggi sentiva di essere una parte del gioco. Una parte magari periferica, poco importante, di un gioco cui aveva però partecipato in prima persona, e non per seguire un qualsiasi tipo di sogno, ma con l’automatismo e l’irresponsabilità di un sonnambulo, capace di camminare su un cornicione e di non ricordare niente al risveglio». L’errore sarà proprio quello di risvegliarsi. Troppo tardi, o forse troppo presto, ma pur sempre di risvegliarsi.

Il presente e il passato narrativo si intrecciano continuamente nelle pagine del libro, mostrando un mondo che vuole cambiare e definirsi diverso, senza riuscirci. Col cosiddetto senno di poi, anche noi lettori possiamo individuare nel romanzo una specie di attitudine gattopardiana a causa della quale tutto sembra cambiare, senza poi farlo veramente. Il mondo che ci viene presentato si avvicina molto a una critica del Paese contemporaneo, dove ha la meglio, purtroppo per Leonardo, chi ha più soldi, meno scrupoli, e più fegato; per il risentimento, specie se tardivo, non c’è spazio. È sempre il protagonista a scoprirlo per noi, suo malgrado, nelle ultimissime righe del libro, dove la freddezza con cui Aiolli chiude il sipario sul suo romanzo non può lasciarci indifferenti, soprattutto per la piega inattesa presa dai fatti.

(Valerio Aiolli, Il sonnambulo, Gaffi, 2014, pp. 253, euro 15,90)

“Il re bianco del Madagascar” di Francesco Grasso

Francesco Grasso ci narra la vera – consentitemi la parola dissonante con la natura di bugiardo naturale del nostro eroe – storia del suo antenato leggendario, Il re bianco del Madagascar (Ensemble editore, 2013): il capitano Francesco Claudio Maria Bonetti.

Si dice di generazione in generazione che costui lasciò ai suoi eredi 75 milioni di sterline presso la banca nazionale d’Inghilterra. Un’eredità che molti hanno reclamato ma di cui nessuno ha goduto.

Scaltro e curioso fin da bambino, poco intento ai lavori manuali ma amante della letteratura, Bonetti scappa da Villabate, una realtà troppa piccola per la sua fervida immaginazione, e salpa quasi diciannovenne da Sciacca andando alla ricerca di se stesso e seguendo quel richiamo che lo condurrà sempre verso Sud. In una notte nera e senza luna Bonetti inizia a definire la sua filosofia di vita: «Il dono della parola, che fin da bambino avevo scoperto in me, mi sembrava una virtù troppo preziosa per limitarla al solo racconto degli eventi reali. A quello erano buoni tutti. No, la vera potenza della parola si dispiegava nella narrazione di ciò che non era stato».

Il nostro Bonetti si sente investito del gran ruolo di cantastorie, ne percepisce quasi l’obbligo, a volte il dovere morale di deliziare i suoi ascoltatori, solo, con ciò che vogliono udire. Inizia così a interpretare un’infinità di maschere e ruoli.

Contrabbandiere al soldo di Giorgio III tra il XVII e il XVIII secolo, issa la Jolly Roger solcando l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano vivendo insieme alla sua ciurma di stenti e di assalti. Lanciandosi alla conquista del Madagascar senza riuscire a rispettare i miti e i dei locali, ma comportandosi da padrone in una terra dove è ospite, distruggendo e deridendo la cultura autoctona per imporre la propria.

Dopo aver passato una vita a scappare e conquistare, in fuga da Tananarive, nuovamente in esilio in una piovosa e ignota Calcutta, è obbligato a concedersi un momento di riposo, smette di guardare oltre, rivolge il suo sguardo al passato per occuparsi della sua eredità, di ciò che verrà narrato del grande Capitano Bonetti. Si abbandona, stanco, al silenzio della penna. Forse queste memorie sono il punto di incontro di mondi diversi, tra un Nord, crudelmente civile e un Sud, selvaggiamente sfruttato, in cui Bonetti cerca di inserirsi rimanendone con ogni sforzo escluso.

Un esiliato non può far altro che ripudiare le sue radici cercando solo dopo aver perso tutto affidare a quelle radici la sua storia.

Il Capitano, ormai cambiato dal tempo, decide di lasciare un canto alla materna sua terra, un’orma nel silenzioso passaggio della storia. Bonetti si riscatta socialmente, storicamente e moralmente con questo testamento. Spera forse, come i grandi eroi epici, che la poesia canti le sue gesta e la sua infelicità. E forse il suo volere non è rimasto insoddisfatto grazie all’incantevole libro di Francesco Bianco. Un libro leggero e assolutamente da leggere.


(Francesco Grasso, Il re bianco del Madagascar, Edizioni Ensemble, 2013, pp. 296, euro 16)

“Grace di Monaco” di Olivier Dahan

Ha inaugurato la sessantasettesima edizione del Festival de Cannes Grace di Monaco di Olivier Dahan, film biografico sugli anni chiave della vita di Grace Kelly, diventata Grace di Monaco dopo il matrimonio con Ranieri Grimaldi, sovrano del piccolo principato, tra tentazioni hitchcockiane di ritorno a Hollywood e ragion di stato e di famiglia.

Siamo nel 1962, sono passati ormai sei anni dal matrimonio del secolo. Grace ha il titolo di principessa ma ancora non si è abituata al protocollo e al ruolo. Preferisce comportarsi come le viene naturale, da donna libera, americana in un mondo vetero-europeo. A Grimaldi piace per questo, finché però la crisi internazionale (la minaccia francese di annessione per far cassa di fronte alla costosa guerra algerina) non autorizza il rimpianto di una consorte più tradizionale, pronta a porsi al suo fianco anziché lasciarsi sedurre dall’idea del ritorno sul set per interpretare una ladra frigida nel Marnie che l’amico Hitchcock sta progettando. Grace si trova quindi a dover scegliere, per la prima volta dubbiosa, tra rimanere con i figli al fianco di un marito assente e risucchiato dall’impegno di governo o fare ritorno oltreoceano, dove un mondo più noto e più suo la aspetta.

Quando tocchi un’icona è inevitabile andare in contro a polemiche, o quanto meno a perplessità. Quando l’icona è regale il rischio aumenta. Grace di Monaco è stato contestato e ripudiato dalla Casa Grimaldi quando era ancora solo un’idea. Si è dovuti ricorrere all’espiediente del chiarimento iniziale – “storia di finzione ispirata a fatti reali” – per evitare ulteriori e spiacevoli conseguenze.

Il senso del film è nella citazione iniziale della vera Grace Kelly, su sfondo nero: «La vera favola è credere che la mia vita sia una favola». Per il regista Oliver Dahan e lo sceneggiatore Arash Amel la vita di Grace ebbe molto poco di favolistico, almeno nei suoi primi anni monegaschi. L’isolamento di una donna straniera in un mondo di convenzioni, senza amici se non un prete statunitense e un marito distante sempre preso dal lavoro inquadrano subito Grace come “principessa triste”, in una immedesimazione a ritroso con la più celebre sovrana infelice Lady Diana. Solo Maria Callas la capisce, anche lei libera e restia a lasciarsi sottomettere dall’uomo Onassis che ha attraccato lo yacht a Montecarlo ed è rimasto a consigliare Ranieri.

La tristezza di Grace, però, non è solo esistenziale. C’è una dimensione politica più alta che coinvolge l’Europa e la spinge vicino a Ranieri, tra congiure di palazzo e pressioni internazionali.

Incerto tra la vita pubblica e il tormento privato, Dahan sceglie una via di mezzo che sviluppa approssimativamente le direzioni dell’indagine. Da principale nemica, per dire, la funzionaria di corte Madge diventa la migliore delle alleate, da infelice e anelante il ritorno a Hollywood al riparo sul set di Hitchcock, Grace diventa la principessa per eccellenza, mondana, cordiale, vicina al suo uomo e attenta a tutto. Non ci si accorge del momento delle trasformazioni semplicemente perché non vengono mostrate. A Grace bastano pochi minuti di colloquio col prete Tuck per abortire il sogno di mantenere la sua identità e concepire l’idea di interpretare definitivamente il ruolo di Grace di Monaco, un tempo nota come Grace Kelly. Segue rassegna stereotipata del difficile percorso per diventare signora di corte (ma parliamo comunque di un’attrice da sempre celebrata per l’algida eleganza, ghiaccio bollente, per dirla con Hitchcock, e va bene che ha vinto l’Oscar facendo La ragazza di campagna, ma non è che fosse proprio una donnetta, di base) e la trasformazione in perfetta sovrana che stupisce ancor più degli strappi al protocollo.

È difficile ipotizzare che sia bastato un discorso al ballo della Croce Rossa per risolvere una tensione internazionale protratta per mesi. Dahan ce lo vuole far credere contando esclusivamente sul carisma della sua Grace, Nicole Kidman, alle cui lacrime, ancor più che alle parole, lascia il compito di convincere almeno lo spettatore, se non De Gaulle, della possibile bellezza della bontà.

Tra melodramma e congiura, guardando a Hitchcock, che quando appare interpretato da Roger Ashton-Griffiths fa respirare, e al destino finale della principessa (la corsa in macchina sulla litoranea, tra Caccia al ladro e l’incidente dell’82), Grace di Monaco indossa un abito impeccabile ma la temperatura del ghiaccio non raggiunge l’ossimoro del bollore. Gli era andata meglio, a Dahan, con Edith Piaf e La vie en rose.

 

(Grace di Monaco, di Olivier Dahan, 2014, biografico, 103’)

 

“Balkan pin-up” di Dušan Veličković

Bastava essere un bambino nei primi anni ’90 del secolo scorso, e sentire nei diversi telegiornali la parola Jugoslavia, per capire che nel mondo di là dal proprio, quello dei giochi, accadevano cose di cui, comunque, anche crescendo, difficilmente si sarebbe venuti a capo. Il bambino si sarebbe poi in parte ricreduto, e avrebbe scoperto, con Franco Volpi, che «c´è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo».

Friedrich Wilhelm Nietzsche, caro a Volpi, muore nel 1900, lasciando spazio a un secolo che ha assistito – in una paradossale impotenza scaturita dall’eccesso delle proprie responsabilità – al farsi ideologia dell’idea, a ben vedere anticlimax dell’umana ragione, del quale, come è noto, Dostoevskij ha dato esemplare e irripetibile rappresentazione ne I demoni, dove, citando il Vangelo di San Luca, è scritto in esergo: «Usciti adunque i demoni da quell’uomo, entrarono nei porci, e la mandra si scaraventò dal precipizio nel lago e annegò».

Balkan pin-up (Zandonai, 2013) di Dušan Veličković racconta la storia dei Balcani a partire dall’anno di nascita dell’autore, il 1947. È una narrazione che sa di vita vissuta in prima persona piuttosto che di un susseguirsi di eventi da pagine di annali. La storia diviene in Veličković un inevitabile e ingombrante ricordo, tanto da portarlo a chiedere alla propria memoria la chiave che della storia stessa restituisca la vicinanza immediata a ciò che è effettivamente stato: Veličković ripensa al padre imprigionato per un solo giorno, reo di aver espresso un’opinione lesiva della realtà politica del suo Paese; all’amico Radovan, finito nel campo di prigionia di Goli Otok e pestato ripetutamente con un pentolino di metallo; al tempo trascorso in Germania, quando Veličković ebbe modo di stringere un profondo legame con Zoran Đinđić, il quale sarebbe divenuto, nel 2001, il primo premier della Serbia democraticamente eletto, e poi, però, purtroppo assassinato; ripensa a Slobodan Milošević, e all’eco delle barbarie che ancora oggi risuona a pronunciarne semplicemente il nome.

E si arriva al 28 giugno 2013, a un vento forse diverso, quando il Consiglio europeo decide di aprire i negoziati per far sì che la Serbia aderisca all’Unione europea.

Il resto, che in Balkan pin-up non c’è, è cronaca dei giorni nostri.

Dušan Veličković occupa senza alzare la voce – e ne avrebbe invece ben donde – la prospettiva di chi, con dolore, potrebbe ripetere agli astanti: io c’ero.

Si dice che la memoria, perché non si svilisca, abbia bisogno d’esercizio. E libri come Balkan pin-up, quindi, non guastano mai. Reduci da un secolo gravido di fanatismo, dovremmo ora pensare all’altra faccia della luna, laddove relativismo e nichilismo non attecchiscono mai, anzi; e forse, invece che annegare a causa delle idee, con le stesse giocare, come insegnano i bambini e alcune tra le più splendide manifestazioni delle avanguardie artistiche di quel secolo che, si diceva, sì, è stato, ma che sembra ancora, a oggi, tornare a essere, troppo.


(Dušan Veličković,Balkan pin-up, trad. di Sergej Roić, Zandonai, 2013, pp. 151, euro 13,50)