“Il grande Flebosky”, regia di Gigi Piola

Marc Augé descrive l’ospedale come un non-luogo, ovvero come uno spazio che ha la prerogativa di essere non identitario, astorico ed emotivamente asettico. È nel tentativo di ribaltare questo concetto che Il grande Flebosky trova il suo senso profondo e, sfuggendo alla tentazione di fare demagogia contro lo scandalo della malasanità, che nel nostro Paese è un argomento all’ordine del giorno, esplicita la capacità dell’essere umano di affrontare con coraggio anche la più difficile delle prove: la malattia.

Il grande Flebosky è in guerra con se stesso, con il suo corpo, eppure, nonostante debba combattere questa guerra sul più sterile dei campi di battaglia, riesce a individuare e superare tutti gli ostacoli che si frappongono tra sé e la guarigione. Non solo fisica, s’intende, ma anche quella psicologica, perché Il grande Flebosky, armato di ironia e levità, traccia mappe su mappe per non permettersi di sfuggire a sé stesso, per non perdersi o ingrigirsi, per scampare la morte convinto che non si smette di vivere quando si muore, ma si muore quando si smette di vivere.

Il riso è la chiave e non si tratta del riso lieve generato dall’ironia sottile, né della risata contenuta e intelligente dovuta alla battuta complicata; al contrario, giochi di parole, freddure, battutine e battutacce e nomignoli evocano una comicità immediata, rumorosa, sostenuta da frequenti richiami diretti al pubblico, ammiccamenti e una mimica accattivante. Ridere forte, quindi, e ridere bene, di pancia. Ridere della malattia per curarla, ridere della morte per scacciarla, ridere dell’ospedale per farlo proprio, per dare un nome che abbia un senso ai medici, alle infermiere, ai luoghi, ai parenti in visita e alle malattie. Ridere per sopravvivere.

Tra i pochi elementi di una scenografia semplice, pochi separé su ruote, un efficace disegno luci e le rapide comparse di due caratteristi di eccellente bravura, si svolge quindi un monologo dalle potenzialità importanti, capace di sfidare con pochi semplici cambi sillabici il carcere di micro-strutture linguistiche che, per dirla con Foucault, fanno del malato un «corpo docile».

Eppure è davvero un peccato che tante promesse siano alla fine tradite. Pistoia si dimostra eccellente nel creare l’atmosfera, coinvolgente, accattivante, ma sale in palcoscenico con il copione, si interrompe quando distratto, cede al pubblico il ruolo del suggeritore e, anche a voler concedere il beneficio del dubbio che l’errore sia calcolato e la tensione spezzata ad arte, l’improvvido intervento dell’incaricato suggeritore che spezza il pathos e passa all’attore la battuta durante una pausa a effetto nel discorso, risponde all’interrogativo dello spettatore che si stia chiedendo se il tradimento del patto tra attore e pubblico sia studiato o meno.


Il grande Flebosky
Tratto da Storie di ordinaria corsia di Fabrizio Blini
regia di Gigi Piola
con Nicola Pistoia


Prossime date
Roma – Teatro dei Conciatori, dal 6 al 25 maggio2014

“Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna” di Giorgio Terruzzi

Che le vibrazioni non fossero quelle giuste in quel week-end di Formula Uno, a Imola, a cavallo tra aprile e maggio del 1994, lo si capì quasi subito, già al venerdì, durante le prove libere nel momento in cui l’auto di un giovane pilota brasiliano, Rubens Barrichello, giunta alla Variante bassa, prese un cordolo come una rampa e decollò fino a sbattere contro le protezioni per poi atterrare e capovolgersi; il ragazzo sopravvisse ma che Dio non si fosse solo distratto un attimo, ma che fosse in vena di capricci, come scrive Giorgio Terruzzi in Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna (66thand2nd, 2014) nella collana Vite Inattese, se ne ebbe la certezza già il giorno successivo, durante le qualifiche ufficiali quando l’ultimo arrivato, il trentaquattrenne austriaco Roland Ratzenberger sbatté violentemente all’altezza della curva Villeneuve. Un impatto devastante, a oltre 300km/h. Le immagini non lasciarono molte speranze e neppure l’affannarsi dell’equipe medica guidata da Sid Watkins riuscì, stavolta, a cambiare il corso del destino. Il paddock intero si raggelò e scese sul circuito una cappa di tristezza. Lo show però doveva andare avanti. Troppi interessi, troppi soldi…

Ayrton Senna aveva iniziato quel 1994 in sordina. Nelle prime due gare due ritiri. Zero punti. Un giovane e ambizioso tedesco di nome Michael Schumacher era il leader del mondiale. Al pilota brasiliano, l’indiscusso numero uno dopo il recente ritiro dalle corse di Alain Prost, non piaceva questo ragazzotto. Probabilmente, nel suo intimo, rivedeva persino sé stesso nel teutonico. Entrambi, certamente, non difettavano né di arroganza né di spavalderia e, soprattutto, di talento. Proprio per questo il tre volte campione del mondo, giunto alla terza gara del Mondiale, non poteva più permettersi alcun errore. Adesso guidava anche la monoposto migliore, la Williams; una vettura che negli ultimi due anni aveva permesso di vincere il titolo prima a Mansell e poi al suo arcinemico Prost, l’uomo delle mille battaglie sin da quel lontano 1984 a Montecarlo, sotto il diluvio, la gara in cui tutto il mondo si accorse del giovane talento sudamericano che guidava sul bagnato come fosse sull’asciutto. Insomma, Imola doveva essere il vero inizio del campionato per Senna. Da lì sarebbe ripartita la sua rincorsa al titolo o il distacco nei confronti di Schumacher, in termini di punti e forse anche di morale, sarebbe potuto diventare troppo ampio per essere colmato. Poi, prima il botto di Barrichello, suo amico e connazionale (l’unico pilota al quale, in prova, concedeva di poterlo seguire per un paio di giri in modo da permettergli di imitare le sue linee) quindi la morte di Raztenberger, lo avevano turbato. Forse anche più di quanto lui stesso si sarebbe aspettato. In entrambe le occasioni si era recato sul luogo degli incidenti per valutare se fosse possibile, già a partire dalle future gare, migliorare la sicurezza dei circuiti e delle autovetture stesse, divenute quell’anno, dopo l’eliminazione delle sospensioni attive, davvero inguidabili. E che dire delle piste? Muretti, cordoli troppo alti, protezioni insufficienti e vie di fuga troppo brevi… No non si poteva andare avanti così. Era stata solo fortuna se erano passati dodici anni dalla morte di un pilota in un gran premio. L’impatto con la realtà fu perciò durissimo per tutti i piloti e Senna, indiscusso leader carismatico del gruppo, mise in programma, una volta terminato quel fine settimana di corsa, di incontrarsi con dirigenti della federazione ed ex piloti per valutare le azioni da intraprendere. Per buona parte di quel pomeriggio del 30 aprile non fu neanche così sicuro di correre l’indomani. Poi col passare delle ore si convinse.

Ma Dio non aveva ancora smesso con i suoi capricci, purtroppo. E questa volta, vittima delle sue bizze, fu proprio Ayrton, l’uomo venerato come una divinità; il pilota che aveva addirittura affermato di aver corso con il Signore accanto. La Formula Uno senza dubbio cambiò quel fine settimana. Ma non fu la morte del semisconosciuto austriaco a determinare la svolta e Senna, che ne fu l’artefice inconsapevole, non vide mai i risultati.

InSuite 200 Terruzzi immagina le ultime ore di vita di Ayrton, mentre nella sua camera d’albergo, la suite 200 dell’Hotel Castello, a Imola, aspetta il sonno. Avrà pensato alla sua infanzia? Alla sua ragazza? Ai suoi rivali di tutta una vita? Alla morte di Ratzenberger? Non lo sappiamo. Forse a tutto questo, come suppone Terruzzi, il quale, prima di scrivere, ha parlato con molte persone vicine al brasiliano ottenendo conferme e conforti; o forse, come ammette onestamente lo stesso giornalista, a nulla di tutto ciò, essendo il suo un arbitrio. Fatto sta che se di arbitrio si tratta siamo di fronte a una bellissima favola. Anche se il lieto fine, stavolta, non c’è stato.


(Giorgio Terruzzi, Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna, 66thand2nd, 2014, pp. 246, euro 15)

“L’eliminazione” di Rithy Panh

«Dietro questi crimini c’è una manciata di intellettuali; un’ideologia potente; un’organizzazione impeccabile; un’ossessione di controllo e dunque di segretezza; un disprezzo totale per gli individui; un ricorso assoluto alla morte. Sì, dietro c’è un progetto umano».

Il regime dei Khmer Rossi in Cambogia, allora Kampuchea Democratica, ha segnato profondamente la vita di Rithy Panh. Il regista cambogiano, adolescente all’epoca dei fatti (1975-1979), persegue, attraverso il suo L’eliminazione (Feltrinelli, 2014) – libro scritto a quattro mani assieme allo scrittore francese Christophe Bataille – lo stesso obiettivo che ha motivato i suoi documentari: la comprensione della dimensione umana che ha alimentato e messo in atto quell’opera disumana e disumanizzante che è stata la rivoluzione dei Khmer rossi. Una rivoluzione che si è imposta sul popolo cambogiano causando, per fame e sterminio, un milione e settecentomila morti, quasi un terzo dell’intera popolazione.

Il libro di Panh procede su un doppio binario che continua a incrociarsi, mostrando nelle stesse pagine le due verità che per quattro anni hanno convissuto nella Kampuchea Democratica. Da una parte la verità delle vittime e dall’altra quella dei carnefici, i Khmer rossi, rappresentati in queste pagine da Duch, nome di battaglia di Kaing Guek Eav, direttore del centro di tortura e sterminio S21 a Phnom Penh. Il ritratto del rivoluzionario emerge da una serie di interviste fatte a Duch dallo stesso Panh e raccontate da questo allo scrittore francese. Attraverso l’incontro, o meglio il duello, con Duch, il regista cambogiano cerca di raggiungere ciò che c’è di umano nel carnefice. Solo raggiungendo l’uomo dietro alla rivoluzione, questa potrà essere compresa.

La scelta di intervistare il direttore dell’S21 non è casuale dal momento che, per Panh, i centri di tortura sono una delle espressioni più evidenti dei caratteri della rivoluzione: il primato dell’idea sull’uomo, la distruzione, l’alimentazione dell’ideologia attraverso la tecnica e la procedura. I prigionieri, infatti, non sono esseri umani, ma nemici, «animali senza anima», dice lo stesso Buch. Sono esseri di cui gli aguzzini si servono, attraverso le confessioni strappate sotto tortura, per praticare, rappresentare e alimentare la rivoluzione. Questa, dice Panh, «non è un’aspirazione: è una pratica codificata». E la tortura è una delle pratiche della rivoluzione. Una pratica attraverso la quale la rivoluzione si esprime, ma anche dalla quale trae linfa vitale grazie alle confessioni che vengono estorte. «L’S21 non è una centrale di polizia dove si eseguono indagini – dice Panh –, ma un luogo ove si imbastiscono storie».

La seconda verità che trova spazio nelle pagine del libro è quella delle vittime, non solo del «popolo nuovo», borghese, destinato allo sfruttamento (e all’eliminazione), ma dell’intera popolazione. Una verità che emerge dalla storia dell’autore, che ha vissuto sulla propria pelle le scelte di un regime che ha posto l’idea e la rivoluzione per il popolo prima del popolo stesso. «Tutto è stato sottomesso all’Angkar, organizzazione misteriosa e onnipotente [Partito comunista della Kampuchea democratica, ndr] – racconta Panh –: vita sociale, legge, vita intellettuale, sfera familiare, vita amorosa e amicizie […] In un mondo del genere non sono più un individuo. Sono senza libertà, senza pensiero, senza origini, senza ricchezze, senza diritti: non ho più un corpo. Ho solo un dovere: annullarmi nell’organizzazione». Le parole dell’autore ci accompagnano in una realtà di cui ci vengono raccontati anche i dettagli più cruenti e violenti, in un tentativo estremo di portare a galla la verità, o meglio, le verità.

A che scopo? La comprensione. Una comprensione necessaria. Primo, perché i morti chiedono che si sappia cosa è successo. Secondo, per evitare che eventi del genere possano riaccadere. Terzo, perché solo quando la verità sarà memoria e non più un qualcosa da riportare a galla, da decifrare, si potrà raggiungere quella «pacificazione dell’anima che porta alla riconciliazione». Una riconciliazione tanto più necessaria poiché molti degli autori della barbarie avvenuta tra il 1975 e il 1979 sono a piede libero e conducono tuttora una vita normale in mezzo alle loro vittime.


(Rithy Panh con Christophe Bataille, L’eliminazione, trad. di Silvia Ballestra, Feltrinelli, 2014, pp. 196, euro 16)

“Solo gli amanti sopravvivono” di Jim Jarmush

Presentato in concorso al Festival de Cannes 2013 arriva nelle sale, quando ormai è iniziata l’edizione del 2014, Solo gli amanti sopravvivono, ultimo film di Jim Jarmush, elegia morbida di decadenza ed estetismo.

Adam è un musicista che vive rinchiuso nella sua casa di Detroit. Compone musica di grande successo che non vuole venga ascoltata. Non si esibisce, non compare in pubblico, preferisce passare il tempo tra i suoi strumenti e gli apparecchi elettronici che costruisce da solo. Eve, tra libri in tutte le lingue del mondo, ha scelto Tangeri come rifugio per la sua scrittura. Passa il suo tempo con un vecchio poeta che si chiama come un amico di Shakespeare, Chistopher Marlowe. Un giorno chiama Adam che le chiede di raggiungerla a Detroit perché la vita è orribile e non ha senso continuare a vivere. Adam e Eve sono amanti, da anni, secoli, in verità. Perché Adam e Eve, e anche Marlowe che non si chiama solo come ma è l’amico di Shakespeare, sono vampiri immortali, con tanto di canini e sete di sangue e tutto il resto. Hanno deciso di votare la loro eternità alla ricerca del bello, alla cultura, all’erudizione. Hanno conosciuto poeti e scrittori e musicisti, hanno condiviso con loro idee e arte, prima di arrivare nel vuoto del ventunesimo secolo. Se Eve è più disponibile a tollerare la deriva morale e culturale che ha preso l’umanità, Adam soffre il vuoto di senso dell’esistenza che vede tutto intorno a lui e soprattutto nella frenetica Ava, sorella di Eve che ha scelto di vivere tra gli uomini.

Archetipici come i loro nomi, Adam e Eve sono l’incarnazione dell’idea di artista isolato e solitario declinata in due differenti gradazioni. Adam ha perso il gusto nelle cose, non capisce l’uomo e le sue scelte, non trova più il bello in nulla, neanche in quello che fa o ricorda. Rintanato nella casa di Detroit ha costruito un mondo alternativo in tutto, anche nella tecnologia che rinnega Edison e abbraccia Tesla, che rifiuta il digitale per un analogico fatto in caso, e affida a una pallottola di legno la sua ultima speranza. Eve, invece, guarda al passato come conforto per il presente, non rifiuta il mondo moderno e ne prende ciò che le serve. Sono vampiri distanti dall’idea generale. La loro condizione li pone come osservatori privilegiati della storia dell’umanità, non come avversari degli uomini che non capiscono ma in qualche modo amano. Sono zombie, per loro, gli esseri umani, e non per la mortalità inevitabile che li rende già morti, ma per il loro attraversare la vita senza gusto, senza saper apprezzare il bello e senza essere più in grado di mantenersi in contatto con la natura, preferendo il denaro che i due vampiri invece disprezzano.

L’uomo ha preferito contaminare la sua acqua e il suo sangue piuttosto che trovare un modo armonico di vivere nel mondo, così loro si procurano il sangue nelle farmacie e negli ospedali, perché «mordere fa così XV secolo». Prendono solo sangue purissimo, come tossicodipendenti abbienti che cercano l’eroina più pura. Adam e Eve non sono voraci ma cauti consumatori, prendono solo il necessario per evitare che la fame li sovrasti e li porti a danneggiare loro stessi con sangue impuro prima ancora che a far male a qualcuno. Perché solo chi ama resta vivo, e l’amore non è (solo) quello reciproco dei due vampiri, ma è l’amore per la bellezza e la possibilità umana, per gli oggetti creati in cui l’uomo ha trasferito tutta la sapienza delle mani e dell’intelletto, per le canzoni e le parole scritte, per i grandi musicisti e i grandi scrittori che riempiono le loro notti. La condizione ultraumana di Adam e Eve li pone nella posizione di poter contemplare il potenziale dimenticato degli esseri umani e ricordarlo con nostalgia.

Jarmush, con ironia compiaciuta, invita gli spettatori a non dimenticare la grandezza e la bellezza di cui a tratti l’umanità è stata capace. C’è molta forma, in Solo gli amanti sopravvivono, nell’estetica contrapposta curata al dettaglio per costruire Tom Hiddlestone e Tilda Swinton come Adam e Eve (lui sempre vestito di nero, lei sempre di bianco, lui moro, lei bionda) e nella proposta convenzionale del vampiro bellissimo, pallido e schermato dagli occhiali da sole, che affascina e seduce gli uomini senza volerlo. Sotto la pura forma, però, c’è la sincerità di una sostanza romantica di chi è ancora capace di amare.

(Solo gli amanti sopravvivono, di Jim Jarmush, 2013, drammatico/romantico, 123’)

 

“Do to the Beast” degli Afghan Whigs

Sedici anni di silenzio. Non pochi per chi nel suo intenso percorso ha scritto pagine meravigliose della storia dell’alternative rock. Greg Dulli e i suoi Afghan Whigs sono tornati con Do to the Beast. Il titolo dell’album si vocifera l’abbia suggerito il compagno di combriccola Manuel Agnelli, anche se a noi interessa la musica: e il risultato non è da poco.

Visti gli attuali dibattiti sul loro ritorno, qui il sunto del discorso è molto semplice e non merita troppi giri di parole: Do to the Beast è un grande album. I puristi, i malinconici bigotti e i nostalgici diranno che rinnega ancora una volta la loro base hardcore e altrettanti diranno che Gentleman era di tutt’altra pasta: ma perché non giudicare un lavoro solo ed esclusivamente per la sua qualità? Soprattutto in questo caso, dove di qualità ce ne è tanta. Merito soprattutto di quel mito chiamato Greg Dulli. Gli anni passano ma il carisma oscuro e misterioso, da maledetto in cerca di redenzione, ancora è lontano dallo spegnersi e sconfina in composizioni musicali notevoli.

Negli anni si è tenuto attivo con vari progetti e collaborazioni – Twilight Singers con Mark Lanegan vi dice qualcosa? –  e nonostante qualche patina abbia iniziato a intaccare il timbro vocale, l’impeto e l’impegno sono sempre altissimi. Non c’è brano dove la voce non sia quella marcia in più, quella prova d’attore che rende un bel film un grande show. Anche perché di scene e situazioni Do to the Beast ne offre di diverse, spesso contrastanti, ma tutte affascinanti.

Specifichiamo fin da subito: nonostante alcune dipartite notevoli nella line-up (Steve Earle alla batteria e Rick McCollum alla chitarra), l’impatto musicale è possente e incisivo, e le melodie sono ancora una volta in bilico tra felicità e disperazione, dolore e dolcezza. La batteria di “Parked Outside” lo spiega alla perfezione, come anche le sferzate di chitarra, spesso contorte tra di loro in isterici riff. E qui Dulli inizia a scaldarsi. Stessa marcia per “Metamoros”, dove assolo e ritornello già si instaurano subito nella mente, senza bisogno di ulteriori ascolti.

“It Kills” è la ballata che spiana la strada a quel gran pezzo chiamato “Algiers”: da vedere il video stile far west! “Lost in the Woods” è forse il momento emotivamente più forte dell’album, ma il capolavoro assoluto deve ancora arrivare: “The Lottery”. Cari lettori, se volete un pretesto per innamorarvi degli Afghan Whigs, eccolo servito.

Ed avanti così, per un disco che tra battiti e rallentate, urla e sussurri non lascia – fortunatamente – un attimo di tregua, accontentando sia l’anima più furiosa, sia quella più malinconica e sofferta: non è forse di questo che si alimenta il rock?

Magari la prossima volta non dovremmo aspettare così tanto.

 

(The Afghan Whigs, Do to the Beast, Sub Pop, 2014)

 

“Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday”

Il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e il cinema rivive attraverso le parole dirette del regista in Pasolini su Pasolini, una serie di interviste, ripubblicate da Guanda dopo la prima edizione italiana del 1992, realizzate in due settimane del 1968 dal giornalista e storico Jon Halliday. La formazione accademica di Halliday, che all’epoca insegnava all’Università di Calabria e in seguito ha pubblicato numerosi studi sulla storia d’Asia tra cui una importante ricostruzione della Cina maoista (Mao. La storia sconosciuta, Tea edizioni, con Jung Chang), contribuisce a inquadrare e comprendere la componente culturale universale, ancor più che cinematografica in senso proprio, dei film dell’intellettuale nato a Bologna.

Attraverso i colloqui suddivisi in undici capitoli, più due appendici, si passano in rassegna i titoli della filmografia pasoliniana fino al finire degli anni Sessanta, da Accattone fino al progetto di Porcile, passando per l’iniziale lavoro di sceneggiatura per altri (tra cui, per dire, Soldati per La donna del fiume, Bolognini per Il bell’Antonio, Fellini per Le notti di Cabiria) fino ai progetti mai concretizzati, come il San Paolo che avrebbe dovuto proseguire il discorso cristiano dopo Il vangelo secondo Matteo.

È un’idea di cinema unica, quella di Pasolini, impossibile da considerare se non nel contesto della sua produzione complessiva. Perché sono il sottoproletariato e le situazioni socialmente più derelitte il centro dell’attenzione pasoliniana volta alla ricerca di un impossibile essere umano puro, non condizionato dai vincoli della società borghese, tanto disprezzata, e ancora in contatto con la dimensione più autentica delle relazioni. Autentica nella sua drammatica e primitiva semplicità di soddisfazione di bisogni, di elementare contatto inter-umano, di svuotamento di sovrastrutture imposte per un ritorno all’immediatezza. Così, come per Ragazzi di vita che lo aveva imposto letterariamente, Pasolini inizia il suo discorso cinematografico con Accattone (1961) che dipinge la vita del sottoproletario Franco Citti, senza lirismi e senza denunce.

È la vita degli ultimi e di quelle condizioni così lontane dal mondo borghese a spingere la curiosità di Pasolini, come le dinamiche della relazione madre-figlio rievocate parlando di Mamma Roma («Quando un ragazzo scopriva che sua madre era una prostituta le regalava un orologio d’oro per indurla a far l’amore con lui») in cui invece viene rappresentato il tentativo della madre, Anna Magnani, di sottrarre il figlio al degrado per elevarlo a una condizione piccolo borghese di maggior agiatezza e sicurezza sociale. Un rapporto particolare, quello tra Pasolini e la Magnani, di cui si dichiara non soddisfatto parlando con Halliday per una radicale incapacità riconosciuta alla Magnani, e in generale agli attori, di rappresentare altro che sia il loro contesto sociale di riferimento. Anna Magnani non era una sottoproletaria cresciuta nelle baracche delle borgate, quindi di conseguenza per Pasolini non era stata in grado di rappresentare una madre sottoproletaria. È una visione molto parziale del mestiere d’attore, che limita il compito alla sola rappresentazione tralasciando l’interpretazione, che può essere – ampiamente – discussa, ma che spiega molto più di altro la scelta quasi unica di Pasolini di rivolgersi ad attori non professionisti presi dalla strada, sicuramente più vicini di qualsiasi interprete alla vita di strada che il suo cinema vuole rappresentare (le eccezioni sono pochissime, come Orson Wells, che in La ricotta interpreta un regista – e quindi va bene perché può rappresentare un mondo che conosce direttamente – o Totò, per Uccellacci e Uccellini, Che cosa sono le nuvole e La terra vista dalla luna, che incarna un tipo unico). Così come per gli attori, la ritrosia di Pasolini a lavorare con gente del mestiere di cinema si sposta anche agli aspetti tecnici: «Non ho mai pensato neppure lontanamente di fare un film che fosse opera di gruppo. Ho sempre concepito il film come opera di un solo autore, non solo della sceneggiatura e della regia, ma anche per quanto riguarda la scelta dei set, i personaggi, persino i costumi». Un controllo totale del regista, perché il film deve essere espressione completa del suo pensiero e della sua visione, senza interferenze poste da una posa d’attore o un intervento tecnico correttivo. Sicuramente un’idea di cinema parziale nel suo essere integralista, che non potrà mai essere riproposta da qualcuno di diverso da un pensatore totale come Pasolini.

È questo l’elemento di maggiore interesse di Pasolini su Pasolini: poter guardare dall’interno, attraverso le parole autentiche dell’intellettuale più eclettico e ugualmente realizzato della cultura italiana del Novecento (per limitare il discorso al secolo di appartenenza e alle relative forme espressive), un’idea di cinema che è visione del mondo in ogni suo aspetto: cultura, arte, politica, società.

(Jon Halliday, Pier Paolo Pasolini, Pasolini su Pasolini, conversazioni con Jon Halliday, trad. di Cesare Salmaggi, Guanda, 2014, pp. 209, euro 14)

“Montaigne” di Stefan Zweig

Ad attrarre, in un libro come questo Montaigne di Stefan Zweig (Castelvecchi, 2014), può essere l’idea di entrare in un contatto più diretto, più umano, con una delle grandi ombre del passato: di accostarvisi, cioè, dal punto di vista degli aspetti più concreti, comuni dell’esistenza – la famiglia in cui si nasce, la casa in cui si abita, il modo in cui ci si mescola ai propri simili, o ci si procura di che vivere – dopo averne, forse in una delle letture obbligate dell’adolescenza, sfogliato con segreta partecipazione le pagine. E tanto più, una simile curiosità sembra destinata a venir soddisfatta, se si bada al nome dell’autore: magari dopo aver appena letto l’appassionata silhouette tracciata da Zweig di un’altra di quelle grandi ombre letterarie, Dostoevskij, e solo pochi mesi prima tradotta, meritoriamente, dalla stessa casa editrice.

Certo, qualcosa di meno risolto c’è, in quest’ultimo lavoro di Zweig: sicuramente, a causa della morte, così oscuramente cercata insieme alla sua giovane compagna nell’esilio sudamericano, che ha lasciato alcuni brani del testo in una redazione non definitiva; e tuttavia quel profilo umano di cui prima si diceva, ugualmente finisce per delinearsi  davanti ai nostri occhi, e sia pure in una forma in qualche misura più essenziale, scarna. Anche perché è lo stesso Montaigne, a non aver lasciato, negli Essais, quasi nessun cenno ad altro che non fosse il proprio ritratto interiore: «Sono tutto meno che uno scrittore di libri. Il mio interesse è dar forma alla mia vita, questo è il mio unico lavoro e la mia unica vocazione»; o, in maniera ancora più esplicita, parlando della sua preferenza per le biografie: «ai biografi interessa di più quel che succede dentro di ciò che accade fuori. Per questo Plutarco, più d’ogni altro, è l’uomo che fa al caso mio».

Solo a fatica, del resto, (e forse, più per aderire al programma filosofico-stoico del distacco da ogni legame mondano) lo vediamo insistere sulle proprie incapacità: «Di destrezza e di abilità pratica, non ne ho nessuna. […] Nella musica, né per la voce, che avevo così inetta, né per gli strumenti, mai mi si è potuto insegnare nulla, […] né ho mai saputo far la punta a una penna o tagliare a tavola come va fatto, o ancora mettere la sella a un cavallo,  reggere sul pugno un falcone e lanciarlo a volo, o parlare ai cani»; o, quando la morte di suo padre lo mise, nel 1568, a trentaquattro anni, di fronte ai suoi doveri di amministratore del patrimonio nobiliare, il fastidio estremo di doversi «imporre di leggere da cima a fondo i contratti o di esaminare le transazioni che necessariamente passavano per le mie mani e dovevano essere da me controllate. […] Avrei fatto tutto, piuttosto che leggere un contratto».

Zweig però non si lascia disarmare da questa ostentata impenetrabilità; anche se rileva non senza un filo di disapprovazione che: «A questa madre di sangue ebreo, con la quale vive per oltre mezzo secolo nella stessa casa e che addirittura sopravvive al famoso figlio, Montaigne non dedica una sola parola nelle sue opere  e nei suoi scritti», come per altro «non parla nelle sue opere né della propria moglie, né di sua figlia, fatta eccezione per un’unica dedica». Viene così rintracciata caparbiamente la genealogia di commercianti di pesce che il bisnonno Ramon si era incaponito a cancellare pagando in denaro sonante il castello e il titolo di Sieur de Montaigne, e l’unione del nipote di lui ormai nobile con la figlia di un uomo d’affari ebreo, a sua volta cristianizzato e profugo da Saragozza; e quando infine Zweig commenta, di Montaigne, «possiamo solo dire che, grazie a questa miscela, egli era predestinato a diventare un uomo del centro e dell’unione, […] uno spirito libero e tollerante, figlio e cittadino non di una razza o di una patria, ma del mondo, oltre i Paesi e il tempo», ci sembra di vedere, in filigrana, il ritratto di lui, Zweig, o di qualche altro degli intellettuali della Vienna fin-de-siécle: Hofmannsthal in cui al sangue ebraico dei molti antenati si era mescolato quello italiano della nonna paterna, o Mahler fattosi cristiano cattolico perché non c’era altro verso di avere la carica di direttore dell’Opera di Vienna, o Musil che sembra aver mutuato la privazione di qualsiasi “specificità” del suo Ulrich proprio dalla mancanza di ogni attitudine che Montaigne si attribuisce.

E magari quello che più resta impresso, di quest’uomo minuto di complessione, passato fra obblighi amministrativi, incarichi politici e perfino un paio di missioni diplomatiche fra Enrico III ed Enrico di Navarra, con l’impenetrabilità di una goccia di petrolio nell’acqua, la cosa, si diceva, che rimane nella memoria è la camera in disuso («il luogo più inutile della casa») che lui scopre in una torre del castello di Montaigne e, fattala attrezzare a libreria, «All’età di trentotto anni […] disgustato da molto tempo dalla schiavitù della corte e dagli incarichi pubblici», vi si ritira a «riposare sul seno delle dotte vergini», le Muse cioè, sperando di restarci per tutti «i giorni che avrà ancora da vivere»: la cosa, si direbbe, che ce lo rende simpatico più di ogni programma di eroico, algido stoicismo.

(Stefan Zweig, Montaigne, trad. di Ilenia Gradante, Castelvecchi, 2014, pp. 128, euro 16,50)

“Principessa Mononoke” di Hayao Miyazaki

Quando nel 1997 Principessa Mononoke arrivò nelle sale giapponesi non erano in molti ad aspettarsi l’enorme successo di pubblico che avrebbe raccolto. Eppure nel giro di poche settimane il film di Hayao Miyazaki e del suo Studio Ghibli si impose come film più visto al cinema della storia del Giappone, superando E.T. per essere sorpassato poche settimane dopo da quel fenomeno internazionale che fu Titanic.

In Italia Miyazaki era sconosciuto al grande pubblico. Lo sarebbe rimasto fino a La città incantata e alla pioggia di premi che tra il 2001 e il 2003 gli vennero tributati tra Los Angeles, Venezia e Berlino.

Nel 2000, la Buena Vista provò a portare nelle sale italiane Principessa Mononoke contando sul grande successo che il film aveva riscontrato sui mercati internazionali. Fu un fallimento.

Ora, nel 2014, Lucky Red ha deciso di ridistribuire in sala il catalogo di Miyazaki, con nuove versioni e doppiaggi. Principessa Mononoke è stato ritradotto e ridoppiato per rendere il senso tutt’altro che rivolto ai bambini che la prima edizione aveva vanificato. Ed è uno spettacolo.

Venendo ai fatti: siamo nel periodo Muromachi della storia giapponese, tra il XIV e il XVI secolo. In un villaggio orientale, il principe Ashitaka viene ferito e maledetto da un cinghiale posseduto da un dio malvagio per salvare il suo villaggio. La maledizione non può essere curata, in nessuno modo, ma il principe decide di partire verso le foreste dell’Occidente per capire cosa abbia trasformato la bestia in un demone di malvagità. Scoprirà che il Bosco del Dio Bestia, santuario in cui vive il dio degli animali e della natura, è minacciato dall’avanzata della Città di Ferro, avamposto siderurgico al confine della foresta in cui la reggente Lady Eboshi progetta un piano per conquistare la natura e le province occidentali del Giappone. Ashitaka si trova in mezzo a una disputa tra uomini e natura, convinto di dover e poter aiutare tutti, soprattutto San, chiamata la Principessa Spettro, ragazza abbandonata dagli uomini e cresciuta dai lupi, prima che la maledizione che lo ha colpito lo travolga.

Mononoke non è un nome proprio. In lingua giapponese indica uno spettro vendicativo con sfumature non rendibili in italiano. È quello che è San; non uno spettro, ma un essere mosso da vendetta che si muove e appare come un fantasma agli occhi degli uomini. Ha giurato agli umani un odio eterno incapace di esaurirsi per come hanno trattato la natura, per come l’hanno sconvolta, dimenticando di essere umana a sua volta, dimenticando le necessità della vita dell’uomo. Perché gli abitanti della Città di Ferro non sono crudeli né avidi. Non distruggono il bosco del Dio Bestia per sete di ricchezze, ma solo per la loro sopravvivenza. Lady Eboshi che li guida protegge le donne e accoglie i feriti, è rigida e giusta, non una malvagia in senso tradizionale.

Perché non c’è la distinzione classica tra buoni e cattivi in Principessa Mononoke. Dominato dalla maledizione, Ashitaka è capace di violenze brutali; la natura schiacciata, che sia San o i cinghiali orgogliosi che attaccano la Città di Ferro sotto la guida del vecchio Okkoto, aggredisce gli uomini, li travolge e uccide per avere vendetta, e gli dei animali possono trasformarsi in malvagità pura e distruttrice. Il male è ovunque, ogni cosa può trasformarsi in morte se minacciata e la natura non è culla o fonte passiva di risorse ma riflesso della violenza che subisce, malvagità possibile di oranghi che vogliono la guerra e di dei pacati che esplodono di eterea distruzione. È qui che Miyazaki spiazza, inserendosi nei grandi, e classici, temi della narrazione e della mitologia e scardinandone i consueti punti di riferimento a cui viene affidato il racconto. Sono tutti buoni, in Principessa Mononoke, tranne i monaci avidi guidati da Jiko-Bo, ma il male è sempre possibile come reazione. E nel rapporto con la natura l’uomo si guarda e capisce se stesso, i suoi errori, i suoi limiti, le sue stesse origini.

Film di assoluta e splendida potenza, spiazzante e lontano dall’immaginario disneyano di rassicurante bellezza della natura, Principessa Mononoke è un capolavoro di tecnica, una riflessione animata sul rapporto tra uomo e ambiente che contiene in sé molti dei temi abituali del cinema di Miyazaki declinati in una forma epica che guarda allo shintoismo e alla natura animistica del Giappone e che lascia lo spettatore incapace di prendere parte, pronto a simpatizzare e a comprendere per tutti, senza condannare, senza giudicare.

 

(Principessa Mononoke, di Hayao Miyazaki, 1997, animazione, 134’)

 

“Fotografie” di Rodolfo Walsh

Roberto Bolaño, senza per la verità essere molto originale, nel suo “I miti di Chtulhu” (ne Il gaucho insostenibile) affermò grosso modo che al giorno d’oggi (il suo oggi, parecchio simile al nostro) si preferisce la narrativa lineare, quella semplice dei best-seller, le cui storie iniziano e finiscono senza troppe pretese né complicazioni, senza troppi arzigogoli da morte-del-romanzo e sicuramente senza non detti né chissà quali intenzioni ellittiche. Letteratura comprensibile, in altre parole. Una narrativa onesta e fedele che, insomma, accompagni un lettore sempre più svogliato e televisivo, disgraziatamente incline allo spaesamento su carta, evitando di imporgli lavori di meningi troppo faticosi. Purtroppo quest’affermazione bolañana risponde a verità, sebbene, per fortuna (e il clamore suscitato dello stesso scrittore cileno ne sia già testimonianza sufficiente), esistano anche degli spazi letterari che se ne infischiano delle mediocri necessità del lettore sfaccendato, per restituire invece a tutti gli altri lettori un po’ inattuali ciò che realmente interessa a chi la letteratura la ama per davvero. La produzione di Rodolfo Walsh, autore argentino vittima della dittatura, desaparecido post-mortem nel 1977 e poliedrico lavoratore dell’universo editoriale, è uno di questi luoghi pericolosi e scomodi in cui trovare riparo dalla calma piatta e dalla soffice morbidezza senza spigoli imposta dal mainstream e dall’odiosissima narrativa di consumo e intrattenimento. Fotografie, la raccolta di racconti che porta la sua firma, di recente pubblicazione italiana (La Nuova Frontiera, 2014), è per l’esattezza uno di questi luoghi labirintici e disordinati, informi e staminali, in cui l’autore chiede al lettore, stavolta giocoforza voglioso e impavido, una certa complicità e un sovrappiù di furore esplorativo: un eccesso di attenzione e di rigore, in altre parole. Non a caso Ricardo Piglia, uno che della letteratura ellittica ha fatto una ragion d’essere (si legga per esempio il suo romanzo del 1980 Respirazione artificiale, pubblicato qui da noi a opera di SUR, nel 2012), profonde tutto il suo entusiasmo nel definire la narrativa breve di Walsh come uno dei grandi momenti della letteratura argentina (come riportato, a titolo promozionale e non solo, proprio sulla bella copertina di Fotografie).

A questo punto si dirà: «Certo, d’accordo, ma l’Argentina del Novecento è uno dei principali e più comuni territori in cui il proliferare di simili autori ha avuto luogo, complice il tira e molla golpista che ne ha contraddistinto la storia più recente. Niente di nuovo, dunque, con buona pace di coloro che per mestiere più o meno ben pagato incensano a spron battuto le lettere della sponda est del Río de la Plata». Tuttavia, nel caso di Walsh, imputare soltanto a tale condizione politico-ambientale le possibilità di emersione di una simile letteratura succulenta vorrebbe dire affidarsi a un determinismo dal sapore piuttosto ottocentesco, ancor più inattuale, dunque, del lettore testardo e inveterato amante di Walsh, Piglia e della letteratura che, spesso o talvolta, nasconde o semplicemente non mostra il suo specifico oggetto, lasciandolo sullo sfondo oppure anche al di là delle pagine. È infatti vero che i racconti contenuti in questo recente volume (che in sé contiene due raccolte della narrativa breve di Walsh, I riti terreni e Un chilo d’oro) hanno il pregio di appartenere davvero alle Lettere Belle, dittature o meno. Si tratta di racconti fatti per frammenti verdini da ricomporre e dunque seguire con l’occhio attento alle minime sfumature, ai minimi interstizi che il testo, tra una parola e l’altra, prevede oppure nasconde. Racconti che ruotano attorno al clima pesante dell’Argentina novecentesca, che illuminano la storia piccola della gente piccola, che hanno protagonisti defunti o contumaci, o che magari contemplano un finale banalissimo eppure straordinario. Tutto questo a detrimento del povero lettore da supermercato che, suo malgrado, cercherà altrove il c’era una volta, sperando di trovarci anche il vissero per sempre felici e contenti.

(Rodolfo Walsh, Fotografie, trad. di Anna Boccuti ed Elena Rolla, La Nuova Frontiera, 2014, pp. 224, euro 17)

“The White Room” di Caterina Gramaglia

«The White Room… be what you want» dichiara il breve video che, come una sigla, viene proiettato sulla quarta parete della stanza bianca di Caterina Gramaglia. Un manifesto più che un titolo per la corsa più divertente e curiosa da Alice nel Paese delle Meraviglie all’interno della psiche di un altro essere umano.

«Il tema dello spettacolo è la follia» dichiara la Gramaglia, ma non si faccia l’errore di intendere la follia come pazzia o malattia. La follia che anima il progetto The White Room, performance più che spettacolo, è piuttosto quella forza creatrice che si genera nelle persone quando, per un motivo o per un altro, hanno l’occasione e il coraggio di lasciar emergere il loro multiforme mondo interiore. La stanza bianca, infatti, si apre per accogliere lo spettatore, ma anche per far uscire la Gramaglia e permettere di estenderne i confini oltre la cabina di regia, fino all’esterno della sala, e per questo motivo non evoca l’immagine delle stanze chiuse dei manicomio, quanto la stanza da letto di una bambina, neutra e candida.

All’interno della sua stanza la Gramaglia si veste e traveste dando vita a una teoria di personaggi tra i più diversi ora demenziali, ora tragici – la giapponese Suzuky, Nora Duselli, Gelsomina – ma quello che diverte maggiormente non è il mero trasformismo, quanto la capacità vocale e mimica di questa attrice che riesce a inscenare un esilarante monologo a due voci in un giapponese da grammelot appena pochi minuti prima di rievocare la più struggente tra i personaggi felliniani.

Lo spettacolo si è aggiudicato il Premio Speciale off – Roma Fringe Festival 2013 e si è inoltre classificato al secondo posto per il Premio Produzione e Miglior Spettacolo – Roma Fringe Festival 2013 e sarà presente al New York Fringe Festival 2014 come rappresentante del Teatro Off italiano e sarà in scena al Teatro Tordinona di Roma dal 6 all’11 maggio e vale davvero la pena affrontare questi quarantacinque minuti di delirio perché sono quarantacinque minuti fuori dal mondo, è tempo sospeso che rimanda a un passato rappresentato dai video e dalle fotografie che la Gramaglia riporta sulle pareti di stoffa che la contengono, al presente della performance, e alla promessa di evoluzione di questo spettacolo capace di adattarsi e prendere la forma e il sapore del luogo in cui viene messo in scena.
 


The White Room
di e con Caterina Gramaglia
scenografia Gaia Giugni
costumi Gloriana Manfra
luci e fonica Marzo Zara


Prossime date
Roma – Teatro Tordinona dal 6 all’11 maggio
New York Fringe Festival 2014

“La vita perfetta di William Sidis” di Morten Brask

«Vorrei vivere la vita perfetta. L’unico modo per avere la vita perfetta è viverla in solitudine».William Sidis a un giornalista, 1924.
Un esergo che apre il cuore del libro. La vita perfetta di William Sidis (Iperborea, 2014) è una piccola perla che arriva in Italia dalle fredde terre danesi. Il suo autore, Morten Brask, cerca di mettere in luce il destino di un uomo: attraverso lettere, interviste, dati storici e un po’ di fantasia prende forma, sotto lo sguardo del lettore, la vita di William James Sidis.

Salti temporali, capitoli brevi, piccole ciliegie di parole ci catapultano nella vita di questo enfant prodige forse troppo poco conosciuto. Siamo nel 1898: il piccolo Sidis è seduto a tavola tra i suoi genitori che discorrono della sua educazione, lui mangia la sua pappa tra un sorriso e l’altro: ha solo sei mesi. A diciotto mesi legge il New York Times, a quattro anni impara da autodidatta il greco e il latino, a sei conosce dieci lingue e ne inventa una, a undici entra ad Harvard da studente, a sedici è già docente. Questi alcuni numeri. Questa l’infanzia del piccolo genio, il cui QI è quello più alto mai misurato nella storia.

Ma tutto ha un prezzo. Chiave d’accesso ai salotti “che contano” per la madre, esperimento  educativo da mostrare per il padre psicologo, il giovane deve mettere in mostra tutta la sua straordinaria intelligenza. Ma sono proprio queste sue doti a minare il suo futuro condannandolo a non avere una vita normale: crescendo, Billy è sempre più etichettato come diverso, un emarginato della società, incapace di comunicare i propri sentimenti a quella ragazza animata dalla passione per le idee bolsceviche. Lui, idealista pacifista che traduce per gli immigrati i discorsi di Martha, finisce in carcere per una dimostrazione. È l’inizio del declino. Dichiarato mentalmente instabile dai genitori, viene segregato nell’ospedale psichiatrico da loro gestito per proteggerlo da eventuali pericoli; resiste ben poco, riuscendo a scappare e far perdere le sue tracce adattandosi ai mestieri più strani pur di fuggire da quella vita. I genitori lo ritroveranno solo anni dopo, in una stanza d’ospedale.

Una vita dunque, quella del nostro Sidis, vissuta nell’incondizionato amore per la conoscenza e il sapere, accompagnato dalla costante ricerca della solitudine, della pace. Uno sguardo profondo, limpido, che attraversa e coglie la semplicità dei complessi meccanismi che chiamiamo mondo. Un incessante interrogare e interrogarsi che spesso, nella sua semplice curiosità, arriva fin troppo in fondo alle cose, facendoci perdere in esse ed estraniandoci da esse allo stesso tempo. Questo il vivere di William, che troverà la risposta alla sua costante ricerca, davanti a un tè, a due bicchierini di acquavite e il suo unico amico di una vita, Sharfman:
«Grazie Billy, devo trovare la mia strada da solo. La strada perfetta per la vita perfetta, ah ah! Whitehead non sa niente della vita perfetta, nessuno sa nulla della vita perfetta».
«Non c’è una vita migliore di un’altra», risponde William. «Devi cercare di scegliere il cammino che tu ritieni più giusto. Così raggiungi una sorta di perfezione nella tua vita. Anche se agli altri non sembrerà tale».
[…] 
«Dannazione, non lo so, Billy. La vita perfetta, bha! Al diavolo la vita perfetta».

(Morten Brask, La vita perfetta di William Sidis, trad. di Ingrid Basso, Iperborea, 2014,  pp. 387, euro 17,50)

“Notturno indiano” di Antonio Tabucchi

La verità è che, terminato Notturno indiano, non si è nemmeno sicuri di averlo letto veramente, se con lettura intendiamo l’atto concentrato e consapevole di affrontare un testo mantenendo una certa lucidità d’interpretazione. La sensazione è piuttosto quella di aver fluttuato in un’atmosfera onirica, tenuti per mano da una guida confusa che ci ha sempre dato le spalle, mentre obbedienti e curiosi ci rassegnavamo a seguirne gli itinerari. Al torpore segue un brusco risveglio, e alla fine del viaggio resta il ricordo di un’India sfocata: l’Asia del Sud, al contrario di tanta letteratura che vorrebbe entrarle nelle viscere raccontandola nella sua interezza, serve qui da falsa pista per cercare qualcuno, e nemmeno ha più importanza come luogo, in sé, perché permane soltanto nel sapore di notti allucinate immerse nell’umidità tropicale. 

Il romanzo ruota attorno a un pretesto: ritrovare l’amico del protagonista Roux, un uomo di nome Xavier, che «quando sorride sembra triste» e si è perso, tempo prima, da qualche parte in India. Per cercarlo siamo costretti a seguire gli spostamenti di Roux tra Bombay, Madras e Goa, passando lungo tempo in camere d’albergo, ospedali, ristoranti, cuccette di treno e sedili di autobus. Durante questi percorsi ci capita di fare alcuni incontri, ma hanno tutti una consistenza spettrale: una prostituta che ha amato Xavier, ma ora non sa dove sia, un profeta jainista dall’aspetto scimmiesco che legge il passato e il futuro, ma non riesce a vedere in quello del nostro accompagnatore, Alfonso de Albuquerque che fu il primo duca di Goa nel sedicesimo secolo e appare in sogno per rivelarci che l’amico cercato non esiste, è solo un fantasma.

Mentre continuiamo ad assecondare i suoi cambi di rotta, ci rendiamo conto con sempre maggiore consapevolezza che Roux, al quale ci siamo affidati, è un investigatore senza bussola e senza piani, intento a dare retta a stimoli disordinati, la cui determinazione nel ritrovare Xavier sfuma sino a diventare un alibi per giustificare il suo moto inquieto. Ormai assuefatti ai fallimenti di un’inchiesta dai risvolti sterili, le ultime pagine ci suggeriscono un’intuizione inaspettatamente lucida per risolvere il caso, risvegliarci dallo stordimento e porre fine a questo concitato peregrinare nella notte indiana.

Notturno indiano è stato pensato da Tabucchi come una guida per «amanti di percorsi incongrui», e a leggerlo ci si lascia trascinare davvero, in questi percorsi, a patto di accettare sin da subito le singolari condizioni del viaggio: vagare nella semi-oscurità tra sentieri incoerenti e accettare di scavare nell’oblio della nostra mente, senza resistenze.

 
(Antonio Tabucchi, Notturno Indiano, Sellerio, 1984)