“L’uomo di fiducia” di Herman Melville

Chiunque abbia nel proprio animo un’attitudine riflessiva, contemplativa, chiunque senta di portar dentro un’idea di bellezza, forse riflesso di una verità preternaturale, guarderà di sicuro alle cose del mondo, e alla cosa in sé, con un certo ossequioso rispetto, e se vogliamo anche con un certo distacco, in realtà – come lo Zarathustra di Nietzsche insegna – piena immersione, e nel suo intimo proverà quella gioia, che è un brivido vecchio quanto l’uomo, impagabilmente sinestetica. La vita sa dunque essere meravigliosa, soprattutto quando capita di imbattersi nelle più pure manifestazioni dell’arte, e particolarmente quando si legge Moby Dick, la punta di diamante del genio di Hermann Melville. Era Melville uomo di mare, era Melville uomo dimorante costantemente nei pressi del senso delle cose: «acqua e meditazione sono sposate per sempre».

Ebbene, è sulle acque del Mississippi che scorrono le pagine de L’uomo di fiducia (E/O, 2014), l’ultimo romanzo di un Melville – e sai la novità… – in stato di grazia, capace di maneggiare gli universali con la stessa facilità con cui un vecchio lupo di mare, nonostante il turbinio dei venti, passeggia pensoso tra la poppa e la prua della nave, figurandosi, a dispetto della lontananza nello spazio e nel tempo, il volto dei suoi cari, sulla terraferma.

In un imprecisato primo di aprile dell’Ottocento, sullo sbuffante Fidèle, uno dei passeggeri inscena una mascherata, vestendo di volta in volta panni diversi, impersonando quindi un’umanità cangiante da portare alle strette su ciò che più, sostengono i saggi, la caratterizza: la materialità delle cose e le categorie dello spirito. Prospettive diverse si affastellano, surcodificate però, e non potrebbe essere altrimenti, dal sempiterno dualismo tra Bene e Male. E in questa lotta manichea l’uomo, sin dalla notte dei tempi, si è ricavato le proprie ragioni: si deve pur sopravvivere, occorre alle volte sopraffare, scrivere con convinzione le tavole della propria legge. E allora un dubbio corroborante si insinua: ci si può forse fidare di un’idea, di una corrente di pensiero, di un qualsivoglia idolo innalzato anche in spregio a Dio, se non si conoscono nella loro quintessenza l’uomo e l’umanità?

Melville non si arrischia in una faticosa genealogia della morale; taglia invece – come del resto lo stesso Mississippi – l’America e lo spirito del suo tempo, declinato in un Cristianesimo e in un Trascendentalismo a loro volta resi misera dottrina. Tra citazioni bibliche ed echi shakespeariani la satira si rivela dunque impietosa, e accompagna con un ghigno di risentimento la tragedia che si diffonde, quella caduta dell’uomo di cui tanto si è detto e di cui tanto ancora si sentirà dire. Perché il Male continua a fare proseliti: la «forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile», incarnatasi in Moby Dick e che del capitano Achab ha occupato e sovraccaricato l’interiorità tutta, si ritrova nell’ingannevole sguardo del confidence-man. L’ottocentesco Melville sa come stupire; attraverso quegli occhi, specchio che deforma, con sempre nuova fiducia ricorda a chi continua a smarrirsi che, e basterebbe semplicemente crederci, il Bene non ha mai smesso di gettare luce in ogni angolo del globo terracqueo, a prescindere dai travestimenti.


(Herman Melville, L’uomo di fiducia, trad. di Sergio Perosa, E/O, 2014, pp. 352, euro 16)

“Scimmia nera” di Zachar Prilepin

In Scimmia Nera (Voland, 2013), romanzo che ha consacrato Prilepin come esponente della nuova generazione di scrittori russi, il protagonista è un giornalista che si perde in una strana inchiesta sulla violenza infantile: esistono infatti dei bambini killer tenuti in osservazione nei sotterranei di un laboratorio, bambini in grado di uccidere senza pietà perché incapaci di comprendere la violenza, e quindi ritenuti delle vere e proprie risorse.

L’inchiesta diventa per il protagonista un mistero da risolvere e per venirne a capo va alla ricerca di chiunque possa fornire informazioni, incurante – o quasi – della propria vita privata che nel frattempo crolla miseramente sotto i suoi stessi occhi.

In un contesto in cui il degrado sembra farla da padrone, Prilepin ci descrive città piene di case fatiscenti e di alcolizzati, stazioni in cui si aggirano prostitute, poliziotti violenti e corrotti, amanti, figli, ragazzi rabbiosi che diventano assassini feroci.

Queste immagini ci vengono restituite da una narrazione scarna, a tratti scabrosa, precisa nelle descrizioni al punto da riuscire a catturare situazioni che risultano vivide anche attraverso le pagine, in una storia che da subito si presenta come una denuncia e offre numerosi spunti di riflessione su un argomento ben più vasto, ovvero l’origine del male. Il tema della violenza viene trattato senza alcuna censura, e sebbene possa risultare delicato dal momento che riguarda i bambini, Prilepin non si fa troppi scrupoli ad analizzarlo con sguardo critico e asettico, approccio a cui deve essersi abituato grazie al mestiere di giornalista. Il suo background culturale e professionale lo porta a raccontare una storia che, tappa dopo tappa, cerca di arrivare a una conclusione in grado di spiegare che cosa sia effettivamente la violenza, da dove proviene, perché esiste e quali sono le sue forme effettive.

Della lettura colpisce il linguaggio vivido e innovativo, realistico, così come colpisce la mancanza di sentimenti e il loro sviluppo: i rapporti che il protagonista intrattiene con le donne e con i figli sembrano irreali, quasi un passatempo subordinato alla sua inchiesta che sfocia quasi nell’ossessione: c’è una freddezza di fondo che non coinvolge il lettore sul piano emotivo ma lo catapulta in una realtà tangibile e fa spavento anche solo l’ipotesi che qualcuno abbia potuto pensare di utilizzare i bambini come implacabili macchine di morte.

Nonostante i nomi russi siano impossibili da pronunciare – e da ricordare –, Prilepin propone uno stile che rimane impresso, sebbene risulti crudo e quasi violento: complice la trama, trascina direttamente dallo stomaco in un mondo in cui sembra non sia rimasto nulla di rassicurante, o di bello, dove anche l’innocenza di un bambino si perde nel sangue.

(Zachar Prilepin, Scimmia nera, trad. di Niccolò Galmarini, Voland, pp. 271, euro 15)

“Divergent” di Neil Burger

Con la saga di Hunger Games giunta alle fase finali (rimane un solo libro della trilogia, che chiaramente come è mai prassi verrà diviso in due film), dopo aver già dovuto dire addio ai grandi successi di Harry Potter prima e di Twilight poi, a Hollywood sono ormai da un paio d’anni alla spasmodica ricerca di un nuovo filone letterario del cosiddetto genere fantastico young-adult da cui far scaturire un franchise di successo planetario. Nella coda di 2013 ci hanno provato già con Ender’s Game, tratto dal primo romanzo del Ciclo di Ender di Orson Scott Card, ma al botteghino non ha funzionato. Una prassi ormai consolidata dai tempi di Twilight impone che al centro della vicenda ci sia una ragazza. È stato il binomio Katniss Everdeen-Jennifer Lawrence con il successo dei due film di Hunger Games a ribadire l’importanza di un ruolo femminile forte, ma non è detto che mettere una giovane donna al centro di storie di mostri e violenza basti da solo a portare spettatori in sala. Nel 2013, Beautiful Creatures e Shadowhunters hanno ampiamente deluso le prospettive di incasso degli studios.

Ora, la casa di distribuzione Lionsgate, già responsabile di Twilight e Hunger Games, tenta di nuovo l’exploit portando al cinema la trilogia della giovanissima Veronica Roth (1988) Divergent, con il primo film che dà il nome all’intera serie.

Siamo in un futuro non meglio precisato. Chicago è una città isolata dal resto del mondo da una barriera insuperabile. C’è stata la guerra e ora nella città è tornato l’ordine grazie a una rigida regolazione della vita sociale. I cittadini sono suddivisi in cinque classi in base alle caratteristiche innate: i Candidi, addetti alla legislazione, sempre sinceri; i Pacifici, che per la loro spontanea gentilezza sono destinati a opere assistenziali; gli Eruditi, che si occupano di insegnare e organizzare; gli Abneganti, generosi e altruisti, chiamati al governo; e infine gli Intrepidi, che hanno il compito di proteggere la popolazione. Ogni classe ha un colore per l’abbigliamento e un codice di condotta. Chi sbaglia diventa un Escluso, un fuori casta, e perde tutti i diritti. A sedici anni i giovani cittadini vengono sottoposti a un test che li indirizza verso la classe di appartenenza. La scelta finale è libera. Beatrice Prior è figlia di due abneganti, ma sente di non appartenere a quella classe. Il giorno della scelta decide di passare con gli Intrepidi, anche perché il suo test ha dato un risultato inatteso. Beatrice è una Divergente, una fuori classe, ha caratteristiche proprie di ognuno dei gruppi, non è inquadrabile nella società, rappresenta una variabile impazzita, quindi una minaccia. Ma nessuno tranne lei, e chi ha effettuato il test, conosce il suo segreto. Durante il rigido addestramento con gli Intrepidi, Beatrice, che ora si fa chiamare Tris, scoprirà un piano degli Eruditi per ribaltare gli Abneganti e prendere il potere. Con l’auto di Quattro, il suo istruttore, riuscirà a fermare la congiura.

Cambiano le premesse, ma Divergent ha molto a che spartire con Hunger Games, a partire dall’impianto distopico e dall’inquadramento sociale che viene dato alla vicenda. Se nei libri di Suzanne Collins la divisione in distretti è di carattere economico, qui la suddivisione ricorda la gerarchia indiana o l’organizzazione della Kallipolis di Platone così come riportata nella Repubblica (filosofi, guerrieri e mercanti, cui si appartiene in base alla nascita). Per il resto rimane una ragazza che da sola ribalta i piani del potere.

Il regista Neil Burger (The Illusionist, Limitless) si impegna a mantenere alto il livello della spettacolarità. Il minor carisma del suo cast, rispetto al paragone diretto di Hunger Games, lo indebolisce nella presa sul pubblico. Shailene Woodley (già nella serie La vita segreta di una teenager americana, poi figlia di Clooney in Paradiso Amaro e di recente nell’interessante The Spectacular Now, non distribuito in Italia) è brava ma non è Jennifer Lawrence. Nei ruoli secondari solo Kate Winslet non può fare a meno di farsi notare, come di consueto, nella parte della mente malvagia degli Eruditi Jeanine Matthews.

Nel primo fine settimana di proiezione negli Stati Uniti, Divergent ha incassato 56 milioni di dollari. Il secondo capitolo della saga di Hunger Games aveva fatto quasi il triplo. A vincere è comunque la Lionsgate.

(Divergent, di Neil Burger, 2014, azione/fantascienza, 139’)

“Vita, morte e miracoli”: a tu per tu con Roberto Mandracchia

Venite a visitare Retolo, l’ultima creazione di Roberto Mandracchia! Fra le attrazioni principali un cimitero a forma di fica, personaggi da bar e ad animare la situazione una new entry: la mistica Nunziatella Levo.Illuminismo contro superstizione nel più tipico paesino del sud Italia, scegliete pure da che parte stare in Vita, morte e miracoli, edito da Baldini & Castoldi.


Mi sono affezionata molto al clochard ex sindaco Orghenzi, mi daresti qualche sua notizia recente? Sono preoccupata.

Temi forse che possa di nuovo gettarsi nell’arena politica? Puoi star tranquilla perché non ci pensa neppure. Almeno fino a quando ci sarà qualcosa da bere in giro.


Tutta la mia stima per aver inventato un dialetto. Ulteriore curiosità tecnica di scrittura: perché hai eliminato le virgolette dai discorsi diretti?

Ti ringrazio. Ho eliminato le virgolette dai discorsi diretti perché non le ho mai sopportate granché da un punto di vista estetico (potrebbe apparire una spiegazione da matto ma non posso farci nulla). Avevo già iniziato in Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, il mio primo romanzo, anche se in una forma volutamente ancora ibrida: a volte le virgolette erano presenti, a volte no. Volutamente perché doveva essere un romanzo confusionario che parlava del caos che si può venire a creare quando dall’adolescenza passi a un surrogato di vita adulta, quando insomma varchi la linea d’ombra.  


Fra vita, morte e miracoli hai inserito un cimitero a forma di fica e la mistica Nunziatella Levo. Le edizioni Paoline stanno studiando il tuo caso letterario, ti senti osservato? Cosa hai da dire in tua difesa?

Che per chi scrive non dovrebbe esistere nulla di sacro, nulla d’intoccabile. Per tutto il resto, c’è Paolo Brosio.


Dal divino Otelma a Giucas Casella, qual è il tuo mistico preferito?

Non dimenticherò mai gli ultimi metri percorsi da Giucas Casella sui carboni ardenti. Quell’urlo quasi disumano.


I paesi dimenticati da Dio come Retolo ce li porteremo sempre dentro. Io, per esempio, non fischio mai in pubblico che verrei considerata una baldracca. Tu quale insegnamento porti con te?

Avevi la stessa madre di Canio Calicchia? Con me porto un insegnamento prezioso: dopo aver mangiato aspetta un po’ prima di fare il bagno, altrimenti rischi la congestione. Ricordo ancora il terrificante exemplum raccontato dalla nostra maestra delle elementari: la morte di un bambino incauto descritta fin nei suoi minimi, terribili dettagli. E la faccia gli era diventata blu, disse a un certo punto. Benvenuta, paranoia.


Con Vita, morte e miracoli volevi far ridere?

Ai tempi di Guida pratica mi dicevano che leggendolo scappava loro da ridere e io pensavo sempre che non avessero capito una mazza. Invece ero io a non aver capito una mazza di come scrivo e con Vita, morte e miracoli credo di aver fatto un po’ più di chiarezza sul fatto che nel grottesco il confine tra il dramma e la commedia è un meraviglioso colabrodo.


(Roberto Mandracchia, Vita, morte e miracoli, Baldini & Castoldi, 2014, pp. 176, euro 10,90)

“Medea”, regia di Pierpaolo Sepe

Medea, l’ira funesta. Medea, ovvero l’esempio di come l’energia e la potenza di un sentimento, se mal incanalate, possano diventare letali, vorticose, irreparabili. Anti-eroina per eccellenza, maga-strega con una tremenda sete di vendetta, impaziente, precipitosa, la Medea di Pierpaolo Sepe è anche strazio, sofferenza, abbandono e solitudine che si contorce, geme, si dilania.

Una toccante Maria Paiato apre e chiude la scena con un delirante monologo, e la sua inquietante eco, per questa tragedia dell’ira e del dolore. Medea è immediatamente rappresentata in tutto il suo dramma esistenziale: una donna abbandonata dal marito, in una terra che non è la sua, a cui il re ordina violentemente di allontanarsi per sempre dai suoi cari.

Per Giasone, quasi un Ponzio Pilato in abiti alla moda e guanti di pelle che ignora tutti i segnali di allarme e sembra non volersi sporcare le mani, Medea ha compiuto delitti e sacrificato ogni cosa. Lui, invece, colpevole di superficialità, non intuisce minimamente la tragedia che sta per compiersi. Non considera che l’amore smisurato può tramutarsi in odio viscerale, che il volto di una donna, per eccellenza generatrice di vita, può diventare il volto del male, generare morte.

Medea è disperazione e infelicità perché una simile vendetta non ripaga. Nella sua mente squilibrata uccidere i figli è la rivalsa per il torto subito, ma nella realtà equivale a uccidere la vita stessa, a un rifiuto totale dell’esistenza. Questa donna è folle di una rabbia che la rende cieca. Vestita interamente di nero, il viso coperto da un velo bianco, e il corpo, sotto quei panni, continua a tremare, con mani colleriche che non riescono a fermasi un attimo, dita come artigli che fremono e comunicano angoscia e furore incontrollabili.

Lo spettacolo, tuttavia, non è un atto di accusa, e in questo modo reinterpreta il testo e ne fa un’assoluta novità. La storia viene attualizzata e il colpevole diventa l’essere umano stesso poiché il male è in ognuno di noi, nell’egoismo, nella paura del prossimo, nel chiamare “diverso” un individuo che è fatto della nostra stessa carne. Nell’ultimo monologo si accenna a rifugiati politici, a prigioni e a torture, a schiene piegate dal dolore, ansimanti, come la protagonista stessa. Non siamo forse tutti quanti di un’unica “razza umana”? La peggiore, se continua a uccidere i propri simili, esattamente come fa Medea coi suoi figli.

«La sua furiosa ira deflagra, le fondamenta collassano e ciò che si mostra con mostruosa vividezza è la radice oscura di una colpa tanto universale da non avere più colpevoli. Le macerie lasciano la scena vuota di ogni ricostruzione, il futuro non è che lo spettro mostruoso di questo nostro atroce rimosso»afferma Sepe che realizza la splendida regia dello spettacolo in cui regna un silenzio disumano, intervallato da voci urlanti, musiche metalliche e rumori più o meno costanti, come i battiti di un cuore accelerato.

La scenografia fa pensare a uno spazio saccheggiato, in cui qualcuno abbia distrutto la mobilia e rotto i vetri delle finestre. Un luogo devastato, la Terra Desolata di T.S. Eliot, dove non esiste più giustizia ma solo inutili e violente vendette. Pochi colori ad accentuare la tragedia: prevalenza di nero, buio come la notte eterna della morte, bianco di luci fredde e dolorose e tracce di rosso sangue. Attori impeccabili, straordinari, perfetti nei loro ruoli, in uno spettacolo che pone mille interrogativi, che lascia qualcosa dentro lo spettatore. Assolutamente da vedere.
 


Medea
di Seneca
Regia di Pierpaolo Sepe
Traduzione e adattamento di Francesca Manieri
Con Maria Paiato
E con Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe


Prossime date:
Roma, Teatro Eliseo | 1-17 aprile 2014
Parma, Teatro Due | 15-16 maggio 2014
Torino, Teatro Carignano | 20-25 maggio 2014

“Un sentimento tenace” di Goffredo Bettini e Pietro Ingrao

Un sentimento tenace è un tascabile di appena un centinaio di pagine e contiene un interessante carteggio scambiato tra due protagonisti della sinistra italiana: Pietro Ingrao e Goffredo Bettini. Due personalità di due generazioni diverse, entrambi provenienti dal Partito Comunista Italiano, che si confrontano con un piccolo scambio di epistole su pensieri di alta politica e sul «senso dell’umano».

I due autori sono in perfetta sintonia sul sentimento che li ha spinti a tuffarsi nella lotta politica, ovvero quello che descrivono come «un’insopportabile sofferenza nell’animo alla vista di tante ingiustizie e violazioni di diritti umani nei confronti dei più deboli».

Ma se questo sentimento tra loro è la base comune, diverse sono le motivazioni storiche che li spingono a entrare in politica. Per Ingrao, che a fine marzo ha compiuto 99 anni, nel pieno del ventennio fascista incombeva la paura di una possibile vittoria del nazismo in Europa e nel mondo. Una paura che, invece di indurlo alla fuga, si trasforma in lui nella scelta tenace di schierarsi trai comunisti italiani per combattere contro l’avanzata di Hitler.

Per Bettini invece, classe 1952, è la spaventosa avanzata dell’esclusione ed oppressione sociale delle persone più deboli – operata dal liberista «mondo del benessere che produce solo malessere» con la progressiva concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi – a convincerlo a entrare nello stesso partito e oggi nel Partito Democratico.

Nel dibattito tra i due, Bettini spiega a Ingrao la sua decisione di non abbandonare il maggior partito della sinistra italiana, perché, dice, «non ho voluto farmi trascinare da nostalgie del passato», giudicando il comunismo come un'ideologia «molto illuminante nell’alimentare belle speranze ma altrettanto contraddittorio nel realizzarle».

Le riflessioni sulla sinistra portano i due autori ad affrontare anche il problema del senso dell’umano.

Ingrao, narrando il suo vissuto nei tempi delle barbarie naziste, riflette su come può un uomo tollerare solo l’idea di uccidere un altro uomo, soprattutto in quei casi in cui la vittima è già rinchiusa, come quando è lo Stato a uccidere attuando pena di morte.

Bettini, invece, dà  una visione più ampia al problema posto da Ingrao, e gli ricorda che oggi questo quesito non può limitarsi alla sola analisi sulla pena di morte o a quella dei campi di sterminio.

«La realtà attuale è più complessa», afferma, «oggi c’è la guerra preventiva che implica che si debbano attaccare determinati popoli per impedire un loro probabile attacco “giustificando” l’idea della guerra infinita». L’analisi di Bettini ha un marcato accento freudiano e afferma che l’uccidere l’altro è un modo per allontanare da sé la paura della propria morte. Quindi, spiega, la Sinistra deve attuare politiche egualitarie e unificanti riducendo al minimo la paura dell’altro inteso come una minaccia permanente, al contrario della Destra che crea stratificazioni sociali alimentando questa paura.

Un libro che propone un interrogarsi non banale e quanto mai necessario sul senso della politica, in passato e soprattutto oggi.

(G. Bettini e P. Ingrao, Un sentimento tenace. Riflessioni sulla politica e sul senso dell’umano, Imprimatur, 2013, pp. 112, euro 9,50)

“Inseguendo un’ombra” di Andrea Camilleri

Come non sentire paradossale – di una girgentina-pirandelliana paradossalità – la definizione che Andrea Camilleri dà di questa sua ultima fatica, Inseguendo un'ombra (Sellerio, 2014), «il romanzo storico che non scriverò»? Non è forse, il libro, davanti ai nostri occhi? E che altro sono, le vicende in esso narrate, se non romanzesche della più bell’acqua? Anzi, a dirla tutta, per più di un episodio decisamente tangenziale con gli ammazzamenti sotto il sole spietato della Sicilia (l’uccisione a pietrate dell’uomo sceso a predare il tesoretto del protagonista nel fondo di un pozzo; la morte, sotto i ferri degli inquisitori, del suo amico-mignon deciso a non denunciarlo; l’altra uccisione, più avanti nella storia, a colpi di candelabro, di un usuraio ebreo, con conseguente fuga da Roma del sempre più braccato protagonista; o ancora, il furto d'inestimabili volumi dalla biblioteca del suo allievo Pico della Mirandola, con tutti i contorti maneggi di quest’ultimo per recuperarli) cui ci hanno abituato le applaudite esibizioni televisive del commissario dalla stellante pelata.

Eppure, no: Camilleri gioca a carte scoperte, limpidamente. Questo, che in effetti ha poi scritto, sarà magari un romanzo, ma difficilmente gli vedremmo applicata la definizione di “storico”; almeno, non nell'accezione, diremo così manzoniana, della maggiore approssimazione possibile al «vero storico». Se si esclude, infatti, il remoto antenato della ben più famigerata stella gialla hitleriana, la rotella rossa coercitivamente cucita sull'abito agli ebrei di Sicilia, praticamente nulla ci viene precisato (incommensurabile vantaggio che la letteratura ha sulla narrazione per immagini!) in merito a usanze, oggetti d'uso, fogge del vestiario e qualsiasi altra cosa servirebbe a caratterizzare un’epoca così remota dalla nostra, i decenni centrali e, via via, finali del Quattrocento (l’ultima, indiretta menzione documentale del protagonista sono i tarenos duos, i due tarì che gli lascia il testamento di sua madre, l’anno prima che Colombo vada a incocciare nell’America). E, del resto, Camilleri aveva messo subito avanti le mani: non vuole in alcun modo «rifare lo stesso percorso di ricerca storica di coloro che m'avevano preceduto, certamente più esperti di me», e insomma i due o tre saggi storici esistenti sopra quell’ebreo siciliano del Quattrocento dalla tumultuosa e insieme oscura esistenza, sono «tutto quello che c’era da leggere nelle antiche carte».

Eccola, allora, la via d’uscita, additata già, all’autore, nel lontano 1980 da una seduttiva pagina di prosa di Leonardo Sciascia, da cui anche viene il non meno seduttivo titolo: il segreto incrocio – proprio come nel romanzo di Camilleri immediatamente precedente – di umana sofferenza, adombrato in due parole arabe, naar, il ragazzo (di cui il protagonista petulantemente reclama da Pico della Mirandola la contrattuale fornitura), e rumh, la lancia, – Sciascia spiega – «metafora erotica allora frequente»; per finire alle glosse che l’uomo di triplice identità segnò in margine alle traduzioni dalla qabbaláh fatte per Pico con metodo capriccioso anzicché no, giacché «contrariamente all'opinione comune, egli ritiene» che questa sua «non sia una scienza, ma un’arte. Alla stessa stregua della pittura o della poesia che traggono materia dalla realtà per riproporla modificata». E infatti in queste note, accanto a schizzi al vetriolo sulla Babilonia, anche sessuale, della corte romana, ecco affiorare l’assillo centrale dell'esistenza di quest’uomo, «l’unico autentico affetto, o amore se volete», che egli abbia provato «verso un'altra persona appartenente al genere umano», il bellissimo adolescente di nome Lancillotto che, duplicando (Camilleri, tuttavia, non lo nota) la quasi coeva figura del Salaì di Leonardo da Vinci, inchioderà il rinnegato ebreo Samuel-Raimondo-Mitridate alla croce di un dolente succedersi di fughe e ritorni e nuove sparizioni nel nulla. Lo stesso nulla in cui finisce per dileguarsi – omicida, ladro, polemista antiebraico, spergiuro: tutto con una cristallina, veramente rinascimentale assenza di scrupoli morali –, una volta entrato nel carcere a Viterbo, il protagonista. Il che consente a Camilleri il coup de théâtre delle tre diverse conclusioni alternative che, in saporosa successione di eventualità, ci vengono suggerite a fine romanzo, e prima che l’ultima pagina arrivi a proporci l'assolutamente improbabile reincarnarsi di quel nome, Raimondo Moncada, nel «famoso mago che al solo tatto della mano riesce a scoprire i problemi e a dare giuste soluzioni, felicità e fortuna», come da allegato ritaglio del Messaggero: ultimo (sulfureo e comico a un tempo) guizzo di questa di cui Camilleri fa ciò che, forse, tutti noi siamo, in letteratura o altrove: una “immagine”, un'inafferrabile ombra.  

(Andrea Camilleri, Inseguendo un’ombra, Sellerio, 2014, pp. 256, euro 14)

“Abbondanti e Dozzinali”: a tu per tu con Claudio Mancini

I diari della bicicletta. Parafrasando il titolo di un celebre film di Walter Salles, potremmo definire così il sito Abbondanti e Dozzinali, ideato da Claudio Mancini per raccogliere e divulgare i suoi resoconti di viaggio su due ruote, un po’ seri un po’ goliardici, comunque veracissimi. O magari, Per un pugno di fagioli, senza mancare di rispetto al grande Sergio Leone. Cosa c’entrano bicicletta e fagioli? E soprattutto perché abbondanti e dozzinali? Lo abbiamo domandato al diretto interessato.


«Abbondanti e Dozzinali», oltre a essere il nome del tuo sito, è un vero e proprio manifesto di vita. Siamo certi che puoi riassumerci quelli che sono i suoi punti fondamentali.

Mi rendo conto che questo nome è poco immediato e il nesso con una raccolta di diari di viaggio in bicicletta non è automatico… insomma, in quanto a comunicazione e marketing vado male. Ma così vanno le cose, e così devono andare: quest’infausta espressione nasce da uno dei primi viaggi, nonché da uno dei più folkloristici per quanto riguarda la nostra condotta morale, in cui quattro maldestri cicloturisti alle prese con una terra sconosciuta doveva innanzitutto soddisfare i bisogni primari: mangiare, dormire, pedalare. Quando entravamo in questi piccoli alimentari dell’entroterra corso, cercavamo di portar via la maggior quantità di cibo al minor prezzo possibile, non importa quale fosse la qualità. Col passare dei giorni e l’aumentare della nostra bestialità, ci rendemmo conto che questa filosofia di vita si adattava anche al nostro approccio al viaggio: non siamo mai stati né dei campioni del ciclismo né degli assi della tecnica, si partiva spostando baracche (a pedali) e burattini (noi) sperando di arrivare, o perlomeno di mettere una tenda tra noi e il cielo stellato. Ma non si creda che «abbondante e dozzinale» sia una filosofia di vita priva di idealismo che si contenta solamente di un bastone e di una carota: l’animo troll del cicloturista ha come suoi numi tutelari Boccaccio, l’Uomo di Neanderthal, Jack Kerouac e Fausto Coppi, e si crogiola così in una sorta di tronfio titanismo al sapor di fagioli. Anzi, proprio in questo momento posso vantarmi del fatto che sto rispondendo alle domande mentre mangio pasta e fagioli in Giappone.


In questo periodo di riscoperta della bicicletta più per moda che per reale volontà, la tua scelta sembra legata invece a un bisogno fisiologico. Che cosa ti ha spinto a desiderare di «far finire i tuoi piedi, là dove iniziano i pedali», per storpiare un verso di De André?

Il fatto che la bicicletta sia una moda negli ultimi anni mi ha in un primo momento indispettito: le stesse persone che consideravano “cool” spostarsi in macchina o motorino dieci /quindici anni fa, mentre io giravo come un disadattato su una mountain bike Legnano color verde pisello imboccando per sbaglio la Via del Mare o il tunnel della tangenziale, oggi girano fieramente in bici, magari sostenendo di aver fatto una scelta politica e/o ecologista, o, peggio ancora, ostentando uno stile di vita estetico da colori sgargianti, Bianchi da corsa e scatto fisso. Sia ben chiaro, niente in contrario con nessuna di queste cose: la bicicletta è una scelta politica, ecologista e ha una sua indiscutibile dimensione estetica, e adoro sia i modelli da corsa d’epoca e le scatto fisso. Ma al tempo stesso, come per quanto riguarda ogni cosa che va di moda, c’è chi ne coglie l’onda con una certa superficialità. In seguito, però, questo primo impulso di “fastidio” per una specie di invasione di quello che consideravo un mio universo privato l’ho razionalizzato e represso: la bicicletta è onnicomprensiva, deve accomunare le persone e non distinguerle per generare autocompiacimenti e auto ghettizzazioni, quindi ben vengano mode, superficialità ed estetiche dell’ultimo minuto, c’è posto per tutti. Tornando alla domanda sepolta dallo sproloquiare dei miei fuori tema, sì, si tratta di un vero e proprio bisogno fisiologico: mi pedalo sotto, e questa sensazione di spostarsi a una velocità a misura d’uomo la può dare soltanto la più evoluta invenzione che la meccanica e il progresso umano abbiano mai concepito. Visitare posti pedalando ti offre l’occasione di conoscerli a fondo, di sudarli, di guadagnarli, di respirarli, di viverli, e quindi di capirli e rispettarli. Alza l’umore, mantiene in forma (o meglio: compensa una vita di eccessi limitando i danni), fa risparmiare.


Diari di viaggio in bicicletta, da Viterbo alla Corsica, da Rotterdam al Salento, chiunque si voglia cimentare in imprese epiche trova resoconti esaustivi in salsa romanesca, con tanto di cartine. Come nasce l’idea di mettere per iscritto le tue esperienze e raccoglierle poi in un sito?

Non scrivo certo per ambizioni letterarie o artistiche, più che altro per piacere affabulatorio: i miei diari nascono da una sorta di mitizzazione del ricordo, di salvaguardia della memoria di belle esperienze, e conseguentemente dal desiderio di condividere quelle che nel frattempo erano diventate “epopee”, cercando di non annoiare mai: in altre parole, cerco di divertire chi legge così come mi sono divertito io a vivere e a scrivere quei fatti. E dalla condivisione del racconto alla condivisione di esperienze e informazioni utili a chi voglia provare viaggi simili il passo è breve.


Infine due domande di rito. La prima: qual è il percorso che più hai amato?

Questa è una domanda difficile: essere abbondanti e dozzinali significa privilegiare la quantità sulla qualità, dunque avere difficoltà a scegliere. Tutti i percorsi dei miei viaggi sicuramente sono carichi di un valore simbolico, attribuito da fatti, circostanze, idee e ideali maturati anche su basi puramente fittizie, quindi sono legato a ogni itinerario e meta toccata. Se intendiamo un viaggio complessivo, forse la tratta Rotterdam/Parigi è la più densa di significato, per la sua natura di sorpresa meticolosamente pianificata; ma anche il viaggio solitario di quest’estate da Nantes a Barcellona, sebbene compiuto con stato d’animo meno sereno e più “solenne” per certi aspetti, ha lasciato sensazioni e ricordi forti: la scalata verso il Col d’Envalira, valico dei Pirenei a 2408 metri, ha avuto per me un sapore di sfida epica e di ascesi che solo dei tornanti di montagna possono dare; l’aver caricato di eccessive aspettative quel traguardo così in alto, però, ha generato una forte delusione che ha tolto sapore alle successive due tappe rimanenti: il tetto dell’Europa sud-occidentale, quei profili così austeri e minacciosi che immaginavo custodi di chissà quale purezza e innocenza, nascondevano invece Andorra, una sorta di paradiso fiscale per tamarri abbronzati traboccante di banche, casette color pastello e McDonald’s d’alta quota. Ma la magnifica decadenza di questo lato dell’Europa ha un innegabile fascino.
Se invece consideriamo una singola tappa, un percorso di una sola giornata, non ho dubbi: i 60 km che separano Iglesias da Portixeddu, la provinciale sud-occidentale sarda della Costa Verde, è probabilmente la strada più bella d’Europa. I colori e le forme di quell’isola mi hanno sempre affascinato, ma è in quelle zone che Ichnusa si mostra con maggiore potenza nella sua bellezza selvaggia e ruvida.


E la seconda: puoi anticiparci qualche progetto futuro? Tra l’altro abbiamo visto che l’idea funziona e anche siti del settore ti chiedono contributi su viaggi in bicicletta e ciclabilità urbana.

Di idee ce ne sono tante, come al solito bisogna fare i conti con i due spietati assi delle ascisse e delle ordinate, il Tempo e i soldi. Quest’anno ho in cantiere due viaggi, e non è detto che riesca a farli entrambi: vorrei fare il giro delle Isole, Sardegna e Sicilia, partendo da Olbia, tagliando nell’interno fino a Cagliari, di lì prendere il traghetto per Palermo, scalare l’Etna e finire il viaggio a Messina; e vorrei poi completare la “trilogia Atlantica” cominciata nei due anni scorsi con Rotterdam/Parigi e Nantes/Barcellona, con i 2000 km che separano Barcellona da Lisbona, passando per i Paesi Baschi, la Galizia, le Asturie e Santiago di Compostela.
Questi due viaggi impallidiscono però di fronte al mio sogno per il 2015, la Great Divide Bike Route: si tratta di una ciclabile che taglia gli Stati Uniti dal confine canadese a quello messicano attraverso le Montagne Rocciose e vari parchi nazionali, 4400 km di sterrati e strade bianche nell’America più selvaggia… ma trattandosi di un percorso ben più impegnativo di qualsiasi cosa che abbia fatto finora, richiederà preparazione e attrezzature speciali. Mi piacerebbe raccogliere a questo scopo sponsor e organizzatori, mi sono dato un anno e mezzo a partire da ora, e la strada è lunga, in tutti i sensi.


Qui
 maggiori informazioni sul sito.

“The Walking Dead”: la quarta stagione

The Walking Dead di presentazioni ormai non ha più bisogno. Il successo dello show (sempre abbondantemente sopra i 10 milioni di spettatori) è tale da aver spinto Sky, tramite Fox, a trasmettere gli episodi in contemporanea con gli USA, completamente doppiati in italiano dopo 24 ore dalla messa in onda americana. Ma non è tutto oro quello che luccica.

Giunti ormai alla quarta stagione c’è sicuramente una frangia scettica più titubante sulle scelte degli autori. A prescindere da piccoli errori pacchiani su cui si può sorvolare, a tratti sembra mancare un po’ di mordente. Se la prima stagione divisa tra Atlanta e il CDC sembrava porre le basi per una storia ricca di eventi e di colpi di scena, il passaggio alla fattoria prima e alla prigione poi ha enormemente contribuito alla staticità dello show.

La terza stagione si era conclusa con un sanguinoso scontro a fuoco a Woodbury; la quarta stagione ci ha presentato invece una prigione trasformata quasi in un residence. L’immagine di Rick allevatore e agricoltore è stata la fotografia della trasformazione dell’atmosfera sempre tesa e inquieta degli episodi precedenti. Il tentativo di spostare l’attenzione dalla minaccia zombie a quelle portate direttamente o meno dagli uomini (siano state esse l’epidemia alla prigione oppure l’ultimo disperato tentativo del Governatore di avere la meglio sul gruppo di Rick) ha, a mio parere, creato un problema opposto. In tutta la quarta stagione la quasi totalità dei decessi sono dovuti a malattie o scontri a fuoco. Anche dopo il finale di midseason e la creazione dei piccoli gruppi pronti a lottare per sopravvivere, gli erranti sono diventati delle macchiette sullo sfondo, buoni solo per far sfogare i vivi. Sono ben lontani i tempi in cui le strade erano terreno di caccia di veri e propri eserciti di non-morti.

E poi c’è quel nome accennato poco fa da approfondire. A molti fan il Governatore era piaciuto veramente molto. Vero, sarebbe stato controproducente trascinare per stagioni e stagioni la guerra tra lui e Rick, ma per decidere di mandare via un personaggio così carismatico bisogna avere contromisure pronte. Cosa che non è avvenuta con la seconda metà di stagione, in cui una serie di episodi un po’ “piatti” e sostanzialmente senza ritmo alcuno hanno costretto molti fan a trascinarsi le puntate finali. Certo, non sono mancati momenti capaci di regalarci un sussulto: il “confronto” tra Carol e Lizzie è stato senza dubbio toccante, e «guarda i fiori» si candida assolutamente come citazione di questa stagione.

Il problema è stata la continua sensazione di vedere qualcosa trattabile in molti meno episodi, magari regalando più spazio a Terminus. La vera quarta stagione è iniziata in sostanza nell’ultimo quarto d’ora mostratoci, aprendo la strada a diverse possibilità interessanti per la quinta (nella speranza che vengano trattate nella maniera giusta).

Uno dei punti di forza di The Walking Dead continua a rimanere la vera mancanza di alternative. Non si può cercare una serie sugli zombie da seguire per qualche anno e trovare un nome diverso dalla creatura di Darabond. Una delle più valide alternative (anche se non si può completamente paragonare a TWD), Les Revenants, tornerà in onda non prima di fine anno, lasciando ancora terreno spianato per lo show AMC. A noi non resta che rimetterci alla clemenza di Terminus, nella speranza di venire ricompensati con un ritorno alle origini.
 

“Nymphomaniac - Voll. I e II” di Lars Von Trier

Atteso, discusso, censurato, tagliato, criticato, rinnegato. Tutto questo prima ancora di essere stato visto. Se l’intenzione di Lars Von Trier era quella di creare scandalo e aspettativa intorno al suo Nymphomaniac, c’è riuscito perfettamente.

L’attenzione morbosa della stampa e del pubblico internazionali che hanno accompagnato il film sin dalla gestazione nel 2011, i riferimenti erotici evidenti delle immagini promozionali, la doppia versione e la teoria delle distribuzioni differite – prima la versione mondata delle scene più esplicitamente sessuali, poi la seconda, fedele alle intenzioni del regista e quindi con elementi oltre il limite del pornografico interpretati da controfigure provenienti dal mondo del cinema adulto –, l’uscita danese la sera di Natale e poi l’arrivo a Berlino, la maglietta di Von Trier contro Cannes reo di averlo bandito per presunte simpatie naziste, la protesta personale di Shia Labouef che cita Cantona e si incappuccia sul tappeto rosso, hanno prodotto una quantità di discussioni, articoli e critiche preventive che hanno pochi precedenti. Lo scandalo, il mostro del sesso che terrorizza e attrae ancora come la più potente delle calamite e che per continuare a funzionare deve essere nutrito sempre di più, spinto e mostrato ogni volta oltre i limiti di ciò che si è presunto accettabile fino a quel momento, è combustibile e miccia che Von Trier usa per bruciare i confini forse per lui troppo stretti del cinema e propagarsi come fenomeno culturale e di costume globale.

E poi c’è il film, o i film per dare retta alla suddivisione in due volumi che non ha niente a che vedere con la trama ma solo con le logiche distributive: la storia di Joe, lasciata pestata a sangue in strada una sera e trovata, raccolta e accudita dall’uomo solo Seligman a cui racconta una vita di avventure erotiche, dalla confusa scoperta infantile della sessualità e delle dinamiche del piacere, fino agli abissi più scuri della carne, passando per la prima volta con un primo amore distante, le scommesse e la scelta del sesso come strumento di ribellione alla società e il rapporto con la madre, «gelida stronza», e il padre, soprattutto, uomo elevato a categoria ideale di sapienza e affetto e visto scivolare a piombo nella negazione della dignità del delirio. Nella camera disadorna in cui la accoglie, Seligman ascolta silenzioso, senza giudicare, ispira i titoli per i capitoli in cui Joe suddivide la sua narrazione anticipando o recuperando paragoni per il catalogo erotico nella pesca, nella matematica, nella polifonia, nella storia. È chiamato a essere involontario confessore dei peccati – è lei a ritenerli tali – di una ninfomane. Finisce per essere psicologo più che prete, non assolve perché per lui, e anche per Joe, non c’è niente da perdonare, ma comprende, contestualizza, tira in mezzo la società e la rappresentazione sbilenca del sesso, che perdona l’uomo ma condanna ancora il desiderio femminile. Forte di un’asessuata verginità, è lo specchio in cui la ninfomane Joe può vedere la propria immagine speculare e riflettere (su) se stessa per la prima volta.

La prima parte di Nymphomaniac segue i primi cinque capitoli del racconto di Joe, che ha in questa fase la voce di Charlotte Gainsbourg e il corpo di Stacy Martin. La seconda, divisa in tre capitoli e un epilogo ideale, segue le perversioni adulte di Joe.

È assurdo a dirsi, ma di sesso in Nymphomaniac ce n’è molto meno di quanto Von Trier avesse fatto credere. Nonostante gli ammicchi, i richiami, i volti orgasmici del cast nella locandina, a prevalere nelle oltre quattro ore della versione soft è la chiacchiera, la riflessione e la discussione sulla sessualità molto più che sul sesso. È un’indagine, che guarda molto a Freud, sull’identità sessuale come condanna permanente, come destino che influenza e condiziona la vita sin dal suo primo manifestarsi. Il desiderio sessuale è una delle potenze che costringono l’agire umano anche nelle forme più raffinate di sovrastruttura sociale. L’appetito insaziabile di Joe la porta a farsi attraversare da corpi in centinaia che compongono le parti di un organo unico, come esplicitato nel capitolo sulla polifonia: l’idea stessa del desiderio. Niente può vincere il desiderio incoercibile, né il padre morente né la normalità di una famiglia.

 

 

La voglia costante è l’identità specifica di Joe, è il suo essere, non il suo agire. Se ne rende conto Jerome, il primo amore che torna e che le dà un figlio, che per concederle di nuovo gioia e piacere la autorizza a tornare in cerca di altri uomini, se ne rende conto Joe stessa affermandosi ninfomane e non sesso-dipendente, rivendicando il marchio dell’infamia come diritto di autodeterminazione contro la stimmate sociale della malattia. L’indulgenza per il cannibalismo sessuale, però, non è plenaria. Joe riconosce la dimensione del peccato nel momento in cui realizza il dolore che la sua condotta ha sugli altri attraverso il dolore fisico che sperimenta su di sé. L’antropofagia simbolica del sesso femminile diventa autodistruzione quando il corpo reagisce ad anni di abusi sanguinando, disfacendosi, appassendo assieme al desiderio. È lì che Joe inizia a guardare alla dimensione sociale della sua ninfomania, riconoscendosi nella solitudine di un pedofilo potenziale che censura i suoi istinti per evitare di essere il male. Perché, appunto, la sessualità, in ogni sua forma, è identità e modo d’espressione dell’essere umano. Joe avrebbe potuto essere frigida, omosessuale, anorgasmica o asessuata come Seligman e il film non sarebbe mutato nella sostanza, solo nelle forme espositive.

Certo, la scelta della ninfomania ha dato modo a Von Trier di stuzzicare la voyeuristica pruderie di quell’establishment che tanto gli piace scandalizzare, ma lasciando gli scandali e la sensazione al loro luogo di competenza (la cronaca dell’infimo, perché oltretutto le dinamiche della conquista sessuale sono di un ridicolo, forse volontario, che ricorda l’erotismo patinato di quel filone di cinema che unisce Le età di Lulù Melissa P.), Nymphomaniac è in primo luogo un film sulla solitudine dell’uomo di fronte alla sua condizione, preda costante degli istinti invincibili che spazzano via ogni tentativo di costruzione sociale, di relazione ulteriore rispetto all’individualità.

Portando a compimento la sua ideale trilogia sulla depressione (iniziata con Antichrist e proseguita con Melancholia), il regista danese ha maturato e concluso una riflessione sull’uomo di fronte a se stesso. L’ha declinata al femminile perché la donna, in quanto principale potenza genitrice, è creatura ancestrale e oscura, radice stessa dell’essere umano e quindi sintesi simbolica dell’umanità.

A differenza dei capitoli precedenti, soprattutto di Antichrist – ma forse il discorso vale solo per questa prima versione “leggera” – Von Trier non vuole torturare lo spettatore sparandogli immagini incomprensibili e violente, ma piuttosto si diverte a fare cinema, cambiando stile espositivo tra i vari momenti della narrazione, citandosi nel citare di nuovo Händel che apriva magistralmente Antichrist, e raggiungendo momenti di grande enfasi (gli alberi, le passeggiate, ma soprattutto l’esplosiva e lancinante Mrs. H di Uma Thurman) e, tutto sommato, rendendosi meno ermetico e più comprensibile grazie alla guida di Seligman. Con Nymphomaniac, nel finale soprattutto, Von Trier lascia intendere che un riscatto, che è imposizione e dominio su se stessi, è possibile nel momento in cui si comprende e accetta la propria natura per assimilarla con la ragione.

Così, i vari capitoli del racconto di Joe, confezionati come le storie della tradizione novellistica delle Mille e una notte, dei Racconti di Canterbury e del Decameron, tra l’altro già di loro permeati di erotismo come evidenziato dal cinema di Pasolini, diventano stazioni di una via crucis profana, non blasfema, che rende possibile una vittoria dell’uomo-ragione sull’uomo-passione.

Non è detto che per arrivarci fosse necessario passare attraverso i duecentoquarantuno minuti, o addirittura i trecento della versione estesa, di film conditi con tutto il clamore pompato ad arte e lo spettro di una minaccia censoria che avrebbe impedito la distribuzione in Italia e in altri paesi. Von Trier ha scelto questa strada. E il risultato va oltre le polemiche.

 

(Nymphomaniac Vol. I, di Lars Von Trier, 2013, drammatico, 118’)

(Nymphomaniac Vol. II, di Lars Von Trier, 2013, drammatico, 123’)

 

 

Nymphomaniac Official Trailer from Zentropa on Vimeo.

“Mondo piccolo” di Valerio Millefoglie

Mondo piccolo (Laterza, 2014), l’ultimo libro di Valerio Millefoglie, è il viaggio in un microcosmo straordinario e fantastico, eppure sorprendentemente reale: quello dei luoghi più piccoli del mondo. Sì, una collezione di edifici, spazi, ambienti, tutti rigorosamente in miniatura, stretti in pochi metri quadrati e tuttavia pienamente vissuti e vivibili. Luoghi «dove appena entri sei già fuori». Dalla cattedrale più piccola del mondo – situata sull’isola croata di Nona, dove può entrare una sola persona alla volta e in cui si celebra il matrimonio «più duraturo di tutti i tempi: il matrimonio da separati» – alla libreria che contiene solo libri microscopici, scritti dentro un guscio di noce o su un tappo di bottiglia; dal ristorante per sole due persone al carcere meno affollato, che ospita solo tre detenuti; dalla mini-discoteca dove tutti sono al centro della pista (perfetta per i timidi) al cinema dentro una macchina; dalla classe con un solo alunno all’albergo con un solo letto; e via rimpicciolendo.

Ecco alcuni dei luoghi “minimi” ‒ sparsi in giro per l’Europa e non solo ‒ in cui Valerio Millefoglie ci accompagna, con lo sguardo curioso e al contempo rispettoso di chi vuole scoprire il segreto della bizzarra ricchezza racchiusa in una scala così ridotta. E nel corso del viaggio ciò che scopriamo non sono soltanto le incredibili dimensioni di questi luoghi eccezionali, ma soprattutto le storie delle persone che li hanno abitati o che tuttora li abitano, storie inevitabilmente “minori” e minuscole, ma spesso tangenziali a quella “maggiore”, con la esse maiuscola. Sono proprio le loro voci, raccolte dall’autore nel suo paziente lavoro di ricerca, a restituire via via il significato di tanta mirabile piccolezza. La ricostruzione storica si mischia con il gusto della narrazione e si apre all’avvento dell’imprevedibile, là dove le pagine si fanno più vivaci e gli incontri coi personaggi più interessanti. Soprattutto emerge la passione della ricerca e il divertimento dell’autore nel descrivere con sottile ironia i posti in cui si trova, così ironici essi stessi nella loro amabile assurdità. 

Ma, a conti fatti, si tratta soltanto di una specie di piacevole escursione dal sapore un po’ gulliveriano? No, è qualcosa di più. È una riflessione sull’esistenza e le sue dimensioni: la solitudine, la vita di coppia, la convivenza col passato e i suoi fardelli, individuali e collettivi. Questo viaggio ‒ come ogni viaggio ‒ è un viaggio dentro se stessi. Le spedizioni di Millefoglie in questi luoghi così alieni dalle nostre normali, comode posizioni, ci invitano a ripensare i nostri rapporti con le cose (anche le più quotidiane), a ripensare le nostre abitudini e i nostri modi di vivere, a rivalorizzare oggetti e spazi dimenticati. Insomma, a rimettere in discussione noi stessi e, in fondo, i nostri stessi limiti, perché «la comodità non ha mai portato a niente, l’uomo sulla luna non ci è arrivato in pantofole. Mettiamoci scomodi. Non prendiamoci troppo spazio».  


(Valerio Millefoglie, Mondo piccolo. Spedizione nei luoghi in cui appena entri sei già fuori, Laterza, 2014, pp. 144, euro 12)

“Leaf”: a tu per tu con i Moseek

Freschi vincitori del Premio della Giuria dell’Against Sanremo organizzato da Radio Kaos Italy, facciamo quattro chiacchiere con i Moseek: una band che si farà sicuramente sentire in giro. E per parecchio tempo…


Leaf è il primonon primo album dei Moseek: raccoglie tutti i pezzi dei vostri primi anni e ha una genesi molto lunga, ce la raccontate?

Leaf è la fusione dell’Ep Tableau del 2010 e del disco Yes, Week-end del 2012, entrambi autoprodotti. Nell’aprile del 2012 abbiamo conosciuto l’etichetta OneMoreLab che ci ha proposto di fare un disco “ufficiale” edito da Dont’Worry Records e distribuito nel digitale e nel fisico da Edel. Questa vera e propria operazione discografica, appunto Leaf, ha avuto una gestazione piuttosto lunga, avendo infatti visto la luce a Gennaio 2014, dopo quasi due anni dalla proposta dell’etichetta. L’album consta di 11 tracce, tra cui sette prese direttamente da Yes, Week-end, tre da Tableau e registrate ex-novo, insieme al singolo “Leaf”.


Alcuni dei pezzi, per esempio “Pills”, erano usciti come singoli diverso tempo fa. Ci spiegate bene questo discorso di fondere un Ep e un primo lavoro Yes, Week-end, all’interno di un unico album, a distanza di quasi due anni.

In realtà la fusione avrebbe dovuto vedere la luce a novembre 2012, subito dopo la pubblicazione di Yes, Week-end, tempo di registrare i 4 brani e di girare il videoclip: l’etichetta per poter cominciare a lavorare al nostro management e booking aveva necessità di avere un prodotto che fosse anche suo. Ecco perché ci ha proposto questa “fusione”, serviva in poco tempo un prodotto senza dover rientrare in studio con pre-produzione e tutto quello che necessita la lavorazione di un nuovo album. La latenza tra progetto e realizzazione non è stata una nostra volontà, semplicemente ritardi e rinvii non dipesi da noi ci hanno fatto arrivare a gennaio 2014: è stato annullato il tour estivo ed europeo/autunnale, non è partita la macchina di promozione completa in tempo ed eccoci qua. Fosse stato per noi tre, oggi avremmo un nuovo disco di nuovi brani, che però si possono ascoltare solo ai nostri concerti, ma Leaf ormai esiste e sulle cose che non abbiamo gestito in prima persona possiamo solo alzare le mani, non pensarci e andare avanti serenamente.


Il vostro sound è una contaminazione di rock con l’elettronica… ma cosa viene prima nella storia dei Moseek musicisti? Il rock o l’elettronica?

Il rock, necessariamente. Gli anni ’90, per forza di cose, hanno dettato legge sulle cose che ascoltavamo, ci siamo cresciuti! Poi internet ci ha permesso di andare a scovare non solo la musica che trovavamo sulla classifica di Tv Sorrisi e Canzoni o su Pop of the Pops e quindi abbiamo cominciato ad ascoltare molti progetti semi-sconosciuti al grande pubblico qui in Italia – Röyksopp, Blonde Redhead, Beach House, NIN (già, semi-sconosciuti qui in Italia, se chiedi in giro c’è qualcuno che ancora non li conosce!!). Di base però il fascino dell’elettronica c’è sempre stato, forse è un po’ il retaggio dei nostri genitori che ci facevano ascoltare da piccoli l’elettronica degli anni ’80. Inizialmente avevamo infatti una tastiera, a cui si è aggiunto il sequencer, la cui evoluzione è tutta nel synth che suona Fabio e l’aggiunta di un set di pad elettronici oltre alla batteria acustica che suona Davide.


Siete un gruppo che punta molto sull’ impatto live, tant’è che il disco, nei pezzi più forti, tende a riprodurne gli effetti: quanto è importante per voi questo approccio? Temete che le registrazioni possano bloccare questa vostra esplosività? Io sono convinto di no, anche perché l’aspetto del sound è fondamentale per voi…

L’approccio live è fondamentale: non scriviamo la scaletta prima di salire sul palco, abbiamo la nostra scenografia composta anche da luci che sono studiate sulla canzone, momento per momento. Concepire uno spettacolo nei minimi particolari, ovvero scaletta, scenografia, luci fa parte del nostro modo di lavorare ormai. Le registrazioni presenti nel disco accennano solo in parte quello che esprimiamo sul palco e quando le gente ci dice che siamo piaciuti più live che su disco, lo prendiamo come un dato di fatto, è così. Bisogna avere esperienza anche in quell’ambito, rendere su un disco l’energia di un brano non è sempre facile. In ogni caso pensiamo che l’album attuale non corrisponda ai Moseek di oggi perché, come abbiamo già detto, i brani inseriti sono del 2012 e sostanzialmente siamo molto cambiati. Pertanto ti risponderemo con più precisione e maggior consapevolezza quando uscirà il prossimo lavoro!


Musicalmente, quali sono i vostri modelli? Sono condivisi da tutti, o ci sono delle divergenze?

Non ci sono delle divergenze se non nel fatto che Elisa apprezza determinati artisti italiani che io [Davide, ndr] e Fabio non amiamo in particolar modo. Muse, Pearl Jam, Incubus, Massive Attack e NIN sono per noi dei maestri. Più che modelli si parla di fonti d’ispirazione.


Per tornare al disco, molto interessanti sono anche quei pezzi più riflessivi, come “Mr Benson”, o “In Slippers”, che invece offrono un altro sguardo, più introspettivo. Le nuove composizioni seguono questa tendenza? O è stato casuale?

Le nuove canzoni hanno un approccio meno “spensierato” rispetto a pezzi come “Bad Things” o “A Room & a Kitchen”, non mancano brani da pogo o che strizzano l’occhio alla dancefloor, all’interno dei brani stessi ci sono momenti riflessivi, a tratti solenni. Senz’altro sono concepiti per far ballare e i testi come le sonorità hanno sempre un fondo di malinconia.


Quindi la domanda successiva è scontata: come sono i nuovi Moseek, verso cosa vi state spostando?

L’elettronica è sempre più presente, tanto che di pari passo abbiamo anche un repertorio esclusivamente elettronico, fatto di pad, synth, due timpani e due voci per poter sfruttare location dove non è possibile suonare con chitarre e batteria acustica, location che necessitano volumi contenuti. Le nuove canzoni sono più articolate e c’è sempre meno l’impostazione strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-chiusura. Ci divertiamo all’interno dei brani rompendo alcune convenzioni pop e, se dovessimo definirci, non sapremmo al momento cosa dire, abbiamo preso la direzione di uno stile piuttosto inclassificabile perché mescoliamo linee di basso quasi dancefloor e disco, ad atmosfere che sfiorano il tribale. Giochiamo molto di più con i suoni e ci divertiamo a sperimentare.  


Riflessione sugli artisti emergenti? Si fatica a suonare?

Questa domanda necessita di un tre quarti d’ora di conversazione, almeno. Se si fatica a suonare, le motivazioni sono attribuibili a diversi fattori: per sintetizzare diciamo pubblico non educato e certi tipi di musicisti e affini.
Il pubblico non educato all’ascolto dipende dal fatto che viene veicolato dai media un certo tipo di musica e quindi «underground» diventa l’equivalente di «sconosciuto». Pertanto, la gente che va ai concerti underground, ovvero ai concerti di sconosciuti, è al momento un numero limitato. Quindi i locali fanno fatica a organizzare serate con tanta gente e a invitare band dell’underground garantendo un cachet dignitoso. Una parentesi a parte è il discorso dei gestori dei locali, ma ne parliamo tra poco.

Si fatica poi a suonare perché esiste una categoria di musicisti e personaggi del settore che vestono i panni di produttori e imprenditori, direttori artistici e quant’altro, e mangiano sulle aspettative e sugli spicci di altri musicisti puntando sulle cose che questi ignorano. Infatti molti artisti non conoscono il significato e la differenza tra booking e management, non sanno cosa sia un ufficio stampa, non hanno idea di cosa sia un editore o una label. Ecco questa poca conoscenza dei ruoli e di come funzionano le cose gioca a favore delle figure suddette. E così c’è, purtroppo, una grande quantità di musicisti che perdono tempo, che straziano la loro pazienza e costanza stando dietro a meccanismi, anche squallidi, e a prese in giro. Una nota di demerito va anche a qualche gestore/direttore artistico che pur di riempire il locale fa suonare il gruppetto alle prime armi, il quale si porta dietro tutta la classe, mamma, papà e nonni e che “invitano” e costringono gli altri presenti ad alzarsi e ad andare via. Ecco queste scene inducono la gente ha pensare: “musica emergente” uguale “musica sgombera locali”. E poi si lamentano che non hanno clientela abituale…
Si fatica a suonare? Questa domanda non ha dentro solo la questione di quanti live si fanno in una stagione, ma include anche quanto vengano messe a dura prova la pazienza, la costanza e la passione perché di gente che ti fa perdere tempo, che dice cavolate evidenti, che ruba i tuoi soldi (anche se sono due spicci), se ne trova a bizzeffe e la difficoltà non sta solo nel riconoscerle, sta anche nell’affrontarle e nell’avere la forza di ricominciare ancora una volta da capo.