“Dio se la caverà” di Alan Poloni

A carpire solo il titolo, il gioco sembra semplice. Gli occhi abboccano in fretta e s’innesca il sorriso come una marcia d’istinto. Dio se la caverà (Neo Edizioni, 2014). Ma sì, è altamente ipotizzabile. D’altronde, a quanto si vocifera, ha creato un mondo apposito per auto-addestrarsi.

Poi però, quella che appare la risposta sbuffata a una canzone feroce dei Marta sui Tubi, si palesa una traccia ben diversa. Perché quel Dio non è impalpabile. Niente sintomi d’eterno, niente slanci d’astrazione. È un piccolo immenso cantautore metal, Ronald James Padavona, sorto alla fama col nome di Ronnie James Dio, non per baldanza metafisica, ma per rievocare un gangster newyorkese. Con questo romanzo, quindi, si resta per terra. Furiosamente s-piantati.

È un ritratto corale quello sfornato da Alan Poloni al suo esordio letterario. Una foto di gruppo in cui i protagonisti non sanno di appartenere allo stesso scatto. Infinitesime tessere, sparpagliate e disorganiche per un lungo tratto, che si rannicchiano in un’unica immagine. A incagliarsi nell’obiettivo all’inizio c’è Nic, ragazzino dislessico per cui ogni pagina è terremotata. Nic agogna la Cina, perché il suo cervello lì saprebbe leggere, perché le parole spunterebbero come pesci saltatori, perché allora forse non odierebbe la scuola, dove disimpara a sentirsi capace.

C’è Dave e il suo stellare coefficiente di sensibilità, Dave assediato dal trattato di Wittgenstein perché la mamma non se ne è mai liberata. Dave che sa molte cose, ma non cosa sia una festa di compleanno. Entrambi verranno risucchiati nell’imbuto del Franti: latrina correttiva, collegio- gulag, discarica di gioventù irrequiete. Progetto malsano diretto da Augusto, che ha affossato in quelle stanze quasi ogni velleità. Tranne quella di tradire il suo rigore.

E poi, ad avanzare dal fondo scorgiamo lo Zio, sgangherato avvocato amante del rock, e Klaus, sofisticato pensatore-esteta con un ottimo intuito affaristico. I due s’imbarcano nell’impresa nostalgica di un cinema erotico e negli assalti ostruzionistici di un gruppo di conservatori, per cui anche l’ironia è un dito nel peccato. E non manca l’uomo buio per eccellenza. Antonio Timpano, scrittore svilito da troppi anni di pagine inutili, convinto che l’unico rimedio per estorcere al mondo un po’ di nobiltà sia quello di sradicarsi il fiato e aspettare insigne sepoltura. Dentro Wikipedia. Cimitero dei noti, monte dei p/degni.

Finirla con la vita per finire in rete. Liberarsi da un cappio per restare intrappolato. Ognuno ha la sua gabbia in questo libro. Che sia collegio o solitudine, frustrazione o dislessia. È la realtà che si fa oscura, vischiosa, moschicida. Sguscia, non si decodifica, rimane spesso una lingua straniera e nello sforzo si resta impigliati. Questo è l’unico dato assolutamente nitido. C’è chi lo affronta con il rock ad alto volume, chi col suicidio, chi coi soprusi, perpetrati o subiti. Ma non c’è niente di più umano dell’essere fragili. Diversamente disabili. Sconquassati, arruffati di sconfitta sotto il cappotto di rappresentanza, inadatti ad ogni occasione. Eccetto quella di fallire.

E Poloni non lesina dettagli nella sua visione schietta, ruvida, amaramente scanzonata. Cattiva quanto basta per essere credibile. Un universo in cui Elvis è lo scrittore migliore mai esistito. Dio (quello superno, ricercato speciale) se la potrà anche cavare, ma ai suoi “manufatti” va decisamente peggio.

Rubando il finale a un altro autore Neo Edizioni, Paolo Zardi e alla sua notevole raccolta di racconti Il giorno che diventammo umani, «L’Eden – quel giardino dove tutto è buono, e gli esseri umani sembrano fotocopie di un Dio senza passione – ha una porta di sola uscita».

 

(Alan Poloni, Dio se la caverà, Neo Edizioni, 2014, pp. 280, euro 15)

“Transcendence” di Wally Pfister

Will Caster è il più importante studioso mondiale di intelligenze artificiali. I suoi esperimenti sono rivolti da anni alla realizzazione di una macchina che abbia coscienza di sé diventando simile all’uomo tramite le emozioni ma libera di accedere alle infinite potenzialità dell’informatica. Ci sta riuscendo, forse, ma mentre tiene una conferenza da rockstar sul futuro della biotecnologia un esponente di un’organizzazione terroristica anti-computer lo colpisce con un proiettile al polonio come parte di una serie di attentati contro i gruppi di ricerca informatica. Will sopravvive, ma le radiazioni lo uccideranno in fretta. È allora che decide di collegarsi, con l’aiuto della moglie Evelyn e dell’amico Max, al sistema che ha progettato per trasferire la sua coscienza all’interno della rete e sopravvivere come nuova forma metà uomo metà computer, con un potenziale illimitato di conoscenza e mezzi.

Wally Pfister si è fatto un certo nome nel cinema collaborando con Christopher Nolan. Il suo lavoro come direttore della fotografia gli è valso quattro nomination e un premio Oscar (nel 2011 per Inception). La cupezza nitida delle sue immagini ha contraddistinto la trilogia del Cavaliere oscuro e la visionarietà intricata di Nolan sin da Memento (è curioso ricordare che nel 1993 Pfister curò la fotografia del videoclip Nord Sud Ovest Est degli 883 per la regia di Stefano Sollima).

Di Transcendence Nolan ha detto, quando gli è arrivato il copione, che sarebbe stato il film perfetto per l’esordio in regia del suo storico collaboratore, e ha rinunciato quindi a dirigerlo riservandosi un ruolo da produttore esecutivo.

Deve volergli male, Nolan a Pfister, perché non poteva lasciargli un copione più approssimativo e caotico di quello dell’esordiente Jack Paigen. Cercando di fare della riflessione filosofica sui pericoli del progresso incontrollato, Transcendence condensa una serie di situazioni note al cinema di fantascienza sul rapporto con l’ultrauomo cybernetico, da HAL di 2001 fino al recentissimo Her, preoccupandosi solo di aggiungere l’elemento dell’ibridazione uomo-macchina prendendo molto in prestito da Ghost in the Shell.

Il messaggio vuole essere: diffidate delle infinite possibilità della scienza; potenzialità non è onnipotenza; l’arbitrio umano sarà sempre necessario, e superiore, al calcolo analitico di un computer. Ci sono però dei vuoti enormi per arrivare al messaggio. Il Will Caster interpretato da Johnny Depp, in concreto, non usa i suoi mezzi per sostituirsi alla natura, non cerca il dominio sulla libertà umana, pone solo la possibilità di scegliere l’interconnettività permanente, offrendo agli uomini che incontra di effettuare l’upload nel suo sistema operativo e diventare parte di un’unica rete. Non persegue mai il male, anzi, non sfrutta le sue illimitate risorse per bloccare i neoluddisti, che sono di fatti responsabili della sua rinascita cybernetica, che lo vogliono eliminare (tra l’altro, c’è del ridicolo nel considerare che gli estremisti antitecnologici utilizzino computer e cellulari per contrastare un uomo che controlla, o meglio, in sostanza, è tutta la rete informatica). Se ci doveva essere ambiguità in Caster, non traspare. Se ci doveva essere contrasto tra spirito umano e sostanza digitale, non si vede, perché a prevalere è invece un umanismo forse radicale nelle scelte e nei mezzi (creare una nuova natura umana implementata dalla tecnologia), ma positivo.

Ciò che conta alla fine è, tanto per cambiare, l’amore che anima, unisce e spinge l’agire umano. Con a disposizione un cast di livello, formato principalmente da fedelissimi di Nolan (eccezion fatta per Paul Bettany e Johnny Depp – ma si dice che il suo ruolo dovesse andare a Christian Bale), Pfister non azzarda una direzione degli attori lasciandoli vagare incerti e abbozzati lungo le righe della sceneggiatura. Non cerca mai il guizzo, la ripresa particolare, l’idea. Sembra che abbia paura di sbagliare e quindi si limiti al minimo per andare sul sicuro. Ha ottenuto il risultato opposto.

 

(Transcendence, di Wally Pfister, 2014, fantascienza, 119’)

 

The Zen Circus @Black Out Rock Club, 11 aprile 2014

Quarantacinque gradi di sudore e rock dentro un Black Out tutto esaurito, strapieno e asfissiante per la data romana degli Zen Circus, all’interno della Rassegna Ausgang.

Due ore di show, con un pubblico di ogni età in delirio. Nelle prime file davanti al palco lo zoccolo duro dei fan di Appino, Ufo e Karim. Giovanissimi, che man mano che l’atmosfera si surriscalda cominciano a denudarsi, si arriva così sul finale a giovani uomini a torso nudo e coetanee in reggiseno che tentano di salire sul palco e gettarsi addosso ai nostri tre “eroi”. Ma parliamo di musica.

L’inizio è adrenalinico, con la batteria potente che fa da intro alla title track di Canzoni contro la natura, ultimo lavoro del trio pisano (2014, La Tempesta Dischi).

Andrea Appino, voce e anima carismatica della band, sciorina una serie di canzoni che il pubblico canta. Una band che non è ancora nei circuiti mainstream quella degli Zen Circus, ma il tipo di carica musicale, il sound alternativo e seducente, i testi fortemente identificativi dei brani scommettiamo che molto presto li porteranno a un successo anche al di fuori dei circuiti indie.

Certo, speriamo non snaturalizzando troppo il loro stile: allegramente goliardico e sboccato. Senza censure: brani dal disco Andate tutti affanculo (2009 – Unhip Records, La Tempesta Dischi) come “Gente di merda”, “Figlio Di puttana” o “Vent’anni” dove Appino canta frasi come«Io quando avevo vent’anni ero uno stronzo». Diciamo che le explicit lyrics e il perbenismo potrebbe precludere agli Zen Circus quasi tutti i circuiti radiofonici commerciali. Potrebbe anche essere un bene.

«Al popolo sovrano, ai sudditi fedeli / a soreta, a fratete, a tutti i miei pensieri / un outlet infinito, è ciò che meritate / l’inferno non esiste ma somiglia a Rimini d’estate / gommone, portami via da questa città / che era mia ora è degli idioti. Che democrazia!»canta ancora Appino in “Atto secondo”. Il brano “Andate tutti affanculo” è un inno per gli Zen Circus e il suo pubblico, dal disco omonimo che è il corpo centrale di tutto il live della band. Da “L’egoista” a “Vuoti a perdere” fino alla fuori tempo “Canzone di Natale”.

Spirito folk e punk sanguigno unito al moderno cantautorato italiano che in questa seconda vita della band che alle origini si faceva chiamare solo The Zen (collaborando tra l’altro poi con Brian Ritchie, ex Violent Femmes), richiama oggi, in certi modi di cantare di Appino, – “bestemmiamo” un po’: chiudano occhi e orecchie i puristi – l’Augusto Daolio dei Nomadi, certi ritornelli alla Rino Gaetano o certe cavalcate di parole e musica di gucciniana memoria. Pur senza arrivare, ci perdoni Appino, alle vette del maestro di Pavana.

Gli Zen Circus sono una band con un potentissimo appeal dal vivo. Goliardia e cazzeggio in puro spirito toscano. Unico neo della serata romana, ci perdoneranno gli amici del locale, il Blackout che dal punto di vista sia acustico che ambientale non riesce a sostenere e a far rendere al meglio le sonorità della band toscana. In più, problemi all’areazione hanno reso faticoso, per primi agli stessi artisti sul palco con i riflettori puntati addosso – ci confideranno dopo il concerto gli stessi musicisti – la resa di uno show che poteva essere memorabile.

 

The Zen Circus
11 aprile 2014
Black Out Rock Club, Roma
in collaborazione con Ausgang

“Pornografia”, regia di Luca Ronconi

Guardoni. Tutti noi seduti in scena. Guardoni che guardano guardoni che guardano due ragazzi che di guardarsi con desiderio, l’uno con l’altra, proprio non ne vogliono sapere. Ecco, in estrema sintesi, il risultato del lavoro svolto da Luca Ronconi nel Laboratorio da lui diretto presso il Centro Teatrale Santacristina sul testo di Pornografia, romanzo di Witold Gombrowicz, oggi pièce teatrale coprodotta dal Piccolo Teatro Grassi.

Questo è quindi uno spettacolo sullo svolgere un’attività normale, soprattutto per un pubblico, ma distorta per soddisfare il bisogno di riempire il tempo in campagna, per appagare le pulsioni omoerotiche che legano i due protagonisti, per godere della bellezza insita nella gioventù che è cifra assoluta dell’oggetto guardato. Un’attività normale, pornografica anche se non c’è traccia di pornografia così come la intendiamo nel senso comune del termine, che conduce al fraintendimento, alla manipolazione, al dolore e, infine, alla tragedia.

Ronconi afferma di aver scelto questo testo recuperandolo dalla memoria delle proprie letture giovanili e di amare ancora dell’autore lo spirito caustico, l’irriverenza e l’intelligenza che, nell’opera, scaglia con precisione chirurgica contro il bigottismo che fa da corollario all’assoluta dedizione verso la figura divina di cui è intriso il milieu culturale polacco degli anni quaranta e che, in scena, si incarna nel personaggio di Amelia, santa e inviolabile, a cui basta d’essere messa in discussione dall’oscuro e vibrante Federico per cedere a un’indecente e mortale copula di morsi e coltelli.

Pornografia è uno spettacolo talmente fedele allo schema narrativo del romanzo che persino le scene scorrono intorno ai personaggi piuttosto che essere da questi agite. Solo raramente il teatro invade il campo della letteratura come nella scelta di rappresentare un’Amelia nuda o in quella di sottolineare con divertenti movimenti di pannelli e circonferenze disegnate con il gesso sulla lavagna lo schema della passeggiata di Federico.

Inutile nascondere che si tratta di un’opera difficile. Ronconi sceglie di non piegare il testo alle necessità della riscrittura teatrale e si deve scontrare con più di un ostacolo, non ultimo quello del punto di vista – Gombrowicz vero autore, Gombrowicz finto autore narratore onnisciente a cui fa riferimento Gombrowicz personaggio presumibilmente – ma anche quello del linguaggio e sicuramente quello della resa scenica dei dialoghi, eccezionalmente interpretati dal cast, che rappresentano, di volta in volta, interventi in prima persona, interventi in terza persona con soggetto il proprio personaggio, interventi in terza persona con soggetto gli altri personaggi e, rari, interventi in prima persona che si rivelano per essere pensieri di un altro personaggio.

Eppure Pornografia diverte, strappa allo spettatore una risata di tanto in tanto e gli regala la sensazione di stare facendo qualcosa di “cattivo” che rende attraente anche la scalata verso la vetta di una riflessione filosofica che s’incardina sulla coppia di antinomie giovinezza/vecchiaia e bellezza/bruttezza. Da affrontare con consapevolezza e senza false illusioni per guadagnare la possibilità di spiare se stessi dal buco della serratura.
 


Pornografia
di Witold Gombrowicz
traduzione Vera Verdiani
regia di Luca Ronconi
con Riccardo Bini, Paolo Pierobon
e con Ivan Alovisio, Loris Fabiani, Davide Fumagalli, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini


Prossime date
Roma – Teatro Argentina dal 9 al 17 aprile
Torino – Teatro Carignano dal 22 aprile al 4 maggio

“Piccola storia delle eresie” di Mauro Orletti

Ancora una volta, leggendo questa Piccola storia delle eresie di Mauro Orletti (Quodlibet, 2014), viene in mente la definizione di Nietszche, «umano, troppo umano»: non potrebbe esser meglio stigmatizzato, il meschino arrabattarsi di questi esseri umani entro la propria opaca sordità, rispetto alla parte più profonda, radicale (e difficilmente praticabile, certo: ma non impossibile, come più di un uomo e una donna hanno poi dimostrato, nei secoli), di ciò che il Maestro aveva detto, per le vie e nei villaggi della Galilea, e poi alla volta di Gerusalemme, dove lo attendeva l’incontro con l’estremo scacco, e la sconfitta. Ed è perfino troppo intuibile come, proprio per reazione al trauma avvilente di quella sconfitta, sia nata, in chi gli era stato vicino, l’idea della divinità di quell’uomo di cui si era vista la lunga, urlante agonia (Lammà sabachtanì…) sul legno della croce; anzi, quello in cui ciò avvenne con più convinzione, e foga espressiva, fu Paolo di Tarso, che pure mai lo aveva incontrato, in persona. 

Ma fu, come spesso capita, un rimedio peggiore del male: perché non si era riflettuto abbastanza sulle contraddizioni torturanti in cui quel granellino di senape, un uomo, cioè, che è anche, totalmente, Dio, avrebbe fruttificato: se era Dio, come avrà potuto la sua infinità limitarsi entro un corpo di uomo? E, di quel corpo, avrà poi sentito gli stimoli? Tutti, gli stimoli, anche, sì, quello giù, al fondo del ventre? Anche quello dell’intestino, o della vescica, che smaniano di liberarsi? E non è bestemmia, pensarlo? E come ipotizzarne il materiale concepimento, altro che con il grossolano metodo abituale? Come dissociarlo, poi, da quello delle sorelle e di ben quattro fratelli (Matteo, 13,55; Marco, 6,3), primo fra tutti Giacomo, cui perfino Paolo mostra reverenza, in quanto «fratello del Signore» (Galati, 1,18-19)?

Ecco allora fiorire le risposte di chi, con ribrezzo tutto orientale per la carnalità, s’incaponisce a pensarla in un altro modo (questo vuole dire, letteralmente, «eresia»: scelta diversa, s’intende, da quella degli altri) e rifiuta l’idea che Dio possa chiudersi in un corpo e, peggio, andare al gabinetto, ogni tanto.

Dunque, no: Gesù era solo un uomo; e, curiosamente, a chi con più energia, e successo (anche di potere, e di classi sociali alte capaci di andargli dietro: non foss’altro, a Milano, dove avevano proprie basiliche, o a Ravenna, dov’è il loro battistero dalle rifiniture sfarzose) sostenne questa tesi, della sola umanità di Gesù, sia pure a un livello di umane perfezioni mai raggiunto da altro nato di donna, vale a dire Ario, toccò di morire proprio in un gabinetto di decenza, mentre liberava gli intestini; oppure, che è la stessa cosa, Gesù sembrava uno come noi, con la carne e il moccio dal naso e via disgustandosi, ma era tutto, e solo, Dio.

Li vediamo, così, snocciolarsi i nomi, perfino fascinosi in sé, degli eresiarchi: sui cinquanta circa, nell’indice in fondo al volume di Orletti, i Basilidiani, gli Ofiti, gli Apollinaristi, i Nestoriani; e sono quelli che, come i docetisti, trovarono la via d’uscita dell’apparenza, la sublime messinscena di Dio che va in giro per la Palestina ma senza che quel sole spietato ne inzuppi di sudore, come a noi, le vesti.

Tuttavia, la parte indiscutibilmente più saporosa del libro di Orletti sono gli eresiarchi con la fissa del sesso: da non praticare, assolutamente (Marcioniti, Montanisti, Encratiti, Fibioniti, Pauliciani), per non duplicare – come Borges diceva degli specchi – gli esseri umani; o da praticare, volendo, solo in forma sterile: e perciò sodomiticamente (Patriziani, Paterniani). Ma molto, molto più trascinanti risultano quelli che ne predicavano l’assoluta liceità e, manco a dirlo, la promiscuità più estesa: in vera, adamitica «innocenza» (concetto sulla sincerità del quale è lecito nutrire più di qualche dubbio…): e questi furono i Nicolaiti, i Carpocraziani, i Giovinianisti, per non ricordarne che alcuni.

Si sarà capito: la dote migliore di Orletti è proprio questa capacità, svelta, divertita, spigliata, di schizzare in pochi tratti un grumo narrativo efficace e ironico insieme, pur nell’apparente neutralità asciutta dello stile: ma il sorriso, se non dell’autore, è il nostro, di noi che leggiamo. E vediamo rispecchiata, in questi nostri simili così tanto lontani, al di là della riva degli ormai due millenni, ma così uguali, ancora, a noi, l’eterna attitudine umana a dar prova del peggio di sé.

(Mauro Orletti, Piccola storia delle eresie, Quodlibet, 2014, pp. 168, euro 14)

[CultSeries] “Friday Night Lights” di Peter Berg

Mai avuti così tanti pregiudizi verso un prodotto seriale: il football, le cheerleader, le vicende dei ragazzi all’interno del college, i texani col cappello da cowboy, fast food e macchine decappottate. Tutti aspetti di quell’America così fiera delle sue stelle e strisce difficile da sopportare. Capita però di leggere l’intervista a Melissa Bernstein, produttrice di Breaking Bad. Alla domanda sui modelli della serie-cult, lei risponde: «I Soprano» (ce l’ho!); «Mad Men» (ce l’ho!); «Friday Night Lights» (mi manca!).

Mi impongo di vederla, più per conoscenza, con le remore già citate. Bene: tutto è crollato nel giro di quattro scene. Dopo le lacrime e i brividi dell’episodio pilota, mai provati in nessun’altro caso, sapevo già che a breve quella sarebbe stata la mia serie. Ma poiché uno degli obiettivi di quest’articolo è dimostrarvi l’effettiva validità e bellezza a prescindere dal mio poco velato coinvolgimento, iniziamo a fornire qualche dato.

In primis c’è l’omonimo libro, poi il film di Peter Berg, infine la serie del 2007, prodotta sempre da Berg. 

FNLè tutto ciò che accade alle persone che ruotano attorno ai Dillon Panthers, squadra di football dell’omonimo e immaginario paese texano. Lo scarto narrativo è clamoroso: lo sport è solo un mezzo per raccontare le vicende umane e le complesse e coinvolgenti sfaccettature dei protagonisti. Ogni puntata è un’analisi attenta della middle-class americana. Eppure basta poco per capire quanto ci sia di ognuno di noi frammentato nelle storie. A tenere unite le vicende, ci pensano l’allenatore e sua moglie, Coach Eric Taylor e Tami Taylor, preside della scuola dove allena il marito. Le varie fasi alterne della loro carriera sono la metafora splendida delle tante piccole fasi delle relazione e delle emozioni di una coppia. Uno scherzo del destino farà sì che la loro primogenita s’innamori del quarterback…

Dicevamo del pilota, immenso: in un match dal ritmo serrato, l’eroe della squadra e della società, Jason Street, subisce un infortunio gravissimo. L’esito sarà devastante e coinvolgerà tutti: la sua ragazza, la dolce cheerleader Lyla, il migliore amico Tim Riggins, l’alcolizzato bello e ribelle del giro. Episodio dopo episodio seguiremo i Dillon Panthers arrivare sempre più in alto, in un finale di stagione al cardiopalma. E se la parte più d’intrattenimento è garantita dai match a suon di rock and roll, anche la parte emotiva e drammatica non viene affatto massa da parte.
 


Gli archetipi ci sono, ma fin da subito è chiaro il loro rovescio, il lato oscuro. Coach Taylor è il duro dal cuore d’oro, allenatore furioso e appassionato, grande motivatore, nonostante le urla e i rimproveri è disposto a tutto per i suoi ragazzi. Jason Street è l’incarnazione del sogno americano, il giovane talento destinato alla gloria; Matt Sarecen è il timido destinato a rimanere nell’ombra; Smash Williams è il grintoso ragazzo di colore disposto a tutto pur di uscire dal ghetto. Aiutati da una sceneggiatura impeccabile, ogni personaggio rivela sia le ombre e le ipocrisie dell’America contemporanea, sia quanto si possa cambiare ciò che sembra già scritto. Nel bene e nel male. Tramite loro si mostrano e idealizzano tanti momenti della nostra vita: amore, tradimenti, amicizia, successi, sconfitte. 

Altro aspetto capitale di FNL – vero tratto distintivo – è la recitazione. Registrata e proposta agli attori quasi in presa diretta, assume un effetto realistico clamoroso, aiutato dall’inquadratura spesso a spalla von Trier-style. Ciò ha avuto due effetti lampanti: ha creato un coinvolgimento senza precedenti tra pubblico e personaggio, e ha permesso al cast di ricevere svariati premi (guardate Kyle Chandler alias Eric Taylor che concorrenza ha sbaragliato quando ha vinto l’Emmy).

Per non parlare delle tematiche, trattate per la prima volta in maniera consapevole e spietata: la guerra in Iraq, lo stupro, l’handicap, la crisi d’identità, l’omosessualità, la crisi economica, la questione razziale.
 


Cinque stagioni totali per un mito della televisione, come testimoniano i tweet del presidente Obama, ma soprattutto l’incredibile attaccamento dei fan che più di una volta, grazie a delle vere e proprie petizioni, hanno impedito la cancellazione dello show. Noi italiani non ci siamo smentiti e oltre ad aver cambiato il nome in High School Team (perche?) ci siamo permessi anche di non trasmettere in chiaro il finale di stagione.

Davvero difficile citare i momenti commuoventi, emozionanti e indimenticabile di FNL. Con un estrema naturalezza, dopo poche puntate vi troverete a canticchiare la sigla e a fare il tifo per i Panthers. Abbandonatevi completamente alle storie dei ragazzi di Dillon e non dimenticherete nemmeno uno di loro. Perché non si tratta di sport o fiction, è la vita. La nostra vita. E non scordate mai: «Clear eyes, full hearts, can’t lose!»

 

“Se vivessimo in un paese normale” di Juan Pablo Villalobos

Juan Pablo Villalobos torna in libreria con il suo secondo romanzo, Se vivessimo in un paese normale, di recente pubblicato da gran vía edizioni.

Dopo l’esordio con Il bambino che collezionava parole (Einaudi, 2012), Villalobos sembra cercare un nuovo linguaggio per raccontare il Messico. Dalla struggente voce Tochtli, che raccontava il dramma del narcotraffico dall’interno, con l’inconsapevole innocenza di ogni bambino, passiamo al caustico punto di vista di Oreste, detto Oreo (sì, come i biscotti), ragazzino di tredici anni condannato a essere il secondogenito di sette fratelli.

La vicenda si svolge a «Lagos de Moreno, Altos de Jalisco, regione che per sua maggior disgrazia si trova in Messico», negli anni Ottanta, nel periodo immediatamente precedente all’elezione del neoliberista Carlos Salinas. Il Colle di Merda, in cima al quale è situata la catapecchia formato scatola da scarpe dove Oreste vive con la sua numerosa famiglia, sembra l’ultimo avamposto alla periferia del mondo: «Per chi non è mai stato da queste parti, lasciatemi dire una volta per tutte quattro cose sul mio paese: ci sono più mucche che persone, più charros che cavalli, più preti che mucche e alla gente piace credere all’esistenza di fantasmi, miracoli, navicelle spaziali, santi e roba simile». In un abile gioco di rimandi, l’intero romanzo è racchiuso in questa breve citazione.

Dopo l’ennesima frode elettorale, il paese si ritrova paralizzato dalla rivolta, e mentre la famiglia studia un arguto piano d’azione per fare provviste e barricarsi poi in casa, i due fratelli più piccoli di Oreo, finti gemelli, scompaiono. È allora che, senza troppa convinzione, Oreste parte con il fratello maggiore alla ricerca dei piccoli, dando inizio a una rocambolesca avventura che ben presto lo vedrà affrontare da solo le avversità della vita per strada e l’incontro dei personaggi più assurdi. In una dimensione in cui la qualità della vita si misura in quesadillas, o meglio, nella quantità di formaggio fuso che contengono, Oreste si muove come un novello Holden Caufield tutto messicano e, come vuole il mito inscritto nel suo nome, tornerà poi a casa per prendere parte a un finale decisamente esilarante.

La struttura sulla quale Villalobos edifica le proprie narrazioni è solida, e prende corpo nel linguaggio: se il piccolo protagonista del Bambino che collezionava parole filtrava gli eventi che lo circondavano sulla base di cinque complessi aggettivi, e tutti i personaggi erano accomunati da nomi preispanici, dal sapore antico, in questo caso il procedimento è simile: il romanzo, dai tratti per lo più surrealistici e deliranti, prende le forme di una tragedia greca, e l’autore lo esplicita, attribuendo a ogni personaggio un buffo nome che è insieme la sua forza e la sua rovina: «Mio padre ci presentò, pronunciando con orgoglio i nostri favolosi nomi greci: Aristotele, Oreste, Archiloco, Callimaco ed Elettra. Più che una famiglia, sembrava l’indice di un’enciclopedia». E come dimenticare, poi, i due finti gemelli perduti: Castore e Polluce?

Pur con qualche eccesso, con un linguaggio diretto e un tono smaliziato e ironico Villalobos riesce a inserire nella narrazione, senza stonare, anche le trovate più eccentriche – dalla notevole professione dell’inseminatore di mucche all’apparizione di extraterrestri –, creando il ritratto surreale di un paese che la letteratura ci insegna essere sempre più difficile da mostrare. Dopo La Piramide di Juan Villoro, gran vía ci propone un’altra brillante interpretazione del Messico contemporaneo.

(Juan Pablo Villalobos, Se vivessimo in un paese normale, trad. di Stefania Marinoni, gran vía, 2014, pp. 128, euro 13)

Pontiak @Circolo degli Artisti, 10 aprile 2014

Quando i tre fratelli Carney salgono sul palco del Circolo degli Artisti di Roma, l’immaginario folk più classicamente americano, country e bucolico prende il sopravvento, e chi non li conosce potrebbe pensare a una band “cugina” di Fleet Foxes, Bon Iver o ai pronipoti dei Canned Heat. Le barbe lunghe e rossicce di Jennings e Van (rispettivamente basso e voce/chitarra), quella nera e foltissima di Lain, il batterista, le loro camice a quadrettoni da boscaioli, lasciano pensare di essere capitati a un concerto che ripercorrerà quei suoni e quelle atmosfere. A un tratto però si fa buio sul palco e i Pontiak lasciano cadere le loro camice a scacchi per più comode t-shirt. Parte il potente riff tra chitarra e batteria di “Ghosts”, terza traccia del loro ultimo lavoro Innocence (Thrill Jockey, 2014). La batteria di Lain è potente, come la chitarra sferzante e l’incedere del basso. La chitarra elettrica di Van apre squarci e le voci dei due fratelli in piedi creano e danno vita al “curioso” intreccio sonoro dei Pontiak. Un mix di voci folk, ritmiche rock, blues, slanci psichedelici e hardcore. Il “cubo” del Circolo degli Artisti si trasforma in un catino di vibrazioni rock. Citando Julian Cope, il suono dei Pontiak è come «una cavalcata hard dei Black Sabbath cantata da Jim Morrison». Certo è che gli amplificatori del Circolo romano e i timpani dei presenti sono messi a dura prova per la potenza emessa.

Innocence, appena pubblicato dai tre fratelli, è stato registrato in Virginia, presso la fattoria di famiglia Carney, ed è un condensato di suoni e potenza di psichedelia rock “dura e cruda”. Il riff killer di “Surrounded by Diamonds dal vivo è un bomba all’idrogeno con i suoi slanci chitarristici hendrixiani. Alle cavalcate potenti si alternano brani dall’approccio più morbido come la ballad quasi onirica “Part III” tratta da Comecrudos del 2011, che parte piano in un crescendo sonoro “classico” tra chitarre acustiche, basso e batteria.

Un paio di brani più coriacei e arriva poi la splendida “The Expanding Sky” da Echo Ono (2012) che esalta le capacità vocali di Van e Jennings. Solo due brani dal disco di esordio Sun on Sun del 2008, la vigorosa e cupa “Shell Skull” e “White Hands”.

Poco più di un’ora e venti minuti di vibrante e poderoso live per i Pontiak, preceduti dai bravi Thee Elephant e Rubbish Factory che hanno aperto il live.

A fine concerto i Pontiak, dopo aver ininterrottamente sciorinato tutti i brani di Innocence arrivano agli immancabili bis con il loro “classico” “Lions of Least” tratto da Echo Ono e la chiusura corale con “Being of the Rarest”, si concedono al pubblico firmano vinili e poi, da bravi musicisti indie e “caserecci” smontano il palco da soli e pacco dopo pacco riempiono il loro furgone che in questi giorni li sta portando in giro per l’Europa. Chi osa affermare ancora che il rock è morto?

Pontiak
10 aprile 2014
Circolo degli Artisti, Roma.

“Ma la divisa di un altro colore” di Pietro Neglie

Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio la croce

Ma tu non lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a varcar la frontiera
In un bel giorno di primavera

E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore.

Era il 1964 quando Fabrizio De Andrè denunciava in musica l’insensatezza della guerra, ricordo dei racconti dello zio cantautore reduce dai campi di concentramento, ispirandosi a una celebre poesia di Arthur Rimbaud, Le dormeur de Val (1870).

Proprio da questa canzone Pietro Neglie, professore di storia all’Università di Gorizia e allievo di Renzo De Felice, ha tratto il titolo per il suo romanzo storico Ma la divisa di un altro colore (Fazi, 2014), una treccia non scioglibile, tra realtà e finzione, di vicende private con eventi pubblici.

Fra i bagliori di una guerra, che illuminavano retrospettivamente con qualche sinistro riflesso le giovani vite mandate a morire in trincea, si incontreranno gli eroi di questo romanzo, figli di una civiltà giunta a una soglia estrema di abbrutimento e di consuetudine alle barbarie: «Sollevò il viso da terra e vide centinaia di scarponi in movimento, elmetti rovesciati vicino a teste immobili, corpi offesi da ferite strazianti, tronchi umani, arti insanguinati, divise diventate vermiglie. E su tutto l’eco dei lamenti, dei pianti e delle invocazioni, mentre il crepitio delle armi non cessava e sembrava segnare l’inizio e la fine della nuova era, in mezzo alla quale regnava solo la morte dell’uomo e della sua storia, dell’umana compassione e dell’idea stessa di futuro».

Carlo e Antonio sono diversi eppure uguali, uniti da un forte senso dell’onore e della dignità, convinti che ci si batta non tanto per vincere ma in quanto esseri appartenenti alla vita, alla Storia, alla Patria. La trincea della Grande Guerra li unì, il fascismo li divise.

Antonio, bracciante friulano, avrebbe voluto prendere i voti prima di essere costretto ad arruolarsi come fante nella guerra del ’15-’18, guerra che segnerà la sua «linea d’ombra», quel momento in cui si diventa consapevoli che si è soli nella vita e si deve contare esclusivamente su se stessi.

A ostilità terminate tornerà a casa e abbraccerà la causa socialista, ma quando la terra promessagli dal governo non arriva e la violenza squadrista si abbatterà sulla sua famiglia uccidendogli il padre, è costretto a fuggire esule in Francia. Divenuto comunista si scontrerà con la faziosità dei leader del partito che anteponevano le ragioni dell’ideologia alla realtà quotidiana.

Nella Spagna di Francisco Franco poi assisterà alla violenza contro gli anarchici, mentre da partigiano sperimenterà ancora una volta il dolore della perdita: la sua donna, Maria, finirà infoibata dai titini.

Carlo invece, elettricista romano, dopo la Grande Guerra diventerà un convinto fascista, si sposerà e metterà su una numerosa famiglia, per la felicità del Duce, che stenterà però a sfamare. Pagherà con la sofferenza della sconfitta lo stare dalla parte sbagliata (seppur in buona fede). Anche lui parteciperà all’orrore della guerra civile spagnola, Ferito, verrà salvato e curato da un’anarchica.

Tornato in Italia, partirà volontario per la Repubblica di Salò, dove non potrà chiudere gli occhi di fronte alle atrocità degli occupanti nazisti.

Con la caduta del fascismo, non potrà che constatare amaramente di vivere in un Paese «dove prima tutti erano fascisti e adesso non lo è più nessuno».

Pietro Neglie, con precisione analitica e con efficaci dialoghi non privi di inserti dialettali, dipinge un affresco del periodo più doloroso della nostra storia del Novecento che va dalla Prima Guerra Mondiale, passando per la Seconda, alla Resistenza, descrivendo l’immobilismo della guerra di trincea, i bombardamenti, l’ottusità dei comandanti, le ostilità fratricide e la precaria alchimia fra obbedienza e dissidenza.

Tutta la narrazione assume alternativamente la prospettiva dei due soldati, catapultati dall’angusta cerchia delle proprie certezze in una realtà estranea e sconvolgente.

Carlo e Antonio un giorno si rincontreranno e si riconosceranno ancora una volta simili e diversi, uniti e divisi: «Eppure adesso sono ancora più convinto che in questi due anni terribili di guerra civile avere indosso una divisa o l’altra spesso è stato solo frutto del caso. Il tuo nemico avrebbe potuto essere tuo amico in condizioni differenti e i tuoi amici diventare nemici…».

(Pietro Neglie, Ma la divisa di un altro colore, Fazi, 2014, pp. 512, euro 14,90)

“Gigolò per caso” di John Turturro

C’è la recessione economica e le sue conseguenze. A New York, Fioravante, un italoamericano di cinquant’anni, lo sa bene e si inventa come può per guadagnarsi il giorno: fioraio, anzi, compositore floreale, elettricista, idraulico. Un factotum vecchia maniera con indole riflessiva e spirito poetico. Ama una donna tunisina che non vede mai e con cui non ha una lingua da condividere se non l’italiano che entrambi conoscono poco («è difficile parlare d’amore usando solo il tempo presente»), ma non pensa ad altre donne. Un giorno il suo amico Murray, un po’ mentore un po’ compare, è costretto a chiudere la sua libreria di volumi rari («sono ormai più rari i lettori»). Per trovare un modo di fare soldi convince Fioravante a provarsi nel ruolo di gigolò con delle signore che Murray conosce. Sembra incredibile, ma funziona, e Fioravante si trova a soddisfare richieste di ogni tipo, dalla curiosità bisessuale di due ricche casalinghe annoiate al bisogno di semplice contatto fisico di una vedova ebrea ortodossa che potrebbe diventare amore.

John Turturro coltiva l’idea del Gigolò per caso, la sua quinta regia, da anni. Cancella il copione, lo riscrive, lo aggiusta. La leggenda dei comunicati stampa vuole che un giorno abbia inventato lo spunto di partenza chiacchierando con il suo barbiere che l’ha trovato esilarante e l’ha raccontato a un altro suo affezionato cliente, Woody Allen. Anche Allen l’ha trovata efficace e ha chiamato Turturro per farsi mandare una bozza di copione. Lo ha letto, lo ha criticato, ha suggerito correzioni e aggiunte e poi alla fine ha accettato il ruolo di Murray. Sarebbe nato così Gigolò per caso.

È un film di Turturro a tutti gli effetti, ma la presenza di Woody Allen, in una forma strepitosa, lo connota e lo rafforza nei suoi momenti e nelle sue trovate migliori, facendo di Murray un parente di Broadway Danny Rose, garantendo con la sola presenza del regista-attore uno specifico sigillo di garanzia di commedia newyorkese. Ma è la guida di Turturro a dare intensità e forza autonoma a Gigolò per caso, perché la commedia si contamina di multietnico, mostrando una New York al di là dei ponti nelle divisioni di Brooklyn, con gli ebrei hassidici di Williamsbourgh che fanno comunità autonoma con tanto di un loro corpo di polizia, lo Shomrim, e i loro tribunali religiosi, l’unione di Murray con una donna afroamericana e i suoi figli, il bilinguismo di Fioravante. Multietnicismo vuol dire solitudine per John Turturro. È solo il suo Fioravante con i suoi mille lavori e la sua piccola casa, sono sole le donne che consola con il sesso, è sola Avigal (una convincente Vanessa Paradis), la vedova ebrea, assistita e protetta dalla comunità, e in particolare dall’agente Dovi, ma costretta a un isolamento emotivo per le tradizioni sul lutto. È solo anche Murray, nonostante la famiglia e gli impegni, privato del lavoro che era di suo padre e sperduto, in una condizione molto alleniana, di fronte al riproporsi imperioso di quella religiosità che aveva marginalizzato nella vita. Sono tutti soli, ma la salvezza c’è, è possibile, non necessariamente nell’amore quanto piuttosto nella semplice disponibilità dell’incontro, del sorriso, dell’ascolto.

Dopo Romance & Cigarettes e Passione, Turturro conferma la centralità assoluta della musica nella sua idea di cinema facendo ballare i suoi personaggi su arrangiamenti jazz di classici internazionali tra cui spicca Tu si’ na cosa grande cantata da Vanessa Paradis.

La verosimiglianza non importa in Gigolò per caso (e dovrebbe essere chiaro sin dall’idea iniziale di Turturro di porsi come maschio irresistibile), così come il timore di cadere nel luogo comune. Anzi, i luoghi comuni sono proprio la fonte da cui Turturro attinge per spunti e sviluppi – lo stallone italiano, l’affarista ebreo, la casalinga insoddisfatta, il fondamentalismo religioso – declinandoli con leggerezza e garbo. Sharon Stone e Sofia Vergara fanno le mogli smaniose, Liev Schreiber il geloso Dovi. Esilarante la sequenza del processo ebraico.

 

(Gigolò per caso, di John Turturro, 2013, commedia, 98’)

 

Le luci della centrale elettrica @Atlantico Club, 4 aprile 2014

Una premessa: chi scrive ha sempre pensato che Le Luci Della Centrale Elettrica celassero un segreto. Già il loro album omonimo del 2007, lo abbiamo trovato pretenzioso quanto superfluo, e il secondo una semplice presa in giro. Le orde di fan, l’apprezzamento delle riviste di settore e tutto il vociare diffuso attorno alla creatura di Vasco Brondi erano incomprensibili. Viste le premesse non avevamo sentito l’urgenza di ascoltare il loro l’ultimo disco, Costellazioni (Cara Catastrofe, 2014) ma, un po’ per lavoro e un po’ per curiosità, non ci siamo fatti scappare l’occasione per unirci al “vociare”, così il 4 aprile siamo andati all’Atlantico di Roma a vederli in concerto. Faccia a faccia non avranno più segreti, abbiamo pensato, non potranno mentire; in live finalmente saranno sinceri e capiremo.

Prima di andare all’Atlantico c’è stato il tempo e la necessità di ascoltare il disco nuovo. Le canzoni di Vasco Brondi & Co degli album precedenti non avevano una struttura regolare o lineare, con un effetto straniante nelle musiche – scarne e ripetute – e nei testi all’apparenza casuali che parevano forzati, ricordando una sorta di scrittura automatica surrealista senza averne le doti o le tendenze pseudoartistiche (è sempre stata una vita dura per i surrealisti) e soprattutto in ritardo di 90 anni. Dopo i primi album e le varie scimmiottature post-punk senza la furia iconoclasta dei grandi “padri” CCCP e senza, d’altronde, avere niente da distruggere – Brondi sa meglio di tutti che intorno c’è un deserto – Le Luci si chiudono in loro stesse, e si autoilluminano. Creano un immaginario e lo bistrattano per poi esaltarlo, il loro pubblico si identifica con questo vago malessere postindustriale e provinciale, con quest’amore indefinito, con questo strano mondo di ballerine hipster coi frangettoni nei video su YouTube.

Anche il nuovo disco ha un’identità che ci sembra palese, quella di un gruppo che cambia la forma perché la sostanza non cambi. L’antiretorica brondiana è retorica essa stessa: non si dovrebbe cercare di superare, opporsi, contrastare nessuno: si dovrebbe suonare, creare per conto proprio, se si vuole dare un senso alla propria opera. Questo, nelle Luci Della Centrale Elettrica, non avviene.

La nuova ricerca della forma canzone di Brondi è apprezzabile: gli arrangiamenti e il tentativo di dare senso a musica e parole che aleggia su tutto Costellazioni sono godibili. Il ferrarese ha smesso persino di gridare nell’ultimo disco, modula anche un po’ la voce, quasi canta: ha accettato di essere pop, un prodotto; ha fatto i conti con questo. Si tratta di maturità? Forse. Si può dire maturità stilistica? Non saprei. Basta per fare un buon disco? Non direi. Le sovraregistrazioni, i suoni grassi di Dragogna dei Ministri, che ha partecipato alla stesura finale dell’album, ci sembra servano ancora a questo: coprire, mascherare, millantare. Dopo due dischi e il grande successo è facile fare un dischetto elettropop – hai già un pubblico che lo ascolterà.

All’Atlantico però la folla è in festa. Vasco Brondi ha suonato e ha domato il suo pubblico per poco meno di due ore in un locale quasi pieno, riproponendo tutto Costellazioni e inframmezzandolo con pezzi dai primi album, cantati a squarciagola dagli spettatori sotto il palco. In live le canzoni nuove perdono smalto, i suoni ricercati della produzione di Costellazioni sono ridotti dalle possibilità del live, nonostante l’energia aggiunta; i pezzi dei precedenti album acquistano personalità, forza, giustificando in parte quel gruppo di persone che davvero affermano che «in live è tutta un’altra cosa».

Ad aprire il concerto la cantautrice pesarese Maria Antonietta in acustico, e a posteriori viene da ripensare al contrasto della sua figura esile che con una chitarra e la sua voce dominava il palco con un’attitudine punk, un’energia da far paura, una sincerità palese. Il confronto è stato inevitabile. A un certo punto compaiono sul palco entrambi, il diavolo e l’acqua santa – a seconda della vostra definizione di musica, o della vostra momentanea affezione – e cantano insieme. La «ragazza con la chitarra e litri di sangue versato» dimostra che la buona musica è fatta anche di questo: sangue versato, passione, spregiudicatezza che può sembrare naïf. Forse è solo sincera.

 

Le luci della centrale elettrica
4 aprile 2014
Atlantico Club, Roma
in collaborazione con Ausgang Produzioni

“Storia di chi fugge e di chi resta” di Elena Ferrante

In Storia del nuovo cognome avevamo lasciato Lila ed Elena sul principio della loro giovinezza. Le ritroviamo ora nel terzo romanzo del ciclo L’amica geniale, Storia di chi fugge e di chi resta (E/O, 2013), in attesa di un nuovo e forse ultimo volume. E se finora era stata Lila a catalizzare la scena con il suo magnetismo sfrontato, nel corso di queste pagine si assiste invece al riscatto della sua dolce e insicura amica. Così mentre la prima, perso ormai l’agiato attributo di “Signora Carracci”, si consuma in fabbrica per crescere il figlio ripudiata dalla famiglia e da tutto il rione, Elena, lasciata Napoli per terminare gli studi alla Normale di Pisa, si fidanza con Pietro, figlio di un noto professore universitario e pubblica il suo primo libro, anche grazie alle influenti amicizie della suocera. Poco dopo il matrimonio rimane incinta e si trasferisce col marito, che nel frattempo ha ottenuto una cattedra all’Università di Firenze. Per lei sembra iniziare una nuova vita, lontana da tutta quella miseria napoletana che negli anni le si era appiccicata addosso, lasciandole dentro un senso di inadeguatezza, di inferiorità, quasi come un marchio di fabbrica. Ma proprio quando le cose sembrano volgere in meglio, arrivano gli anni Settanta coi loro moti dissacranti, le proteste, i cartelli di femminismo e rivoluzione a cambiare tutto. All’università, il colto e mite Pietro comincia a esser osteggiato da colleghi e studenti perché non condivide le ragioni della loro protesta, mentre Elena ne rimane subito affascinata. Per lei che ha trascorso la vita a sgobbare sui libri per riscattare le sue umili origini, a sorridere a tutti mentre la vita era altrove, frequentare quel mondo significa farsi persona, saldarsi finalmente al presente: «Al cinema c’ero andata poco o niente. Non avevo mai comprato dischi, come mi sarebbe piaciuto. Non ero diventata fan di cantanti, non ero corsa ai concerti, non avevo collezionato autografi, non mi ero ubriacata, il poco sesso che avevo consumato l’avevo fatto a disagio, tra sotterfugi, impaurita. Quelle ragazze invece, chi più chi meno, dovevano essere cresciute con maggiore agio, e all’attuale muta di pelle erano arrivate più preparate di me. Così mentre le sue coetanee s’incarnano nel mito della donna liberata, lei rimane indietro, timida: avevo l’impressione che la buona lingua che avevo faticato ad acquisire fosse diventata inadeguata. Troppo curata, troppo pulita. Guarda come si è modificato il linguaggio di Mariarosa, pensavo, ha tagliato i ponti con la sua educazione, è sboccata. La sorella di Pietro si esprimeva, adesso, peggio di come ci esprimevamo io e Lila da ragazzine. […]. Lila non aveva mai cessato di parlare così; e io cosa dovevo fare, ridiventare come lei, tornare al punto di partenza? Perché allora mi ero sfiancata tanto?»

Tutto da rifare, dunque. Come il secondo libro che, dopo il successo del primo, fatica a venir fuori, sommerso dagli obblighi materni e dalla routine domestica. Frattanto, i rapporti con Lila si fanno sporadici: in effetti, in questo terzo romanzo, il suo personaggio retrocede e perde centralità, ma non certo fascino. La vedremo ancora combattere contro un sistema spietato al quale, non potendo fuggire come ha fatto l’amica, tenta di ancorarsi tenace, istintiva, a volte feroce. E se il Sessantotto di Elena passa per assemblee studentesche e riunioni femministe, quello di Lila si compie in fabbrica come sindacalista, contro le bassezze dei colleghi operai e l’arroganza del padrone, mentre la violenza di quegli anni esplode in una Napoli di sangue e miseria, là dove la camorra, sposando il fascismo, pianta ora la sua bandiera nera. Andarsene dunque, per non tornare più. E diventare finalmente, anche se non sai bene cosa. In ogni caso, fuori dal veleno di Napoli, dalla scia di Lila, da un marito troppo composto per farsi scompigliare dalla vita, convinto di doverti proteggere ad ogni costo dal morso velenoso dei tuoi desideri…

E se poi torna Nino, il tuo Nino, il grande amore rubatoti da Lila tanto tempo fa, allora tutto cambia: il libro finalmente viene fuori, più bello del primo e ti accorgi che dietro quella crosta di mitezza, nonostante tutto, ci sei ancora: «M’ero costruita fin da piccola un perfetto congegno autorepressivo. Non uno dei miei desideri veri era mai prevalso, avevo sempre trovato il modo per incanalare ogni smania. Ora basta, mi dicevo, che salti in aria tutto, io per prima». Alla fine il cielo di carta si squarcia. E allora si può ricominciare.
(Elena Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O, 2013, pp. 384, euro 19,50).