“Odessa Star” di Herman Koch

Come molti lettori sanno, in un romanzo fortunatissimo, La cena, lo scrittore e giornalista olandese Herman Koch si era divertito (e il lettore con lui) a cavare perfidamente le unghie nella pasticciata carne psichica del borghese occidentale colto e annoiato e senza fiducia in alcunché propri eccentrici spassi a parte. Ora (ma in realtà il libro era stata scritta nel 2003, ben prima de La cena) Neri Pozza traduce con il titolo Odessa Star la sardonica storia di un uomo alle prese con un consuntivo della propria vita fallimentare – senza baloccarsi però in riflessioni noiose e penitenziali ma allestendo nei suoi momenti migliori una serie di quadri emblematici quanto divertenti della propria catastrofe.

Fred M., la voce narrante del romanzo, racconta la propria vita con brio sinistro e humour tarantiniano (Le Iene sono onnipresenti, ma in generale lo è l’immaginario cinematografico che catalizza le fantasie del protagonista – esso sembra fornirgli non solo un campionario di soluzioni estetiche alle proprie impasse ma persino un qualche perverso codice etico). Un registro medio-basso intrude la prosa di vicende corporali e scatologiche, lezzi di umani e bestie molto presenti, e già dall’incipit il libro sembra promettere pura azione procedendo  per scene compatte che nei primi capitoli valgono come piccoli racconti in sé. Il narratore sciorina episodi grotteschi non di rado spassosi che testimoniano la sua inettitudine.

Via via la storia si ingarbuglia e c’è un motivo. Fred non ne può più dell’indifferenza un po’ malevola che gli riservano moglie e figlio: ai loro occhi è un fallito. E nemmeno degli strambi amici che lo circondano (presentatori televisivi, sedicenti fotografi, sfaticati dichiarati, tutti decisi e risoluti solo se si tratta di lamentarsi delle loro colf). Da un certo momento in avanti, a parte qualche soverchia insistenza metaforica, il rallentamento è dovuto al fatto che Fred non riesce a decifrare con certezza quello che gli succede. È entrato in scena Max, vecchio amico di scuola, ritrovato nel frattempo nei panni di un gangster molto cool. Fred ce lo ha già presentato all’inizio in un paio di prodigiosi flashback, ma ora si è messo mette in testa che Max possa dare una svolta alla sua vita. Di più, Fred è preda di una vera invasata attrazione per l’amico che gli compare in compagnia di una specie di guardia del corpo e belle donne. Gli pare che porti una luce seducente nel clima uggioso di Amsterdam che contribuisce a immalinconirlo. Eppure Fred (e con lui il lettore) impiega un bel po’ per capire che razza di scherzo Max gli stia preparato. Cominciano a succedere strane cose intorno a lui, come se qualcuno gli leggesse dentro e realizzasse i suoi desideri più riposti e macabri – compreso far sparire una vicina di casa sopportata a fatica.

Sa che di Max ha bisogno, che deve a ogni costo tentare il riscatto che lo riabiliti agli occhi stanchi della moglie e a quelli annoiati del figlio. Si tratta di avere il successo con cui tutti misurano il “valore” di tutti. Di acquistare la macchina migliore del mondo e una casa decente. La storia di Odessa Star è proprio il prezzo che Fred dovrà pagare per averle.

(Herman Koch, Odessa Star, trad. di Giorgio Testa, Neri Pozza, 2014, pp. 320, euro 17) 

“McMao” di Management del Dolore Post-Operatorio

A un paio d’anni dalla bomba Auff!, e a quasi un anno dall’eccentrica esibizione al concerto del Primo maggio che portò l’attenzione mediatica che meritavano, i Management del Dolore Post-Operatorio (MaDe DoPo, per abbreviare) tornano con la loro seconda uscita discografica.

Già dalla copertina si legge la possibile chiave di lettura dell’intera opera: vi è raffigurato Mao Tse-Tung ritratto come il pagliaccio del McDonald’s, dall’artista e provocatore Giuseppe Veneziano. Di qui il titolo dell’album, McMao, dal quale parte il paradosso che si snoda in tutto l’album.

Paradosso è l’opera stessa, il raffronto tra l’arte e il consumismo, paradosso come l’evoluzione musicale dei MaDe DoPo. All’ascolto pare che il quartetto abruzzese si sia mosso in avanti per poi adagiarsi. Il nuovo apporto strumentale elettronico è utilizzato alla grande, crea atmosfera, alienazione, riempie; il rodato songwriting funziona, gira, si sente chiaramente l’impronta dei MaDe DoPo e insieme la ricerca di freschezza, tenendo sempre d’occhio il loro rock energico e elettronico degli esordi.

Però a McMao manca qualcosa. Manca quella tensione primigenia di Auff!, quella forza punk nell’attitudine, non nel suono. Poi manca il pezzone. Non c’è un brano che ascolterei a ripetizione (parliamo pur sempre di un oggetto fatto per il consumo), per quanto vi sono dei buoni pezzi. Il singolo “La pasticca blu”, ponte di congiunzione con l’album precedente, mostra la virata synth pop mentre parla dell’alienazione e delle non-relazioni dei nostri tempi. L’altro singolo, “James Douglas Morrison”, è un po’ deludente nel tema: l’uso e abuso della figura del cantautore è inflazionato quanto la stessa accusa sull’uso e abuso, nonostante dentro ci siano i miei versi preferiti del disco: «La bellezza dei nostri sbagli / si scontra con la necessità dei loro portafogli».

Per tornare al paradosso dell’arte bisogna andare qualche pezzo indietro, nel dittico “Coccodè” – “Oggi chi sono”, due pezzi che riguardano la prostituzione e l’etichettamento: il coccodè della gallina è l’antitesi di ogni canto d’uccello poetico, eppure si viene pagati per farlo, e allo stesso tempo il «gioco pazzo […] ci entri solo se hai un prezzo» del secondo pare un’allusione al mondo dello spettacolo. Sull’arte torna “Il cantico delle fotografie” che utilizza la forma artistica forse più sdoganata negli ultimi anni, la fotografia, che ha perso di conseguenza il suo valore, come metafora dell’arte tutta, perché non è facile: «E se scattassi una foto / la mia paura sarebbe questa qua: / immortalare un momento sbagliato di eternità».

Appunto, non è facile: lo zeitgeist non è facilmente inquadrabile, soprattutto se si cerca una formula fissa. Già l’idea di proseguire con questa ricerca è ragguardevole e il punto di vista dei MaDe DoPo è peculiare. In più i quattro abruzzesi lo perseguono senza alcuna presunzione, sapendo benissimo di dover cercare ancora esplorando e suonando. Non sarà tra i dischi dell’anno del 2014, ma McMao è una tappa importante nell’evoluzione del suono e della personalità dei MaDe DoPo, alla ricerca della cristallizzazione su disco dei nostri tempi. D’altronde, l’arte è anche tentativo.


(Management del Dolore Post-Operatorio, McMao,MArte Label/ColorSound indie, 2014)

 

“L’amorosa figura” di Roberto Piumini

Pregevole, finissimo lavoro, questo L’amorosa figura (Skira, 2013), di Roberto Piumini: nella misura calibratissima e felice di un racconto cui non si potrebbe togliere una sola virgola, breve per quanto scandito in quattordici non capitoli, ma sequenze di sapiente sveltezza, la vicenda s’ingegna di ricreare, nello spazio della parola – e anzi, con più vittoriosa scommessa, proprio nel cuore della sua negazione, in un silenzio imposto per regola monastica – le ragioni, annidate nel profondo della carne e della mente, di un lacerto bruto di realtà dell’anno del Signore 1456: la fuga, dal convento di Santa Margherita a Prato in cui era stata più o meno forzata a monacarsi dal fratello, uomo di prepotenza e di ricchezza, della giovane Lucrezia Buti. Giovane, Lucrezia, di tale eletta bellezza, da essere stata scelta perché sulle sue venissero ricalcate le sembianze della Vergine Maria in un quadro del pittore Filippo Lippi; facile per altro, il Lippi, benché a sua volta monaco dell’ordine carmelitano, a cadere più che in tentazione per volti e corpi di femminile avvenenza. E di Filippo Lippi infatti la Buti divenne, dopo la fuga dal monastero, moglie con tutti i crismi, e coniugalmente gli diede il figlio Filippino, pittore poi di suo, di eccellenza, secondo alcuni, superiore a quella paterna.

Ma non sono questi prosaici sviluppi d’anagrafe a ingolosire la penna elegantissima di Piumini: l’ordinaria amministrazione matrimoniale non entra a far parte delle brevi, gaudiose pagine del racconto, che si limita invece a mettere in scena – dopo avervi fatto comparire il Lippi, e in atteggiamenti che ne tradiscono tutta l’umana debolezza per lo specialissimo modo in cui unicamente alla donna, fra le infinite creature del Signore, è concesso d’incarnare la Bellezza – dapprima il casuale incontro sotto una tettoia, per ripararsi durante un tremendo temporale, del pittore e di un suo meno dotato monaco e collega, con tre suore di Santa Margherita, una delle quali è, appunto, prima ancora che Lippi ne conosca il nome, la Buti. Ottenuto poi dal pittore il permesso dalla madre badessa del convento che la suora posi per lui (e sia pure, come si diceva sopra, non potendo, per divieto monastico, né questi rivolgerle parola, né lei a lui, in alcun modo, o perfino far cadere lo sguardo sul quadro che dalle sue sembianze sta nascendo), il racconto si sposta al muoversi degli occhi, dei pensieri nella mente stessa della giovane, e nulla più sappiamo, noi lettori, di quanto sta avvenendo in quella dell’incapricciato pittore: lo capiamo però, godibilissimamente, da tutto ciò che egli fa, o dice.

Da come aggira il voto parlando – il che non gli è minimamente vietato – alla più anziana e inamena suor Caterina che assiste a tutte le sedute di prova, o poi, sfruttando il fatto che la ragazza ha pratica di latino in quanto amanuense di austeri tomi di patristica, nell’imbastire un sapido, blasfemo alternarsi di sedicenti «litanie di San Macario» che altro non sono se non lodi della bellezza di lei, e, di lei, risposte; e infine (suprema furbizia, da riscuotere il plauso professionale del miglior Boccaccio), nel lasciare con un pretesto la ragazza sola nella stanza, in modo che essa finisca per dare sfogo alla femminilissima debolezza di vedere il proprio viso, come ormai da tre anni le è inibito dalla regola. E sarà la spinta decisiva al crollare dell’ultimo baluardo: poche ore dopo, la ragazza, e proprio «al mezzo di una pietosa obbedienza», scappa dal monastero, verso il luogo in cui la raggiungerà l’uomo che – chiude arguto il racconto, Piumini – ascolta la notizia della fuga «attento a fare quello che quasi come l’amore amava: la pittura».

E con la cristallina pittura di un quattrocentista (il Lippi padre o il figlio, il Botticelli, il Bellini, il Carpaccio: si scelga, qui, a proprio gusto) lo stile di Piumini rivaleggia più che alla pari, non solo per la freschezza dei colori, il dinamismo nitido del disegno, ma per la sbrigliata, efficacissima inventività del lessico, saporoso di impasti antichi e insieme brillante di attualissime vibrazioni, che fanno calare, su queste non molte decine di pagine, il segno benedetto della perfezione.

(Roberto Piumini, L’amorosa figura, Skira, 2013, pp. 80, euro 12)

“Ti ricordi di me?” di Rolando Ravello

Roberto e Beatrice si incontrano per la prima volta sotto il portone della loro psicoterapeuta. Lui è un cleptomane insicuro che non riesce a tenersi un lavoro o a costruirsi una relazione perché finisce sempre per rubare, lei soffre di narcolessia nervosa che può portare anche a perdite di memoria in caso di forte stress emotivo. Sono molto diversi, disordinato e approssimativo Roberto, rigida al limite del formalismo Beatrice, metodica e precisa da segnarsi tutto ciò che le succede in una grande agenda che porta sempre con sé riempiendola con foto e appunti. La diversità, iniziale ostacolo per Beatrice, si trasforma dopo la serrata corte di Roberto in attrazione. Sarà un’amnesia ad allontanarli, ma Roberto troverà il modo di riconquistarla.

All’origine di Ti ricordi di me?, seconda regia di Rolando Ravello, attore che esordì nel 1995 con Scola e Sordi in Romanzo di un giovane povero e che è passato dietro la macchina da presa lo scorso anno con Tutti contro tutti, c’è uno spettacolo teatrale scritto da Massimiliano Bruno e interpretato dagli stessi Edoardo Leo e Ambra Angiolini del grande schermo. Nel trasferirlo al cinema il testo è stato adattato da Paolo Genovese e Edoardo Falcone con il contributo di Leo. Ravello, a differenza dell’opera prima, si limita a dirigere, quindi, senza scrivere, senza interpretare. Se la cava.

Nella migliore delle tradizioni degli attori/registi il suo pregio principale è nel saper dirigere gli interpreti, tirare fuori il meglio dai dialoghi e dal ritmo senza esagerare in pretese autoriali.

Guardando, tra gli altri, a 50 volte il primo bacio con Adam Sandler e Drew Barrymore, Ti ricordi di me? trova la sua forza nella semplicità. Individuato lo spunto iniziale – l’attrazione tra due diversi con l’aggravante della turba psichica – il film si sviluppa pacifico verso un (probabile) lieto fine. Si può pensare che ci sia un messaggio, che il cuore ha una sua memoria che la memoria non conosce (e c’era già stato nel 2012 La memoria del cuore, appunto, con Channing Tatum e Rachel McAdams a ricordarlo), e lo si può accettare. Si può accettare anche l’impennata drammatica dell’ultima parte e il falso finale di pura gioia che l’anticipa. Si può accettare l’inutile computer grafica che scandisce lo scorrere delle stagioni lontani, e anche l’improbabilità dell’irreperibilità nell’epoca della comunicazione cellulare. Perché Ti ricordi di me? ha una prima ora che funziona, e molto, giocando sulle manie dei due protagonisti, caratterizzati nell’abbigliamento e nei caratteri per evidenziare la loro estraneità dal mondo e la loro differenza, il loro essere a parte, strampalati come le favole “realistiche” che Roberto scrive per abituare i bambini alle difficoltà della vita (bastano i titoli: Alice nel paese dei terremotati, o La foresta dei barboni assiderati).

Sono due disastri ambulanti che si incontrano nelle loro fissazioni (attraversare la strada calpestando solo le strisce pedonali, il tratto più forte che li avvicina e li innamora, ogni volta) e riescono insieme a correggersi, migliorarsi, vincere la dipendenza dal rifugio sicuro del vizio consolatorio del furto o dell’immersione nel libro della memoria. Intorno a loro il mondo è piccolo, solo gli amici Valeria e Francesco (Paolo Calabresi, l’unico di contorno a lasciare un segno) di Roberto e un ex amore fedifrago (Ennio Fantastichini, praticamente invisibile) per Beatrice.

L’impianto teatrale del soggetto rimane proprio nell’assenza di coralità e di personaggi secondari realmente incisivi. A prevalere sugli spazi, interni o esterni cambia poco, è il dialogo.

Edoardo Leo è al terzo film da protagonista (dopo Smetto quando voglio e La mossa del pinguino), il secondo da co-sceneggiatore (sempre La mossa del pinguino), dall’inizio del 2014. Era anche nell’affollatissimo Tutta colpa di Freud. Sarà poi la volta di Pane e burlesque di Manuela Tempesta, di nuovo protagonista e sceneggiatore, ancora in attesa di una data d’uscita, e del ritorno dietro la macchina da presa, dopo Buongiorno papà e l’esordio di 18 anni dopo, per trasformare il romanzo Giulia 1300 e altri miracoli di Fabio Bartolomei in un film. Fa sempre la parte di quello un po’ scemo e sfigato. Ma la fa bene.

 

(Ti ricordi di me?, di Rolando Ravello, 2014, commedia, 91’)

 

[LostInTranslation] “Brief Interviews with Hideous Men” di John Krasinski

Brief Interviews with Hideous Men (2009), è l’unica regia dell’attore della serie The Office John Krasinski, nonché l’unico film (finora) tratto dall’opera di David Foster Wallace, la raccolta di racconti del 1999 Brevi interviste con uomini schifosi.

Sara Quinn (Julianne Nicholson) è una studentessa di antropologia uscita da una lunga storia d’amore senza che il fidanzato (lo stesso John Krasinski) le abbia dato particolari giustificazioni. Decide quindi di provare a darsi una spiegazione cercando di capire cosa pensano gli uomini, cosa muove le loro scelte, e decide così di intervistarne un po’ per un proprio studio.

Nel tentativo di costruire una trama comprensibile lungo la quale poter far emergere in qualche modo lo sperimentalismo di Wallace, John Krasinski, anche autore della sceneggiatura, pensa alla storia di una giovane donna in crisi post separazione, che non si fida più di nessuno e che perversamente raduna un gruppo di uomini più o meno schifosi facendone delle cavie, deformando il tutto a un semplicistico “cosa vogliono le donne/cosa sono le donne”, sfruttando un certo qualunquismo da comico generalista – i due ragazzi che commentano cosa sta accadendo con del sarcasmo un po’ patinato – inventando la protagonista stessa: nel racconto abbiamo solo una D, nel film una ragazza con un passato, delle ambizioni, delle emozioni. Stravolgendo l’idea di Wallace, capovolgendola, ma senza le dovute precauzioni, Krasinski si chiude da solo in un vicolo cieco, non solo incapace di uscirne, ma senza alcun apparente motivo a giustificare perché si trovi lì. Il racconto di Wallace ha come punto cardine l’osservazione distaccata e sarcastica – tipicamente wallaciana – dell’attitudine egoistica di gran parte degli uomini (in senso più ampio è possibile traslare il concetto all’essere umano in generale) nel rapporto diretto e indiretto nei confronti della donna – meschinità, sudiciume, bassezza, opportunismo, ipocrisia – senza mai sfiorare la retorica spicciola che un tema simile potrebbe generare. Ad esempio, gente che «ha l’egoismo di essere generosa», arrivando a livelli di auto referenzialità subdola e iper narcisista fatta passare per altruismo.

Krasinski, all’opposto, decide di costruire una trama appetibile e un po’ furba sul punto di vista della donna, e la strizzata d’occhio nel capovolgere la questione finisce per definire una commedia sentimentale mascherata da cinema d’autore. È un chiaro esempio, Brief Interviews with Hideous Men, di come uno stesso tema possa sprigionare una forza diversa a seconda di chi lo sta trattando.

Tutto ciò che non riguarda quel che è stato preso direttamente dal racconto (le interviste vere e proprie) risulta inutile. Andare a colmare i vuoti lasciati appositamente da Wallace, cercare di plasmare una realtà che esiste, ma solo nella capacità dello scrittore americano di costruirla omettendola, è stato un tentativo andato a vuoto.

Un film dimenticabile e pretenzioso. Che può al massimo funzionare come monito per altri registi nel momento in cui dovessero decidere di trasporre un’opera di Wallace su pellicola.

 

(Brief Interviews with Hideous Men, di John Krasinski, 2009, drammatico, 80’)

 

 

“La scoperta della lentezza” di Sten Nadolny

«Raccontare ha molto a che fare con il contare» dice Sten Nadolny nella prefazione del 2007 al suo romanzo, La scoperta delle lentezza, pubblicato nel 1983 e tradotto a suo tempo da Garzanti che ora lo fa uscire nella collana Narratori moderni. Sandro Veronesi lo ha definito una volta un «libro leggendario» – è di certo un romanzo notevole e leggendaria fu la vita del suo protagonista, l’esploratore inglese John Franklin (1786-1847).

Ora, come mimando la prudenza, la lentezza di messa a fuoco, la certosina meticolosità del personaggio, il narratore ne racconta la vicenda esistenziale con mirabile controllo, ordinata successione di frasi inemendabili ma capaci di incantare. Questa l’invenzione vera del libro: se il navigatore e militare che avrebbe comandato spedizioni (e battaglie navali) nell’Artico, in Australia, in Tasmania fino alla morte nel cosiddetto «passaggio a Nord-Ovest» sembra, oltre che precoce sognatore di avventure marinare, imberbe adolescente parecchio problematico, il suo sguardo sulle cose è del tutto speciale: nell’imbarazzante collezione di handicap in cui vive, spicca l’eccessiva, paralizzante lentezza che ne fa un emarginato preso doverosamente per i fondelli da tutti. Pare persino incapace di seguirlo con gli occhi, il movimento – eppure, ciò che nasce come problema da far ammattire il miglior insegnante di sostegno (e nel caso specifico, un padre che non riesce a tollerarlo) diventerà l’arma sorprendente che gli consentirà imprese memorabili anche nel fallimento.

Il narratore, con maniacale e assieme aerea meticolosità, costruisce la figura e la sua storia non banalmente accumulando dettagli ma lasciando percepire – senza peraltro mai nominarla (che mica è Roberto Vecchioni!) – la poesia quasi chapliniana del personaggio, tormentato dai suoi difetti, dalle angustie in cui lo gettano i suoi compagni di gioco («tardone!» gli urla il suo opposto Tom Barker) e infine addestrato a uno sguardo paradossalmente molto più acuto degli altri.

Ciò che più accende l’interesse del romanzo (di una bellezza a tratti voluttuosa, piena di humour), non è tanto il fatto che trattandosi di John Franklin conterrebbe in sé una biografia eccezionale (romanzesca appunto la serie di avventure che consentono all’uomo di ricavarsi un suo spazio nelle enciclopedie potendosi leggere ovunque, tant’è che il bizzarro inglese ha ispirato altre opere letterarie), ma che la lentezza (viste le premesse: a dieci anni non afferra  la palla che gli tirano i compagni, non sa infilare un bottone nell’asola, si rassegna a dire sì per evitare la figuraccia di chi non capisce cosa gli si dice) invece di paralizzarlo non solo gli fu d’aiuto nella sua vita, ma soprattutto gli concesse la capacità di percepire in un modo singolare cose, persone, situazioni. Di imparare a guardare, e a misurare, col tempo che ci voleva, nevvero, la nequizie di un mondo che cominciava invece a soccombere all’isteria della frenesia cieca.

Nadolny restituisce (o reinventa?) tutto ciò per una lettura di raro godimento. Peraltro, a sentire lo scrittore tedesco, egli molto dovrebbe al cinema che gli ha insegnato il lavoro con la percezione, «accelerata e rallentata». Chissà. Di sicuro, quando un personaggio straordinario trova un “interprete” altrettanto straordinario, ossia quando la letteratura modifica anche nel lettore la percezione delle cose, mi pare che essa ristabilisca un suo dimenticato primato.

(Sten Nadolny, La scoperta della lentezza, trad. di Giovanna Agabio, Garzanti, 2014,  pp. 343, euro 18,60)

“Michael J. Fox Show” di Will Gluck

Se dico Ritorno al Futuro si apre un mondo. La mente può balzare ovunque, dal «grande Giove!» di Doc alla mitica DeLorean, una macchina divenuta praticamente un oggetto di culto e inseguita da tantissimi collezionisti. Ma questa esilarante trilogia, iniziata nel lontano 1985, ha regalato soprattutto al grande pubblico l’indimenticabile Marty McFly, al secolo Michael J. Fox.

Per il simpatico attore canadese, naturalizzato poi statunitense, sembrava l’inizio di una scintillante carriera nel mondo del cinema e della televisione. Ma il destino aveva in serbo per lui un morbo maledetto che lo avrebbe messo a dura prova. Nel 1991, durante le riprese di Doc Hollywood, la scioccante diagnosi: il tremolio delle sue dita è Parkinson. La notizia verrà resa ufficiale solo nel 1998. Nel 2000 si trova addirittura costretto a lasciare la serie Spin City per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Da lì in poi qualche comparsata in diverse serie televisive come per esempio Scrubs o Boston Legal e tanto impegno nella lotta al Parkinson tramite la sua fondazione. Fino a un inaspettato e graditissimo ritorno, nel 2013, con il Michael J. Fox Show, andato in onda sulla NBC. Il protagonista, Mike Henry, è un noto anchorman costretto a lasciare il suo posto per dedicarsi completamente alla sua famiglia dopo i problemi dovuti al Parkinson. Quattro anni dopo decide di rimettersi in gioco e di riprendere in mano la sua carriera tornando in televisione.

Inutile sottolineare le similitudini tra la storia di Mike Henry e quella di Michael J. Fox. La serie è stata una grande dimostrazione di come la forza di volontà possa vincere sulla malattia. Senza voler essere politicamente corretti nei confronti dell’operato di un attore cosi sfortunato regalando meriti non esistenti, il Michael J. Fox Show è una commedia assolutamente gradevole. La grande ironia con cui viene trattato un morbo tremendo, presentato sullo schermo tramite battute o gag, dimostra la voglia di dare un messaggio a tutti gli spettatori e soprattutto a chi condivide le stesse situazioni del protagonista: la vita continua e vale la pena viverla ogni giorno al massimo.

Su Flanerí non abbiamo parlato spesso di comedy, ma questa volta ho sentito il bisogno di fare uno strappo alla regola. Non sono sceso troppo a fondo nei meandri dello show anche perché non c’è troppo da aggiungere. Rimane doveroso un accenno ad alcuni dei protagonisti, come Betsy Brandt (Marie Schrader, moglie di Hank, in Breaking Bad), ma anche ad alcune guest star come Tracy Pollan. Lei, moglie di Michael nella realtà, si è prestata al ruolo di vicina sexy per un episodio, mettendo in seria difficoltà il povero Mike.

Nonostante tutto questo i fan hanno tremato a fine gennaio. Dopo l’episodio che preannunciava l’arrivo delle Olimpiadi invernali di Sochi, la serie sembrava destinata addirittura alla cancellazione a causa di un grosso calo di ascolti. Alcuni rappresentati della NBC hanno rassicurato i milioni di fan, confermando che in primavera la messa in onda sarebbe ripresa regolarmente.

Io non posso che essere contento, senza false ipocrisie rimango convinto che questo show meritasse almeno di finire la sua prima stagione nella sua interezza, perché per quanto banale possa sembrare, nel 2014 c’è ancora bisogno di rendere più sensibile il pubblico su certi argomenti. E se Michael J. Fox riesce a farlo regalandoci anche una risata, tanto di guadagnato.
 

“I segnalati” di Giordano Tedoldi

Se I segnalati (Fazi, 2013) di Giordano Tedoldi fosse un quadro sarebbe un olio su tela dalla luce cupa, con un volto di donna lugubre e strabico. Si tratta di un romanzo sincretico, che intreccia il realismo a una forte componente onirica e favolistica.

È ambientato nei giorni nostri tra Roma e Bellegra, e racconta delle conseguenze estreme cui può portare l’unione morbosa di due esistenze. «Tra me e Fulvia è la congiunzione di destini. È una cosa che non si può più cancellare. O forse, chissà, tra molti anni. Ma se accade allora vorrà dire che sarò come morto». Fulvia, la ragazza dei dreadlocks e delle All Star rosse, al contempo delicata e ripugnante, sta innaffiando le piante nella sua terrazza. Un gruppo di bambini rumoreggia e gioca a pallone, segue un battibecco. Fulvia minaccia i bambini di lanciare un secchio e il piccolo Ruggero, cadendo, sbatte la testa su un gradino. Mentre guarda «il piccolo lord esanime, con quei due enormi corni di sangue che gli spuntano dalla nuca», Fulvia si ammala di un terribile senso di colpa.

Il narratore assume il punto di vista del protagonista che non ha nome e che rappresenta l’altra faccia della medaglia: lui è il conscio, lei l’inconscio. Inganna il lettore presentandosi come l’unico sguardo razionale, invece gioca con le vite degli altri trovando la giustificazione delle sue azioni nel proprio dolore, e anche il dolore altrui prende forma solo come un riflesso. Entrambe le donne che lui ama causeranno la morte di un ragazzo, come se fosse lui stesso un corpo conduttore di morte. C’è un piacere sadico in colui che narra, come un voyeurche desidera conoscere quanto vi è di grottesco nel dolore e se ne fa carico solo per potergli stare più vicino.

La musica classica e la morte s’intrecciano in un’ossessione perversa e contribuiscono a fare di questa opera un’ode alla schizofrenia. Tedoldi gioca con l’alienazione mentale, introduce strumenti leggendari, misteri occulti, ma mai, nemmeno per un attimo, i suoi personaggi perdono credibilità. C’è un’elevata intelligenza in questa follia, e si rimane incollati al libro con un senso di intorpidimento, di inquietudine e di estrema bellezza. È un romanzo mistico con una forte componente psicanalitica. I tabù vengono scardinati, la realtà mostrata attraverso un occhio caleidoscopico e le convenzioni sociali sono manomesse.

L’autore ha un grande controllo e dosaggio della parola e la capacità di non ridurre le descrizioni alla percezione dello sguardo, ma di porre l’accento sull’interiorità psicologica rendendo la narrazione incalzante e sempre più suggestiva: non si descrive ciò che è, ma ciò che appare.

I segnalati è un romanzo contemporaneo ma ha la forza di un classico. È caratterizzato da una depravazione gentile, dalla curiosità di spingersi al di là del confine per accorgersi quand’è che la verità disturba. È al contempo garbato e scandaloso e richiede al lettore di essere letto, metabolizzato e posto nello scaffale fra i romanzi importanti della vita.


(Giordano Tedoldi, I segnalati, Fazi, 2013, pp. 317, euro)

“Io sono Red Baker” di Robert Ward

Sono partita alla volta di Venezia un venerdì sera di febbraio, caldeggiata dalla promessa di una presentazione vivace e una nuova collana da conoscere. Ammetto che due cose assai spassose del viaggio in treno dalla mia città natale sono state la bambina narratrice che guardava il mare con la madre che le diceva «quello specchio d’acqua è un lago serio» di fronte a una laguna piena di buio e ruvidi isolotti, l’anziano professore universitario che mi intrattiene spiegandomi da dove sia nato il ponte di Cavatrava e quando sia scaduto l’ambiente universitario patavino, per ovviare all’imbarazzo punto lo sguardo verso un giovane che mi indica deciso il percorso più agevole, ma non il più breve nel dedalo veneziano che mi porterà alla meta. Dentro di me scandisco un rapido sì al presente e mi avvio verso la libreria Marco Polo, non prima di aver accettato il biglietto da visita del signore.

La serata è dedicata alla collana I fuorilegge, un progetto editoriale che raccoglie titoli eccentrici rispetto al canone mainstream, voluta dal traduttore Nicola Manuppelli, Giorgia dal Bianco e Claudio dalla Pietà.

Come ha spiegato Nicola Manuppelli, il progetto mira a sciogliere i nodi di incomprensione dietro le vite degli autori americani osteggiati dalle case editrici commerciali, mettendo in risalto la visione non patinata e non ufficiale del sogno americano, con l’intenzione di creare un mosaico in movimento. Un’idea, che serve a colmare una lacuna a oggi ancora esistente in Italia.

Il libro che apre la collana è Io sono Red Baker (Barney Edizioni, 2014), di Robert Ward. Il romanzo prende in considerazione il periodo di forti dissesti economici a Baltimora (Maryland), che travolse i lavoratori dell’acciaieria dove lavora Red Baker. La trama è basata sull’estenuante senso di desolazione fra alcol e disperazione che portano il protagonista a macchiarsi di un crimine che cambierà il corso della sua vita. È delicata la descrizione delle immagini che accompagnano la relazione coniugale e il declassamento mortificante che va verso la disfatta. Red Baker, in cui molti lettori si sono riconosciuti, è animato da un instancabile istinto di sopravvivenza, una devozione sincera alla propria famiglia, e un consapevole affondo all’ingannevole logica dei valori societari. Dentro fino al collo, Red non riesce a comprendere la logica beatnik, né gli slogan hippie di vivere per il proprio presente, ma si abbandona a un gioco di sogni giovanili che sebbene non lo porti a perdere la dimensione della sua vita, gli dà il difficile compito di riempire un tempo vuoto e invaso dalla presenza industriale della città e dai suoi neon allettanti. Lo stile di Ward non ha effetti stucchevoli, restando legato a una prosa anti-accademica, libera da morali e che si rifà all’americana filosofia del proseguire sulla strada verso la propria missione, senza temere. Non è un lieto fine, ma quanto di più vicino possibile al lieto fine, un viaggio agli inferni con ritorno alla dignità senza tuttavia la presunzione del narratore di estrarre una visione di fede, una visione che comprenda una svolta salvifica, non c’è proprio nulla di salvifico in senso stretto.

L’incontro con l’autore è stato ricco di interessanti disgressioni, durante le quali l’autore ha ripercorso i dialoghi surreali coi suoi amici quando presentò il libro ad Harvard, l’ammirazione di Raymond Carver per aver scritto quella storia, l’incontro con editori insipienti e restii nel pubblicare storie di personaggi così poveri e depressi, la strategia fallimentare del primo agente, la sciagurata editor che propose un’intera riscrittura del romanzo in chiave ottimista, suggerendo di introdurre il matrimonio con una ricca proprietaria di un allevamento di cavalli, un percorso che Ward minimizza bene. E il fortunato incontro con la prima compagna di Jack Kerouac, che riconosce il merito e lo avvicinò alla Diaf House Press, una delle più valide case editrici newyorkesi, che consegnò il libro a un successo insperato.

Nella scrittura Ward travasa il proprio umorismo, la sensibilità per le storie che nascono da una situazione caotica e disperata, la ricerca per la tensione e il divertimento, insieme a una vena drammaturgica che annota sia l’accettazione del fallimento sia la furiosa ricerca di riscatti, dando prova di comprendere in maniera profonda lo spirito del suo protagonista, affidandogli la sfida di essere un americano raggiante in una periferia che lo sconforta. «Non c’è mai stata una storia a lieto fine a Baltimora, ma questo è più di quanto vicino a un lieto fine abbia mai sentito».

La forza d’animo che trasmette è catartica, non assolve il colpevole della battaglia di Red Baker, ed è questo il motivo di un simile successo. L’incisività, la possibilità di rivincita sono elementi che lo porteranno a esser uno dei capostipiti del New Journalism, guadagnandosi la stima di Tom Wolfe.


(Robert Ward, Io sono Red Baker, trad. di Nicola Manuppelli, Barney Edizioni, 2014, pp. 345, euro 16,50)

“Yves Saint Laurent” di Jalil Lespert

Presentato all’ultima edizione del Festival di Berlino, Yves Saint Laurent è la ricostruzione della vita dello stilista franco-algerino Yves Henri Donat Mathieu Saint Laurent scomparso nel 2008.

È il 1957 quando il ventunenne Saint Laurent diventa direttore artistico della maison Dior dopo la scomparsa del suo fondatore Christian. Il giovanissimo Yves lavorava già come assistente dello stilista da quando aveva solo diciassette anni, chiamato a Parigi dalla patria algerina di Orano per assicurarsi il suo talento. È l’inizio di una carriera prestigiosa che lo porterà a fondare la sua casa di moda e a diventare uno dei più importanti interpreti della moda e del prêt-à-porter di tutti i tempi, sempre affiancato dal paziente e pragmatico mecenate Pierre Bergé.

Tra ricadute e trionfi, il film di Jalil Lespert è la più classica delle biografie per immagini. Ha il pregio di mostrare la fragilità e le complessità di Yves Saint Laurent senza indulgenze, anche nei momenti in cui la debolezza emotiva lo rende insopportabile e distante dall’immagine di grandeur pubblica e di non indugiare nel momento della malattia, il cancro al cervello, che ha segnato gli ultimi anni di vita dello stilista. Pierre Bergé, il compagno della vita a cui nel film è affidata la narrazione, ha visionato e accettato il copione anche negli aspetti più privati della vita condivisa con lo stilista. Non c’è spazio per le speculazioni sensazionalistiche e per la dimensione dello scandalo: ogni rivelazione sul quotidiano intimo dei due è vita vissuta, sofferta, essenziale per cogliere ogni sfaccettatura della complessità di Yves Saint Laurent, artista della moda dai nervi fragili, individualista e timido, inquieto come tutti gli esuli, andato via dall’Algeria per la grande avventura a Parigi per ritrovarsi senza più una casa dove guardare, con quello che era il suo paese che non è più pronto ad accoglierlo. Tendente alla depressione, Saint Laurent è passato negli anni dalla sobria riservatezza del giovane impacciato alla sfrontata arroganza dell’uomo che si fa fotografare nudo per vendere un profumo, fragile e dipendente da ogni tipo di abuso – l’alcol, la droga, il sesso – e incarnazione di tutti gli aspetti più deteriori dei mutamenti culturali tra gli anni Sessanta e Ottanta.

Sprovvisto quasi totalmente di dimensione sociale, che mai ha realmente interessato e coinvolto Saint Laurent, nonostante attraversi trent’anni cruciali nell’evoluzione del costume e della società francese e internazionale,Yves Saint Laurent si concentra sull’aspetto privato del rapporto tra lo stilista e Pierre Bergé, co-fondatore e organizzatore assoluto dell’impero dell’haute couture. È la storia della loro coppia ancora più che la storia di Saint Laurent. L’interpretazione dei due protagonisti, Pierre Niney e Guillaume Gallienne (reduce dal trionfo ai premi César con il suo esordio alla regia Tutto sua madre), è uno dei maggiori punti di forza. L’intesa tra i due, la rete di intimità e sicurezza che si intrecciano a formare il rapporto di una vita capace di resistere ai vizi e alle deviazioni, resa con partecipata autenticità sorregge il film nei momenti in cui il peso dei vincoli di genere incombono. Perché Yves Saint Laurent è un bio-pic classico e convenzionale che si limita a svolgere il proprio compito di ricostruzione biografica senza indulgere in tentazioni agiografiche ma senza neanche aggiungere molto alle abituali svolte del cinema biografico (l’affermazione e il successo a cui si accompagna il percorso parallelo di crollo individuale nella debolezza e nel vizio).

Di origine algerina come Saint Laurent, il regista Jalil Lespert (noto principalmente come attore) cura i dettagli della ricostruzione storica dirigendo un ottimo lavoro di scenografia, costumi e trucco. La forma tende a prevalere sulla sostanza, ma non può essere altrimenti, quando si parla di moda.

 

(Yves Saint Laurent, di Jalil Lespert, 2014, biografico, 101’)

 

“Guida alla Roma ribelle” di R. Mordenti, V. Mordenti, L. Sansonetti, G. Santoro

Non la Roma papalina del potere temporale o in tempi più recenti quella opulenta e disgustosa della casta ma un altro universo in cui muoversi compiendo un viaggio all’interno della ribellione, della sofferenza del popolo, della cultura e della vitalità: tutto questo è Guida alla Roma ribelle (Voland, 2013) di Rosa e Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti e Giuliano Santoro.

In un itinerario che procede come un percorso realizzato con l’intento di «storicizzare la Roma ribelle», il lettore trova, a seconda dei luoghi, e in ordine non cronologico, storie, eventi e aneddoti su Menenio Agrippa, Martin Lutero, Giordano Bruno, la Repubblica Romana del 1849, la resistenza e le azioni partigiane durante l’occupazione nazista, i movimenti del ’68 e del ’77, quello della Pantera negli anni Novanta, le occupazioni dei centri sociali, le rivolte nel Cie. C’è la Roma vista con gli occhi dei grandi scrittori come Alberto Moravia e Elsa Morante, quella dei grandi film di Roberto Rossellini, Pier Paolo Pasolini, Mario Monicelli e Ettore Scola ed è certamente presente anche la Roma città eterna con le sue meraviglie e i suoi monumenti, guardata attraverso la lente della ribellione.

Suddiviso in capitoli-rioni, alla fine dei quali vengono consigliati, in calce, testi, film o documentari per approfondire l’argomento, il libro va difatti alla ricerca dei luoghi dove si sono consumati eventi di rivolta contro il potere precostituito, che sono stati “attraversati e contaminati dalla controcultura” o che hanno semplicemente dato i natali a personaggi, famosi o meno, legati alla ribellione e al pensiero libertario. Impossibile citarli tutti: da Violet Gibson che sparò in faccia al Duce in Piazza del Campidoglio alla partigiana Teresa Mattei, «la più giovane deputata costituente italiana» che entrò a Montecitorio a soli venticinque anni e contribuì alla scrittura dell’articolo 3 della nostra costituzione, dal Cimitero acattolico a Testaccio, dove riposano personaggi come Antonio Gramsci e Carlo Emilio Gadda e che Oscar Wilde definì «il luogo più sacro della terra» fino al Forte Prenestino nel quartiere di Centocelle, luogo storico per la subcultura che ha ospitato un’infinità di concerti e manifestazioni di ogni genere; fino alle chicche più nascoste come la Chiesa di San Giovanni a Porta Latina dove nel 1500 si celebravano matrimoni omosessuali o Giorgio Marincola, «l’unico partigiano nero di cui l’Italia abbia memoria».

Il libro è impreziosito, inoltre, dalle testimonianze di Ascanio Celestini, Carlo Lizzani, Giovanna Marini e Mario Tronti che offrono il loro punto di vista su avvenimenti della resistenza durante la seconda guerra mondiale o sulla resistenza, più generale, contro il potere attraverso forme espressive come la musica, lo sberleffo e la così detta «resistenza passiva».


(Rosa Mordenti/Viola Mordenti/Lorenzo Sansonetti/Giuliano Santoro, Guida alla Roma ribelle, Voland, 2013, pp. 377, euro 16)

“Ragazze di campagna” di Edna O’Brien

«Il sole al tramonto scatenò un incendio nella parte occidentale del cielo. Da quel fuoco diramavano sentieri colorati, non rossi come il sole, ma di un rosa caldo e intenso. Il cielo al di sopra era azzurro, purissimo, e ancora più in alto, sopra le nostre teste, le nuvole veleggiavano serene, come enormi piume d’oca. Il paradiso era lassù, da qualche parte».

Non è un caso che l’Irlanda timorata di Dio degli anni Sessanta abbia avuto un sussulto quando è stato pubblicato per la prima volta Ragazze di campagna (Elliot, 2013), non tanto per i temi affrontati, che hanno pur sempre avuto un impatto destabilizzante all’epoca, quanto per l’oltraggio al pudore mal digerito dai suoi abitanti.

L’idea che un popolo ha di sé è sempre migliore rispetto a ciò che riflette, trova giustificazioni al mezzo per garantirsi il fine, fa sfoggio di apparenti privazioni per celare poco nobili tornaconti; Edna O’Brien conosce bene le due facce della sua terra, l’Irlanda santa e genuflessa e quella frivola e bevitrice e le fa convivere nel suo romanzo, attraverso i suoi personaggi specchio di rigore e omertà.

Lo scandalo dunque era inevitabile, come era inevitabile la condanna per la temerarietà dell’opera, disdegnata e platealmente data alle fiamme sul sagrato delle chiese.

La casa editrice Elliot, dopo mezzo secolo, riporta nelle librerie questo capolavoro per farci conoscere la storia di Caithleen, semplice ragazza di campagna, della conflittuale amicizia con la più spigliata Baba e dell’esacerbante realtà gretta e zeppa di regole morali e religiose di quegli anni.

Nel libro della O’Brien c’è la chiarezza asfissiante del contesto che si impone sui personaggi, come se fosse il luogo stesso a inchiodarli nella staticità di provincia. La campagna irlandese viene subita come una realtà asettica in contrapposizione con l’irruenza del cielo che si «incendia» nei tramonti ed esplode in improvvisi temporali.

Per quanto appaia come un’ingenua sognatrice con la testa altrove, Caithleen fa vivere in sé questo contrasto: esige l’esplosione, il cambiamento e sa che per farlo deve allontanarsi dall’immobilità della sua terra che in breve tempo le ha portato via tutto, la madre, la casa, la giovinezza.

Questi vuoti devono essere riempiti, anche a rischio di sovraccaricarli di illusioni.

Caithleen fa i conti tutti i giorni con un padre violento che dissipa il denaro guadagnato in alcool mandando in rovina la tenuta di famiglia, con gli zoticoni del paese volgari e invadenti, con le glaciali suore del collegio dove è stata spedita e con l’invidiosa Baba che non perde occasione per metterla in soggezione, facendola sentire una nullità.

L’amore sembra l’unica alienazione possibile per lei ma veste i panni di un uomo sposato, inafferrabile, vissuto nel timore e nascosto a tutti, soprattutto a Baba incapace di coglierne l’intensità e di farsi complice.

A rendere straordinaria la narrazione della O’Brien sono proprio le zone d’ombra, l’autrice non si limita a segnare sul muro la crescita delle due giovani ragazze, ma ne descrive le angosce, le tentazioni, i litigi, i cedimenti, tipici di chi è costretto a restare con un altro essere umano troppo a lungo per mancanza di alternative.

«Piansi per un bel pezzo, sdraiata sul letto, finché non cominciai a sentire freddo, molto freddo. Per qualche motivo viene sempre freddo dopo aver pianto a lungo».
(Edna O’Brien, Ragazze di campagna, trad. di Cosetta Cavallante, Elliot, 2013, pp. 256, euro 17,50)