“Lauro” di Evgenij Vodolazkin

Per quanto mi sforzi e a costo di apparire pretenziosa, non riesco a fare a meno di notare anzitutto che, forse per la prima volta, mi trovo al cospetto di una quarta di copertina che non delude, quando di solito riempita solo per non essere lasciata vuota. Cito dunque dalla quarta di Lauro, opera dell’autore ucraino Evgenij Vodolazkin (Elliot, 2013): «Un romanzo sull’amore nel significato più vero del termine, in cui elementi della natura medievale e contemporanea si fondono felicemente». E vorrei sottolineare per chiarezza quel sull’amore, e non d’amore dunque: agli antipodi rispetto agli Harmony, per intenderci, con tutto il dovuto rispetto.

Lauro è la storia di Arsenio, un bambino dell’affascinante quanto dura Russia di un non troppo distante Medioevo, rimasto orfano e per questo cresciuto dal nonno Cristoforo: nomina sunt omina, e mai fu più vero come in questo testo. Arsenio di nomi ne avrà addirittura quattro, forse perché, ci suggerisce l’autore «[…] la vita dell’uomo è multiforme. A volte succede che le sue parti abbiano poco in comune, talmente poco da sembrare vissute da persone diverse». Instradato dal nonno alla conoscenza dei segreti delle erbe e dei preparati medicinali, il ragazzo pare avviato a una brillante carriera di guaritore, quando la sua vita subisce una forte battuta d’arresto, segnata dalla morte per parto della donna amata. Questo evento tragico sembra inizialmente annichilire la sua esistenza, ma in realtà le darà il suo più autentico e profondo indirizzo: «“So che tu sogni la morte. Ti sembra che la vita non conti più nulla, non ci trovi un senso. Ma proprio ora nella tua vita si è rivelato un senso importante come non mai. […] Gli occhi di Arsenio fino ad allora erano asciutti. “Ma la vita terrena io gliel’ho tolta”. Lo starec lo guardò tranquillo. “Allora dalle la tua”. “Dici che io avrei la possibilità di vivere al posto suo?”. “Parlando seriamente sì. L’amore vi ha resi una sola cosa, e questo significa che una parte di lei è ancora qui. E quella parte sei tu.”». Eccolo qui l’amore di cui si diceva, punto focale del romanzo e Stella Polare del protagonista: umano, tutt’altro che banalizzato, vero, sempre a un palmo dalla morte eppure totalmente irriverente nei suoi confronti, tale da condurre serenamente al gesto dei gesti, dare la propria vita. Inizia così il viaggio, sofferto, verso la scoperta del senso della propria e altrui esistenza.

Eppure il fascino di questo testo non sta soltanto nella sua trama, per quanto intrisa di elementi particolarissimi, le descrizioni delle rigide ma rubiconde atmosfere russe, i personaggi, sempre lì lì per sconfinare nel magico, funambolici come tali possono essere soltanto le comparse di una letteratura così profondamente segnata da Dostoevskij, e poi lo sfondo, fatto di spazi sterminati fisici e non, racchiusi in un orizzonte squisitamente medievale il cui filo conduttore è il viaggio, tema trattato quasi alla stregua dantesca, non solo spostamento ma anche maturazione, non solo viaggio dell’anima, ma raggiungimento in sé dell’infinito. Amore, viaggio e tempo, sono questi gli elementi attraverso cui il lettore si muove, elementi che si intersecano di continuo, inscindibili, interscambiabili, ed è bravo l’autore a dosarli con cura, a darci di ognuno una saggia porzione, facendo in modo che mai da essi ci si allontani troppo, cosicché la storia di Arsenio è anche quella di un uomo contemporaneo, Jurij Aleksandrovic Stroev dell’anno 1977, la cui vita viene rievocata in una visione da Ambrogio Flecchia, veggente e viaggiatore nel tempo, appunto. «Stroev partì in treno per Pskov. […] pensava che non avrebbe più trovato Alessandra. […] “Non ci sono” avrebbe detto Parchomenko “sono andati via per sempre. Per sempre. Lei ha tergiversato troppo a lungo. Ma, a dire il vero, il tempo non c’entra, perché un vero amore non è nel tempo. Il vero amore può aspettare anche tutta la vita. […] Lei non ha saputo cogliere nulla di tutto questo e questa sua spedizione, come la precedente, è un inutile dispendio di tempo». Di nuovo amore, viaggio e tempo, un tempo prezioso pare, che non va sprecato.

Eppure, soltanto se si fosse disposti a viaggiare e se si arrivasse alla fine del viaggio sospinti dall’amore ci si accorgerebbe che «[…] il cammino dei vivi non può essere circolare. Il cammino dei vivi è aperto, perché senza uscita dal cerchio quale libero arbitrio ci può essere, […] mi piace paragonare il moto del tempo a una spirale. È una ripetizione ma a un livello nuovo. Più alto. Oppure se si vuole l’esperienza del nuovo ma non da zero. Con il ricordo del vissuto precedente”. Da dietro le nuvole spuntò un debole sole autunnale. Dalla parte opposta delle mura apparve lo starec Innocenzo. Durante la conversazione con Ambrogio aveva fatto in tempo a fare il giro del monastero. “Pure tu, starec, fai un cerchio”, gli disse Ambrogio. “No, questa è già una spirale. Certo, cammino come prima in un mulinello di foglie, ma nota, Ambrogio, che è uscito il sole, e io sono già un po’ diverso”».


(Evgenij Vodolazkin, Lauro, trad. di Emanuela Bonacorsi e Nodar Ladaria, Elliot, 2013, pp. 307, euro 18,50)

“Blood Red Shoes” dei Blood Red Shoes

Fortunatamente, per la gioia del rock e dei suoi discepoli, esistono dischi così semplici da essere perfetti. I Blood Red Shoes, con il loro nuovo e omonimo disco, ci permettono di affrontare il discorso nella maniera più ampia e riuscita.
Caro lettore, Blood Red Shoes è l’album da mettere nelle cuffie a prima mattina. Quando la giornata ha bisogna di una scossa, o di essere presa nel modo giusto, con la grinta adatta. Nel quarto, e più bel disco del gruppo inglese, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per rinnovare la tua fede nel rock e perderti in assoli e cavalcate elettriche.
Ma presentiamo i Blood Red Shoes ai tanti lettori che non li conoscono. La band è un power-duo composto da Laura-Mary Carter, alla chitarra, e Steven Ansell alla batteria. Originari di Brighton, è da qualche anno che il loro nome si impone nell’indie rock mondiale. Con quest’ultimo lavoro lo fanno in maniera indelebile, senza rubare nulla a nessuno.

Anzi, c’è già chi osanna il disco come tra i papabili per il più bello del 2014. Basta l’inizio di “Welcome Home” per capire che non ci sono favoritismi o parzialità. Un minuto e cinquanta, strumentale, in cui viene presentata tutta l’energia e la grinta di Blood Red Shoes. Le chitarre e la batteria si fondano in una scarica eccezionale e non c’è accordo o battito privo di furore.

Di seguito è il turno del fuzz di “Everything All at Once” dove abbiamo anche il piacere di ascoltare le voce dei nostri rocker. Altro singolo, e pezzo forte dell’album, è “An Animal”. Ciò che colpisce al primo impatto – e sarà poi il punto di forza – è la capacità di unire una base musicale feroce a dei ritornelli cantabilissi e d’impatto garantito. Dopo un brano a tratti isterico come “An Animal”, ci pensa la sinuosa voce della Carter a regalarci con “Grey Smoke” una possente e affascinante ballata sporca e elettrica.

Ma non c’è un attimo di pausa in questo treno inarrestabile battezzato Blood Red Shoes: “Far Away” inizia piano, ma è solo un’illusione. Successivamente arriva un altro capolavoro per riff di chitarra e foga ritmica: “The Perfect Mess”. Riuscitissima anche la ballata “Stranger” con la sua base ipnotica e l’ennesima meravigliosa prova vocale della Carter.

Insomma, Blood Red Shoes è uno dei rarissimi dischi del periodo dove non è possibile sorvolare nemmeno su una canzone. Lineare e d’impatto nella sua semplicità e immediatezza, l’album dei Blood Red Shoes dimostra come l’anima pura del rock – quando è genuina e sincera – non ha bisogno di tanti giri o perdite di tempo. Ed è sempre più raro un caso del genere.


(Blood Red Shoes, Blood Red Shoes, Jazz Life, 2014)

 

“Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra” di Stefania Parigi

Stabilito – si spera una volta per tutte – che «l’immagine non è mero rispecchiamento di una realtà esistente nella sua oggettiva evidenza», con buona pace di qualche «anacronistico bigotto del realismo vecchio stile», emerge forte la necessità di fare punto e a capo con una faccenda apparentemente ovvia e in realtà proprio per questa finita coi decenni in una nebulosa insipienza.

«Una parola per tanti usi», scrive Stefania Parigi, docente di Storia del Cinema Italiano presso l’Università degli Studi Roma Tre, a proposito di Neorealismo – titolo del ponderoso saggio con il quale la studiosa propone una sistemazione (per quanto possibile) definitiva, chiarificatrice, puntuale dell’argomento. La Parigi illustra con molta lucidità la gamma di questioni che il cosiddetto neorealismo ha tenuto aperte non semplicemente come fenomeno filmico (cosa, dove è “la realtà” quando parliamo di estetica, di scrittura – non è un caso che di cinema si occupa sempre più la filosofia) ma nell’immaginario e nella coscienza della storia nazionale. L’impresa dell’analisi sta nel definire e circoscrivere intanto «forme, generi, temi e figure» affini e le variabili fra gli episodi centrali dell’immediato dopoguerra; poi da una parte i prodromi più o meno consapevoli e dall’altra le propaggini degli anni successivi.

Parliamo di un acme del cinema italiano e di una stagione particolarmente felice della storia del cinema mondiale; le soluzioni furono molteplici. Dai prodromi di Ossessione di Visconti a I bambini ci guardano di De Sica, i preannunci si spostano dalla storia (la faccenda di corna in De Sica essendo alfine banale rispetto a quella del futuro autore di La terra trema) allo sguardo: il punto di vista dell’infante che spostava sul tragico la pur accesa notifica di un mondo falso, quello borghese, che aveva trovato nel fascismo la sua cappa plumbea quanto rassicurante.

Cesare Zavattini vi giocò un ruolo imprescindibile, e fu anche il più tenace e convinto nella custodia anche nominale dell’espressione. Il binomio con De Sica come tutti sanno costruisce uno degli apici dell’arte cinematografica – pur paradossale se si accetta (ricorda Stefania Parigi) la “frase leggendaria” con cui André Bazin cifrava definitivamente uno dei capolavori del Novecento: «Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema» – che è un modo per intendere, attraverso «una poetica quasi ascetica» la direzione impressa alla rappresentazione del neorealismo.

In Italia il termine viene utilizzato per Roma città aperta ma appare come un prestito mutuato dalla produzione francese degli anni trenta (fra Renoir, Duvivier e Carné); e impiega qualche anno per essere usato sistematicamente – da noi, si preferiva parlare di verismo. «L’identità è controversa», insomma, ed è con lo stesso Rossellini che il problema si complica, la critica coeva biasimando in maniera un po’ ottusa il fatto che il grandissimo regista non ne seguisse pedissequamente i dettami. Rossellini poteva esser ellittico, persino incomprensibile per molti, specie in Paisà, dove rifuggiva dalla consequenzialità narrativa e da ogni oppressione di sceneggiatura (ovviamente, il genio di Fellini vedeva oltre e parlava del film come di «una spirale di vita e invenzione, di osservazione e creatività»). Per non dire di come fu trattato Germania anno zero, visto come opera frammentaria e persino spiritualista. «Un’estetica delle macerie» si sostituiva alla «vecchia mitologia ottocentesca della rovina: essa è il risultato dell’”azione devastante della storia». Il cinema neorealista nei suoi esiti migliori invece di compiacersene tenta una «rifondazione dell’immagine» e vi riesce splendidamente.

Il libro di Stefania Parigi, molto denso e corposo, ne dà ragione ed esibisce tutte le caratteristiche per diventare uno studio sull’argomento imprescindibile.

(Stefania Parigi, Neorealismo.Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, 2014, pp. 368, euro 25) 

“La sedia della felicità” di Carlo Mazzacurati

È un arrivo triste, quello di La sedia della felicità nelle sale. Triste perché il suo regista, Carlo Mazzacurati, se ne è andato a gennaio e non ha fatto in tempo a vederlo al cinema, a vedere la reazione del pubblico. Triste perché La sedia della felicità è un film gioioso e positivo, come lo era Mazzacurati, che amava i suoi film come figli, ed è un peccato doverlo associare al ricordo della fine.

La storia della sedia è la summa del cinema di Mazzacurati, del suo gusto di raccontare con affetto storie di sconfitti e uomini in caduta. Perché Dino e Bruna sono due disperati sereni. Lui è un tatuatore separato in ritardo di mesi con gli alimenti per la moglie e il figlio, lei un’estetista che non riesce a pagare i debiti al viscido Volpato. Lavorano uno di fronte all’altro, ma non si conoscono. Si incontrano per caso e Bruna coinvolge Dino in una caccia al tesoro per recuperare le ricchezze di Norma Pecche, una sua cliente madre di un boss della mala veneta che prima di morire in carcere le ha confessato di aver nascosto una fortuna in una delle sedie del salone buono della villa di famiglia. I due iniziano un viaggio sgangherato e confuso per recuperare le sedie vendute in un’asta giudiziaria, con un prete sommerso dai debiti di gioco che dopo averli ostacolati si unisce a loro.

È una favola garbata, La sedia della felicità, garbata ma non buonista. Perché Dino, Bruna e padre Weiner (in ordine, Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese e Giuseppe Battiston, tutti e tre diversamente bravi) sono pronti a tutto per di recuperare la sedia, anche a rubare, truffare, sfruttare una povera veggente malata (Milena Vukotic) che rischia di morire a ogni contatto con l’aldilà. Come già in Il toro e La lingua del santo, i personaggi di Mazzacurati sono criminali per necessità, per caso e disperazione. Indossano la loro sconfitta con dignità e eleganza attaccandosi a ogni pretesto che possa garantire loro un riscatto scoprendosi maestri nell’arte di cavarsela. Il nord-est, ancora una volta sfondo del film di Mazzacurati, non è più terra di possibilità illimitate e di ricchezza come nel film d’esordio Notte italiana, ma percorso di declino nella mappa del decadimento morale ed economico d’Italia.

Qui, però, a Mazzacurati non interessa sottolineare gli aspetti pur rilevanti della crisi, ma concentrarsi sulla sospensione del reale dell’avventura di Dino e Bruna, improbabili cacciatori di ricchezze in sedie orribili a foggia d’elefante, e far sorridere seguendoli fino in cima alle Dolomiti.

Accettando proprio la sospensione che La sedia della felicità richiede si può sorridere di tanta miseria, del razzismo implicito di certa Italia mostrato con alcuni facili stereotipi (il ristorante cinese, il faccendiere slavo) e delle situazioni comiche abusate in passato e ripetute con quella gentilezza che contraddistingue tutto il film. Si è voluto divertire girando questo ultimo film, Mazzacurati, come a voler lasciare un ricordo di sé che fosse il più possibile divertente e autoironico, di una persona solare pronta a scollegarsi dal mondo reale a cui ha sempre guardato con enorme attenzione.

Probabilmente la scomparsa rende più indulgenti, pronti a sopportare momenti di debolezza televisiva e di approssimazione di scrittura, ma è un peccato davvero che Mazzacurati non ci sia più e che non ci saranno più altre sue commedie di sconfitti gentili.

Come a passare per un ultimo saluto, sono tanti gli attori che già avevano lavorato con Mazzacurati a comparire anche per pochi minuti, da Antonio Albanese (che con Vesna va veloce del 1996 divenne a tutti gli effetti attore) in doppio ruolo, alla coppia di venditori d’arte Silvio Orlando-Fabrizio Bentivoglio, passando per Katia Ricciarelli, Raul Cremona, Roberto Citran (che con Il toro vinse la Coppa Volpi a Venezia), fino al politologo Ilvo Diamanti.

Presentato al Torino Film Festival 2013 fuori concorso in occasione del conferimento a Mazzacurati del Gran Premio Torino Film Festival alla carriera.

 

(La sedia della felicità, di Carlo Mazzacurati, 2014, commedia, 90’)

 

“C’è posto tra gli indiani” di Alessio Dimartino

Marcello s’intende di punture. Le propina per guarire, le propina per uccidere. E quando si tratta di se stesso mescola gli scopi. Li miscela in vena, per sentirsi fluttuare.

Marcello è un veterinario. Eroinomane. Che aspetta la sera per iniettarsi un po’ di vento. Ma tra lui e la vertigine domestica s’infila un campanello, insistente come chi lo innesca. Un vecchio distinto con un cane in allegato. Quel cocker non gli spetta, non c’è nessun motivo per cui gli venga consegnato da un viso qualunque, mentre cercava solo di smacchiarsi dal mondo, eppure quell’uomo sostiene il contrario. C’è il suo indirizzo sul biglietto e il suo mestiere appeso fuori a sottoscrivere il permesso.

Si schiude così, tra le mura di casa, C’è posto tra gli indiani (Giulio Perrone Editore, 2014), il nuovo romanzo di Alessio Dimartino. Ma dopo poche pagine si sconfina voraci al di là della porta. Alcol e pastiglie non hanno fatto abbastanza. E Marcello decide di rimandare la fine. La procrastina, come si fa con le bollette.

Insieme a Bobo e alle sue zampe si tuffa dentro Roma, in una notte di strade innervate di tappe ricamate a mano. Dal tendone di largo Preneste si snoda un circo d’incontri allucinati, un dedalo di madonne psichedeliche, spacciatori arruffati, lacerti di kebab, personaggi sbucati dagli angoli come da una botola d’inconscio. Si susseguono un “prostituto” ingiallito oltre i denti, un’amica del liceo, appesantita e profumata, uno zingaro cresciuto tra troppe ferite per non voler azzannare ogni cosa, un padre ancora solcato dal lutto e poi tutto il resto. Un diorama di fantasmi fortuiti, di figure instabili, scalcinate come ombre sparse alla rinfusa. Ognuno ha perso qualcosa, compreso quello che non ha mai avuto. Un’occasione, un figlio, la speranza, la testa. Anche Marcello ha la sua falla. Un crepaccio rugoso in cui è piombata Silvia, la donna che non ha smesso di amare. E che stabilito di non amarlo più. Un eccesso di distanza in cui l’eroina si è insinuata al meglio, quando ancora erano insieme, camuffata in un borsone da piscina, tra la cuffia e le ciabatte. I ricordi pizzicano più delle siringhe, la sete di quel sesso combattuto, raggrumato di residui intorno al cuore e ogni scontro con gli altri, ogni casella in cui rimbalza è quasi un gioco di specchi, dove è difficile sancire chi sia più arreso. E comunque più sconfitto.

È una periferia sbavata quella di ogni sosta, cruda come coloro che la addensano. Ma a una periferia e ai suoi viandanti questo si può chiedere: fame, stanchezza, nostalgia, sporcizia, birra, insonnia, ma non compostezza. I cassetti rimangono aperti, anche quando piove e ci si impregna mani e piedi a camminarci sopra. Come fa Marcello, che una fermata dopo l’altra con Bobo al guinzaglio rintraccia bordi di passato:  l’adolescenza e il tennis, il padre incenerito nello zaino, un amico svaporato troppo in fretta. Tutto ciò che gli appartiene, anche se lui non appartiene più a nulla, neanche a quei gironi in cui scivola stordito.

A fargli da contraltare fino all’epilogo, un’altra voce narrante, che ne sa più di quanto si possa pensare. Che lo spiega in controluce mentre Marcello si racconta quasi osservandosi da fuori.

Protagonista complicato, sghembo, ciondolante, fallito, visibilmente in disordine con ciò che lo riguarda. Eppure è un tossico sui generis. Metodico, imboscato tra gli altri mortali. Si droga una volta al giorno, lontano dai miasmi delle astinenze altrui.

Perché in questo caso l’eroina non la fa da padrona. Non c’è la sudditanza irresistibile che porta a deviare, come fa la Nikita di Devozione, romanzo straziante di Antonella Lattanzi. E non siamo nemmeno l'Oregon di James Fogle, nel turbine ossessivo e criminoso del suo Drugstore Cowboy ,  o nella Los Angeles di Tony O’Neil crivellata di overdose, vera e propria Sick City. Quella ritratta è la Roma schietta di ogni sera del Pigneto, dove gli scarti imbrattano l’asfalto, gli immigrati sono una maggioranza rumorosa, dove sbandare al bancone dopo il terzo giro etilico fa parte del week end. E Marcello si appoggia a ogni scenario, senza mai integrarsi e senza mai stridere. La dipendenza dal buco è un ingrediente della sua deriva, isolotto rancido di un arcipelago esteso. Al di là e al di qua di un ago.

Il linguaggio è mulatto, misto, contaminato, pieno di salti in alto e in basso. Di cadute e di rilanci. Il tour della lettura si brucia alla svelta, dentro i passi di Marcello. Ogni notte si fa vincere e si riprende a galleggiare. Finché qualche corrente non suoni il campanello.


(Alessio Dimartino, C’è posto tra gli indiani, Giulio Perrone Editore, 2014, pp. 192, euro 13)

“Per Isabel” di Antonio Tabucchi

Di un libro postumo è facile parlare come di un messaggio dell’autore che ci arrivi dall’Altra Riva, quella su cui Amleto era così poco convinto di traghettare; ma nel caso di Per Isalbel. Un mandala (Feltrinelli, 2013), primo a venir pubblicato degli inediti (non pochi, sembra) di Antonio Tabucchi, l’impressione è resa ancora più netta dal fatto che da quella riva viene proprio colui che a noi si rivolge, dalle pagine, col pronome “io”, assumendo dunque quasi di diritto, a dispetto del suo nome polacco, lo status di maschera dell’autore: non a caso, al confessore dichiarerà – proprio come si fa con un peccato – di aver scritto dei libri, e non “indecenti”, come sospetta subito il prete, ma “arroganti” perché anticipavano la realtà. Il che Tabucchi ci aveva già detto in Requiem, per chi lo abbia presente, a proposito di un suo libro.

E non è questa la sola connessione esistente fra i due libri. Intanto, per il periodo di composizione: essi nascono infatti entrambi nel 1991, benché, nel caso di Requiem, in portoghese, per fare «un omaggio… a una gente a cui sono piaciuto e che, a sua volta, è piaciuta a me». Ma, soprattutto, è allo stesso intreccio del libro edito negli anni Novanta che fanno riferimento – anche se, con una raffinata, inconsueta arte della variazione, dal punto di vista dell’altro, dei due uomini legati a Isabel – tutti i nove, asciutti, nitidi capitoli, del libro ora uscito: che sono in realtà altrettanti perfetti racconti, altrettante medievali mansiones che l’io-narrante attraversa, al modo di un avatar dantesco, in cerca di una verità che solo nel capitolo conclusivo la sua Isabel-Beatrice finirà per elargirgli.

Anche lei del resto, Isabel, risulta averlo passato, quel confine: e anzi il racconto si dipana intorno alle modalità di questo trapasso. Sul principio se ne parla come di un suicidio, nella forma particolarmente cruda dei vetri di una bottiglia ingoiati dopo l’arresto da parte della polizia salazarista; ma poi al narratore – e a noi che ne condividiamo, sul ritmo incalzante del miglior poliziesco, la fascinazione – anche questa prima soluzione si rivela un inganno. Abilmente ordito dal saldarsi di alcuni piccoli, quotidiani eroismi: il che permette a Tabucchi di dar voce a una delle sue più umane figure di disobbedienti senza il minimo piglio di retorica, l’ex-secondino che ha aiutato Isabel a evadere ma si affretta a precisare, in antidoto a ogni enfasi alfieriana, che lo ha fatto per poter mettere un po’ più di carne, nel suo piatto capoverdino tipico.

Man mano che l’indagine avanza, però, anche i suoi tratti polizieschi scolorano verso toni sempre più da fiaba metafisica: così, il narratore che non lascia traccia di sé sulla lastra fotografica, pur assaporando cachaca o fettine di prosciutto, su cui commenta: «Però forse un po’ troppo piccante, secondo me c’era troppa paprika». Oppure, si caricano di venature filosofiche («e intanto il cerchio si stringe verso il centro, e io sto cercando di arrivare al centro», da cui il riferimento al mandala): così, appunto, nell’episodio del fotografo che «come la musica, coglie l’attimo che non riusciamo a cogliere… di questo fiume che ci trascina, e dell’orologio, del tempo che ci domina e che noi cerchiamo di dominare».

Progressivamente, il tono della quête dell’evanescente protagonista si fa sempre più rarefatto, più arduo e insieme avvolgente: la voce di Magda, l’amica di Isabel che l’ha aiutata a riparare presso un prete a Macao, si sprigiona dallo squittio di un pipistrello, uno scheletrico poeta arrivato all’ultimo dei suoi giorni suggerisce un’ulteriore tappa della ricerca, che è insieme l’India e un punto sulle Alpi svizzere. Qui avviene l’incontro di più alta tensione poetica, che si proietta sugli infiniti spazi intergalattici, e li travalica con la cocciutaggine irrazionale, eppure vincente, dell’amor materno.

E, infine, l’incontro con Isabel: insieme il più enigmatico («siamo nel nostro allora […] tu mi stai dicendo addio come a quel tempo, ma siamo nel nostro presente […] io intanto proseguo il mio cammino nel mio nulla»), e risolutivo («non ero tanto io che tu cercavi, ma te stesso, per dare un’assoluzione e te stesso, un’assoluzione e una risposta»), da cui usciamo, come dal più cristallino e smagante dei sogni, sulle ultime note della sonata Les adieux e con la consapevolezza che «la morte è la curva della strada, morire è solo non essere visti», ma che anche di noi, forse, come «di tutto resta un poco, a volte un’immagine».

(Antonio Tabucchi, Per Isabel. Un mandala, Feltrinelli, 2013, pp. 128, euro 13)

Le grandi serie sbarcano in Italia, nasce Sky Atlantic HD

Fin dai suoi primissimi articoli, LaSerie si è premurata di farvi conoscere quanto di meglio avesse da offrire la televisione in tutto il mondo. Dall’Europa all’America abbiamo presentato piccole perle e grandi capolavori con un solo rammarico: fin troppo spesso ci siamo dovuti arrendere alla mancanza di una traduzione italiana. Ma un mondo come quello delle serie ha molto di più da offrire rispetto a quanto portato da Mediaset o Sky.

Questa settimana ho rinunciato a farvi partecipi di qualche nostra nuova scoperta per dare giusto spazio ad una novità assai gradita per tutti noi “series addicted”. Il 9 aprile è sbarcato sul satellite Sky Atlantic HD, versione italiana dell’omonimo canale già presente negli USA. Una svolta per tutti noi amanti delle serie americane e non solo, costretti in questi anni a recuperare decine e decine di episodi in qualsiasi modo. Nel leggere la lista degli show già sicuri di sbarcare anche qui da noi ho avuto un sussulto. Tanti capolavori già presentati su Flanerí hanno esordito finalmente in Italia: da House Of Cards, che ha aperto le danze, a Banshee e Boardwalk Empire, passando anche per tanti altri nomi. Meritano alcune menzioni a parte alcune serie attese per maggio come Gomorra,  produzione di Sky e Cattleya a cui ha collaborato direttamente anche Roberto Saviano. Diretta da Stefano Sollima, al ritorno dopo Romanzo Criminale, la serie ha seguito proprio lo stesso iter della storia della banda della Magliana, passando dalle librerie ai cinema per poi sbarcare anche in televisione.

Ma ci sono ancora diversi nomi internazionali che non posso fare a meno di elencare. A cominciare da True Detective, forse il vero capolavoro di questa stagione televisiva grazie anche ad un grande Matthew McConaughey, di cui vi parleremo più a fondo a tempo debito. La serie investigativa The Fall, che segna il ritorno di Gillian Anderson (l’indimenticato agente Scully di X-Files). E poi uno dei titoli più interesessanti dello scorso anno, Les Revenants. Quando ho scritto della prima stagione andata in onda in Francia, mai avrei pensato di poter vedere sbarcare la serie di Fabrice Gobert in Italia.

Ulteriori buone notizie: su Sky Atlantic, oltre alla possibilità di poter sfruttare i sottotitoli in italiano (da sottolineare l’ottima sincronizzazione non sempre scontata), si potrà addirittura azzardare l’accoppiata lingua originale e sottotitoli in inglese se si vuole approfondire il rapporto con la lingua più parlata al mondo.

Mi è sembrato quasi doveroso deviare verso questa direzione insolita vista la portata della novità. Per tutti noi appassionati italiani Sky Altantic HD rappresenta sicuramente una svolta (staremo a vedere quanto piccola nei prossimi mesi/anni) e un discreto passo in avanti verso il mondo delle serie tv sempre più sulla cresta dell’onda. Adesso sta a noi approfittarne e tuffarci nella visione.

 

 

“La giornata di un opričnik” di Vladimir Sorokin

Siamo nella Russia zarista del 2027, in un futuro abbastanza prossimo in cui la restaurazione ha fatto il suo drammatico corso, restituendo ai successori dei Romanov l’esercizio legittimo del potere e il monopolio assoluto della violenza. Tutto è decisamente ombroso, fosco, tranne il Cremlino a Mosca, riportato all’originario biancore lattescente dalla volontà del potere restaurato. Le discrepanze tra i ricchi e i poveri sono (come d’altronde spesso capita in quadri del genere) portate al parossismo, e l’arbitrio di ogni minimo e marginale cittadino è soggetto al capriccio della corona. Un’alta muraglia, lunga quanto sono lunghi i suoi confini, rinchiude questa nuova Russia in un opprimente protezionismo di guerra, rendendosi ultima ed estrema testimone del recupero di un becero nazionalismo d’altri tempi a cui affiancare l’odio sempiterno nutrito nei confronti del capitalismo concorrenziale, spettro della peggior specie d’Occidente. In una Russia siffatta, funestata da alcuni dei più negri e tradizionali caratteri propri della distopia letteraria (libri che bruciano, per esempio, o droghe collettive di traslazione dal sapore decisamente dickinao, oppure ancora le gravi minacce, materiali e non, percepite all’ombra di un potente nemico esterno, che in questo caso è la Cina), a mantenere l’ordine sono gli opričniki, agenti letteralmente imbevuti di una bizzarra morale messa a giustificazione del dominio degli zar e della loro politica economica e sociale. Una morale incondizionata e radicale a cui, purtroppo, non si sfugge. Gli opričniki, per loro ventura ma forse anche loro malgrado, sono quindi lo spietato braccio armato dello zar; controllori degli equilibri nazionali, costituiscono l’esercito sensazionale a cui è concessa licenza di far qualsiasi cosa pur di difendere la Patria dai suoi nemici, interni o esterni che siano.

È proprio in tale Russia ombrosa, decadente e ancora memore dei propri antichi fasti, che Vladimir Sorokin ambienta il suo romanzo La giornata di un opričnik (Atmosphere, 2014), allo scopo di donarci l’estratto del diario quotidiano di uno di siffatti arditi controllori fedeli allo zar; un soggetto, come gli altri suoi omologhi, messo a metà strada tra l’ascesi e l’incubo, tra il progressivo procedere verso la santità e il precipizio che dà sull’abisso di quegli inferi che da sempre, bene o male, caratterizzano l’uomo letterario. Ecco che la narrazione procede dalle labbra di un simile spietato superpoliziotto dedito allo stupro e incline alla ferocia. Egli, saturo di un’acritica venerazione nei confronti del potere che lo muove e dirige, persegue la conservazione del vitale protezionismo messo a reggere la sua Russia monarchica in totale e oscura accettazione. E come lui, altri appartengono alla falange messa a difesa della Patria. Si tratta di uomini piuttosto pettoruti, è ovvio, così forti da disprezzare il dolore, da autoinfliggerselo in sollazzevoli giochi e competizioni dal carattere abbastanza sanguinolento, al modo dei più cupi monaci flagellanti che si possano immaginare. Si tratta di uomini uniti da un vincolo superiore, clamoroso, un vincolo cementato anche da rinfrancanti esperienze psicotrope e da ritualità pan-orgiastiche assai omosessuali: il “cingolo”, ossia il centopiedi umano degli opričniki che chiude il romanzo, molteplice bestia dalle giunture fallo-rettali popolato da omoni vicendevolmente incastrati nei bagliori di luce emessi dai propri stessi testicoli lucenti e potenziati dalla medicina biomeccanica cinese – luccicanti in diverse gradazioni di colore in base al grado di servizio nella falange – resterà ben impresso nella memoria del lettore.

La giornata di un opričnik è dunque un libro che, normalmente, avrebbe senza dubbio molto da offrire, soprattutto agli amanti del genere distopico, questo va detto. Tuttavia in questi mesi inquieti, nei quali la Russia d’oggi è protesa verso la riconfigurazione dei propri confini, acquisisce forse un valore immaginativo superiore grazie al quale un futuro letterario piuttosto cruento prende concretezza sempre più palpabile. Perché la guerra è sempre la guerra, non per altro.

(Vladimir Sorokin, La giornata di un opričnik, trad. di Denise Silvestri, Atmosphere libri, 2014, pp. 170, euro 15)

“The Amazing Spider Man 2 - Il potere di Electro” di Marc Webb

Siamo a New York, Peter Parker si sta diplomando al liceo e nel frattempo porta avanti la sua carriera segreta di supereroe con i panni di Spider Man aggirandosi tra i grattacieli dondolando sulle ragnatele. È fidanzato con Gwen Stacy e si amano, ma Parker sente il peso della sua doppia identità che può essere minaccia e rischio per le persone che ama e della promessa che aveva fatto al padre di lei morente di proteggerla. Cerca la verità sulla sparizione di sua madre e di suo padre Richard, scienziato della Oscorp, che lo hanno lasciato a casa degli zii da bambino senza dirgli nulla. Nel frattempo ai criminali ordinari si uniscono malvagi con poteri straordinari figli di incroci genetici, come i sensi di ragno di Parker, e Spider Man deve affrontarli stando sempre attento a Gwen.

In principio c’è la trilogia di Sam Raimi, inevitabile paradigma per coniugare sguardo d’autore e spettacolo, poi è arrivato il Batman di Nolan e la fragilità e la psicologia sono diventati una componente obbligatoria nei film di supereroi.

Poi nel 2009 la Disney ha acquistato definitivamente la Marvel e ha deciso di costruire una cosa mai vista al cinema, neanche con la saga di Guerre Stellari: creare, anzi, ricreare, un universo, anzi un multiverso, di film collegati tra di loro con riferimenti, rimandi, citazioni, indizi e uno sviluppo unico e diffuso delle trame e dei personaggi così come è nei fumetti.

Si è iniziato allargando il mondo X-Men concentrandosi su Wolverine e andando avanti e indietro nel tempo con L’inizio e il prossimo Giorni di un futuro passato (al cinema dal 23 maggio), poi è arrivata l’architettura mastodontica che abbraccia e unisce Hulk, Iron Man, Thor e Capitan America negli Avengers, e infine di nuovo Spider Man, un reboot necessario, a soli cinque anni di distanza dall’esaurimento della serie firmata Raimi per integrare in un nuovo multiverso cinematografico le avventure dell’Uomo Ragno (e stessa sorte toccherà a breve ai Fantastici Quattro).

Siamo già a Spider Man 2, si mormora che nel 2018 uscirà il quarto capitolo e che questi quattro anni saranno riempiti, oltre che dall’ovvio terzo titolo, da due spin-off dedicati ai nemici di Peter Parker, uno intero per Venom e un altro dedicato ai Sinistri sei che in questo Il potere di Electro iniziano a essere introdotti nella trama generale.

Dal 2012, con l’ingresso in regia di Marc Webb, Spider Man è diventato Amazing, ha tolto gli occhi a palla di Tobey Maguire e messo la faccia furba di Andrew Garfield. Lo spazio per l’introspezione era già stato preso da Raimi e allora in questa nuova versione si è dovuto insistere su un altro aspetto: l’indagine sulla scomparsa dei genitori. Se nella precedente trilogia Spider Man era spinto dal senso di colpa per la morte dello zio e dal concetto di responsabilità, qui Parker lotta sì il male, ma la sua ricerca personale è volta verso la rete Oscorp e le sue implicazioni nella sparizione del padre. Accanto, più in vista, è la trama dell’amore inteso più come sentimento adolescente che come sofferenza e travaglio maturo. Peter e Gwen sono due ragazzi che si confrontano con le complicazioni ordinarie delle giovani coppie (lei andrebbe a studiare in Inghilterra e si dovrebbero separare) ancor più con l’eccezionalità data dalla condizione di supereroe.

Meno spazio alla ricerca di sé, quindi, più all’azione e alla velocità. C’è un po’ di riflessione sul valore simbolico dell’eroe – e in questo l’Uomo Ragno si avvicina molto, oltre che per la vicenda personale, a Batman, entrambi fraintesi per criminali, entrambi amati dai cittadini e tenuti a distanza dalle istituzioni – e sulle conseguenze dell’uso spregiudicato della scienza. Sul piano dello spettacolo puro, è chiaro, The Amazing Spider Man 2 – Il potere di Electro non delude, anche se la ridondanza di computer grafica confonde cinema e videogiochi sempre più. Rimane che rispetto alla serie di Raimi – ed è un paragone che non può essere aggirato, perché è troppo vicina nel tempo, troppo sovrapponibile – i film di Webb fanno andare tutto lungo i binari dell’ovvio preoccupandosi, più che di sviluppare la trama del singolo film, di gettare dettagli e frammenti per costruire il quadro generale dell’opera.

Dave DeHaan nei panni di Harry Osborn conferma, dopo le numerose ottime prove (in ultimo Kill Your Darlings), di essere uno degli attori destinati a un luminoso futuro. Paul Giamatti inizia a calarsi nei panni del sinistro sei Rhino in attesa dei prossimi film.

 

(The Amazing Spider Man 2 – Il potere di Electro, di Marc Webb, 2014, azione, 142’) 

 

Jonathan Wilson @Auditorium Parco della Musica, 12 aprile 2014

Quelli bravi la chiamano retromania”, questa tendenza di giovani artisti a ripercorrere – per impossessarsene e renderle proprie – sonorità, ritmiche, modalità di far musica degli anni d’oro del rock. Novelli “figli dei fiori”, hippie arrivati dritti dritti con la macchina del tempo dagli anni ’70, Jonathan Wilson e la sua band si sono presentati sul palco del Parco della Musica, per uno spettacolo all’interno della ricca rassegna Ausgang.

Quando nel 1974 Jonathan Wilson nasceva, i Pink Floyd avevano appena pubblicato The Dark Side of The Moon ed era in elaborazione l’immortale Wish You Were Here. Capolavori che chi scrive ha sentito più volte evocati durante il concerto dell’Auditorium.

Originario di Forest City, in Nord Carolina, le biografie ufficiali narrano di un piccolo Jonathan che cresce circondato dalla musica: suo nonno è un predicatore della chiesa battista, mentre suo padre è un musicista. Appena ventenne esordisce in una band che si chiama Muscardine con la quale pubblica un suo primo disco. Poco dopo, siamo al 1999, entra davvero in una comunità hippie californiana e muove i primi passi nel mondo della musica ufficiale diventando prima tecnico del suono e poi produttore di vari artisti come Elvis Costello e Jackson Browne.

Buoni maestri che generano buoni frutti in Wilson, il quale nel 2007 pubblicherà il suo primo disco solista Frankie Ray (Koch Records), seguito nel 2009 da Gentle Spirit con l’etichettaBella Union. Con la stessa label Wilson ha pubblicato lo scorso anno lo splendido Fanfare, sicuramente uno dei dischi più belli e interessanti in un’ipotetica top ten delle uscite discografiche del 2013.

Lo show del songwriter americano inizia proprio con il suono del pianoforte della title track di quest’ultimo lavoro. Un live preceduto dagli interessanti e italianissimi Dead ShriMp.

Fanfare e i suoi tredici brani fanno da ossatura a tutto il concerto di Wilson. È la prima volta a Roma per il musicista statunitense. E ci tiene a sottolinearlo. In uno dei pochi momenti di loquacità oltre agli scontati «Thank you so much»Wilsonfa i complimenti alla struttura (la Sala Sinopoli nello specifico) che lo ospita: «Un ottimo posto per fare musica», dice. Secondo e terzo pezzo in scaletta due cover “Fazon” della storica hippie band Sopwith Camel e “Angel” dei Fleetwood Mac.

La band che accompagna Wilson è straordinaria. A cominciare dalla batteria perfetta di Richard Gowen fino al capelluto bassista Dan Horne, alla tastiera Hamond di Jason Borger e alla chitarra (e voce) di Omar Velasco, praticamente co-frontman dello spettacolo insieme a Wilson.

Canzone dopo canzone, il pubblico (di tutte le età: dai trenta ai settanta) si esalta e sottolinea gli assolo alla chitarra di Wilson che spazia nel vasto repertorio americano di un genere del quale si è appropriato, e che è ormai suo. A cominciare dal look con capello lungo e barbetta in stile Ted Neeley in Jesus Christ Superstar e camicione (spolverino) d’ordinanza.

Di livello eccelso è l’esecuzione della splendida “Dear Friend”. «Stucchevole e patinata» ha commentato qualche addetto ai lavori. Semplicemente bella ed elegante ci permettiamo di obiettare noi. “Desert Raven” (omen nomen) evoca deserti e Grand Canyon, mentre la struttura acustica di “Magic Everywhere” con la sua chitarra classica amplificata è nel perfetto spirito del songwriter made in Usa, tra Dylan e Graham Nash.

Quest’ultimo, tra l’altro, ha collaborato in Fanfare con Wilson, insieme ad altri nomi eccellenti come Roy Harper, David Crosby, Josh Tillman e il già citato Jackson Browne.

L’esecuzione dei brani dal vivo supera per durata quella delle versioni da studio e la band dà il suo meglio esaltandosi in lunghe jam che “dimenticano” il refrain portante dei singoli brani per poi tornare all’improvviso a chiuderli. Dopo quasi due ore di show i bis, acclamati a gran voce, con la cavalcata dylaniana “Love to Love” e la chiusura con “The Way a Feel”, cover della star del country canadese Gordon Lightfoot . Ritorno al passato? Retromania? No. Solo grande musica senza tempo. Questo è Jonathan Wilson, signori.

 

Jonathan Wilson
12 aprile 2014
Auditorium Parco della Musica, Roma
in collaborazione con Ausgang

“La mutazione” di Sebastiano Nata

Di uomini devoti alla propria carriera ne è pieno il mondo, compreso quello del cinema: l’ultimo esempio ce l’ha dato The Wolf of Wall Street, dove Di Caprio interpreta l’uomo più influente del momento intento a scalare la vetta fino a perdere amici e famiglia in nome del dio denaro.
La mutazione (Barney Edizioni, 2014) è un romanzo in cui a farla da padrone sono le riflessioni di Giovanni Breni, manager datato della Self Inn, che attende l’ennesima, importante e imperdibile conferenza aziendale, nella sua stanza di albergo a Miami.

Che il denaro che non vada d’accordo con la vita privata è un principio che risale all’alba dei tempi, ed è presente in tutte quelle storie in cui il successo rende l’uomo solo e miserabile, destinato alla ricchezza materiale ma inesorabilmente privato di quella affettiva, nel momento in cui sceglie di correre la vita in solitaria cercando di raggiungere un obiettivo ambizioso che costa lacrime e sudore.
Dietro le sbarre della sua gabbia dorata nel Fontainebleau di Miami, il manager Breni, stanco e deluso, tira le somme di quello che è stato il suo percorso professionale, in parallelo con la sua vita: una vita che dà tanto e tanto toglie e, per ogni successo, segna una frattura o una perdita, che siano i figli, la ex moglie o la relazione con una nuova donna.

Il manager non è più un uomo ma una macchina specializzata nel produrre soldi e di umano ha soltanto le doti comunicative, che funzionano bene in giacca e cravatta ma fruttano poco nei panni di marito e genitore. Nel caso di Giovanni Breni non si parla di un uomo ambizioso e senza cuore come vorrebbe il più gettonato tra i cliché, bensì di un uomo con debolezze evidenti che ha provato a tenere uniti i pezzi e ha capito di non poter essere il collante di se stesso; nella notte passata a guardare in faccia la sua solitudine si arrampica sul vertice della piramide chiamata Self Inn e dall’alto osserva una landa di relitti che lui stesso ha creato e poi si è lasciato alle spalle.

La salvezza non può arrivare dall’esterno ma solo da dentro, dai ricordi dei momenti felici collezionati durante la corsa sfrenata alla realizzazione personale, durante quei tratti in cui il manager era ancora uomo e ogni tanto si fermava a riprendere fiato invece di guardare solo davanti a sé.
Sebastiano Nata ci introduce direttamente nella testa del protagonista usando una narrazione spicciola, intima, e grazie a una caratterizzazione che permette al lettore medio di entrare nel dramma di Giovanni come se ne fosse parte; non siamo anche noi perennemente insoddisfatti, nervosi e infelici quando il poco tempo di cui disponiamo passa in secondo piano rispetto al dovere? Aldilà del successo professionale, non siamo anche noi degli automi che escono di casa al mattino per tornarci stanchi alla sera?
E in mezzo, quel poco che c’è, va vissuto e custodito come un tesoro prezioso, va curato come un giardino zen. Perché è l’unica cosa in grado di confortarci, quando dopo la salita ad attenderci ci sarà l’inevitabile, ripida discesa.

(Sebastiano Nata, La mutazione, Barney Edizioni, 2014, pp 99, euro 13,50)
 

“Like a Fish”: a tu per tu con gli Anthony’s Vinyls

Abbiamo incontrato gli Anthony’s Vinyls in occasione dell’uscita del loro secondo album, Like a Fish. Ecco cosa ci hanno raccontato.
 

Partiamo dalla domanda più banale. Perché “i vinili di Antonio”?

Cercavamo un nome che richiamasse qualche disco o canzone del passato, questa ricerca era diventata una sorta di affare di stato, tutti gli amici hanno cercato di dare il loro contributo proponendo titoli di vecchie canzoni o vecchi vinili che avevano in casa. Il più assiduo e insistente in questa pratica è stato Antonio e, alla fine, stremati dal suo continuo proporre titoli di vinili abbiamo scelto di chiamarci The Anthony’s Vinyls.


Avete iniziato a suonare insieme nel 2010 e Like a Fish è il vostro secondo album. A noi sembra già maturo e completo. Quali sono le differenze e le somiglianze con il lavoro precedente?

Like a Fish dal precedente lavoro riprende le batterie, che rimangono sempre volutamente ritmate ma, a differenza del primo album, ha avuto una lavorazione più breve in fase di missaggio e questo si percepisce dal fatto che i suoni sono molto più vicini a quelli che proponiamo live, rendendo l’album più vero e diretto. La maturità di questo nuovo lavoro, a parer nostro, emerge anche nei testi che sono “ironicamente autobiografici”, cioè raccontano esperienze vissute dalla band senza però tralasciare il carattere ironico che ha sempre contraddistinto il nostro modo di fare ed è un po’ il filo conduttore tra i due album.


In alcuni brani del disco, le vostre sonorità sembrano avvicinarsi molto a quelle dei Calibro 35; in altri, come “Running Man”, si sente forte l’influenza del britpop anni ’90 e quella dei Franz Ferdinand. Confermate?

Ci fa piacere che le nostre sonorità somiglino a più cose, questo dimostra che stiamo lavorando sulla strada giusta non siamo copie di nulla ma abbiamo quella capacità di rimandare a più cose con la nostra musica. Sicuramente Britpop e Franz Ferdinand fanno parte del nostro background mentre è la prima volta che ci paragonano ai Calibro 35, che certo conosciamo ma non così bene da poter percepire questa cosa, quindi finita l’intervista andremo ad ascoltarci un po’ di brani.


Raccontateci la storia di “Radio Obsession”.

Era un brano dance, nato più di dieci anni fa nello studio del fratello di Massi, il cantante. Il riff e il cantato gli sono rimasti in testa tutto questo tempo tanto da riemergere durante una session in sala prove. Poi tutti hanno iniziato a suonare la cosa ci è piaciuta e abbiamo deciso di inserirla in Like a Fish.


Diversi pezzi di Like a Fish hanno un chiaro legame con le sigle delle serie tv anni ’80.

Sì, alcuni brani richiamano quelle atmosfere, siamo cresciuti con telefilm come Supercar, l’A-Team, Miami Vice e probabilmente questo ci ha influenzato inconsciamente e questa familiarità nei confronti di certe sonorità è uscita allo scoperto in questo disco.


L’energia che trasmettete è trascinante. Come sono i vostri live? Qualche data del tour?

Adoriamo suonare dal vivo: abbiamo fatto più di 150 concerti in 3 anni e mezzo, costruiamo pezzi ritmati e ballabili proprio perché ci piace vedere la gente saltare durante le nostre esibizioni. Chiunque voglia provare questa esperienza può venire a sentirci il 15 Maggio all’Art Cafè di Bari, altre date usciranno a breve e le troverete sui nostri social network.