“Angel Guts : Red Classroom” degli Xiu Xiu

Dopo due anni di quiete intervallata da un illusorio omaggio a Nina Simone, il 4 febbraio 2014 gli Xiu Xiu, quella strana creatura partorita dalla mente di Jamie Stewart nel lontano 2000, emette un nuovo lamento esternando ancora una volta tutta la propria ansia e tutta la propria schizofrenia. Il nono lavoro è intitolato Angel Guts: Red Classroom (titolo tratto da un film erotico giapponese del 1975).

Come a ogni loro uscita discografica questa volta ancora più che mai, gli Xiu Xiu travolgono e stravolgono al punto che piaccia o meno, non se ne può rimanere indifferenti.

«L’inizio della discesa di Xiu Xiu dal grigiore, nella più profonda oscurità sopportabile, è il suono della morte di Xiu Xiu. I temi sono: la questione-razziale, sesso, doppio suicidio, doppia penetrazione, criminalità, la paura del dolore, e non è adatto per i deboli di cuore. Ma quando il cuore ha smesso di battere, resta solo l’anima da portare avanti».

È con questo comunicato stampa sulla propria pagina web che la band ci consegna il biglietto per l’ennesimo tormentato viaggio affidandoci a Jamie Stewart che, come un decadente e post-moderno Virgilio, ci invita a seguirlo nella discesa agli inferi…i suoi inferi!

È proprio da considerarsi tale questo ennesimo lavoro degli Xiu Xiu, un viaggio nei bassifondi di una città indefinita e “malata” in cui si incontrano persone che non sono mai quello che sembrano, nascondendo sempre qualcosa nelle ombre proiettate da lampadine a neon di locali claustrofobici o stanze di alberghi a ore in cui consumare voluttuosamente desideri di omicidi e suicidi. In questo disco più che nei precedenti la voce di Jamie Stewart non si limita a esternare ansie interiori, ma si spinge a dargli contorni macabri e perversi usando bisbigli e urla, alternando momenti di lucida ansia a momenti di isteria schizofrenica. Il risultato è un disco che disorienta e che raramente ti permette di riprendere fiato. Quando ti concede una breve tregua ti colpisce subito dopo come un pugno in pieno stomaco.

Gli album precedenti davano principalmente spazio ai deliri, Angel Guts: Red Classroom invece appare più “lucido”, è un disco cinico, di un cinismo freddo di chi affronta temi malati e perversi con il distacco che solo una mente folle può permettersi. Le atmosfere sono più intime e claustrofobiche anche per la scelta degli strumenti usati, viene messa da parte quasi totalmente la chitarra che dà spazio a synth analogici e drum machines anni ’70, il tutto supportato da percussioni improvvise e disarmanti. Scontato quindi pensare ai Suicide o ai lavori di Von Lmo.

Il viaggio infernale vede 14 tappe sonore che risultano però un continuum altalenante.

Apre un intro strumentale (“Angel guts” ) ed è così che comincia la discesa agli inferi, accompagnati da un vento magnetico e sonoro che ci sospinge verso la macabra vocalità di Stewart in “ArchiE’s Fades”. “Stupid in the Dark” attinge a piene mani dalle sonorità anni ’80 ed è forse il pezzo che meno ti aspetti dagli Xiu Xiu. Un capitolo a parte è rappresentato da “El Naco” e “Black Dick”, basti solo pensare al fatto che il video di quest’ultima sarebbe inutile cercarlo su YouTube o Vimeo, per reperirlo dovreste infatti andare su PornoHub… si è proprio lì che è stato rilasciato ufficialmente, inutile dire che è sconsigliabile la visione sul posto di lavoro o in ambienti protetti. Se avete ancora dubbi sulla follia visionaria e paranoica degli Xiu Xiu, potete godervi le atmosfere industrial di “The Silver Platter” e “Knife in the Sun” fino a sfociare nell’ inquietante e ansiogena “Cynthya’s Unisex”. Ci sono tuttavia due piccoli barlumi di umanità anche in questo disco rappresentati dalla tiepida “Bitter Melon” e da “Botanica De Los Angeles” in cui riemergono i tratti melodici più comuni agli album precedenti.

In definitiva Angel Guts: Red Classroom più che un disco è un “esperienza”, come quando da bambini si entrava nella casa degli orrori al Luna Park e camminandovi dentro si provava quella condizione di tensione costante data dalla consapevolezza che lo spavento e il disorientamento sarebbero potuti arrivare da un momento all’ altro. E quella tensione, tutto sommato, era di per sé un piacere. In quelle attrazioni da luna park all’uscita c’era sempre uno scheletro che con la manina ci salutava e con un rumore sinistro ci spalancava la porta d’uscita. È proprio con questa logica che “Red Classrom” ci congeda dall’ ascolto riconsegnandoci all’ apparente normalità del mondo, ma con il battito cardiaco ancora accelerato… a voi le conseguenze!
 

(Xiu Xiu – Angel Guts : Red Classroom, PolyvinylBella Union, 2014)

 

“Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo

Da ragazzino Francesco Piccolo ha avuto paura di essere colpito dal colera e in effetti la terribile malattia a Caserta, la sua città, ha affetto amici e concittadini e tutti, inevitabilmente, ne parlavano ma lui non l’ha contratta, l’ha solo sfiorata. Ha sentito perfettamente le scosse del terremoto in Irpinia, come tutti coloro che stavano in quella zona ma nella sua città non è morto nessuno, né la sua abitazione ha subito danni. Anche quest’altra tragedia lo ha solamente sfiorato. È diventato comunista guardando una partita di calcio in tv ma non ha mai frequentato il partito come tutti i veri militanti. Ha provato grande ammirazione e stima per Berlinguer, come tutto il popolo comunista, eppure, al momento di scegliere se andare o meno ai suoi funerali, ha deciso di rimanere solo nella sua camera piuttosto che unirsi alla sterminata folla di Piazza San Giovanni, anche se lì a Roma, quel giorno, sembravano esserci davvero tutti. Ha odiato Craxi (come tutti i berlingueriani) e ha sofferto per i fischi che il Congresso socialista aveva riservato al leader del P.C.I. soltanto un mese prima della sua morte ma ciò nonostante, negli anni ’80, ha vissuto, un po’ come tutti del resto, una vita frivola, spensierata e borghese, lontana dallo stile austero professato proprio da Berlinguer; una vita troppo borghese per la sua ragazza Elena e gli altri ragazzi del Movimento. Elena, che il giorno di San Valentino, dopo che lui le aveva donato un peluche di Snoopy aveva risposto sdegnata: «Anche il giorno di San Valentino, se non lo sai, succedono cose nel mondo, e quindi anche il giorno di San Valentino noi siamo impegnati a fare politica».

D’altra parte la vicinanza di Francesco alle idee del P.C.I. lo ha reso, al tempo stesso, anche troppo estremista per suo padre, un uomo di destra. Nel 1996 alle elezioni politiche ha votato Bertinotti: «Devo votare per il mio partito che ha cambiato nome ed è ritornato a dialogare con la parte più vicina dei cattolici, oppure devo votare per quel partito più piccolo che è rimasto legato alla parola comunista e ad alcune preclusioni che aveva suggerito Berlinguer negli ultimi anni?». Sceglierà di votare per Rifondazione perché così facendo poteva esserci e non esserci, stare al governo ma anche un po’ all’opposizione (Rifondazione appoggiava infatti il governo di centrosinistra solo dall’esterno senza avere nessun ministro). Sembrava l’unico modo per preservare la purezza berlingueriana (purezza che Francesco ha sempre desiderato ma mai raggiunto) e al tempo stesso contribuire al miglioramento del Paese. Poi tutti sanno come andò a finire.

Per fortuna accanto a Francesco dal 1994 c’è Chesaramai, colei che rende nella sua vita tutto più sopportabile. Vince Berlusconi? Che sarà mai risponde lei. Crollano la Torri Gemelle? E va bene, che sarà mai. Nostro figlio si rompe una clavicola? Che sarà mai, è solo una clavicola, poteva andare peggio. Questa ragazza che ha trasformato il che sarà mai in una formula esistenziale costante ha fatto capire a Francesco che non ci si può sobbarcare i problemi del mondo, che non si può cercare sempre la purezza. Francesco che ha sempre avuto il desiderio di essere come tutti e che però non è mai riuscito a essere come nessuno (o troppo comunista o troppo borghese) ha trovato il suo personale modo di stare al mondo proprio grazie a Chesaramai: che sarà mai vuol dire non è importante, è rimediabile, non è finito il mondo, ci sono cose più gravi, non ci possiamo rovinare la vita per questo. Vuol dire, in fin dei conti, vivi la tua vita, sii felice ma anche impuro, vuol dire appassionati agli eventi del tuo Paese, parlane, ma non sentirti migliore dell’altra parte (come in effetti molti di sinistra si sentono); che sarà mai vuol dire non fare come coloro che ogni giorno ripetono che questo Paese è senza speranza e che non resta che andarsene (e ovviamente non lo fanno mai); vuol dire non fare come quei ciclisti che si mettono in mezzo alla strada e non ti fanno passare perché si sentono migliori di te che sei in auto, te che stai inquinando, te che non ti preoccupi della salute della Terra.

Francesco Piccolo con Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2014) ha scritto contemporaneamente un’autobiografia, un saggio ma anche una non-fiction. Smettendo di cercare la purezza si è contaminato, ha attraversato i generi ma soprattutto, ed è quello che più conta, ha scritto una bellissima storia… e già c’è chi parla di premio Strega.


(Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi, pp. 268, euro 18)

“Noah” di Darren Aronofsky

È il film più ambizioso di Darren Aronofsky, Noah. Dopo i successi di The Wrestler e Il cigno nero arrivano i soldi, tanti, 130 milioni per l’esattezza, e un progetto covato da anni: raccontare la storia di Noè e del Diluvio Universale, così come è nella Bibbia.

La vicenda è nota, più o meno: Noè, discendente di Adamo, è chiamato da Dio (nel film sempre “Egli” o “Il Creatore”) a costruire un’Arca capace di accogliere una coppia di tutti gli animali del creato (nel testo sono sette per gli animali puri, una per gli impuri. Tra gli impuri, per dire, ci sarebbero anche i cavalli) e la sua famiglia per salvarli dal diluvio di quaranta giorni e quaranta notti che si sta per abbattere sull’umanità come punizione per la corruzione. Nel film si aggiunge a Noè, la moglie e i tre figli Sem, Cam e Jafet, l’orfana Ila che diventa la moglie di Sem, mentre il discendente di Caino, Tubal-Cain (che compare sì nella Genesi, ma qualche generazione prima di Noè e solo per dire che fu padre della metallurgia), guida le tribù degli uomini nel tentativo di impadronirsi dell’Arca e salvarsi.

In qualche modo, si è dalle stesse parti del Troy di Wolfgang Petersen per la libertà con cui ci si accosta al materiale originario. Come per l’Achille biondo e suo cugino Patroclo, non è la libertà rispetto ai testi originali a non convincere. Il materiale dell’epica, per quanto risulti più difficile accettarlo con un immaginario come quello biblico comunemente accostato alla religione, quindi al sacro, quindi all’intoccabile, è da sempre oggetto di modifiche e aggiornamenti nella tradizione, e non può essere altrimenti. Quello che non va è che proprio nelle premesse che il film si propone di affrontare inventando di sana di pianta ci sono le debolezze maggiori, le contraddizioni, la retorica. Il male dell’uomo come natura e vocazione che è propria dei figli di Caino, la donna forte che consiglia, le turbe adolescenziali del figlio in preda agli ormoni, sono temi che vengono sviluppati senza preoccuparsi dell’aderenza storica ancor più che mitica, proponendo modelli dell’oggi come se potessero andar bene per la preistoria dell’uomo.

Proprio le libertà che si concedono Aronofsky e Ari Handel in scrittura (scuola ebraica per entrambi) lasciano capire, ancora di più che la resa stessa, la volontà di ricondurre la vicenda del diluvio a un immaginario fantastico che travalica il religioso. L’inserimento di elementi magici, dai poteri taumaturgici di Matusalemme, che nelle intenzioni dovrebbe essere il grande guerriero dei testi apocrifi ma appare come un bizzarro incrocio tra Yoda e Gollum, alle pietre esplosive usate per abbattere i Giganti – la licenza più grande: angeli caduti sulla terra per aver disobbedito a Dio e aver difeso gli uomini, che aiutano Noè a costruire l’Arca (ma «c’erano i giganti sulla terra a quei tempi, ed anche dopo, quando i figli di Dio s’accostarono alle figliuole dell’uomo e queste partorirono loro dei figli», Genesi, 6,4) – fino alla trovata peggiore, la presenza del clandestino carnivoro sull’Arca, rimasto invisibile a tutti se non al ribelle Cam per nove mesi e pronto a rigenerare la Terra al posto di Noè per perpetrare il male, collidono con lo spirito che idealmente ispirava Aronofsky nel progetto originario.

La volontà del regista era quella di rendere la Genesi, e l’episodio dell’Arca, come non era mai stata raccontata, lontano quindi dall’idilliaca immagine degli animaletti felici, l’arcobaleno, la colomba e la brava gente che si salva, ma recuperando l’idea della punizione necessaria per la corruzione invincibile dell’animo umano. Uomini ancora come bestie, fermi in uno stato di evoluzione che non è ancora civiltà, su un pianeta che non è ancora definito – e infatti i continenti sono brevemente mostrati prima della deriva –; questi sono i figli di Caino che il Creatore vuole annegare lavando il mondo. Noè si contrappone come discendente di Set, terzo figlio di Adamo ed Eva, che vive nella giustizia della legge in maniera integrale, non mangia carne non per pretese ambientaliste di Aronofsky ma perché «ecco, io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semenza, che sono sulla superficie di tutta la terra, ed anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: essi costituiranno il vostro nutrimento» (Genesi, 1,29), portando quindi in sé l’integrità dell’armonia con la natura così come è concepita dal Creatore.

 

 

Questo spirito esegetico si scontra inevitabilmente con la stringatezza del testo biblico, che si sofferma in soli cinque capitoli sui novecentocinquant’anni della vita di Noè, e l’integrazione con altri testi della religione ebraica non basta. È a questo punto che subentra la fantasia fumettistica (ne è stata fatta una graphic novel scritta dallo stesso Aronofsky) e modernista che inserisce l’antagonista diretto, amplia e accresce il ruolo della moglie, inventa la trovatella Ila e di conseguenza l’amore giovanile e la gelosia tra fratelli, introduce battaglie, si mostra ridicola nelle svolte sentimentali e piatta e scialba nel disegno psicologico.

L’unico personaggio debitamente sviluppato è Noè, e non poteva essere altrimenti. Costretto a essere esecutore del disegno divino, deve lasciar morire l’uomo, di cui riconosce il male, caricandosene la colpa. Interpreta i segni del Creatore dalle visioni, non ha le certezze date da un vero dialogo e finisce isolato dalla sua famiglia che non lo capisce, solo con la sua missione enorme e terribile. È un giusto che deve essere spietato, chiamato a obbedire al suo Signore muto contro l’uomo, contro la propria famiglia, contro se stesso. Russell Crowe ha il carisma adatto per caricarsi follia e pazienza, solitudine e titanica vocazione al martirio.

Che cos’è Noah, in conclusione? Lontano come più non potrebbe essere dalla tradizione del peplum biblico del cinema di mezzo secolo fa, vicino piuttosto al Signore degli anelli (tra l’altro, sono già stati tirati in ballo titoli ironici come Il signore degli agnelli e Apocalypse Noah) e al Batman di Nolan, il film di Aronofsky è un cine-fumetto catastrofico che si propone di spettacolarizzare il materiale biblico rendendone la cupezza implicita come già era stato fatto con il discusso La passione. Senza scivolare nella pornografia splatter del film di Gibson, Noah non riesce a coniugare sguardo d’autore e spettacolo, accontentandosi di correre lungo binari sicuri su cui lo spettatore possa viaggiare senza sobbalzi mentre mangia pop-corn con gli occhialetti 3-D. È il primo momento della riscoperta hollywoodiana della Bibbia: Ridley Scott è atteso alla prova di Exodus sulla vita di Mosè interpretato da Christian Bale. Molto bella la fotografia di Matthew Libatique, soprattutto prima del diluvio.

 

(Noah, di Darren Aronofsky, 2014, fantastico, 138’)

 

[RockNotes] Le uscite di aprile

Rufus Wainwright, Vibrate: The Best Of
(Universal)

Molti adetti ai lavoro, quasi tutti, lo chiamano “Re del Pop”. Lui è Rufus Wainwright e il pubblico italiano può averlo conosciuto per la prima volta grazie all’effimera polemica dovuta alla partecipazione sanremese. Di questi giorni è l’uscita di Vibrate: raccolta di successi più qualche gradevole inedito: vedi “Me and Liza”. Il best of permette di apprezzare la clamorosa mole di classe e talento di quest’autore, il cui appellativo non è per niente esagerato.


Wilko Johnson e Roger Daltrey, Going Back Home
(Universal, Chess)

In questo caso, la vita precede la musica, solo per poi fondersi con essa. L’ex Dr. Feelgood dal 2013 sta sfidando quella malattia chiamata cancro. La sta combattendo come solo lui poteva fare: registrando un disco. Accompagnato dall’altrettanto leggendario cantante degli Who, Wilko registra un album rabbioso: sfogo urgente e necessario, urlo vitale estremo. Al prossimo disco, Mr. Johnson. 


Joan As Police Woman, The Classic
(Pias, Self)

Per chi volesse ampliare il proprio spettro d’ascolto anche nei meravigliosi paraggi di suol e R’n’B, non possiamo che consigliare l’ultimo lavoro della newyorkese Joan Wasser, alias Joan As Police Woman (nome ispirato da una serie tv). Un passato da collaboratrice con gente del calibro di Wainwright, Battiato e Nick Cave, Joan Wasser da quando è “in proprio” si è fatta notare alla grande. Al quarto disco, formula vincente non si cambia: nonostante soffra troppo di un contrasto tra umore allegro e triste, anche The Classic può considerarsi l’ennesimo lavoro riuscito della “Poliziotta”.


Black Lips, Underneath the Rainbow
(Vice Records, Audioglobe)

Avete un debole per i rockers brutti, sporchi e cattivi? Per quegli elementi che non sai quanto possono durare se continuano con quello stile di vita sregolato, ma che al tempo stesso gli permette di suonare al massimo? Bene: la vostra band sono i Black Lips. Andate a vedere i loro live e i loro videoclip per conferma. Underneath the Rainbow è il loro disco più maturo e consapevole, con aperture al blues e al folk: da non perdere!


The Men, Tomorrow’s Hits
(Goodfellas, Sacred Bones)

Se i Black Lips hanno ancora la nomina di cattivi ragazzi, chi ha ormai abbandonato il punk per una forma più elaborata e composita solo loro, i The Men. Gruppo sconosciuto ai più, Tomorrow’s Hits in alcuni momenti risenti dello spirito di una band intenta ad adagiarsi. Nonostante tutto, la carica e la canzoni sono notevoli e ci sentiamo di invitarvi a fare la loro conoscenza!

“Romanzo viennese” di David Vogel

Durante i primi anni del secolo scorso (un mondo che l’editoria italiana sta in questi mesi riscoprendo, probabilmente per via del centenario della Grande Guerra, con alcuni libri bellissimi – due fra tutti: 1910. L’emancipazione della dissonanza di Thomas Harrison e 1913. L’anno prima della tempesta, di Florian Illies) un tale di nome Rost, ebreo giovanissimo, decide di mollare il suo paese natio e approdare nella capitale dell’impero. Lì s’imbatte in una varia umanità; c’è andato per quello, per conoscere il mondo, fare esperienza: in una parola vivere. Non che abbia difatti in mente qualcosa come un percorso di formazione alla fine del quale trovare un ubi consistam; ma dove potrebbe andare un ragazzo che dalle periferie orientali vuol conoscere il mondo se non a Vienna? Non avendo molti mezzi, ovvio che incontri per lo più emarginati, prostitute, artistoidi, teatranti, apocalittici fumosi e scansafatiche assortiti. Che passano il tempo bevendo o chiacchierando. Mettendo insieme nelle loro fratte conversazioni il cielo e la terra, l’infimo e il sublime. Rost vive così, rimediando alloggi casuali e accumulando incontri e storie. Intorno, una città decadente e lussuosa.

Rost è un personaggio inventato ma è il protagonista di un romanzo che se non si può propriamente definire di formazione (né di intreccio, va da sé) è molto autobiografico. Il suo autore si chiama David Vogel, è noto per i lettori italiani sostanzialmente per il libro adelphiano Vita coniugale. Questo Romanzo viennese (Giuntina, 2014) invece è il risultato di una scoperta recente in quel di Tel Avivdovuta alla ricercatrice Lilach Netanel. Manoscritto – in ebraico – perduto e inconcluso, bisognoso di correzioni e revisioni, fatto soprattutto di parole e desiderio ma esemplare a suo modo di un mondo, quello di primo Novecento: dove tormento e disincanto insieme sono persino una malattia. L’oltranza vitalistica (se non intendi fare la guerra e non credi né a dio né a Marx) si annichilisce per consunzione ludica. Il piacere sconfina sempre con un senso di fine imminente; Klimt e Schiele ne sanno qualcosa.  Benché dal suo arrivo nella grande città che ha prodotto probabilmente la cultura europea più affascinante di quegli anni, Rost trovi il modo di farsi notare, di combinare qualcosa che non passa senza clamori (amare moglie e figlia sedicenne di un uomo, losco la sua parte, che ha avuto l’imprudenza di ospitarlo), alla fine non sembra cambiato granché. Ché sapere di dover fare i conti con ciò che si è, con ciò che (non) si è fatto, non assicura alcuna garanzia di successivo cambiamento.

Un erotismo crudo e fragile è la chiave dunque della storia ma pare anche della vita dell’autore, ebreo di Satanov (Podolia)  morto probabilmente ad Auschwitz. Una tetra e a volte gelida disperazione intona le sue pagine, non di rado desunte dai propri diari. L’apparente girare a vuoto dei personaggi non sembra però un limite dello scrittore ma (al netto di qualche tratto ripetitivo da emendare, ma lo scrittore non ne ebbe il tempo) al contrario, la fedele rappresentazione di un clima, di un’epoca inquietante ma di immutata fascinazione.

(David Vogel, Romanzo viennese, Giuntina, trad. di Alessandra Shomroni, 2014, pp. 272, euro 16,50)

“Beatles Submarine” di Giorgio Gallione

Al Teatro Olimpico di Roma va di scena uno strano submarine, capitanato da Neri Marcorè e manovrato da quattro “mozzi” d’eccezione: Gianluigi e Roberto Carlone, Giancarlo Macrì e Sandro Berti, ovvero la Banda Osiris.

Il sottomarino è a tinte gialle, il cartellone propone la Banda Osiris in versione Fab Four e Neri Marcorè aleggia sul gruppo lasciando aperto l’interrogativo sul suo ruolo nello spettacolo. Poi ci si accomoda in sala, si apre il sipario e la grande sorpresa è che non c’è traccia dei Beatles ma solo di alcuni beetles (scarafaggi) coinvolti in una visionaria (ri)creazione del mondo, ben diretta da Giorgio Gallione, in cui si incastra, come un “diamante nel cielo”, la storia del celebre gruppo musicale, raccontata nei sogni di Lucy (ogni riferimento è puramente non casuale).

E così si parte, spegnendo ogni senso logico, trasportati dalle visioni di Lucy, da un Dio bizzarro intento a popolare il mondo di tante strane creature, e da episodi tratti dalla carriera di John, Paul, Ringo e George, per un viaggio fatto di gag, rivisitazioni, nuovi arrangiamenti e stupendi monologhi, in cui i Beatles compaiono e scompaiono di continuo, che si conclude con un ritorno al creatore e al suo fedele servo, Zoo alias Gianluigi Carlone, che osservano soddisfatti il mondo popolato dai nuovi esseri.

Nella versione della Banda Osiris, magnifica “Hey Jude”, usata per raccontare la varietà di isterismi di massa causati dalla passione per i Beatles, così come la genesi di “Yesterday” (“Scrambled Eggs”, uova strapazzate, in origine), ma una vera gemma sono i monologhi di Marcorè, da Cappuccetto Nero al racconto dell’assassinio di John Lennon.

Se la poesia visionaria è sicuramente la “nota” più lieta dello spettacolo, per il quale la Banda Osiris è bravissima a vestire i panni di musicisti/attori/saltimbachi, c’è anche da sottolineare che forse i puristi dei Beatles potrebbero non uscire completamente soddisfatti dalla performance di questi beetles, in quanto il “mood” surreale ovatta e dilata la storia dei Fab Four, e gli arrangiamenti dei pezzi, pensati soprattutto in funzione dell’incastro teatrale, tradiscono le aspettative di chi immaginava avrebbe assistito a una sorta di “concerto”.

Altra piccola nota è da farsi sulle scenografie: inquietanti. E uso quest’aggettivo perché invece di accompagnare nel mondo dei sogni di Lucy, nella follia creativa di Marcorè o dare un assaggio di pop-warhol per far meglio apprezzare le evoluzioni della banda Osiris, lasciano in bocca il sapore di un sogno che diventava incubo.

Alla fine, comunque, ci si alza con un sorriso carico di nostalgia, e il la-la-la-la di “Hey Jude”accompagna lo spettatore fino a casa.
 


Beatles Submarine
di Giorgio Gallione
con Neri Marcorè
e la Banda Osiris (Carlo Macrì, Gianluigi Carlone, Roberto Carlone, Sandro Berti)
regia Giorgio Gallione


Prossime date
Roma – Teatro Olimpico dall’1 al 13 aprile
Torino – Teatro Colosseo 15 e 16 aprile
Genova – Teatro dell’Archivolto 17 e 18 aprile
Carpi – Teatro Comunale dal 28 al 30 aprile 

“Mentre le donne dormono” di Javier Marías

Le vicende alla base dei dodici racconti che costituiscono la raccolta di Javier Marías Mentre le donne dormono (Einaudi, 2014), solo ora – a seguito, probabilmente, del pregiudizio imperante nella nostra editoria contro il racconto come genere – tradotta in italiano dal 1990 della sua prima uscita in spagnolo, ebbene, difficilmente tali vicende, si diceva, potrebbero essere prese per “vere”, nel senso piattamente banale per cui ciò che compare in un libro deve risultare così simile all’esperienza medio-quotidiana del lettore che costui possa esclamare, fra il meravigliato e il compiaciuto, «Com’è vero! Potrei averlo scritto anche io, se solo avessi il tempo di farlo!».

Cosa che è altamente improbabile accada, a ciascuna di queste dodici spiazzanti vicende, molte delle quali tramate sul tema del doppio, dell’angosciante scoperta dell’esistenza di qualcuno che è, in tutto e per tutto, la copia esatta dell’io-narrante ma, allo stesso tempo, ne rappresenta una contraffazione platealmente sbagliata, aberrante (il nuovo marito-omicida della giovane moglie da cui torna il protagonista di «La canzone di Lord Rendall»; o quello di «Una notte d’amore», inaspettatamente appagato da un nuovo, contorto amplesso con la scialba donna che ha sposato, ma che gli scrive a nome di un’amante del suo defunto padre), quando non l’anticipazione in forma di “fantasma” manifestantesi in un notturno rumore di passi matematicamente contati («Le dimissioni di Santiesteban»).

Altre volte è il tema della morte, a costituire il nocciolo narrativo del racconto: o perché, come in «Marcelino Iturriaga», il narratore ce ne trasmette la desolante esperienza del vedere la vita continuare, incolore e inamena, dal punto d’osservazione – disturbato, per altro, dai garofani puntualmente offerti dalla vedova – della propria pietra tombale; o perché, come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, essa dovrebbe giungere a risolvere una tormentosa relazione fra un uomo di sgradevole aspetto e la stupenda creatura femminile che è oggetto della sua adorazione: e non sapremo mai, neanche a racconto finito, se sia essa, la morte, ad averla ora in preda, piuttosto che il sonno; o ancora, in «Quello che disse il maggiordomo»(la situazione, comune a quasi tutti i racconti, del dialogo fra due personaggi accostati più o meno a caso è qui efficacemente ambientata in un ascensore bloccato al ventiquattresimo piano di un palazzo di New York), dove la morte di una bambina a pochi mesi dalla nascita è insieme la cifra della svagata inaffettività della donna che l’ha generata e della virile, algida pietas del domestico che ne cura le esequie.

La gemma della raccolta è però quasi certamente «Lo specchio del martire»; e non solo per la felice invenzione del personaggio centrale, ufficiale napoleonico che si trova a vivere l’esperienza, non meno abberrante, di un tradimento non voluto per quanto inevitabile, ma anche, ancora di più, per lo splendido livello formale cui Marías riesce a condurre la sua complessa sintassi, pur senza che mai l’interesse del lettore si affievolisca, ma anzi coinvolgendolo nella sua lenticolare sensibilità alle sfumature.

In realtà, è poi l’intera raccolta, a trasmettere l’impressione di un elevato, sorvegliatissimo magistero narrativo: di uno sguardo, straniato e insieme nitidamente partecipe, volto alla inspiegabile complessità della nostra vita, come alla rivoltante assurdità della nostra morte.

(Javier Marías, Mentre le donne dormono, trad. di Valerio Nardoni, Einaudi, 2014, pp. 200, euro 14,50)

“The Following”: la seconda stagione

The Following ha tutte le carte in regola per essere un telefilm coinvolgente, a partire dal protagonista con una personalità complessa e tormentata, e un assassino con un modus operandi particolare, che utilizza i social network e la letteratura per compiere i suoi efferati omicidi.
Si potrebbe parlare di The Following in chiave moderna, sottolineando il ruolo dei media nella nostra società e coniugandolo alla necessità da parte dei giovani di sentirsi parte di un qualcosa, di un quadro generale in cui i singoli contribuiscono a scrivere una storia destinata a sconvolgere la collettività.
Si potrebbe considerare Joe Carroll un assassino romantico con dei forti ideali, per quanto moralmente discutibili, che crede nel suo operato e nella poetica della morte e del sacrificio.

Dico si potrebbe perché nel concreto, sebbene la base da cui si parte sia buona, la riuscita della poetica, degli ideali e dei personaggi è un buco nell’acqua e The Following diventa così un prodotto mediocre e poco credibile, colpa forse di un meccanismo che è stato sviluppato bene nel suo progetto ma a cui non è stato oliato il cuore del motore trainante.
Passi Kevin Bacon/Ryan Hardy, pienamente a suo agio nel vestire i panni di un ex agente al limite dell’alcolismo e in perenne lotta coi suoi demoni. Il problema vero di questa serie è – paradossalmente – l’assassino.
E l’assassino, in una storia di omicidi e di morte, deve come minimo fare paura, grazie alla sua lucida ferocia e il suo savoir-faire. E rivestendo il ruolo di guida per un gruppo di followers che lo ritiene un guru non può permettersi di vacillare.

Joe Carroll ci prova a essere un leader nato ma non ci riesce. La sua personalità sembra correre a volte sul filo dell’instabilità mentale, e ciò non va bene quando nel presentarlo ci è stato introdotto come un ex professore di letteratura consapevole della sua indole malvagia ma nonostante tutto in grado di trasformarla in arte, così da non tradire l’innata passione per la bellezza in ogni sua forma.
Inoltre è un peccato che la sua ossessione per Edgar Allan Poe lo porti esclusivamente a indossare la maschera del poeta e a cimentarsi in romanzetti stroncati dalla critica, quando lo spunto potrebbe contribuire alla creazione di un eroe neoromantico e struggente, capace di piegare le menti grazie al suo fascino intellettuale.

Se nella prima stagione Carrol pareva un minimo definito, nella seconda sembra invece che il nostro si muova a piede libero limitandosi a eliminare chiunque ostacoli il suo cammino.
E chissà perché il ritorno dopo la finta morte inscenata al faro non ha stupito nessuno, colpa forse del copione e di quella sensazione che lo spettatore combatte di continuo, ovvero prevedere le mosse degli sceneggiatori.
La ricerca di una setta da guidare sembra più una mania di controllo che non ha quasi nulla a che vedere con la celebrazione del sacrificio e la bellezza della morte intesa come quella sublimazione della vita che Carroll adora predicare.

Non me la sento di dire che The Following rappresenta un fiasco totale in quanto ci sono stati un paio di episodi della prima stagione ben costruiti, in grado di garantire l’effetto “fiato sospeso” e di provvedere a piacevoli colpi di scena, ma resta il fatto che un’idea buona resta un’idea buona e niente più se poi i personaggi vengono realizzati senza un’anima; Joe Carroll, finora, non ha una propria personalità e sembra un emule di tanti stereotipi poco originali: direi anzi che al momento non ha nulla di diverso dalle maschere che ama indossare.

 

Neri Pozza, la sfida della qualità

Questa storia comincia al buio. Sotto il tetto di un anno ingrato. È il 1938 ed Ermes Jacchia, brillante avvocato ed editore ebreo, abbandona l’Italia in tutta fretta. Non indossa nessun crimine, neanche quello dell’amore da rincorrere lontano. La sua colpa è il suo sangue. Il Dio ingombrante che gli scorre dentro. Perché proprio in quel settembre, il governo fascista promulga le Leggi razziali. Un editto d’intolleranza sociale, un salto indietro di secoli e piombo. Ermes Jacchia e tutti gli altri ebrei sono retrocessi di colpo, al rango di cittadini scadenti. Scaduti. Transfughi dell’ultima ora.

Ma c’è un libro di poesie nella pancia editoriale, La gaia gioventù, il primo di Antonio Barolini.

E non si può soccombere ai capricci del rancore. Intorno a quest’opera sorge quindi a Vicenza l’avventura dell’Asino Volante, per volere dello scrittore/artista Neri Pozza e dei suoi “amici scalmanati”, da tenere d’occhio in un momento così immobile. La missione di Pozza prosegue imperterrita malgrado le parentesi di cella per «sospetta attività antifascista», fino al 1946, quando nasce a Venezia il progetto col suo nome.

I primi titoli pesano e ruggiscono. Paludi di André Gide, Peter Rugg l’errante di William Austin, (tradotti entrambi da Aldo Camerino) e Poesie nuove di Vincenzo Cardarelli.

L’energia centripeta della casa editrice raduna intorno a sé i maggiori talenti letterari della compagine italiana, tra cui Camillo Sbarbaro, Mario Luzi, Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda, assurgendo a nucleo propulsore della cultura contemporanea. Una pioggia di testi straordinari alluviona la fama della casa editrice. Basta citare In quel preciso momento di Dino Buzzati e Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise. Il percorso evolutivo non si impigrisce col tempo e nel 1961 viene battezzata la collana Tradizione Americana, diretta da Agostino Lombardo, che si affaccia alle stampe con L’uomo di fiducia di Herman Melville, per poi annoverare autori come Henry James, Walt Whitman e Nathaniel Hawthorne.

Il padre/demiurgo Neri Pozza si spegne nel 1988, ma dopo aver acceso una creatura forte e ostinata, in grado di riplasmarsi e crescere senza tradire i suoi ricordi.

A partire dal 2000, con la direzione di Giuseppe Russo e una rinnovata cura verso una grafica attenta e raffinata, lo sguardo si dilata, inglobando sentieri e dimensioni multiformi, «dalla narrativa orientale al nuovo romanzo americano, dalla giovane letteratura europea ai nuovi talenti dei paesi emergenti, dalla letteratura di viaggio alla grande saggistica internazionale».

Continuano a fioccare nomi eccellenti, tra cui David Benioff, John Berger, Williams Boyd, Geraldine Brooks, Tracy Chevalier, Angelo Del Boca, Romain Gary, Amitav Ghosh, Paul Harding e Jane Harris.


L’onnivoro catalogo della casa editrice si articola nelle seguenti collane:

I narratori delle tavole, narrativa nazionale e internazionale, dove abitano i titoli di Susan Vreeland, Irvin D. Yalom e Stefano Malatesta.

Le tavole d'oro, narrativa internazionale, con una particolare attenzione alla letteratura orientale. Tra le firme più acclamate quelle di Natsume Soseki e Natsuo Kirino.

Neri Pozza Bloom, narrativa e saggistica nazionale e internazionale per autori graffianti, come Eshkol Nevo e Tim Winton.

 – I colibrì, ramo di saggistica in cui campeggiano Georges Gurdjieff e Osvaldo Guerrieri.

 – Biblioteca Neri Pozza, collana di novità e riscoperte in edizione tascabile.

La quarta prosa, collana di saggi  storico-filosofici guidata da Giorgio Agamben in cui figurano Hannah Arendt e Carl Schmitt.

 – Il cammello battriano, collana di letteratura di viaggio diretta da Stefano Malatesta, che deve il nome a un volume dello stesso Malatesta.

Il corpo aziendale della casa editrice continua a espandersi, costituendo la Divisione Libri del Gruppo Athesis, assieme ai marchi Giano e Beat.


Data l’immensità del catalogo in questione, stavolta individuare solo cinque titoli non ci è sembrato stimolante ma più che altro riduttivo, rischiando di falciare troppe scelte.

Per questo, abbiamo deciso di concederci qualche traccia in più. Ed ecco la nostra selezione:

La città dei ladri, di David Benioff. Due ragazzini sotto assedio. Leningrado e la guerra affamata. Una torta nuziale che diventa una missione, in cui non si cercano solo le uova, ma anche libertà e farina di speranza.

Le lacrime di Nietzsche, di Irvin D. Yalom. Il filosofo piange, il filosofo trema. Occorre salvarlo dalla sua prostrazione. Il brillante psichiatra Josef Breuer si assumerà l’incarico di guarire quel dolore. Traghettandoci in una mente tortuosa e rarissima.

La vita davanti a sé, di Romain Gary. Vicenda struggente di un bambino-ombra. Figlio di nessuno, allevato nella polvere della banlieu di Belleville da una vecchia prostituta ebrea. Parabola di tenerezza e innocenza, scritta sotto falso nome dal genio di Gary.

Le quattro casalinghe di Tokyo, di Natsuo Kirino. Efferato e devastante. Sodalizio mortifero di quattro donne succubi di una storia infelice. Che scorgono nel crimine un affare e un riscatto. Episodio ineludibile di letteratura giapponese.

Io non ricordo, di Stefan Merrill Block. Seth, adolescente geniale colonizzato dall’acne e dal timore del futuro, s’impiglia nell’oblio di sua madre, che comincia a non avere più un passato. Tocca a Seth recuperare i pezzi della sua stessa trama.

Un angelo alla mia tavola, di Janet Frame. Autobiografia straziante di una scrittrice clamorosa. Esistenza al limite, sbocconcellata da anni di degenza psichiatrica e oltre duecento elettroshock. Schizofrenia di vita e arte, che è la sola occasione di fiato e bellezza.

La scrittrice abita qui, di Sandra Petrignani. Itinerario ipnotico tra terre d’autore. Da Parigi alla Sardegna, dal Kenya al Tibet, dove ogni luogo è incontro, volto, narrazione.

Respiro, di Tim Winton. La sfida del mare, a cavallo del surf. Due ragazzi sull’onda, un campione non più giovane e il profumo del limite.


Questa storia prosegue in piena luce. Spalancando pagine e raccontando infiniti finali. 

“Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson

Gran Premio della giuria all’ultimo Festival di Berlino per Grand Budapest Hotel, ultimo lavoro del visionario Wes Anderson che trasferisce il suo stile fatto di simmetrie e colori nell’Europa degli anni trenta che si prepara all’avanzata del nazismo e della guerra.

A Zubrowka, un immaginario paese dell’Europa centro-orientale del giorno d’oggi, una bambina si reca in visita sulla tomba di uno scrittore. Lo omaggio con una chiave, come tanti prima di lei, poi si siede su una panchina a leggere il suo libro più famoso, Grand Budapest Hotel. Racconta la storia vera di quando, nel 1985, l’autore si era recato nel paese per curare una malattia polmonare e aveva soggiornato proprio nel Grand Budapest Hotel, un tempo crocevia della gran vita mitteleuropea, in quegli anni relegato a cadente albergo termale. Incontra così Zero Moustafa, il proprietario dell’hotel, che conosce la sua opera e lo invita a cena per raccontargli di come, cinquant’anni prima, fosse diventato, da semplice lobby boy, proprietario dell’albergo grazie all’amicizia con monsieur Gustave, concierge di spiccata eleganze, di fatto direttore dell’hotel, amico delle ricche signore in nome di una disinteressata gerontofilia. L’amicizia con Madame D. lascia a Gustave un quadro di rara bellezza, e senza valore, dopo la sua morte, che scatena l’ira rivendicatrice del figlio di lei.

A ispirare Wes Anderson, come di consueto anche sceneggiatore del film, è l’opera di Stefan Zweig, scrittore austriaco di enorme successo all’inizio del novecento, che vide la sua opera bruciata dai nazisti nel 1933 per la vocazione umanista e pacifista che permeava i suoi racconti e le sue biografie. Proprio rifacendosi alle memorie di Zweig, Anderson immagina una Mittleuropa sull’orlo del precipizio, ferma in un 1932 che aspetta la guerra (non si parla di nazismi, non si parla di nazioni, non c’è alcuna aderenza con il reale) cercando di mantenere la propria normalità. Senza parlare della storia, Grand Budapest Hotel la riassume e la mostra concentrando su Zubrowka tutte le alterne vicende dell’Europa orientale, rivendicata, occupata e umiliata dalla potenza di turno e rendendo Zero, nel cui nome c’è già un destino, la somma di tutti i razzismi del potere contro il diverso, l’immigrato.

Non c’è volontà di ricordare il dolore, ma al contrario di celebrare la normalità della vita nella difficoltà. Rifacendosi alle grandi commedie di Hollywood degli anni Quaranta e Cinquanta, e il richiamo al Lubitsch di Vogliamo vivere è evidente e poetico, Anderson comincia con l’adattare il formato della pellicola alla cosiddetta Academy ratio che caratterizzò il cinema statunitense dal 1932 al 1952, per confezionare una commedia che modernizza il passato con i colori e la computer grafica, immaginando un mondo in cui esiste la Società delle chiavi incrociate, ordine segreto di concierge pronti a intervenire per difendere loro stessi e il mondo, o in cui le ragazze hanno voglie con i contorni del Messico sulla guancia.

La forma ha sempre un ruolo preminente nel cinema di Anderson, che cura ogni ripresa con la solita attenzione alle simmetrie e all’ortogonalità, ma questa volta si spinge oltre le barriere del consueto arricchendo il suo cinema di momenti di azione e avventura con evasioni, sparatorie e inseguimenti sugli sci. A prevalere, però, sulla trama, che, come già in Moonrise Kingdom, vede un amore adolescente, quello tra lo Zero giovane di Tony Revolori e la pasticciera Agatha (Saoirse Ronan), come snodo centrale, e sulla forma, è il senso generale di nostalgia non solo per il grande cinema, ma anche per il gusto puro e semplice della narrazione – il triplo incastro di voci narrative su tre piani temporali diversi ne è la prova -, come modo per affrontare il reale parlando di tutto altro e allo stesso tempo evadendone, andando al di là.

Cast straordinario, con Ralph Fiennes magistrale Monsieur Gustave, ma vale la pena ricordare che ci sono anche Tom Wilkinson, Jude Law, F. Murray Abraham, Tilda Swinton, Jason Schwartzaman, Owen Wilson, Edward Norton, Jeff Goldblum, Léa Seydoux, Mathieu Almaric, Adrien Brody, Williamo Defoe, Harvey Keitel, Bill Murray.

(Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson, 2014, commedia, 100’)

 

“Il ring invisibile” di Alban Lefranc

Cosa si nasconde dietro la faccia tesa e impertinente di una delle più grandi icone sportive e sociali del Novecento? Cos’altro si potrebbe aggiungere a ciò che non è stato già detto attraverso l’emozione diretta delle cronache sportive, dei racconti, delle biografie autorizzate e non, riguardanti il suddetto personaggio? Ci ha provato il poeta e traduttore francese Alban Lefranc, che attraverso un abile proprietà narrativa, si fa carico della biografia di Muhammad Ali, per poi trasporla e romanzarla nel suo ultimo lavoro, Il ring invisible (66tha2nd, 2013).

Lo scrittore sembra voler rivivere in prima persona la vita di quello che nacque come Cassius Clay, The Greatest of All Time, compiendo così un viaggio a ritroso, andando a contestualizzare parole e stati d’animo per riportarci infine le atmosfere più intime sfuggite alle cronache ufficiali.

Lefranc dimostra di conoscere appieno la vita del campione, di averne appreso i fatti e di averli analizzati, senza però mai trasformare la ricerca in un semplice atto documentarista. Lefranc romanza i fatti così come tv, radio e giornali li hanno raccontati, e rivivendo gli anni del campione in prima persona ne ricostruisce il suo background.

Dove nasce il giovane Cassius, come si forma la sua sfrontatezza; c’è il racconto ufficiale, l’aneddoto di una bicicletta rubata e la voglia di volerla far pagare a suon di cazzotti al ladro sconosciuto, e poi c’è tutto il resto, le strade di un’America razzista, che ghettizza e s’impone, agli albori della grande rivolta dei neri d’africa, stanchi d’esser schiavi, e poi ospiti indesiderati in un paese che lì li ha trascinati a forza.

C’è la morte del giovane Emmett Till, delitto di chiara matrice razzista, di cui il giovane Clay si fa carico: «Ascolta, Emmett, ascolta la mia promessa: a te che non hai più una faccia, io darò la mia. Andrai per il mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni». Poi ci sono le parole di Martin Luther King, troppo diplomatico per i suoi gusti, a cui è meglio contrapporre Malcom X, e la sua voglia di rivalsa ben più forte e netta.

Lo scrittore rivive dunque tutta la sua formazione, la fine di Cassius Clay e la nascita di un nuovo americano, di un nuovo nome, la costruzione di una coscienza sociale e politica chiara e forte come i suoi pugni, sempre più potenti e precisi, e come la sua bocca, sempre più tagliente e ferrata. Si va dall’oro delle Olimpiadi di Roma del 1960, sino alla conquista del titolo mondiale, anni in cui la box si apprestava a vivere il massimo del suo splendore.

Alban Lefranc, specializzato nel romanzare autobiografie di grandi personaggi come Rainer Werner Fassbinder o la rockstar Nico,  riesce con quest’ultima a narrare la storia di un’icona in cui ogni parola potrebbe risultare superflua. Rieditando ogni fatto con grande sagacia narrativa e poetica, e soffermandosi sotto i riflettori spenti e i dietro le quinte di uno spettacolo perenne, riesce appieno nell’intento di non risultare didascalico, andando oltre il semplice ritratto biografico.

(Alban Lefranc, Il ring invisibile, trad. Daniele Petruccioli, 66tha2nd, 2013, pp. 149, 15 euro)

“I Am Back to Blow Your Mind Once Again” di Peter Buck

Sono tornato per farti impazzire ancora. Impazzire di rock, ovvio. È tranquillizzante sapere che in qualche parte del mondo musicale c’è ancora gente come Peter Buck. Mentre la maggior parte dei suoi coetanei e colleghi ricicla brani inutili e ostenta una putrescenza compositiva imbarazzante, lui sembra aver trovato la sua dimensione definitiva. A un anno di distanza dall’inaspettato esordio omonimo, ora Mr. Buck sforna il secondo – personalissimo – disco solista, senza mostrare la minima nostalgia per l’epopea targata R.E.M. Stavolta la copertina è visivamente più ricca ed enigmatica: in alto il titolo del disco, senza il nome dell’autore, e tutt’intorno un limpido paesaggio costiero, con una bicicletta adagiata sulle rocce, un cappello di paglia, e il Nostro in completo grigio, di spalle. Sarà uno scorcio del Messico dove Buck e combriccola organizzano il festival Todos Santos? Possibile.

Fatto sta che a poco più di un anno dal primo esordio solista di un membro dei R.E.M., Peter Buck sforna il bis, con il medesimo effetto sorpresa. Anche questo lavoro è praticamente introvabile: Buck conferma la scelta di legarsi a un piccola casa discografica indipendente come la Mississippi Records, e stampare il lavoro su poche migliaia di vinili. Stando alle sue dichiarazioni, ciò che conta è incidere canzoni e cantarle in giro per i concerti. Non dovrebbe essere solo questo il rock?

È bello vedere come nell’animo e nelle scelte di un navigato musicista ci sia ancora la mentalità e la voglia di un giovane indie intransigente e inamovibile. Non difficile, con questi esempi, capire il successo di alcune scelte artistiche dei R.E.M. e la stima e l’attaccamento che hanno generato nel cuore di addetti ai lavori, colleghi e fan.

Tale vigore e intensità è riscontrabile anche a livello musicale in I Am Back to Blow Your Mind Once Again. Meno guest e cover rispetto all’esordio: Buck ha sicurezza e padronanza dei mezzi e non ha bisogno di compagnia per divertirsi. Le canzoni le canta quasi tutte lui e va detto, quel tono rauco e vissuto, grezzo e imperfetto, si fonde perfettamente con i riff delle sue chitarre.

Più coeso e incisivo rispetto a Peter Buck, I Am Back to Blow Your Mind Once Again piazza una sequenza di massicci brani rock. Cavalcate elettriche in bilico tra Neil Young e il folk-rock made in U.S.A. Tematicamente, appaiono chiari due aspetti, “leggermente” opposti: l’on the road e le scimmie. Per quest’ultimo aspetto, basta pensare che i primi sospetti di un Buck tornato in sala di registrazione sono dovuti a questa foto:
 


Brani come “(You Must Fight to Live) On the Planet of the Apes” e “Monkey Mask”, bellissimi entrambi, confermano questa bizzarra fissa del Nostro.

Per l’altro aspetto, in alcuni momenti in maniera anche abbastanza sorprendente, vengono fuori gli aspetti della vita al massimo di una rock star – per quanto schiva e atipica – pur sempre rock star! “Ride that Road”, “My Slobbering Decline”, “Life is Short” (dove potete ascoltare l’assolo malato definitivo) e “Welcome to the Party” sono piccole istantanee musicale impeccabili per riscontro sonoro e impatto. Ed è meraviglioso impazzire con un disco del genere!


(Peter Buck, I Am Back to Blow Your Mind Once Again, Mississippi Records, 2014)