Copertina di La fuga di Enea di Antonio Scurati

La generazione X e la lunga crisi italiana

È da poco in libreria La fuga di Enea (Solferino, 2021), raccolta in volume di una serie di editoriali di Antonio Scurati. Scritti per La Stampa e per il Corriere della Sera, gli articoli del Premio Strega 2019 compongono un mosaico dettagliato, «un vero atto di accusa al Paese di oggi», come si legge nella sinossi.

Dall’assenza politica della generazione X all’esplosione dei populismi, dall’oblio della scuola al presentismo degli adulti, tanti sono i temi toccati da Scurati, in un percorso che inizia prima della pandemia e sembra poi trovare speranza, paradossalmente, proprio mentre il Covid imperversa nell’Italia del 2020.

Gli editoriali raccolti dall’autore di M sono accomunati da una doppia anima: da un lato, si tratta sempre di analisi impietose della crisi permanente italiana, in tutte le sue sfaccettature; ma dall’altro è anche «una traiettoria ascendente» – così sostiene Scurati nell’introduzione –, una progressiva presa di coscienza dell’editorialista, sempre meno disponibile a denunciare e commiserare il presente e sempre più accorato nel predicare e ricercare un’alternativa, una rinascita, un futuro possibile.

Non è un caso che, come dicevamo, sul banco degli imputati compaia più volte la generazione X: quella di Scurati, degli adulti nati tra il 1960 e il 1980. «Stiamo nell’età adulta come adolescenti deprivati» scriveva l’autore nel 2011, raccontando il dramma di classi d’età cresciute con la promessa della festa permanente, del progresso continuo, e colpiti all’improvviso dalla Grande recessione (e ora dalla pandemia). Diagnosi e accusa si confondono quando Scurati recita (lo fa più volte) il ritornello di David Leavitt, che elegge a cifra di vita per i suoi coetanei: «Era sempre sabato sera e stavamo sempre andando a una festa».

Il presente, sembra dire l’autore, appartiene a una generazione che non è mai diventata adulta e si ostina ancora, sulle soglie dei sessant’anni, a non volerlo diventare. È questa pletora di donne e uomini irresponsabili, suggerisce, a inchiodare il mondo – e l’Italia soprattutto – a un presente permanente, in cui non c’è posto per il ricordo del passato e per la pianificazione del futuro.

Se questa è l’epoca degli “xoomers”, è allora inevitabile che sia anche l’epoca, per esempio del declino di Venezia, travolta dall’acqua alta e amministrata come una gallina dalle uova d’oro per i «suoi elettori di terraferma»; ma anche di un’università giunta in punto di morte, strozzata dai meccanismi di valutazione; della scuola allo sbando, alla quale si nega un ministro all’altezza del compito); della politica che rifiuta il linguaggio della complessità («Al grado zero dell’arte retorica si posiziona lo stesso Trump»). Ma, soprattutto, questi problemi discendono a cascata dall’annientamento del pensiero politico e dell’azione politica. «Siamo stati […] una generazione impolitica» commenta lapidario in uno dei primi editoriali dell’era Covid. E senza politica è ovvio che i grandi valori si disperdano e che si perda la bussola necessaria a programmare il futuro.

In più di un articolo Scurati si scaglia contro la pochezza degli attuali attori politici («Dobbiamo davvero rassegnarci a questo stillicidio quotidiano di inettitudine, a questo osceno battibecco, a questo ragliare di muli sterili?»). Ma dopotutto cosa aspettarsi da tempi simili? In «Il Palazzo e le Piazze ignorate» l’autore prova a ripercorre le tracce di un mutamento genetico delle proteste popolari, osservando come le masse abbiano smesso di mobilitarsi attorno a grandi temi e alle speranze di un avvenire migliore. Pian piano hanno preferito sempre di più protestare per resistere contro il presente, a volte persino contro le istituzioni democratiche che ne consentono gli sgraditi sviluppi. E l’ordine dei testi pubblicati sembra suggerire che proprio da qui è nato il terreno fertile per i nuovi populisti, «leader in grado di guidare la folla non precedendola, ma seguendola». Nuovi per modo di dire, perché per Scurati è lampante la continuità metodologica con il fascismo: fu Mussolini «l’inventore» della categoria del leader-populista.

Riepilogando, la generazione X ha smesso di fare politica e si è rifugiata nella propria intimità: ha smesso di convertire i problemi privati in collettivi, e quindi è entrata in un loop negativo di autocommiserazione («smettiamola di lamentarci» scrive Scurati) per poi affidarsi a demagoghi senza arte né parte. E allora dov’è la luce che l’autore crede di poter vedere nei suoi scritti? Probabilmente proprio nelle occasioni offerte dalla pandemia, una scossa senza precedenti che potrebbe costringere questa classe di “bambini troppo cresciuti” (ridotti a mettersi «in coda per il pane» come durante una guerra) a recuperare l’eredità di Enea, il compito di unire le generazioni: salvare Anchise e tutti i figli degli anni Quaranta, generazione grandiosa da proteggere contro il virus, e dare un futuro ad Ascanio, iniziare cioè a immaginare davvero una società diversa per garantire un’esistenza libera ai propri figli e nipoti.

«I giornali si chiamano così perché durano un giorno»: con questa battuta Scurati apre, sarcasticamente, il volumetto. Durano di più, gli editoriali raccolti in La fuga di Enea? A dire il vero, sembrano andare tutti un po’ in affanno, accusare un diaframma tra obiettivo e risultato, tra la larghezza dello sguardo e la qualità dell’analisi. Per esempio, la spoliticizzazione degli xoomers e la loro conclamata fragilità emotiva sono argomento di dibattito sociologico e politico molto serio (Realismo capitalista di Mark Fisher offre un assaggio della complessità del tema) che di certo non si può ridurre – come Scurati fa per tutto il libro – a una sorta di colpa morale collettiva, rimediabile con uno “scatto di reni” o un “sussulto di dignità”. Come è possibile che lo stesso sostenitore di una ripoliticizzazione della società finisca per ignorare la natura politica di questi fenomeni e immaginarli come meri peccati mortali nei quali sono caduti tutti insieme milioni di persone? Se la pandemia, almeno finora, non ha dato alcuna scossa, forse è perché c’è qualcosa di più.

Forse alcuni editoriali di Scurati durano un giorno, ma la nostra domanda dura ben di più: ci ricorda la differenza tra descrivere e analizzare, tra narrativa storica e politica. Leggere questo libro è anche un modo utile per tenerlo a mente: per non dimenticare che in certi trabocchetti retorici può cadere anche un grande intellettuale e scrittore, non solo l’elettore disagiato.

 

(Antonio Scurati, La fuga di Enea. Salvare la città in fiamme, Solferino, 2021, pp. 130, euro 14, articolo di Marco Di Geronimo)
Copertina di La casa di Mango Street di Cisneros

Sinfonie latine nel barrio dei chicanos

Pubblicato per la prima volta nel 1984 e riproposto quest’estate dalla casa editrice La Nuova Frontiera nella bella traduzione di Riccardo Duranti, La casa di Mango Street non potrebbe presentarsi come più attuale. L’autrice, Sandra Cisneros, ci ha regalato infatti uno dei romanzi più intensi sulla cultura dei chicanos, un termine dalle forti connotazioni identitarie, usato per definire principalmente i messicani emigrati durante gli anni ’60 e ’70 verso la frontiera degli Stati Uniti, in particolare attorno alla zona di Chicago, nell’Illinois.

Esperanza è un’adolescente trasferitasi da poco assieme alla sua famiglia in un nuovo quartiere della città. La casa, situata al numero 4006 di Mango Street, è una costruzione «piccola, rossa, con una scala stretta davanti e le finestre così piccole che sembrano trattenere il fiato»; la stessa che vediamo in copertina, un edificio anonimo in mattoni su uno sfondo giallo acceso, la ragazza che guarda fuori alla finestra, appoggiando la propria malinconia su un gomito, così come faceva prima di lei la sua bisnonna, da cui ha preso il nome che «significa tristezza, significa attesa».

In un riuscitissimo gioco stilistico, Cisneros simula lo sguardo infantile di una ragazza costretta a vivere in un mondo che rischia di farla soffocare, descrivendo pagina dopo pagina le difficoltà di una realtà cruda, a volte spietata, che spesso lei stessa non riesce a comprendere fino in fondo data la giovane età. L’unica possibilità d’evasione è quella fornita dall’immaginazione: un’immaginazione lucente che è capace di trasformare qualsiasi oggetto (come un paio di scarpe col tacco o una vecchia bici usata) in un feticcio dalle proprietà magiche, in grado di portare i protagonisti di queste storie lontano, verso orizzonti differenti. Il desiderio di fuga è infatti un tema costante, assieme alla speranza mai sopita di lasciarsi tutto alle spalle e andare via, ricominciando una nuova vita.

La casa di Mango Street è un romanzo che parla a tutte le donne intrappolate in qualsiasi ruolo di genere. Le intenzioni risultano chiare fin dall’esergo dove, significativamente in spagnolo, a ricordare le radici messicane dei chicanos, compare la dedica A las mujeres, alle donne: abbandonate o lasciate sole in situazioni complicate dove cavarsela è difficile, si ergono al centro di queste storie, vittime più che protagoniste silenziose. Temi quali quelli di genere, della violenza domestica o dell’abuso sessuale esplodono sulla pagina, evidenziando le contraddizioni esistenti all’interno di una comunità dove le parti e i compiti vengono prestabiliti in base al sesso di nascita. L’atmosfera opprimente del patriarcato aleggia ininterrotta lungo tutto l’arco narrativo, una gabbia invisibile che intrappola senza via di scampo nella sua rete fatta di regole rigide e ataviche.

Esperanza racconta la sua storia con uno stile innocente, a volte fintamente immaturo, filtrato attraverso gli occhi di una persona che non è ancora capace di intuire appieno le dinamiche che la circondano, un caleidoscopio di quadri spesso solo accennati o a malapena sussurrati, di cui anch’ella si sente attrice protagonista suo malgrado: c’è Rosa Varga, abbandonata dal marito assieme ai suoi figli che cerca di sopravvivere da sola con scarsi risultati, Rafaela che affacciata alla finestra sogna di avere i capelli come quelli di Raperonzolo, e c’è Sally che sorpresa un giorno a parlare con un ragazzo ha fatto uscire pazzo il padre, facendogli dimenticare «chi era tra la fibbia e la cintura».

Sandra Cisneros descrive un mondo dei sobborghi, piccoli angoli di umanità dove regna l’ingiustizia: i chicanos vivono alla giornata quasi ghettizzati in squallidi quartieri, indifferenti alla maggior parte della gente, che preferisce evitarli («Quelli che non sanno un accidente entrano nel nostro quartiere spaventati. Pensano che siamo pericolosi. Pensano che li attaccheremo con coltelli scintillanti»). A questo proposito, in una bella intervista rilasciata per i venticinque anni dalla prima pubblicazione del romanzo e recentemente tradotta sul Corriere della Sera, parlando della sua esperienza personale l’autrice ha dichiarato: «La gente di cui parlavo in gran parte esisteva; la prendevo di qua e di là, da ora e da allora […] Di solito, quando pensavo che qualcuno che stavo creando era frutto della mia immaginazione, veniva fuori che stavo ricordando una persona che avevo dimenticato o che mi stava così vicina da non vederla […] Non abito più a Chicago, ma Chicago continua ad abitare in me. Ho storie su Chicago che devo ancora scrivere. Finché quelle storie scalceranno in me, Chicago sarà sempre casa».

La casa di Mango Street rimane ancora oggi un romanzo molto attuale, tanto che il tempo non sembra essere passato dal 1984; il sentimento di spaesamento che prova Esperanza, il non riuscire a sentirsi mai completamente a casa, né libera o se stessa, a suo agio in uno spazio percepito come ostile, è un sentimento talmente comune da travalicare qualsiasi genere, razza o religione. Alla fine sembra quasi di sentirsi un po’ come Marin, la ragazza emigrata da Puerto Rico, che «alla luce del lampione, balla da sola e canta sempre la stessa canzone, dovunque sia. […] Aspetta che si fermi una macchina, che cada una stella, che qualcuno le cambi la vita».

 

(Sandra Cisneros, La casa di Mango Street, trad. di Riccardo Duranti, La Nuova Frontiera, 2021, 192 pp., euro 15, articolo di Davide Tamburrini)

 

Copertina di Isla bonita di Muscas

La folle danza del talento

Isla bonita. Amori, bugie e colpi di tacco (66thand2nd, 2021) è un romanzo inebriante, caldo, dal sapore apparentemente frugale. L’autore Nicola Muscas (uno degli scrittori selezionati per l’antologia di racconti sportivi Per rabbia o per amore, nata dalla collaborazione di 66thand2nd con effe) orchestra le parole con metodo riuscendo a rendere armoniosa la pur elaborata struttura narrativa. Il romanzo scorre con leggerezza, fa pensare a una sonata dal ritmo crescente, è come leggere uno spartito: RE-DO-LA-FA#; l’intelaiatura del testo ricorda La cumparsita, il delicato tango uruguagio. Una misurata danza, tragica e romantica.

Santiago Ramiro Rodríguez, detto El Gordo, è il protagonista principale, miccia e detonatore dell’intera storia. È un calciatore uruguagio di oltre trent’anni con una lunga serie di fallimenti alle spalle; uno svincolato illustre che nessuna società ha più il coraggio di mettere sotto contratto. Rodríguez, con la palla tra i piedi, sbalordisce chiunque, si muove, ondeggia, ubriaca i suoi avversari: è un genio, ma soffocato dalla zavorra del talento. Per lui gestire la fiducia che milioni di tifosi ripongono in un essere umano pieno di limiti, fatto di carne, muscoli, ossa e insicurezze, è solo fonte di sofferenza. Il calcio è stato la sua salvezza – o avrebbe potuto – ma purtroppo per il Gordo non esiste solo il rettangolo verde, anche nel calcio ci sono delle sovrastrutture, un universo corrotto e narcisistico capace di fagocitare tutto, distruggendo qualsiasi cosa, soprattutto l’indifesa ingenuità del puro genio. L’uruguaiano pur di imporre la propria libertà ha sperperato tutto, dissipato soldi, amore e talento, boicottando quello stesso mondo che l’aveva accolto. Le azioni hanno delle conseguenze e le sue lo hanno catapultato in un vortice di dissolutezza da cui gli è difficile uscire. Rodríguez, ormai trentacinquenne, è in rovina, ha divorziato due volte; beve troppo, pesa troppo, vive troppo. I debiti lo tallonano, deve molti soldi a gente losca, ed è costretto a nascondersi per non incappare negli scagnozzi di un famigerato malavitoso di Montevideo, El Carnicero. Nonostante tutto la povera Inés – sua nuova moglie che da lui aspetta un figlio – si sforza per amore di sopportare stoicamente le odissee del marito.

Il Gordo, però, è un uomo fortunato, il fato gli ha concesso una seconda possibilità. Firicano, un vecchio direttore sportivo fuori tempo massimo, originario di Napoli, dedito alle droghe pesanti e agli affari rischiosi, ha inspiegabilmente deciso di proporgli un contratto. L’idea è quella di riportarlo a Cagliari, nella pacifica Isla bonita che lo ha fatto fiorire, nella squadra che gli ha dato l’occasione di esordire nel calcio che conta. Il direttore, nel suo diabolico pragmatismo, vuole ricondurre a casa il figliol prodigo; immagina una presentazione in pompa magna: il ritorno del sudamericano irregolare sulla via della redenzione. Con questo tocco di follia Firicano vuole dimostrare ai suoi colleghi che è ancora in grado di compiere grandi imprese. Così, insieme a una piccola delegazione del Cagliari Calcio, si reca a Montevideo alla ricerca del Gordo. Il ds porta con sé Aresu, un giovane e insicuro addetto stampa che nel corso della narrazione avrà il tempo di conoscere meglio sé stesso e le irregolarità del calcio, e Morelli, il medico della squadra, un gigante dal cuore gentile incapace di prendere decisioni importanti, braccio destro del collerico mister Tagliaferro.

Il romanzo comincia in medias res, il Gordo ha accettato l’offerta di Firicano, il campionato è iniziato da poco e l’uruguagio sta già creando non pochi problemi all’allenatore, che avrebbe preferito un giocatore di corsa, meno talentuoso ma più giovane. Morelli ha l’onere di gestire gli eccessi di Rodríguez e diviene ben presto suo amico e angelo custode, mentre Aresu deve mentire il più possibile per provare a sedare i numerosi pettegolezzi che riguardano il nuovo acquisto.

Muscas è in grado di muoversi con personalità in un universo narrativo variegato, e crea dei personaggi divertenti, arguti, grotteschi e con una ricchissima vita emotiva, i quali si barcamenano tra le miserie della vita mentre il caos portato dall’anarchia del protagonista li compromette tutti. Firicano è un personaggio iperbolico, cinico ma allo stesso tempo altruista. Un uomo risoluto capace di trovare sempre l’espediente migliore per risolvere i suoi problemi, tanto che – grazia a delle amicizie poco raccomandabili, che comprendono cartelli della droga e poliziotti della DEA corrotti – riesce persino a liberarsi del pericolosissimo Carnicero.

Il romanzo è un poliedro di personalità diverse ma coincidenti: lo stesso Morelli che sembra fare sempre la cosa giusta si scopre, nonostante le apparenze, non troppo dissimile dal ribelle Rodríguez. Sono entrambi incapaci di controllare le proprie vite e i propri sentimenti e Morelli, grazie alla incoraggiante estroversione del Gordo, trova il coraggio di osare, sperimenta così il piacere del rischio innamorandosi di Laura, giovane ambiziosa giornalista cagliaritana.

L’autore mischia generi diversi, va dal romanzo calcistico alla commedia umana passando per il crime. Racconta di risse, amori disperati, gol mozzafiato, una folle corsa per un posto in Champions e avventurosi imprevisti. Il tempo della narrazione è il presente, ma Muscas attraverso l’arguto montaggio del testo dà la possibilità al lettore di muoversi tra il simultaneo e il passato con una ben regolata disinvoltura. La trama è una rocambolesca ricerca di ordine nel complesso tumulto esistenziale dei protagonisti. Ma più che per la trama il romanzo sorprende grazie alla scrittura. L’autore utilizza linguaggi e generi diversi che variano a seconda dei personaggi, e questo rende la narrazione particolarmente realistica e in alcuni casi esilarante: addirittura l’italiano spagnoleggiante di Rodríguez restituisce la musicalità latina propria dei sudamericani che si accingono a parlare nella nostra lingua. La vera sorpresa quindi non è negli argomenti trattati, che seppure siano interessanti e ben concepiti restano privi di altissimi colpi di scena, a stupire è la qualità stilistica e tecnica di Muscas, che al suo esordio riesce a coinvolgere il lettore orchestrando un romanzo che trova il suo punto di forza nella scrittura e nella struttura più che nella storia.

 

(Nicola Muscas, Isla bonita. Amori, bugie e colpi di tacco, 66thand2nd, 2021, 336 pp., euro 17, articolo di Giuseppe Maria Marmo)

Maradona e il metodo Minà

Durante l’ultimo forzato periodo di chiusure mi è capitato di vedere su Netflix il documentario Diego Maradona di Asif Kapadia. Tagliato da oltre 500 ore di girato, non c’è ombra di dubbio che sia il materiale video più straordinario mai imbastito sulla vita di un atleta, nonostante non copra l’intera carriera del Pibe de oro ma si concentri solo sui sette gloriosi anni trascorsi a Napoli. Quello che colpisce è soprattutto il contrasto tra una focalizzazione molto ravvicinata alla storia e il carattere del suo protagonista che sfugge subito in idolo metafisico.

Maradona è qui il fantasma, pura immagine cinetica, corpo sacralizzato in viva reliquia di una devozione popolare che arriverà a sacrificarlo per una sorta di rito di espiazione collettiva. Si esce attoniti e provati dalla visione: abbiamo assistito alla ascesa e caduta di un eroe unico della contemporaneità, teso al divino ma rimasto invischiato nelle cose umane, o alla storia comune dell’ultimo tra gli uomini straordinari?

Per ristabilire lucidamente le giuste misure e ora, dopo la sua morte, consegnare Maradona alla nostra storia recente, credo sia più utile rivolgerci a questo punto a un libro, l’ultimo di Gianni Minà, che ripercorre la vita dell’amico (amico per davvero) Diego in un continuo e agile palleggio tra articoli d’epoca e racconto memoriale.

Già dal titolo, Maradona: «Non sarò mai un uomo comune». Il calcio al tempo di Diego (minimum fax, 2021), si capisce di essere difronte a una partita giocata tra la resa diretta della voce del protagonista e il racconto di un’epoca calcistica irripetibile, forse l’ultima epica prima dello strapotere mediatico e finanziario degli interessi fuori campo.

La scrittura e direi il metodo Minà – quello che lo ha reso maestro del nostro giornalismo, sempre discreto e ponderato nell’accompagnare i fatti e il loro confronto a informare il lettore o l’ascoltatore – sono qui dispiegati al massimo grado, con un accento di passione in più che non inficia mai l’equilibrio del discorso.

Come già nel libro su Muhammed Alì e nel recente Storia di un boxeur latino, rapida cavalcata autobiografica di un professionista impegnato e vigile tra i subbugli del secondo Novecento, Gianni Minà tiene fede al suo stile asciutto e conciso che resta in punta di penna tra emotività («Non ho mai pianto, e se piango non lo dico a un giornale») e giusto distacco di cronaca.

La versione di Gianni è frutto di una conoscenza diretta, privilegiata negli anni, da quando Maradona sbarca a Napoli nel 1984 fino all’ultimo messaggio audio su WhatsApp prima della morte. In mezzo c’è l’epopea di un uomo che ha giocato non solo con il pallone ma con le dinamiche storiche di un periodo ancora caldo di ideologia e conflitto sociale. Non nascose mai ad esempio la sua simpatia per Cuba e l’ostilità nei confronti degli Stati Uniti.

Ma Diego era anche maschera carnevalesca, racconta Minà, e la sua posizione spesso emergeva con ironia e istrionica teatralità. Al gran gala della Fifa del 2001 per il calciatore del secolo, uno scherzo dei suoi. Diretta Rai, parterre di campioni. Vince Maradona, i dirigenti della Fifa non hanno calcolato il voto popolare: inventano nel panico per il designato Pelé un premio parallelo. El Pibe si presenta sul palco e dice: «Dedico questo premio all’argentino più famoso del mondo». Eccolo, il solito, si sente dio, mormorano dalle prime file i benvestiti del calcio internazionale. Diego studia la pausa e aggiunge: «L’argentino più famoso, Ernesto “Che” Guevara».

I conflitti e le lotte avvengono però anche con la gente, la sua gente che lo ha amato e odiato come in una vera storia d’amore. Ai mondiali del ‘90 contro la nostra nazionale Maradona trascina un’Argentina stanca, piena di botte, esordienti e pensionati, tirando il rigore decisivo. A Minà, che lo aspetta sempre in un sottopassaggio, dietro l’angolo o nella stanza dei massaggi, dice: «Ho festeggiato, poi mi sono calmato, perché ho visto la tristezza sui volti di molti amici». Negli spogliatoi palleggia con una saponetta, lo portano di peso sotto la doccia. Minà gli suggerisce: «In finale gira lontano dall’arbitro, cercheranno di impallinarti». Dopo il labiale più famoso del calcio, quel «hijos de puta» mormorato al maxischermo mentre l’Olimpico fischia l’inno argentino, la finale fu una partita orrenda e sbilanciata. Celebrata la vittoria mondiale, i tedeschi vanno a uno a uno ad abbracciare Diego.

 

 

L’anno del mondiale in Italia fa anche da spartiacque tra il primo e il secondo tempo del libro, intervallato da due lunghe interviste. Se fino a qui è ripercorsa la strabiliante ascesa a Napoli, indicando anche i germi delle crisi future e l’acme del mondiale messicano vinto in stato di grazia, inizia poi il racconto del declino e della nuova rinascita nei primi anni 2000. Maradona vuole curare la sua dipendenza dalla cocaina, dopo una crisi cardiaca molto grave: «Il Barba aveva paura che facessi casino lassù, continuerò a fare casino sulla Terra». Fidel Castro, intuendo anche la portata propagandistica dell’operazione, lo invita all’Avana: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi». Arriva anche Minà, per l’ennesima rinascita di Diego, che poi vince il premio Fifa. Non dimentica i diritti umani, dice no all’indulto per i generali assassini: «La dittatura ci aveva nascosto tutte le sue infamie. Fu nei viaggi con la Nazionale argentina che scoprimmo i loro crimini, fu sconcertante e mortificante».

È il Maradona fuori campo che continua a far paura, ma è una potenza fragile, un uomo che non vede all’orizzonte la sua salvezza. Sullo sfondo, l’amore per Napoli, passione totalizzante che lo ha sfiancato e infine quasi distrutto. Minà ristabilisce in maniera più precisa la vicenda: «Provò la cocaina per la prima volta in Catalogna, e mi diceva: “Maledico quel giorno. Io non l’ho mai comprata. Me l’hanno sempre portata”. Ferlaino doveva liberarlo. Platini resistette cinque anni nel calcio italiano. Diego era in gabbia, prigioniero dei suoi eccessi e del calcio. Ma ha fatto male solo a se stesso».

A fine lettura l’immagine di idolo e genio in fuga che emergeva dal documentario citato in apertura è riformulata, integrata dalla consapevolezza che se eroe è stato si tratta di un eroe fragile, toccato dal divino ma troppo umano per essere davvero un dio. E il libro di Minà assume allora una fisionomia strana, che trascende la cronaca, i dati, i fatti, pur fornendoli con chiarezza professionale. Potremmo definirla mitografia contemporanea, racconto che dai giornali ascende alla sfera delle grandi storie, popolari e universali come ogni mito.

Quella di Minà però non è una declinazione di giornalismo narrativo epicizzante, di impostazione americana, e non concede nulla nemmeno alla recente storytelling enfatico-performativa (vedi Buffa e affini). Sia negli articoli d’epoca sia nel racconto a posteriori, al centro resta sempre la testimonianza: andare a vedere e far parlare i fatti, i protagonisti, con la massima essenzialità possibile. Che non significa evitare di prendere posizione, chiarire questioni calde, come il pessimo comportamento della società napoletana negli ultimi anni in Italia o la controversia giudiziaria con il nostro fisco, risolta a favore di Maradona solo dopo la sua morte. Minà resta fedele a un’idea di giornalismo estremamente libera nello scegliere il proprio punto di vista e il metodo di indagine. Sulla scorta del grande Gianni Mura, ci insegna come anche i fatti sportivi e di costume possano sempre illuminare anche le vicende generali di un’epoca. E riesce a farlo lasciando questa libertà anche al lettore, che nel fenomeno Maradona potrà vedere aspirazioni, cadute e contradizioni di tutta una società che assomiglia a noi. Non «uomo comune», dunque, ma eccezionale come tutti.

Poster di Supernova

Per brillare come una Supernova

Colin Firth e Stanley Tucci raccontano il dolore della perdita. Nell’ultimo viaggio insieme sul camper di un tempo vestono i panni della coppia amorevole, che dimostra come il bene superi qualsiasi limite, di genere o di malattia. Supernova diventa così un film struggente, dopo una prima parte che fatica a procedere.

Anche se non viene mai chiamato per nome, torna al cinema l’Alzheimer, la demenza senile che cancella i ricordi, insieme alla comunicabilità con il mondo esterno. In questo, Supernova ricorda sicuramente due pellicole precedenti: Ella & John, per il viaggio in camper che tenta di spegnere la preoccupazione, e Still Alice, nella diagnosi precoce di una malattia che si manifesta già prima della vecchiaia. Diversamente invece da quanto accade in The Father, o in Tutto quello che vuoi, dove i protagonisti sono uomini anziani nel pieno della malattia, il personaggio di Tusker vive il momento della diagnosi in giovane età, quando la mente è ancora vigile e comprende il dramma che la investirà. Quasi un alter ego al maschile di Alice.

In Supernova il dolore del futuro viene trasformato nella necessità di sopravvivere alla memoria delle persone care come un uomo sano, e non incapace di vivere autonomamente. Manca sicuramente la leggerezza di Paolo Virzì, che in Ella & John racconta di una vacanza in camper che è soprattutto un viaggio nella vita di coppia. Qui, forse anche per la giovane età del regista Harry Macqueen – classe 1987 –, il punto focale non è tanto l’avventura, quanto la necessità di riappacificarsi con la morte, superando l’egoismo di chi rimane.

Ancora una volta, quindi, due attori (Colin Firth e Stanley Tucci) che non deludono per parlare della demenza senile e delle sue conseguenze, spesso difficilissime da sopportare. Anthony Hopkins, in The father, fa sicuramente scuola nella sua interpretazione, offrendoci per tutto il film le distorsioni di un anziano incapace di ricordare la realtà. Ma tutti gli altri propongono sicuramente un paesaggio più ampio rispetto a quel futuro che, prima o poi, toccherà in qualche modo tutti noi, come protagonisti oppure caregiver.

Supernova ha dunque il pregio di ricordarci che la vita spesso delude, portandoci dove non vogliamo, e che la morte può essere anche una scintilla. Proprio come una stella supernova: solo con la sua esplosione illumina più delle altre, diventando fonte di vita per le altre galassie.

(Supernova, di Harry Macqueen, 2020, drammatico, 95’)

È già domani dei Fast Animals And Slow Kids

I FASK sono tra i baluardi dell’alt rock degli anni ’10. Alaska e Hýbrids lo testimoniano. Che succede allora quando ascolti il loro ultimo album a al primo pezzo c’è un «Se conta ogni secondo allora conto fino a te»? Succede che È già domani suona come la loro fine.

Nella poetica di Dente, che la si apprezzi o meno, un gioco di parole melenso del genere ha logica. Rientra nel suo modo di fare, di essere, di porsi (Non c’è due senza te, per dirne uno). Buttata lì, invece, è solo cattivo presagio – la title track che apre il disco, paradossalmente, è pure una bella ballata chitarra e voce con arpeggio quasi alla Drake.

È inutile dire che il problema non è il cambiare, il non essere più ciò che si era prima. Cercare di trovare altre strade. Interpretarsi in altro modo. La sensazione è che quest’altro in cui si sono buttati abbia i contorni sinistri del peggior itpop.

È già domani  è un miscuglio letale di riffoni, power chord e testi piuttosto ingenui che rasentano l’adolescenziale. Tutto prevedibile, tutto sovraesposto.

Non ci sono spunti. La sensazione di  ascoltare la colonna sonora  di un qualche teen drama è costante e piuttosto deprimente (“Stupida canzone” su tutte). Musiche per feste americane in piscina, immagini a rallentatore e cose del genere.  Si spazia tra rimandi goffi all’epicità Springsteeniana (soprattutto “In Vendita”), War On Drugs, roba annacquata alla Offspring,  rabbia addolcita alla Gazebo Penguins.

C’è il peggio dei Ministri: “Come un animale, scritta con Lodo Guenzi, è brutta copia della canzone elenco “Noi Fuori”. “Lago ad alta quota”, invece, sembra scritta e cantata da Lorenzo Fragola che prova a sfondare a Sanremo giovani.

Retorica spicciola, descrizione del reale stucchevole, immagini vecchie. Non si nasconde nulla, è tutto lì spiattellato. «Hai presente quelle coppie tristi/Che non parlano mai ai ristoranti/Che si chiudono di fronte a Netflix/Per paura di affrontarsi?».

C’è poi “Fratello Mio” che pare qualcosa di decente, fino a quando ci si rende conto che è “Derek” dei Verdena data in pasto agli Ex Otago. C’è soprattutto il trash di “Rave”: il Dee do de de alla Freddie Mercury aliena, strania, fa pensare “davvero l’hanno fatto?” e, alla fine, fa solo tenerezza.  “È già domani ora” è emblematica: una bella strofa sorretta da un bel riff di basso vengono distrutti da un ritornello da stadio completamente fuori fuoco.

Un album raffazzonato, dove non c’è nulla che sorprende, se non il fatto che i FASK abbiano preso una deriva del genere: l’auspicio è che  rinsaviscano e capiscano che la strada da percorrere non è questa.

 

Copertina di Il libro delle case di Bajani

Abitare l’assenza, coltivare la presenza

Non sorprende che Il libro delle case (Feltrinelli, 2021) di Andrea Bajani sia entrato nella cinquina del Premio Strega. E se si hanno dubbi sulla scelta di questo tema così attuale – le mura delle proprie abitazioni –, è possibile sciogliere ogni riserva trovandosi davanti all’epifania che coglie Andrea Bajani in uno degli appartamenti romani occupati in solitudine nel pieno del confinamento pandemico. Quel giorno il pronome “Io”, pronunciato da un minuscolo vicino di casa invisibile anche se distante pochi centimetri, viene assunto come punto di vista maiuscolo per riportare in primo piano le vicende familiari ispirate alla vita dell’autore.

I racconti delle Case di Io ricevono tridimensionalità insieme agli oggetti e alle proporzioni che hanno caratterizzato gli spazi comuni e gli spazi privati che sono stati abitati, amati o detestati nel corso dei decenni. Possiamo dire che Io è stato perché ha avuto questi oggetti, perché ha abitato. E forse oggi Io è ancora capace di essere perché abita l’assenza che si è generata in quegli stessi luoghi.

Gli incastri affettivi che conseguono a questa capacità di Io di non coincidere con se stesso, compenetrandosi con tutto il resto, emergono nei brevi capitoli dedicati ad ogni esempio di Casa. Gli ambienti interiori sono capaci di proiettare le storie nel racconto parallelo di un’Italia composita, fatta di dialetti, miti e luoghi comuni. Con naturalezza, tra i bellissimi affreschi intermittenti delle Case vissute e di quelle solo immaginate, si precipita anche nella prigione di Aldo Moro e nell’Idroscalo di Ostia dove è stato ucciso Pasolini.

In quale casa è racchiuso il segreto definitivo del passato di una persona? Il personaggio ricorrente del libro è la tartaruga, compagna fidata di Io e simbolo universale della lentezza del vivere, che ci costringe nella stratificazione delle relazioni. Se il guscio della tartaruga è pesante e corazzato – «ciò che la protegge la condanna» –, la sua testa è capace di affacciarsi nella «pura esaltazione». Prendendo slancio dalla visione minuta di animali o di oggetti di poco conto, la capacità narrativa di Bajani può conquistare intere città e spiegare i misteri di Roma, Torino o Parigi. Tra grandi vedute decadenti, affacci da una finestra e distratti percorsi malinconici, da un senso di fallimento ci conduce ad apparizioni piene di senso.

In quei luoghi si parla per mezzo di echi sepolti sotto la neve della memoria. Alleggerita dai respiri a fior di pelle che caratterizzano la sua scrittura, la visione fitta e precisa di Bajani riesce a delineare ricordi caldi e raggelanti allo stesso tempo. Sono molte le persone che vengono dissotterrate e che litigano spesso, sfuggendo quasi alla mano dell’autore. In contrasto a questo chiasso, quello che caratterizza tutto il libro è il silenzio denso di Io, che assiste quasi inerme all’insensatezza di certi epiloghi. Sembrerebbe una disfatta e invece no. Gli assegni strappati, i quadri smontati, i camion riempiti di cose senza più significato: questi traumi del calcestruzzo e dell’anima sono soltanto opportunità che ci si danno verso una presenza ulteriore, a se stessi e agli altri. Non c’è molta differenza tra un ci vediamo questa sera e un addio, se si è abitata veramente la Casa coltivando «il pensiero glorioso, blasfemo, di essere felice e di essersi salvato».

Le Case di Bajani sono tante e a volte non sono come sembrano, ma alla fine nella testa del lettore costruiscono un palazzo accogliente, costruito su fondamenta che lentamente prendono una forma chiara, «perché la vita resta sempre, è solo la vita sottostante». Sappiamo di doverne uscire, all’ultima pagina, ma intanto abbiamo già cominciato ad esplorare il nostro edificio interiore, impolverato e a più piani. Ogni dettaglio di Il libro delle case ha la capacità di evocare, manifestare, restituire i ricordi all’Io di ognuno, che abita e sbaglia, alla ricerca di un amore soffocante e liberatorio.

 

(Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli, 2021, 256 pp., 17 euro, articolo di Martina Pietropaoli)

 

Copertina di La morte arriva in ascensore di Bosco

Un giallo di Buenos Aires

La Buenos Aires dei primi anni Cinquanta è un luogo indecifrabile, edificato su strati sempre più sfuggenti a seconda della profondità. Tra le sue strade si muovono individui dall’aria sinistra – che non sono quello che appaiono, o che dovrebbero essere. Siamo all’alba del colpo di stato contro Perón, l’Argentina è in bilico ma fa finta di non saperlo. Ecco allora che un palazzo normale, o meglio, borghese, borghesissimo di calle Santa Fe nasconde una serie di cuori oscuri, un confusionario agglomerato di bugie, segreti, rapporti illeciti. E se questo palazzo non è altro che un grande nascondiglio collettivo, non sorprende che dentro l’ascensore – che è un po’ il suo inconscio in movimento – si celi il cadavere di una donna. A trovarlo, di notte, è Pancho Soler, un latin lover di ritorno da una serata movimentata, che si spaventa, non crede ai suoi occhi; poco dopo arriva anche Adolfo Luchter, un medico tedesco dal carattere glaciale, e presto entra in scena tutto il caos di poliziotti, curiosi, sospettati. Gli abitanti del palazzo si svegliano: c’è un uomo malato, e poi un altro di origini bulgare e sua sorella, e ancora una ragazza emancipata e in parallelo una donna sottomessa. Soprattutto c’è la donna nell’ascensore – si chiama Frida Eidinger, si scoprirà –, che non viveva lì ma possedeva le chiavi. In questo microcosmo di ansia e sospetti, emerge chiara la borghesia argentina della capitale, in tutta la sua simulata rispettabilità.

Questa Buenos Aires tanto criptica è quella di La morte arriva in ascensore, romanzo del 1955 di María Angélica Bosco; si tratta della prima uscita della nuova collana di Rina edizioni curata da Luciano Funetta, Água Viva, dedicata alla riscoperta di autrici internazionali inedite o dimenticate in Italia. Parliamo in effetti di una tra le più significative scrittrici argentine del Novecento, la cui vita è una vicenda emblematica di difficoltà ed emancipazione. Come raccontato nella bella postfazione di Francesca Lazzarato, Bosco, dopo due raccolte di racconti giovanili, aveva abbandonato la carriera di scrittrice per il matrimonio e una tranquilla esistenza borghese – simile in apparenza a quella dei suoi protagonisti. Poi però arrivano l’amore per un altro uomo, lo scandalo e la separazione dai figli, la morte del marito, la povertà. Per andare avanti Bosco deve reinventarsi, o meglio, fare un passo indietro: tornare alla scrittura. È significativo che il suo romanzo d’esordio, La morte arriva in ascensore, sia proprio un giallo, genere che nell’Argentina dell’epoca era appannaggio degli scrittori uomini. La scrittura diviene così un guanto di sfida, oltre che un mezzo per emanciparsi, per raggiungere un’indipendenza che sembrava irrimediabilmente negata.

Il romanzo di Bosco si inscrive in una tradizione all’epoca già consolidata – il giallo argentino –, che nel tempo continuerà ad avere rilevanza: si pensi ad alcuni romanzi di Ricardo Piglia, che non a caso firma il prologo a questa edizione. Nel 1942, per esempio, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares avevano pubblicato Sei problemi per don Isidro Parodi, una raccolta di racconti gialli che testimoniava amore e insieme parodiava il genere dell’indagine a enigma, con un indimenticabile detective-carcerato-barbiere come protagonista. I due scrittori dirigevano anche la collana poliziesca di successo El Séptimo Círculo per l’editore Emecé. Dopo aver vinto un concorso indetto dalla casa editrice, La morte arriva in ascensore venne pubblicato proprio in questa collana. E il romanzo di Bosco un certo gusto per il mistero tipicamente borgesiano lo possiede, anche se di certo non lo si può ridurre a questo. Come non lo si può per simmetria ridurre a giallo a enigma classico, sul genere di Agatha Christie.

Alla scrittrice inglese, che pure Bosco diceva di non amare, il romanzo in realtà si richiama spesso: basti pensare alla struttura dell’omicidio in un luogo chiuso e circoscritto – in questo caso un intero palazzo – e al finale in cui il colpevole viene smascherato dall’investigatore durante un incontro chiarificatore con tutti i sospettati, in pieno stile Poirot. Come in Agatha Christie – ne è un esempio Dieci piccoli indiani – anche in La morte arriva in ascensore non ci sono, in fondo, innocenti; tutti hanno qualche colpa da espiare, perfino le vittime. Ma quello di Bosco non è un enigma intellettuale, fine a sé stesso, con detective e colpevoli geniali che si scontrano a furia di trovate e colpi di scena. Tutto è più rarefatto, vivo, squallido e al contempo toccante. Nei personaggi si rivelano motivazioni e topos dell’altra grande scuola giallistica, quella che potremmo definire simenoniana. La morte arriva in ascensore è in fondo un giallo esistenziale; la scrittrice, al pari di Simenon, prova empatia per i suoi uomini e le sue donne, soprattutto quando sono bugiardi e giustificati nelle proprie (turpi) azioni da spinte personali. I personaggi di Bosco possiedono uno spirito tormentato – o meglio, sconnesso, incoerente – che è forse lo stesso di Buenos Aires, dell’Argentina intera.

Spiccano in particolare le figure femminili, a volte assoggettate al dominio maschile, altre in preda a slanci di emancipazione, ma sempre molto reali, nitide soprattutto nelle loro miserie, nei loro piccoli sotterfugi. Il tema del segreto, del non detto, ritorna in continuazione, come ideale malefico e onnipresente di una società corrotta, e come minuscolo motore di ogni storia privata, non appena si concretizza nella più prosaica realtà. D’altronde sarà proprio un oggetto banale, di uso comune (che ovviamente non sveliamo), a sbrogliare la matassa del giallo, a mostrare la verità spogliata da ogni segreto, nella sua in fondo ordinaria, mediocre evidenza.

 

(María Angélica Bosco, La morte arriva in ascensore, trad. di Francesca Bianchi, Rina edizioni, 2021, 192 pp., euro 18, articolo di Claudio Bello)
Poster di Dune su Flanerí

Il primo sguardo su un nuovo universo

È finalmente arrivato al cinema Dune, l’attesissimo film di Denis Villeneuve che riporta sul grande schermo la saga fantascientifica ideata da Frank Herbert con il romanzo del 1965. Dopo la serie di rinvii causata dall’emergenza sanitaria è arrivato il momento di capire se il regista di Arrival Blade Runner 2049 è riuscito a rendere giustizia a una delle saghe letterarie più amate di tutti i tempi, che già aveva messo in difficoltà un grande regista come David Lynch.

In un futuro lontano, l’universo è organizzato secondo un sistema feudale retto da un imperatore che mentiene l’equilibrio tra diverse nobili casate in lotta tra di loro.  Il pianete desertico di Arrakis è un centro di particolare interesse collettiva per la produzione della Spezia, una sostanza con poteri allucinogeni utilizzata per tracciare le rotte stellari. Quando l’imperatore decide di togliere la sovrintendenza di Arrakis al brutale casato degli Harkonnen, il saggio duca Atreides riceve l’ordine di prendere il controllo della raccolta della Spezia. Insieme alla sua famiglia si trasferisce nel deserto senza immaginare i veri piani dell’Impero e il ruolo che suo figlio Paul avrà nel futuro dell’umanità.

Inutile fare un confronto diretto tra il Dune di Villeneuve e quello di David Lynch del 1984. I due registi hanno scelto un approccio completamente diverso al materiale letterario e c’è tutta la differenza che oltre 35 anni di evoluzione tecnologica degli effetti speciali possono portare nella realizzazione di un film di fantascienza. Sbagliato parlare di un remake, quindi, come fanno in molti, ma di una nuova trasposizione cinematografica dell’universo di Herbert.

Una nuova versione che conosce sul piano cinematografico il suo difetto più grande nelle ambizioni di Denis Villeneuve. Questo Dune è infatti solo la prima parte di un progetto molto più ampio che include seguiti, serie tv, spin off, approfondimenti e tutto il necessario per trasferire le migliaia di pagine del ciclo di Dune sullo schermo.

In questo primo film, il regista canadese si prende tutto il tempo che gli serve per costruire il suo Dune. Fedele alla sua idea di fantascienza riflessiva già sperimentata in Arrival Blade Runner, Villeneuve lavora con lentezza per creare un immaginario e lasciare intravedere i prossimi sviluppi.

Con un cast ampio e variegato guidato da Timothée Chalamet nell’ennesima declinazione del suo eterno ruolo di adolescente tenebroso e completato da Oscar Isaac, Josh Brolin, Rebecca Ferguson, Dave Bautista, Jason Momoa, Zendaya, Javier Bardem e Stellan Skarsgård, il nuovo Dune si impone per la grandezza dei personaggi e la maestosità della messa in scena.

Non c’è un momento che non sia di impatto, dai silenzi spaziali alle nuvole di Spezia su Arrakis, dai combattimenti alle visione del giovane Paul. Uno sforzo grandioso che, però, non porta da nessuna parte.

Questo Dune è in sostanza l’episodio pilota di una serie tv che potremmo non vedere mai. I fatti del primo film sono poco più che un’introduzione a quello che succederà in seguito.

Il cinema è cambiato nell’ultimo decennio, e la pandemia sembra aver accelerato un’evoluzione che punta sempre più lontano dal grande schermo per prediligere lo streaming domesticoDune, con i suoi ritardi di distribuzione nell’attesa di un possibile ritorno alla normalità, sembra destinato più di altri titoli a fare da definitivo spartiacque tra un’idea di film del prima e quella del dopo.

La Warner Bros ha dato fiducia e soprattutto fondi a Denis Villeneuve nonostante i risultati non esaltanti sotto il profilo commerciale di Blade Runner 2049. Prima di avviare il progetto del seguito, però, vuole attendere i risultati al botteghino del primo Dune. Risultati che inevitabilmente non potranno essere all’altezza di un mondo normale, con capienza delle sale ridotta e l’uscita negli Stati Uniti che avverrà in contemporanea con la pubblicazione in streaming su HBO Max.

Potremmo non vedere mai gli sviluppi di questo progetto visionario e totale, quindi, e del Dune di Villeneuve rimarrebbe solo questo primo episodio, splendido e incompleto.

(Dune, di Denis Villeneuve, 2021, fantascienza, 155’)

Copertina di L'era della suscettibilità di Guia Soncini

Aspetta primavera, Soncini

L’era della suscettibilità, da poco edito da Marsilio, è un titolo di cui l’autrice Guia Soncini è anche complemento di specificazione, riferito ovviamente al sostantivo suscettibilità. Per spiegarci che razza di mondo fragile e malmostoso stia diventando il nostro, pieno di parolacce inglesi come victim blaiming, trigger warning o safe space, Soncini parte infatti dalla sua esperienza – raccontata, in verità, in maniera piuttosto divertente – di vittima suscettibile della suscettibilità altrui.

Guia Soncini è una giornalista – di costume, si sarebbe detto un tempo, ma non so se si dica ancora – che per lavoro si occupa di opinioni, le sue e quelle degli altri, e un’incallita frequentatrice di quel gorgo inospitale e talvolta avvilente che sono diventati i social network.

È una che ama provocarle, le classiche tempeste nel bicchier d’acqua, magari con una battuta sarcastica su Twitter che sarà attaccata ancora prima che qualcuno si faccia una domanda su cosa davvero intenda. Perché più di tutto a Soncini – esattamente come a quelli che vestono il proprio neonato di rosa e aspettano al varco chiunque dia per scontato che sia una bambina, aneddoto fra i molti riportati inel libro – piace «rompere i coglioni». «Siamo dispettosi, prima ancora che suscettibili. Ci piace mettere piccole trappole, e vedere (non troppo di nascosto) l’effetto che fa.»

La sua tesi di fondo, verificata sul campo, è che sempre più persone, sui social ma anche fuori, abbiano un po’ perso il senso della realtà (oltre che dell’umorismo), e che questo si riverberi in maniera molto negativa sulla società intera. Una tesi banale? Niente affatto, data la frequenza con cui ci tocca assistere, esterrefatti, ai litigi sotto banalissimi post Facebook fomentati da amici che ritenevamo, almeno finché non li abbiamo aggiunti sui social, persone intelligenti o quantomeno spiritose.

Ma siamo sicuri che il dissenso, la contestazione, l’aumentata e in certi casi sicuramente esasperata sensibilità su alcune tematiche costituiscano una cancel culture?

L’aspetto che trovo più debole di questo libro (sì, è un modo carino per dire che lo trovo molto debole come saggio, anche se molto divertente e brillante come docu-fiction dei tempi che corrono) è che questa domanda non venga mai posta, che si mescolino ambiti differenti e che si parli di «morte del contesto», di «feticismo della fragilità», e di preponderante «epistemologia identitaria», come «alcuni tra i fenomeni più evidenti e dirompenti degli ultimi anni, con effetti pericolosi e grotteschi che in altri secoli erano occasionale damnatio memoriae e ora sono quotidiana cancel culture».

Mi chiedo, infatti: siamo sicuri che quello che l’autrice definisce nell’introduzione «quotidiana cancel culture» non sia un modo un po’ paraculo per etichettare quel filone giornalistico – anch’esso, se vogliamo,  lamentoso-vittimistico – del “non si può più dire niente, signora mia”?

Insomma, siamo sicuri che una Valeria Parrella che, intervistata per lo Strega 2020, ridacchia giustamente all’annuncio che «dopo di lei ci sarà Augias per parlare di cos’è cambiato nella letteratura col #MeToo» e la carriera bruciata di Kevin Spacey accusato di molestie possano davvero stare insieme nello stesso discorso, e apparentemente sullo stesso piano?

Perché quello della cancel culture, specialmente in America, «gli Stati Uniti della Suscettibilità», è un problema molto serio, come raccontava molto bene già agli inizi degli anni Novanta Robert Hughes nel suo La cultura del piagnisteo(in Italia pubblicato da Adelphi). Mentre invece non mi sembra poi un bavaglio così pericoloso alla libertà d’opinione, nè il prodromo ad alcun tipo di sindrome maccartista, che in Italia qualcuno abbia iniziato a far notare ai personaggi pubblici che certe uscite si possono evitare, e che no, scrivere una cosa sulle pagine social non è esattamente come dirla al bar.

Al contrario, mi fa pensare che il dibattito pubblico sia tutto sommato in salute, visto che si pone delle domande, senza che però – lo dico con sollievo – alcun virologo di fama abbia perso il posto di lavoro per l’uscita sulle «donne bruttine che potrebbero curarsi un po’ di più», che alcun direttore di quotidiano sia stato licenziato per esternazioni poco edificanti sugli immigrati, o persino che qualche leader politico sia stato costretto a sparire dalla circolazione per essersi lasciato andare a constatazioni poco eleganti sull’avvenenza di qualche signora.

Che poi la smania di apparire buoni e giusti sui social ci porti a eccessi grotteschi o che basti un cancelletto “bodypositive” per titillare la nostra volontà di identificazione o compiacere il nostro vittimismo (“Siete grasse? Siete bellissime, ma compratevi la nostra crema, anche da grasse dovrete pur idratarvi. Avete l’acne? Siete bellissime, ma compratevi il nostro shampoo, anche con ripugnanti facce brufolose dovrete pur lavarvi i capelli”), semmai ha a che fare con quello che Irene Graziosi, in un articolo illuminante, chiama «attivismo performativo». Qua il dibattito delle opinioni c’entra ben poco, e c’entra invece moltissimo la capacità delle grandi aziende di capire le nicchie di mercato aperte dai nuovi fenomeni culturali e fare quello che sanno fare meglio: sfruttarle per farci dei soldi. A spese dei poveri polli, ovviamente.

Parlando di polli e fagiane, e per capire meglio quello che intendo, consiglio il superbo reportage di Michele Masneri per il Foglio sullo scontro fra un improvvido giornalista boomer (proprio lui) e una nota imprenditrice e influencer, una di quelle che, come racconta Soncini, sa benissimo che il flame, il litigio, fa guadagnare follower (e quindi, ancora, soldi).

Premesso dunque («la premessite è un’arte: se la conosci non ti uccide» afferma Soncini) che non condivido l’uso un po’ generico del termine cancel culture, che in Italia è molto spesso il rifugio di coloro che nel discorso pubblico vorrebbero continuare indisturbati a usare espressioni offensive senza essere tacciati nel migliore dei casi di maleducazione e nel peggiore di discriminazione, secondo me L’era della suscettibilità fotografa efficacemente che tipo di dibattito si sia innescato oggi su questo tema, limiti compresi. Un buon documento di questi tempi confusi e poco maneggevoli e un omaggio, soncinesco, alla Prevalenza del cretino di Fruttero & Lucentini che, come già il suo modello, fa ridere, ma mica troppo.

In questa guerra senza quartiere fra opposti estremismi, infatti, l’unica categoria per la quale rattristarsi davvero è quella degli unhappy few che, potendo disporre di un senso dell’umorismo degno di tale nome, sono costretti a subire la debordante iperattività dei censori della domenica, dei «cancelletti indignati», che non capendo una battuta sulla luna vanno a pignolare sul dito.

Un’esigua e sparuta categoria che si ritrova di quando in quando a chiedersi, avvilita, se siano pazzi, a non cancellarsi immediatamente da ogni tipo di social network.  E poi però – parafrasando Woody Allen – a loro le uova chi gliele fa?

 

(Guia Soncini, L’era della suscettibilità, Marsilio, 2021, pp. 192, euro 17, Articolo di Giulia Marziali)

La singolarità di Lorenzo Kruger

Lorenzo Kruger fa uscire un album solista, “Singolarità”. Era da un po’ che se ne parlava, ma forse non eravamo ancora pronti a un salto  indietro nel tempo del genere. La cosa risveglia sensazioni, e non potrebbe essere diversamente, in chi ha vissuto certi anni tra fine anni ’10 e inizio anni ’10: la partecipazione all’ultimo momento di un certo modo di intendere la musica che da lì in poi sarebbe cambiata per sempre.

Oltre all’effetto nostalgia che possono portarsi appresso, i Nobraino sono stati la rappresentazione di qualcosa in un determinato periodo per un certo tipo di ascoltatore.  L’indie, come atteggiamento e come produzione (no major), aveva ancora motivo di esistere e di essere nominato.

Considerazioni cronologiche: 2010 No Usa! No Uk!. 2011 Il sorprendete album d’esordio dei Cani.  Nel 2012 Best Of.   In questa porzione di tempo i Nobraino sono i Nobraino: il culmine è Lorenzo Kruger che si rasa sul palco del primo maggio a Roma del 2012. Sembrano lanciatissimi, ma le cose stanno cambiando.

C’è quel Contessa lì in mezzo. C’è Il sorprendente album d’esordio dei Cani. Contessa ritorna sempre, per forza di cose, quando si vuole parlare di come sia cambiata la musica indie in italia.  Apripista involontario del pop da cameretta che si fa pop da stadio (Calcutta, The Giornalisti): l’indie moriva, nasceva l’itpop che veniva confuso con l’indie, i Nobraino venivano dimenticati.  I Nobraino erano il passato nel loro momento di maggior successo.

Non sono gli unici ad aver vissuto un’esperienza simile.  Ai Managment del dolore post operatorio, che erano i nuovi Nobraino (l’ostia-preservativo al concerto del primo maggio 2013, ricordate?), dopo Auff!!, succede qualcosa di simile: dimenticati senza grossi strascichi.

Due gruppi che sembrava dovessero dominare una nicchia del mercato, mangiati e sputati dall’indie che si fa mainstream. Senza che ce ne rendessimo conto. Finiti, almeno artisticamente.

Quindi passano gli anni, il 2021 arriva ed esce un album di Lorenzo Kruger. Cos’è successo a uno degli ultimi indie? Dopo che anche l’it pop è, di fatto, morto? 

Le sensazioni generali che trasmette Singolarità sono positive. Non siamo di fronte alla cosa migliore che ci saremmo potuti aspettare da un cantautore del genere. È il minimo sindacale. Ci sono pezzi completamente trascurabili come “Libro aperto“.  Ma non era scontato un album del genere. Perché gli ultimi anni dei Nobraino sono stati uno stillicidio. E perché i tentativi di riciclarsi e darsi una nuova identità artistica possono partorire mostri.

Non era scontato, quindi, che Kruger riuscisse a trovare equilibrio tra ciò che è stato e una nuova grammatica con cui ha dovuto ridisegnare la propria poetica. Ma soprattutto non è evidente una  contaminazione di ciò che rimane dell’it pop (a parte il cantare-gridando alla calcutta «non credo in dio ma credo in qualche cosa» ne “Il Calabrone“), non c’è il nauseabondo appiccicarsi a un modo di fare per sopravvivere al mercato. Il lavoro segue una propria strada, influenzata da ciò che si muove attorno nella misura appropriata.

Singolarità è un album di canzoni pop d’autore che rientra nell’immaginario del suo personaggio. Non ci sono particolari intuizioni musicali. Si accontenta, e può funzionare, di creare una base senza ghirigori su cui fa girare i testi e la voce  (a parte la coda di “Giro del Sole“, con la batteria che si prende la scena). La scrittura però non è sempre all’altezza di certe aspettative che Kruger, vuoi o non vuoi, oramai si porta appresso.

C’è una  certa retorica che  caratterizzava i Nobraino; ci sono i giochi di parole (Con me Low-Fi, uomo dell’ansiolitico); una compostezza alla Bianconi piuttosto evidente.  Lo spleen doveva esserci e c’è ancora oggi, ma riesce a non strabordare nella macchietta, riuscendo a regalare un album piacevole e malinconico.

Singolarità è buono, ma Kruger può dare di più.

Copertina di Promesse di Washington

Memoriale d’amore universale

Negli ultimi anni è diventata sempre più frequente la pubblicazione di romanzi che riguardano comunità di minoranze, caratterizzati da un respiro universale. Ne sono esempi Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart, vincitore del Booker Prize nel 2020, Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong e Una vita vera di Brandon Taylor.

Non è da meno Promesse (NNEditore, 2021), primo romanzo dell’afroamericano Bryan Washington tradotto da Emanuele Giammarco, editore di Racconti Edizioni, che l’anno scorso ha pubblicato Lot, raccolta dell’autore originario del Kentucky e fra i libri dell’anno del 2019 dell’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Ambientato fra gli Stati Uniti e il Giappone, di preciso fra Houston e Osaka, il romanzo di Washington ha per protagonisti una coppia di ragazzi omosessuali: Benson, afroamericano e insegnante d’asilo, e Michael, asiatico-americano e cuoco di professione. Il rapporto fra i due è costituito da alti e bassi, ma viene messo in discussione nel momento in cui Mike dovrà lasciare gli Stati Uniti per andare in Giappone dal padre Eiju, malato di cancro al pancreas. La partenza del ragazzo sarà l’occasione per la coppia di riconsiderare il proprio amore, ma soprattutto per venire a patti con sé stessi, col passato e con le rispettive famiglie.

A una prima lettura, Promesse sembra raccontare una storia molto personale. Alcuni elementi del personaggio di Benson sono infatti autobiografici: così come l’autore, anche Ben è afroamericano e omosessuale, e ha vissuto in Texas, fra Katy e Houston. In realtà però, come annunciato dalla citazione in esergo di Bye bye vitamine! di Rachel Khong – «Tutti, penso, parlano sempre e comunque della stessa merda» –, Bryan Washington pone riflessioni che vanno oltre l’aspetto individuale. Questo è evidente soprattutto in considerazione della prospettiva adottata dall’autore. Il romanzo è narrato in prima persona ed è suddiviso in tre capitoli che alternano il punto di vista di Ben con quello di Mike, a riprova dell’idea che la situazione vissuta dal primo è condivisa da più persone.

I due protagonisti sono coinvolti in dinamiche in cui tutti si possono riconoscere. Entrambi provengono da famiglie disfunzionali – con padri alle prese con problemi d’alcol e la paura delle responsabilità familiari – e vivono come estranei la realtà che li circonda. Mike affermerà infatti che fra lui e gli avventori del bar di suo padre Eiju «c’era un grado di separazione, una sorta di muro che spuntava dal nulla, perché ero uno di loro, anche se no, non lo ero, e non lo sarei mai stato, ed era così che andavano le cose», mentre Ben rinfaccerà ai suoi genitori – che «fanno finta che non sia gay. Per loro è più semplice di quello che sembra» – di esser stato abbandonato da tutti loro appena saputo della sua sieropositività.

Mike e Ben però si troveranno a confrontarsi con i concetti universali di perdono e di cambiamento. Entrambi dovranno riconsiderare il loro legame con i genitori, specie con i loro padri, con i quali hanno avuto un rapporto burrascoso, ma che nel corso della storia riusciranno a ricostituire. «Solo perché qualcosa non funziona», sostiene Mike, «non significa che sia rotto. Devi avere voglia di aggiustarlo. Ci deve essere la volontà». Riallacciando i contatti con i propri genitori, i protagonisti impareranno a perdonarli, poiché «amare una persona significa lasciare che cambi quando ne ha bisogno. E lasciare che se ne vada quando ne ha bisogno. […] Ma questo non sminuisce l’amore che provi. Semplicemente cambia forma». Mike e Ben comprendono che, per continuare ad amare le proprie famiglie, i loro padri hanno dovuto accettare la necessità del cambiamento e lasciare andare un amore giunto alla fine in modo tale da ridefinire i loro legami familiari.

L’amore è dunque destinato a cambiare come ogni esperienza umana, ma resta nei ricordi di chi lo vive. Osservando una foto di lui e il padre in California, Mike realizza che «ci portiamo i nostri ricordi ovunque andiamo, e tutto ciò che resta sono quelli che rimangono nei paraggi, ed è così che ci facciamo una vita». In questo senso è da intendersi il titolo originale del romanzo, Memorial: il memoriale non solo come monumento commemorativo fisico – quello di Studemont, al centro di una delle scene finali del romanzo –, ma anche, in senso metaforico, come collezione dei ricordi di un amore che continuerà a esserci anche nella lontananza e nella difficoltà. Le fotografie, gli appunti di Eiju, i messaggi del cellulare e i ricordi del passato di Mike e Ben sono la testimonianza di un amore che continuerà a vivere cambiando forma come condizione per rinnovarsi.

Oltre che un romanzo, si può definire Promesse un memoriale d’amore universale. Un monumento all’amore in tutte le sue forme, che si manifesta in ogni gesto e silenzio, che sa perdonare, si rinnova nei ricordi e resiste nonostante le difficoltà, le distanze e il cambiamento. Bryan Washington, che con questo romanzo si conferma promessa della nuova letteratura statunitense, ha saputo raccontare l’amore con grande delicatezza dando voce all’animo umano con tutti i suoi silenzi e non detti.

 

(Bryan Washington, Promesse, trad. di Emanuele Giammarco, NNEditore, 2021, 352 pp., euro 19, articolo di Alberto Paolo Palumbo)