“Fenomeno” Spin Off: viaggio tra speranze e dubbi

Quando la nostra serie tv preferita finisce è un po' come vivere la fine di una relazione: ci si sente improvvisamente soli e abbandonati, irrimediabilmente tristi, a tratti inconsolabili. Il momento dell'addio è sempre doloroso e l'unica consolazione che a volte ci viene concessa è quella piccola promessa chiamata spin off. Cos'è lo spin off? Da un punto di vista  tecnico, un qualcosa che deriva da un corpo principale, in questo caso una storia nuova che nasce dall'originale. Ma la vera domanda è: cos'è davvero lo spin off?
Di solito una manovra pubblicitaria, nonché un tentativo estremo di tenersi stretta la fascia di pubblico guadagnata con fatica durante gli anni, ragion per cui tante volte il prodotto finale è deludente – anche se non tutti gli spin off sono destinati a far rimpiangere la serie madre.

Per quanto riguarda le novità di quest'anno le nostre aspettative migliori sono senza dubbio per Better Call Saul, che debutterà a novembre, e che i fan di Breaking Bad attendono trepidanti dopo la splendida conclusione della serie lo scorso settembre.
Sarà incentrata sulla figura di Saul Goodman, l'avvocato di Walter White, che ha caratterizzato  Breaking Bad con una vena comica e surreale, e racconterà le vicissitudini di Saul promettendoci – così almeno ci è stato rivelato sul web – i cameo di altri personaggi principali, tra cui il ritorno di Bryan Cranston nei panni di  Walter White.

Scegliere di basarsi sulle avventure di un personaggio che è stato sviluppato in maniera marginale nella serie madre è una scelta buona, permette di collegare tanti avvenimenti tra loro senza snaturare il prodotto, dal momento che il rischio maggiore è quello di far rimpiangere ancora di più la fine della storia originale.
Se invece vogliamo guardare il lato rischioso e parlare di spin off 'preoccupanti' come non nominare How I met Your Dad, idea (malsana) degli stessi autori di How I Met You Mother che hanno finalmente concluso la serie il mese scorso dopo nove anni di attesa interminabile.
I fan sono ancora indecisi se accettare o meno la sorpresa del finale ed ecco che la CBS ha già confermato che manderà in onda le avventure di un altro gruppo di amici che hanno in comune con Ted e gli altri il MacLaren's: la stroria sarà raccontata da un punto di vista femminile e i personaggi saranno tutti nuovi, ma il rischio di incappare in un fiasco è grande, se consideriamo che How I Met Your Mother ha smesso di essere brillante alla quinta stagione e si è trascinata fino alla nona come un brodo allungato all'infinito.

Ma non sempre gli spin off mettono in agitazione i fan: Devious Maids, nato da una costola di Desperate Housewives, è passato quasi sotto silenzio ma è già alla seconda stagione con buoni ascolti e nessuna pretesa. Creato da Eva Longoria – che smessi i panni della frivola signora Solis ha deciso di passare dall'altro lato della macchina da presa -, racconta le storie di quattro domestiche latinoamericane a Beverly Hills, tutte al servizio di ricche coppie che nascondono dei segreti inquietanti. Sotto questo punto di vista ricalca molto la base di Desperate Housewives, dove i misteri di Wisteria Lane si sviluppano attorno al suicidio di Mary Alice Young, ma i personaggi sono ben caratterizzati, diversi tra loro e divertenti e si capisce senza troppe difficoltà che le due serie hanno punti in comune ma anche aspetti che le rendono diverse e quindi entrambe interessanti.
La formula che Devious Maids ha adottato per piacere al pubblico è semplice: ha preso il meglio di Desperate Housewives (in questo caso la caratterizzazione e la vena comica di fondo) e l'ha trasposta in una storia nuova dove cambiano i volti e i setting, ma la trama si snoda attraverso sentieri che Eva Longoria conosce bene e nei quali sicuramente sa destreggiarsi con sicurezza.
Il risultato è una serie leggera che non dispiace ai fan di Desperate Housewives ma neppure a chi non conosce i misteri di Wisteria Lane, ragion per cui la consigliamo a chiunque abbia voglia di iniziare una serie poco impegnativa che può regalare piacevoli momenti senza troppe pretese.

Per il momento, non potendo palare degli spin off non ancora usciti mi permetto di dare un coniglio spassionato a chi come me ha amato How I Met Your Mother e ha fatto fatica ad accettare la fine così come l'hanno pensata gli sceneggiatori: se non volete farvi altro male e rimpiangere quello che fu, mantenete puro il ricordo di Ted e amici che ci hanno fatto ridere e piangere per anni e state alla larga dai vari surrogati; di solito sono solo brutte copie degli originali.


 

Tunué: il potere dell’immaginario

«Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio». Non è una sentenza tra tante. Non l’avrebbe sigillata lui, nel mezzo delle sue Città invisibili. Calvino sapeva che una storia è lì per trasformarsi, che esiste per essere altrove. Si trattiene di lei ciò che ci somiglia, che strofina le grotte oltre la scorza. Chi ascolta riscrive, puntualmente, ciò che riceve. Potremmo aggiungere, però, che anche l’occhio rivendica il suo piglio.
Che le parole sono immagini svestite e le immagini parole innominate. Che ognuna sogna l’altra e che il dialogo, la conversione tra le forme, non accenna ad arenarsi.
La casa editrice su cui ci concentriamo questo mese conosce bene il valore di tale attrazione, tanto da definirsi nel suo logo «Editori dell’immaginario».

Tunué, nata a Latina nel 2005, si specializza da subito nell’ambito del graphic novel per lettori giovani e adulti. La strada sgorga anni prima, da una rivista amatoriale chiamata Smettila!, realizzata da Massimo Clemente ed Emanuele Di Giorgi, attualmente direttore editoriale e amministratore della società. L’iniziativa cambia volto e nel 2000 la metamorfosi conduce al portale Komix.it Fumetti @360°, ancora oggi riferimento cardine del settore. Proprio dall’attività appassionata di quella squadra trae vigore l’identità di Tunué. 

Il nome di un suono fantastico, scevro da qualsiasi riferimento simbolico, nell’intento nudo e sincero di respingere ogni limite. La realtà narrata è dinamica, imprendibile e la volontà di Tunué è quella di innescare l’immaginario con i suoi romanzi grafici e di fornire una proposta saggistica altamente strutturata nell’ambito del fumetto, dei videogiochi e dell’animazione. Intercettare, incuriosire, ampliare continuamente il pubblico col guizzo incessante di «prediligere per i propri volumi a fumetti la ricerca di storie dai forti tratti letterari».

Infatti «è convinzione di Tunué che l’attitudine al racconto, al trasformare la rete di relazioni materiali e simboliche che operano su tutti i livelli della quotidianità, sia un’opportunità per valorizzare la capacità di resilienza. Per evolvere, mutare, transitare; non solo per resistere, ma per andare oltre: per sconfinare». Esempio fulminante sono gli adattamenti a fumetti di opere di Dacia Maraini, Giancarlo De Cataldo, Antonio Pennacchi e Giorgio Vasta. I risultati guadagnati sono evidenti e alcuni autori come Paco Roca, Stefano Simeone e Mathieu Reynès si sono aggiudicati premi nazionali e internazionali.


Il catalogo esordisce con due collane di saggistica: Le virgole e Lapilli, entrambe curate da Marco Pellitteri e da quella di Graphic novel.
L’elenco si completa con altre collane:

Esprit, caratterizzata dastudi su media e immaginario e diretta da Sergio Brancato e Gino Frezza.

– Lapilli Giganti, traduzione del meglio della saggistica mondiale.

Album, monografie sugli autori di graphic novel come David Rubin e Luca Russo.

Burumballa, antologia di short stories a fumetti per autori esordienti.

Tipitondi, creata nel 2010 e dedicata ai giovani lettori.

Frizz, incentrata sull’esplorazione della cultura pop.

Previsto per questo maggio 2014, l’ingresso di una nuova collana di narrativa guidata da Vanni Santoni e progettata con «l’obiettivo semplice da enunciare ma non da raggiungere, di proporre al pubblico ottimi romanzi, caratterizzati dalla forza della vicenda e dalla bontà della prosa». Una finestra pronta a vagliare stimoli e talenti in attesa di pagine.


Questo è il momento di formulare le nostre scelte, di cogliere titoli e tratti su cui è stato ancora più piacevole inciampare:

Mamma, torna a casa di Paul Hornschemeier. Un bambino di sette anni racconta il suo burrone, il solco di un dolore scavato dalla morte di sua madre. La vita riarredata dal vuoto e dalla nostalgia del calore più dolce. Caso eclatante di «letteratura illustrata» secondo Will Eisner.

La memoria dell’acqua, di Mathieu Reynès e Valerie Vernay. Formazione per immagini. L’adolescente Marion si trasferisce con la mamma in riva al mare e il nuovo villaggio le parla di altri mondi, di paesaggi in cui perdere il respiro. Tra i finalisti del Premio Andersen 2014.

Il tempo materiale, di Giorgio Vasta e Luigi Ricca. Versione a fumetti dell’omonimo romanzo d’esordio di Giorgio Vasta. Tre undicenni ipnotizzati dal clima terroristico degli anni di piombo, durante il sequestro Moro. Spirale di emulazione e caos in cui la realtà diviene una parete sempre più lontana.


Ma queste sono solo tre fermate. Peregrinare tra le immagini richiede molto più tempo. Quello della fantasia.

“Alabama Monroe - Una storia d’amore” di Felix Van Groeningen

Elise e Didier non sono una coppia come ce ne sono tante. Lei è una tatuatrice nel Belgio di metà anni Novanta, lui suona il banjo e canta in una band bluegrass. Si conoscono e si innamorano in fretta. Vanno a vivere insieme in una casa nella campagna belga che prova a essere Tennesse, con gli spazi grandi e i cavalli al pascolo. Lei rimane incinta e diventano una famiglia, con la piccola Maybelle che cresce circondata dall’amore dei suoi genitori e di tutti i musicisti sgangherati e improbabili che girano lì intorno. Poi però arriva la malattia, della bambina, la peggiore, e il legame che unisce Elise e Didier vacilla prima, per poi crollare.

Il titolo originale di Alabama Monroe – Una storia d’amore è The Broken Circle Breakdown (che rimanda, ribaltandone il senso, a un classico della musica folk inciso anche da Johnny Cash, “Will the Circle Be Unbroken”, che viene cantato più volte durante il film), traducibile come “il collasso del circolo spezzato”. Il circolo è la famiglia formata da Elise, Didier e Maybelle, la rottura è la malattia, il collasso le conseguenze. La scelta del titolo dei distributori italiani (c’è una ragione che si rivela nell’ultima parte, per Alabama Monroe) sposta l’attenzione dal nucleo completo alla sola dinamica di coppia. Non che un film possa risentire dei nomi della distribuzione, ma si perde un po’ di lirismo – prassi comune nella scelta dei titoli – e di aderenza alle dinamiche. Non è solo una storia d’amore, quella di Elise e Didier, è una storia di diversità serena, di anomali in un piccolo mondo di anomali autosufficienti che si ritrova a doversi scontrare con una realtà altra, ed esterna, fatta di letti di ospedale e terapie invasive.

Probabilmente se c’è qualcosa di peggio di perdere un figlio per dei genitori è perderlo ancora bambino vedendolo sparire giorno dopo giorno, aggrappandosi a speranze che non si vogliono credere come illusorie. È un dolore scolpito nell’alabastro. Elise e Didier affrontano la malattia della bambina senza mettere in discussione il loro stile di vita. Soprattutto Didier non cede al conforto della religione, o comunque di una trascendenza rassicurante, neanche di fronte alla disperazione della figlia di fronte a un uccello morto. Eppure è un conforto credere che qualcuno perso possa tornare in un’altra forma, o diventare una stella da guardare la notte.

Mentre Didier cerca colpe in chi non può averne, guardando agli Stati Uniti di Bush che bloccano la ricerca delle staminali, dimenticando che in Belgio è invece terapia comune, provata anche con Maybelle, e perdendo il mito della terra di libertà oltreoceano, Elise crolla in se stessa. La casa, rifugio da un mondo non appartenuto, diventa una disperata prigione di convivenza, i nomi con cui si è soliti essere chiamati delle condanne, i tatuaggi che accumula sulla pelle come mappa della sua vita il segno indelebile di qualcosa che non può più essere.

Puntellato da splendide canzoni country folk eseguite dagli stessi attori che dividono i momenti e gli episodi quasi per capitoli, Alabama Monroe è una storia di amore distrutto che non cede a facili retoriche del dolore e mostra invece l’umanità carnale e irrazionale della perdita e della sofferenza.

Felix Van Groeningen accompagna lo spettatore all’interno della vita dei suoi protagonisti fissando due estremi: l’inizio della conoscenza nel 1997 e l’inizio della malattia del 2006, poi si muove avanti e indietro nel tempo perlustrando la loro storia.

Lo fa con una tristezza dolce, con momenti di poesia quotidiana (l’accoglienza dei musicisti al ritorno in casa di Maybelle; i funerali cantati), senza indugiare nella mostra del dolore, che è totalizzante e definitivo. I suoi attori fanno il resto. Johan Heldenbergh, anche autore della pièce da cui il film è tratto e regista delle rappresentazioni teatrali, ci mette una carica animalesca nell’entusiasmo, nelle canzoni, nella disperazione. Veerie Baetsen, premiata come miglior attrice agli European film award, usa il corpo e la pelle per diventare Elise.

Premiato ai César, e ai Saturn Awards, era nella cinquina dei candidati all’Oscar per il film straniero. Insieme a Il sospetto di Vinterberg era il principale rivale di La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

 

(Alabama Monroe – Una storia d’amore, di Felix Van Groeningen, 2012, drammatico, 100’)

 

“I diari dell’apocalisse” di Jack London

L’uscita in libreria di alcuni scritti inediti di Jack London, soprattutto per i tanti che sono cresciuti leggendo Zanna biancaIl richiamo della foresta o si sono entusiasmati con le pagine di Martin Eden, non può che essere accolta come una buona notizia. I Diari dell’apocalisse, pubblicati da Piano B (2014) a cura di Davide Sapienza, sono infatti una raccolta di saggi e racconti apparsi su diverse riviste americane agli inizi del Novecento, qualche anno prima della misteriosa morte di London, avvenuta nel 1916.

Il motivo conduttore che anima questi scritti è essenzialmente etico-politico: l’evoluzione e il destino dell’umanità. Il socialista London è sempre stato molto interessato alle problematiche della lotta di classe, alle associazioni sindacali e ai movimenti operai che proprio a cavallo tra Ottocento e Novecento iniziavano a diffondersi negli Stati Uniti. Le riflessioni che si trovano in questa raccolta non si limitano, però, a rendere conto delle contraddizioni di quell’epoca, ma spaziano attraverso la storia alla ricerca delle ragioni e dei moventi dell’agire umano in società, indagando le radici del conflitto e della solidarietà, dell’attrazione e repulsione che da sempre ci legano ai nostri simili. L’immaginazione di London corre dalla preistoria alla sua contemporaneità, spingendosi anche in ardite visioni futuristiche per certi versi anticipatorie di pezzi di storia del secolo scorso (nel solco di una delle opere di London più famose in questo senso, Il tallone di ferro, 1908).

Le nove storie che compongono il libro affrontano tutte il tema inesauribile dell’evoluzione umana, quella passata e quella futura, quella reale e quella possibile; utopia, distopia, fantascienza e fantapolitica si fondono tra loro nel più classico stile londoniano, concreto, vigoroso e sottilmente ironico.

Altrettanto caratteristica è la strana sintesi tra ideali socialisti e personaggi dai tratti titanici e superomistici, uomini rivoluzionari che vogliono cambiare il mondo a modo loro, non solo con la forza delle idee. Sebbene le nozioni di London in materia di socialismo siano talvolta approssimative e pervase da uno spirito ancora romantico, in queste pagine traspare intatta la passione morale di chi si sforza di credere profondamente nelle possibilità di un rinnovamento economico e sociale contro le diverse, più o meno subdole, forme di prevaricazione. La visione londoniana non è piattamente positivistica: la fede ottocentesca nel progresso umano è infatti bilanciata da una lucida analisi dei rischi e delle degenerazioni che minacciano l’ordine sociale. Dunque, pur nei loro paradossi, i racconti di London lanciano un potente richiamo ai principi di giustizia e uguaglianza, e soprattutto alle loro distorsioni che la società continuamente produce. Un richiamo che non cessa di farsi sempre più urgente anche nel dibattito pubblico odierno.

(Jack London, I diari dell’apocalisse, a cura di Davide Sapienza, Piano B edizioni, 2014, pp. 189, euro 14)

Luglio Suona Bene: a tu per tu con Flavio Severini

La chicca di questa dodicesima stagione di Luglio Suona Bene arriva il 14 luglio con l’unica data italiana dei Kraftwerk, sold out «dopo neanche venti minuti dal suo annuncio» afferma Flavio Severini, direttore artistico della rassegna sin dal suo esordio nel 2003 e consulente musicale del Parco della Musica. «Non abbiamo neanche fatto in tempo a pubblicare la notizia sul sito che già avevamo terminato i biglietti on line».

Severini è un appassionato di musica, «jazz in particolare» e prima dell’Auditorium ha diretto per cinque anni, dal 1998 al 2003, la programmazione artistica de La Palma Club di Roma e del Dolce Vita Jazz Festival. «Non concedo un’intervista da una decina d’anni» dichiara a Flanerí. Seduti con lui al bar dell’Auditorium, scorriamo il calendario 2014 della kermesse romana, che ha il suo naturale habitat, come ogni estate, nella Cavea, questa sorta di arena «ampliata quest’anno a 3079 posti a sedere» ricavata tra i dorsi dei tre “scarabei” ideati da Renzo Piano.

Si parte il 30 giugno col giovane cantautore britannico Tom Odell e si chiude il primo agosto con la reunion a sorpresa degli Avion Travel di Peppe Servillo.

Poi a Luglio Suona Bene 2014 andranno in scena: Jeff Beck (1/07), Rufus Wainwright (3/07), Massive Attack (8/07), Asaf Avidan (10/07), Keith Jarrett (11/07), Robert Plant (12/07), Damon Albarn (15/07), Stefano Bollani & Hamilton de Holanda (16/07), Orquesta Buena Vista Social Club (17/07), James Blunt (21/07), Yann Tiersen (22/07), The National (23/07), Mogwai (25/07), Herbie Hancock & Wayne Shorter (26/07), Simple Minds (27/07), Roberto Vecchioni (31/07).


E poi Patti Pravo (7/07) e Loredana Bertè (28/07). Severini scusi, senza pregiudizi perché ogni artista è assolutamente degno di rispetto, ma cosa c’entrano questi due nomi con gli altri del cartellone?

E perché no? Fanno due grandi live! La Bertè è una grandissima rocker, ha una voce e una carica pazzesca e sta portando in giro un live eccellente. Stessa cosa per la Pravo, una personalità musicale e carismatica strepitosa la sua, mista a un’eleganza come poche. Il Parco della Musica punta da sempre alla qualità in tutti i bacini culturali ma senza, appunto, pregiudizi. Negli anni abbiamo avuto di tutto o quasi: Negramaro, Claudio Baglioni e Ligabue, rockstar come Bob Dylan, Sting, Nick Cave fino all’indie rock definito più di nicchia (ma che in realtà ha un suo pubblico molto attento e numeroso) come quello di Anna Calvi, John Grant e Jonathan Wilson.


L’impressione è che oggi il Parco della Musica detti la linea e che siano quasi gli stessi artisti ad “adattarsi” a una location come quella della Cavea, in estate, o delle varie sale dell’Auditorium durante l’anno…

È così infatti. Nel primo anno di vita della struttura si sono fatti alcuni errori tecnici, perché erano gli stessi service degli artisti ad allestire l’acustica delle sale secondo gli standard della tournèe del loro musicista. Proprio nel 2003 ci sono stati casi come quelli di Ivano Fossati in cui soprattutto chi stava in galleria non sentiva bene il live. Di quegli “errori” abbiamo fatto tesoro e oggi sono gli stessi tecnici del Parco della Musica (o service da noi appaltati) a curare i live di ogni singolo artista. Poi gli artisti “ricambiano” con degli spettacoli quasi cuciti addosso allo spazio che li ospita. Penso a Ligabue con i suoi concerti acustici, a Patti Smith che è stata artista “residente” per un mese e che ha pensato a una serie di spettacoli appositamente per noi. Così come ha fatto quest’anno anche Max Gazzè. Le sale dei tre “scarabei” durante l’anno e la splendida Cavea in estate regalano una marcia in più agli eventi…”.


Negli occhi di chi scrive e del pubblico sono impressi concerti magici vissuti all’Auditorium. Dal “beach boy” Brian Wilson nel 2005 a Damien Rice con il suo doppio live, prima sul palco e subito dopo fuori nei giardini antistanti, fino a The National lo scorso anno…

E poi l’ultimo live italiano di Lou Reed, la notte magica con Leonard Cohen, una strepitosa Björk.  In questa stagioneanche Nick Cave, che a novembre 2013 già alla seconda canzone ha fatto alzare tutta la platea camminando letteralmente sulla teste delle persone. Ho ricevuto persino una email di protesta per questo, ma è la liturgia del rock signori!
Certo, ci sono stati anche live non perfetti di artisti: lo scorso anno Cat Power visse una serata no sul nostro palco. Citavi Rice che è un musicista di prim’ordine, uno di quelli che se è in palla, come è stato da noi, ti regala un doppio show a sorpresa. Gli artisti sono essere umani prima di tutto. Matt Berninger dei National era mezzo ubriaco durante il concerto ma è stata anche quella la magia della sua esibizione “ispirata” e in stato di assoluta grazia, diciamo così!
Il feeling reciproco con Roma e con la Cavea è stato così forte che li abbiamo voluti anche quest’anno.


I concerti del Parco della Musica hanno prezzi generalmente piuttosto alti rispetto alla media dello stesso artista da altre parti. Questo preclude uno spazio così bello nato appositamente per la musica a tantissime persone. Pensiamo ai giovani soprattutto, agli studenti…

Noi abbiamo una “policy”, una linea per stabilire il prezzo del concerto, che deve essere un giusto equilibrio tra la capienza della sala e il cachet dell’artista. Viene da che se chiamiamo Elton John, Dylan o Jarrett il prezzo non può essere economico, e alla Cavea con tremila persone facciamo sold out. Tra avere un artista, farlo arrivare a Roma o non averlo proprio, penso sia meglio avercelo anche se non alla portata di tutti. Nel 2011 abbiamo avuto Sting col suo Symphonicity Tour dentro la Cavea e il biglietto arrivava fino a 220 euro. Qualcuno ha contestato il prezzo, ma è stata una serata memorabile e senza quel prezzo Sting non sarebbe arrivato da noi e a Roma. Detto questo, sia la Cavea di cui sono direttamente responsabile per la parte artistica, sia l’intero Auditorium prevedono riduzioni e sconti fino al 25% per giovani e studenti. E poi tutta una serie di concerti, di rassegne, di eventi, dalle lezioni di rock, di jazz, showcase ecc. con prezzi “politici” se non addirittura gratuiti.


La Fondazione Musica per Roma che gestisce il Parco della Musica ha varie partecipazioni pubbliche tra Comune e Provincia di Roma, Regione Lazio, Camera di Commercio e consiglieri che vanno da Gianni Letta a Caltagirone, fino ad Abete, Bernabè ecc. Questo è ben visibile e trasparente sia nel sito che nel “giornalino” cartaceo mensile con la programmazione. Tutto questo è più un peso o una risorsa per un direttore artistico che deve fare delle scelte?

All’auditorium abbiamo undici mesi di programmazione, trecentotrenta giorni in calendario e la libertà, vi assicuro, è totale. In più, con tutti questi giorni da “coprire” hai la libertà di spaziare davvero a trecentosessanta gradi e puoi permetterti anche di sperimentare, di portare un artista o un progetto un po’ più piccolo. Arriva la rockstar, ma poi ci sono manifestazioni come Generazione X in cui fai cantare nuove leve della musica italiana, spaziando nel mare magnum dell’indie nostrano e mondiale. Fai quello che vuoi e sei inattaccabile se in un anno riesci a chiudere il bilancio in positivo. Anche di un solo euro in più. Spalmando tutto in un’intera stagione puoi permetterti anche di rischiare per alcune serate. Questo mi permette di essere curioso e di ricercare sempre nuovi artisti e nuovi progetti. Frequento i locali a Roma e in Italia, gironzolo tra le varie realtà culturali in Europa e nel mondo e se mi piacciono cerco di portarle all’Auditorium. Questa è la forza di un posto unico come il Parco della Musica.


Severini ci permettiamo di farle due richieste musicali dalla nostra redazione: Jack White e, soprattutto, Tom Waits…

Non ci crederà ma Jack White fino a pochi giorni fa era in calendario per il 9 luglio, poi però abbiamo dovuto rinunciarci. È in tournée con un show tutto in piedi, da curva o palazzetto, e da noi in Cavea un live interamente così non possiamo farlo. Speriamo alla prossima.
Tom Waits è il mio sogno e obiettivo in undici anni di Auditorium e prima ancora in altre mie gestioni. In un caso mi è sfuggito davvero per poco perché non abbiamo trovato una data che andasse bene per entrambe le parti. Prima o poi ci riuscirò a portarlo all’Auditorium-Parco della Musica.Promesso. 
 

“Un pasto in inverno” di Hubert Mingarelli

Un giorno soltanto, un solo lunghissimo pasto, quanto basta a capire questo piccolo concentrato di emozioni perfettamente riuscito.

Edito da Nutrimenti nella collana Greenwich, Un pasto in inverno di Hubert Mingarelli (2014) è un un romanzo breve: si legge in poche ore, eppure resta, costringe a ripetere e a pensare.

Tre uomini, riservisti della Wehrmacht, addetti alle fucilazioni di massa in un campo di sterminio nazista, cercano una tregua, seppur temporanea, da quel compito oramai insopportabile, e l’unica alternativa è la caccia: stanare quei pochi ebrei scampati ai rastrellamenti e sopravvissuti al gelo polacco. I tre lasciano il campo prima dell’alba, senza mangiare, per allontanarsi il più possibile e non sentire nemmeno l’eco della prima fucilazione. Sollevati, quasi felici nonostante il freddo che «sembrava penetrasse attraverso gli occhi  e si diffondesse ovunque. Come acqua ghiacciata attraverso due buchi». Attraversano villaggi tristi come piatti di ferro mai lavati, parlando del timore paterno che il figlio di uno di loro, lasciato senza una guida, inizi a fumare. Una paura comprensibile, certo, ma forse stridente con la realtà dei fatti vissuti. Eppure è proprio quel continuo arrovellarsi su una possibile soluzione che lega i tre soldati e fa sì che si confidino i loro sogni, un  giro in tram…  Irrealizzabile e semplicissimo. Fuga dall’orrore.

Poi, quasi per caso, una fronda di alberi senza brina, troppo verde nella selva bianca, svela il covo di un ragazzo ebreo: il calore del suo respiro ha tradito l’assurdo nascondiglio, un buco sotterraneo sotto strati di neve e di vestiti.

Sulla via del ritorno scelgono una casupola abbandonata per zittire le loro pance vuote e riprendersi dal freddo implacabile. Inizia la lunga preparazione del fuoco e della zuppa di semolino italiano, tanto magica a gonfiarsi quanto lenta a diventare commestibile, fino al punto da rendere necessario il sacrificio della porta dello sgabuzzino dove hanno chiuso il giovane catturato. Immolano l’unica cosa che realmente li divide da quell’essere e li costringe a vedere. Simbolicamente efficace ad accompagnare il rito del pasto condiviso, quasi un’ultima cena, ragionando sulla possibilità di negare ancora vita o questa volta di regalarla…

Un testo scritto con uno stile semplice e diretto, eppure estremamente poetico, e davvero ben tradotto da Federica Romanò. Un eccellente connubio tra lingua e scenario. Cento pagine appena per rendere l’abominio commesso dall’uomo, di cui non si parla mai abbastanza. Guerra, sterminio, razzismo e i carnefici che diventano dei vinti, stremati e svuotati, privi di speranze come le vittime.

(Hubert Mingarelli, Un pasto in inverno, trad. di Federica Romanò, Nutrimenti, 2014, pp. 112, euro 12)

Songlist: #Ontheroad

Il fascino della strada, del mito del viaggio, continua a rimanere intatto. Senza considerare le altre arti, nell'ambito musicale svariate canzoni e grandi nomi del rock almeno una volta hanno trattato il topos. Senza andare troppo indietro nel tempo, abbiamo scelto i brani – e il fondamentale apporto visivo – che nell'attuale panorama rock hanno affrontato il tema. Quanti di voi, con solo poche note, già riescono ad immaginarsi quelle lunghissimi distese di asfalto circondate solo da deserto e sole? Vento nei capelli e motore al massimo. E tanto, tanto rock n'roll. In SongList ne troverete dell'ottimo. Acceso il motore, scelta la destinazione?

 

"Scar Tissue", Red Hot Chili Peppers

Tra i protagonisti del video e i RHCP non è che ci fossero tante differenze. Sopravvissuti e allo sbando, con in ritorno di Frusciante, i musicisti californiani hanno però la forza di rimettersi in moto. Californication fu il loro grande ritorno, annunciato da questo pezzo ormai storico. Come il video.

 

"My Favourite Game", The Cardigans

Chi di voi non ha mai giocato a Gran Turismo? Esatto, c'era anche questo pezzo nella colonna sonora, anche perchè GT era in nome dell'album che conteneva questo brano. Se il video è diventato fin da subito un cult, gran merito va al fascino magnetico di Nina Persson. C'erano anche dei finali alternativi, tutti da vedere.

 

"Drive All Night", Bruce Springsteen

Forse il classico per eccellenza?

 

"The Way", Fastball

Su questa ci abbiamo scritta una bellissima BioSong.

 

"Dakota", Stereophonics

Nonostante siano gallesi, gli Stereophonics non hanno resistito al fascino americano del solcare con un bolide le route stelle e strisce.

 

"Stylo", Gorillaz

Da sempre attentissimi nell'"apparire", i Gorillaz in questo video si concedono non solo al loro video più cinematografico, ma chiamano in ballo un tale Bruce Willis. Un piccolo film –  con tanto di seguito – tutto on the road.

 

"Go with the Flow", Queens Of The Stone Age

Quintessenza iconografica dello stoner rock: furgone lanciato a tutta velocità verso un sole di fuoco, furia rock e bellissime donne all'orizzonte. Cosa chiedere di più da una folle corsa sull'autostrada?

“Il mondo fino in fondo” di Alessandro Lunardelli

Faceva parte della pattuglia di film italiani, tutti più o meno interessanti, presentati nella sezione autonoma Alice nella città dell’ultimo Festival Internazionale del film di Roma, Il mondo fino in fondo di Alessandro Lunardelli, con Filippo Scicchitano e Luca Marinelli che si inseguono tra Italia, Spagna e Cile.

Loris e Davide sono fratelli, ma non parlano molto. Sono diversi. Loris ha trent’anni, è semplice e serio nel portare avanti l’impresa di famiglia. Davide ha solo diciotto anni, è gay ma non lo ha detto a nessuno, e la vita nella provincia industriale del nord Italia non gli piace, non gli appartiene. Quando erano piccoli la madre li ha abbandonati senza troppi rimpianti. Hanno l’occasione di conoscersi quando partono per Barcellona per seguire l’Inter in semifinale di Champions. Lì Davide conosce un ragazzo cileno, un ambientalista rigidamente alternativo, se ne innamora e decide di seguirlo a Santiago, mollando il fratello. Loris parte per cercarlo con l’unica traccia di un biglietto. Durante il viaggio tutti e due capiranno molto di loro stessi e dell’altro, arrivando fino all’estremo sud della Patagonia.

Il viaggio come occasione di scoperta esterna ma ancora di più interna. Spingersi lontani dai posti abituali per guardarsi da fuori e riconoscersi. Un classico della letteratura, e del cinema, di viaggio. L’esordiente Alessandro Lunardelli, esperienza da documentarista e montatore, si affida a una forma narrativa rodata per raccontare la storia dell’incontro in fondo al mondo tra due fratelli e due storie di vite che, partite dallo stesso punto, si sono svolte in maniera completamente diversa.

Davide insegue l’idea di un amore impossibile non per una ragione sentimentale principale quanto piuttosto per evadere dall’opprimente realtà di provincia in cui non è libero di determinarsi. È costretto a reprimere la propria sessualità ancor prima dell’omosessualità, cioè a doversi mostrare secondo una consumata retorica machista che non gli appartiene più per indole personale che per le preferenze sessuali. Di fatto, la sua omosessualità non è centrale nelle svolte di Il mondo fino in fondo. Lo è la sua diversità rispetto al paese – l’immaginaria Agro – e all’impresa di famiglia, rispetto allo stadio e alle serate allo strip-club. Dall’altro lato, Loris, abituato sin da ragazzino a cavarsela da solo dopo l’abbandono della madre, costretto di fatto a una crescita accelerata che lo ha allontanato da sé inserendolo in contesti assicurati di lavoro, calcio e un amore coniugale che non sa essere adulto, trova in Cile, in un viaggio che lo allontana dalla sua routine di conforto, aspetti di sé che non aveva fatto in tempo a conoscere, una sensibilità mai svegliata, la forza di capirsi padre e marito e fratello e di perdonare una madre che non è più pazza, ma semplicemente irrequieta.

È un film di fantasmi, quello della madre fuggita che si è portata via anche la curiosità e la fantasia di Loris, quello della dittatura cilena, che perseguita il fantastico Lucho di Alfredo Castro, già apprezzato di No di Pablo Larrain, unico tra i personaggi minori a uscire dal rischio dello stereotipo imponendosi con la sua drammatica grandezza capace di aprire il film alla storia e ai suoi drammi.

C’è un po’ di retorica nel giovanilismo degli ideali del gruppo degli ambientalisti cileni, tutti belli buoni e felicemente tormentati dalle vicende personale e dall’inesorabile logoramento del mondo da parte dell’uomo, e alcuni momenti in cui Lunardelli ha voluto essere troppo poetico, come l’incontro con i due anziani che vanno a omaggiare il figlio scomparso, ma Il mondo fino in fondo ha una sua coerenza nella difesa del diritto a essere diversi e una potenza di immagini, aiutata chiaramente dai paesaggi della Patagonia, che lascia il segno.

Filippo Scicchitano è arrivato al quinto film nella sua giovane carriera. A parte il più che trascurabile Bianca come il latte, rossa come il sangue, ha dimostrato coraggio nelle scelte soprattutto nell’ultimo anno. Il mondo fino in fondo è il suo secondo film distribuito nel 2014 dopo Allacciate le cinture. Interpreta un personaggio omosessuale in entrambi i film, ma lo fa costruendo due psicologie completamente diverse, evitando sempre la macchietta.

 

(Il mondo fino in fondo, di Alessandro Lunardelli, 2013, drammatico, 95’)

 

I pirati hanno abbordato il piccolo schermo: arriva “Black Sails”

[L’articolo parla di una serie ancora inedita in Italia]

 

«Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum! Il vino e il diavolo hanno fatto il resto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum!».

Non so voi, ma l’era della pirateria per me è un periodo sempre affascinante che non passa mai di moda. Alzi la mano chi non scorge almeno un pirata a Carnevale o Halloween. Aggiungiamoci gli anni d’oro de I Pirati dei Caraibi ed ecco la lunga fila di novelli Jack Sparrow aggiungersi alla festa. Pochi dubbi sul fatto che Robert Louis Stevenson con il suo romanzo L’isola del tesoro abbia dato una spinta decisiva al proliferare di buona parte della “mitologia” attorno all’argomento.

Quel libro di fine diciannovesimo secolo è stato influente su tutta buona parte della produzione successiva sull’argomento, e adesso è arrivato il momento anche per il mondo delle serie televisive di cavalcare quest’onda. Quando il canale via cavo Starz ha annunciato l’arrivo di Black Sails, i sentimenti sono stati sicuramente contrastanti. Questo perché la rete in questione negli ultimi anni ha saputo  regalarci serie storiche appassionanti come Spartacus, ma anche prodotti meno apprezzabili come Da Vinci’s Demons o The White Queen. La linea tra flop e successo è molto labile, poteva questa novità piratesca affrontare degnamente le aspettative degli spettatori?

Io non posso che protendere per il sì. Il mondo in cui ci porta Black Sails era stato sicuramente poco sfruttato sul piccolo schermo, e riuscire a riportarci nell’atmosfera dell’epoca d’oro della pirateria del diciottesimo secolo è già un piccolo capolavoro. Senza dimenticare i riferimenti a L’isola del Tesoro. Stiano tranquilli i fan più accaniti, l’immagine de capolavoro di Stevenson è rimasta intatta. L’idea dei produttori è stata dal primo momento quella di realizzare un prequel liberamente ispirato al libro, senza dover obbligatoriamente aderire il più possibile all’originale. Non cercate la maggior parte di riferimenti accurati possibile, accontentatevi di vedere le avventure del giovane John Silver al suo primo incontro col capitano Flint, e gustatevi la vita del 1700 nella ridente isola di New Providence, celebre covo di pirati.

In un ritrovo di malviventi, di loschi affari, popolato da sanguinosi assassini e prostitute, potete ben immagina che Black Sails non fa del “politically correct” il suo cavallo di battaglia. Sangue, violenza e sesso, da stupri di gruppo ad amori saffici, sono (e aggiungo quasi devono essere) all’ordine del giorno. E non poteva essere altrimenti visto il tema trattato e il taglio che hanno voluto dare i produttori. Se la trama non vi farà strappare i capelli, e la storia sarà relativamente lenta ad ingranare, devo ripetermi nel sottolineare come non si possa non amare tutto il “contorno” della serie, il vero punto di forza di Black Sails. A cui va obbligatoriamente aggiunto un paletto: è innegabile che la serie di Starz in questo momento goda del cosiddetto “effetto The Walking Dead”, ovvero un successo assicurato figlio anche di una vera e propria mancanza di alternative. Come gli zombie targati AMC hanno sbaragliato una concorrenza inesistente anche Black Sails rappresenta l’unica soluzione percorribile per tutti gli amanti del genere. Almeno fino a fine maggio, quando è previsto finalmente l’episodio pilota di Crossbones, rimandato veramente troppo a lungo.

La sfida è aperta, vediamo quale ciurma la spunterà.

 

“I giorni e gli anni” di Uwe Johnson

Per anni in Italia lo scrittore tedesco Uwe Johnson (1934-1984) è stato conosciuto soprattutto (si fa per dire, trattandosi sempre di un pubblico esiguo) per il suo romanzo d’esordio, Congetture su Jakob (1959), tradotto da Feltrinelli. Libro più di suoi altri di non immediata fruibilità, indifferente a ragioni di semplice comunicabilità e poco propenso ad accattivarsi l’attenzione del lettore tramite le lusinghe di una semplice narrazione di fatti. Pure, e il progetto Jahrestagein quattro volumi lo dimostra, se Johnson pretende una lettura partecipe, attiva, che si sforzi di entrare all’ascolto di una storia senza perciò “farsi cullare”, non si tratta di una fatica priva di ricompense. In questo terzo volume I giorni e gli anni (20 aprile 1968 – 19 giugno 1968)con cui l’editore L’Orma aggancia l’interrotta pubblicazione feltrinelliana dei primi due con la promessa di rieditare l’intero lavoro, Johnson riprende il personaggio di Gesine Cressphal per immergerlo nel grande mondo della Storia, dagli anni passati nell’originaria Germania Est all’approdo a New York – un progetto di quelli ambiziosi, di quelli che possono segnare solo alcune vite (e opere) di scrittori in un secolo.

Opere-mondo, si è detto, che intendono coniugare l’istante e il totale, il senso di una vita ma anche il senso (se è possibile esprimersi così alla buona) della Storia, un tentativo duro (che dura tutta la vita) di provare a scommettere sulle possibilità stesse della scrittura di esaurire ciò che è (stato). Ci troviamo davanti a un passo diaristico che non impedisce tuttavia alla scrittura di cimentarsi in soluzioni espressive diverse nel passaggio da un paragrafo all’altro, capace di varianti e strappi improvvisi, di svolte repentine dalla notarile registrazione di fatti dati elenchi alla connotazione paesaggistica («stamattiva pendeva sull’Hudson una densa foschia di una luminosità inusitata»). L’alternarsi fra la documentazione del presente americano di Gesine e figlia («più scafata», a suo agio nel nuovo mondo, nonostante i progetti della madre, compreso quello di «parlare tedesco corretto»), quello privato e quello storico (recuperato attraverso la narrazione quotidiana del New York Times) e i trascorsi nell’est comunista, non è mai troppo tonalmente disgiunto – come riflettendo una posizione programmatica dell’autore, a disagio tanto nel «socialismo reale» quanto nell’opulenza consumistica occidentale («la madre s’era portata dietro le sue idee sull’Europa […], che tutti gli esseri umani nascano con uguali diritti»). L’effetto, come sempre, è dato dall’insieme: le vicende storiche della Germania proiettano una luce obliqua sul presente documentaristico, e le notizie del quotidiano (che non tralasciano né le contraddizioni statunitensi – fra le altre cose, sono gli anni del Vietnam – né le vicende dell’Europa, si tratti di Colonia nel cui penitenziario i malati di mente «vengono picchiati a morte» o della tragica primavera praghese) sbilanciano la visione in un’epica eccentrica, spigolosa e mai placata. Come avrebbe potuto, se Gesine nonostante gli orrori della DDR continuava a pensare che il socialismo fosse meglio di un paese capitalista in cui pure aveva finito per vivere, lavorando in una banca per giunta? La meritoria fatica della traduzione porta i nomi di Nicola Pasquetti e Delia Angiolini.


(Uwe Johnson, I giorni e gli anni, trad.di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, L’Orma, 2014, pp. 384, euro 26)

“Non dirmi che hai paura” di Giuseppe Catozzella

Una farfalla gialla su sfondo turchese: la leggerezza, la fragilità e la caducità. Una copertina che racchiude le tre caratteristiche che sembrano appartenere a Samia, la protagonista di Non dirmi che hai paura, romanzo di Giuseppe Catozzella (Feltrinelli, 2014), e i due colori principali del racconto: il turchese del Mar Mediterraneo e il giallo del deserto.

La storia di questa bambina somala si potrebbe riassumere in poche parole. Tuttavia, semplicità non è sinonimo di facilità. Samia nasce a Mogadiscio in piena guerra civile (il conflitto tutt’ora in corso che vede coinvolte le etnie darod, abgal e hawiye e i militari di Al-Shabaab), ama correre e lo fa con il suo migliore amico Alì, sollevando la polvere delle strade della bianca città somala. Il sogno di Samia è diventare un’atleta e poter gareggiare alle Olimpiadi, vincere i cento metri e da lì iniziare il riscatto e la liberazione di tutte le donne somale. Perciò la ragazzina, veloce e magra come una gazzella, si allena giorno e notte, sfida i guerriglieri, corre per scappare dalla guerra e dalla morte che la circonda, corre fino a sfinirsi e crollare addormentata nella sua baracca, dove vive con i fratelli e la famiglia di Alì.

Dopo mesi di rinunce e perdite, ma anche di vittorie e felicità effimere, Samia riuscirà a partire per quello che tutti in Somalia chiamano “il Viaggio”: la lunga traversata del deserto e del Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa e il proprio sogno.

Non è facile raccontare una vita vera, soprattutto quella di chi è molto lontano da noi sia geograficamente sia culturalmente. Catozzella qui accetta la sfida ma non riesce a sfuggire alla retorica: Non dirmi che hai paura è il racconto che l’autore immagina possa scaturire dalla voce della piccola Samia. Il linguaggio è semplice e a tratti ci colpisce con crudezza, ma il romanzo implora continuamente il lettore di commuoversi. Lo fa quasi in ogni pagina e in ogni paragrafo. Lo fa con le parole e con le immagini che queste evocano. La giovane protagonista diventerà una grande atleta e guiderà la liberazione di tutte le donne somale dalla schiavitù; riuscirà a conquistare il suo sogno sconfiggendo la paura della guerra; la speranza e la determinazione la guideranno nel suo viaggio, assieme alla foto del suo atleta-eroe; si addormenterà con i canti della sorella Hodan, la quale poi si sposerà e andrà a vivere in Svezia… paiono stereotipi, ma in fondo la vita di ciascuno di noi se riassunta in questo modo apparirebbe finta; il problema di Catozzella è che esalta e spinge al massimo della commozione ogni episodio, e il fatto che parli attraverso la voce di Samia, rende il tutto ancor più lacrimoso e retorico. Il culmine si raggiunge quando durante il suo viaggio nel deserto Samia vede un cartellone pubblicitario con la scritta: «Conquista i tuoi sogni».

La narrazione segue uno schema binario: gli eventi negativi che coinvolgono Samia, la sua famiglia e gli amici, sono alternati a momenti positivi e di riscatto per la bambina (legati essenzialmente a gare di corsa). La struttura risulta a volte un po’ noiosa, ma in più di un momento l’autore si dimostra abile nel  deviare il focus narrativo e il fatto che gli eventi precipitino poi verso una conclusione inattesa contribuisce ad aumentare il ritmo della narrazione.

Nel complesso il romanzo è godibile e Catozzella ci regala una descrizione cruda di uno dei temi caldi di oggi (le migrazioni di massa dai paesi africani verso l’Europa) visto attraverso lo sguardo sincero e privo di sovrastrutture teoriche di una bambina.

Il fatto che sia entrato tra i dodici candidati al premio Strega non eleva certo il suo valore letterario, ma resta un buon romanzo d’intrattenimento, un romanzo da ombrellone si potrebbe dire, che piace a molti perché “vero”, perché nel finale fa sorgere una lacrimuccia. Un romanzo in realtà buonista, soprattutto nel finale, che assomiglia alla sceneggiatura di una di quelle serie tv della Rai, che trattano tematiche complesse e crude con leggerezza e finta poesia.

 

(Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, 2014, pp. 240, euro 15)

[LostInTranslation] “We are Marshall” di Mcg

Parte da una storia vera, We are Marshall, film del 2006 mai arrivato nelle sale italiane (e neanche in dvd o in televisione): l’incidente aereo del 4 novembre 1970 che decimò i Thundering Herd, la squadra di football della Marshall University, Virginia occidentale, in cui persero la vita circa settanta persone tra giocatori, staff tecnico, tifosi e membri dell’equipaggio al rientro da una trasferta.

L’incidente viene liquidato nei minuti iniziali del film, senza spettacolarizzazioni. La comunità di Huntington è sconvolta dalla tragedia. Ovviamente, non sono morti solamente giocatori, ma figli, fidanzati, amici. Pensare di portare avanti il progetto di football dell’università sembra inimmaginabile per il consiglio di amministrazione, ma il capitano Ruffin, che non era sul volo per un infortunio, non è d’accordo e con lui gran parte degli abitanti della città. Bisogna far rinascere i Thundering Herd per onorare i morti. Nessuno ha il coraggio di assumersi l’impegno di allenare una squadra che non esiste, tranne Jack Lengyel che dall’Ohio si offre come coach. Dovrà inventarsi giocatori reclutandoli da altri sport e forzando la mano sui regolamenti per l’età minima, ma alla fine riuscirà a restituire a Huntington la sua squadra e qualcosa in grado di far dimenticare il disastro.

Doveva essere un grande successo, We are Marshall. La regia di quello che all’epoca era un re Mida di Hollywood come Mcg, la presenza della star del lanciatissimo Lost Matthew Fox e di Matthew McCounaghey, che se nel 2006 non era sinonimo di qualità lo era sicuramente di incassi, dovevano portare spettatori a migliaia nelle sale di tutto il mondo. Eppure non è andata esattamente così. Costato troppo (si stima intorno ai 65 milioni di dollari), non riuscì a coprire il budget investito e non ottenne sbocchi sui mercati internazionali.

Non è però un film da buttare, We are Marshall, anzi, è un film che vale la pena recuperare. È chiaro, è permeato di retorica sportiva alla maniera statunitense, quindi sulle opportunità di ripresa dopo una caduta (non solo simbolica, in questo caso) e su quanto il senso di appartenenza e di comunità sia superiore a ogni tipo di forza, ma riesce a non essere retorico nel suo messaggio – con l’eccezione delle musiche di Cristophe Beck che sono proprio il classico esempio di colonna sonora epico/patetica. Saturo di valori positivi di etica sportiva celebrati più e più volte dal cinema Usa (solo in ambito football si ricordano, in ordine sparso, Quella sporca ultima meta, Colpo secco con Paul Newman, In amore niente regole di Clooney, Blind Side del 2009 che è valso un Oscar a Sandra Bullock – e non è mai stato distribuito in Italia -, Ogni maledetta domenica di De Palma, anche se è leggermente più critico, fino alla serie tv Friday Night Lights amata da Obama), We are Marshall offre uno spaccato convincente di quello che è lo sport nella vita di una comunità: un aggregante, un’identità condivisa, un codice genetico unico. La cicatrice dello schianto dell’aereo si forma lasciando che i lembi del dolore si riuniscano sopra la ferita della perdita, a riformare la squadra come una nuova pelle.

Lo capisce per primo il coach Lengyel, un esterno che ha però il coraggio di comprendere il senso del tifo e dello sport per se stesso: non è sempre possibile vincere, ma una vittoria, in senso decoubertiano, può essere data anche dalla semplice partecipazione.

La critica si concentrò principalmente sulla regia di McG, inadatta con il suo dinamismo a un film drammatico (ma gli va dato atto che le partite, proprio per il dinamismo, sono spettacolari) e sulla recitazione di Matthew McCounaghey, all’epoca ben lontano dall’apprezzamento universale. Con la bocca storta e le spalle curve, il suo coach è in verità un personaggio carismatico e di enorme carica, il fulcro su cui fa leva l’intera trama di rinascita dei Marshall.

A distanza di anni è interessante osservare We are Marshall come momento di svolta nella carriera di Matthew McCounaghey. Confinato nei primi anni del 2000 nelle cosiddette shirtless comedy in cui il suo sforzo attoriale si limitava a mostrare addominali e sorrisi, nonostante alcuni ruoli in film rilevanti nel biennio 96-97 (Il momento di uccidere, Contact, Amistad), con We are Marshall McCounaghey getta le basi di quella che da alcuni è stata chiamata McConaissance (neologismo improbabile formato da McCounaghey e Renaissance, Rinascimento): la maglietta resta al suo posto, i successi al botteghino diminuiscono ma aumentano la cura nella scelta dei ruoli e le collaborazioni con registi interessanti (non sempre riuscite, in verità) fino all’apoteosi Oscar di Dallas Buyers Club. Oggi è l’attore più apprezzato in circolazione, all’epoca, solo il più desiderato.

 

(We are Marshall, di McG, 2006, drammatico/sportivo, 124’)