[RockNotes] Le uscite di marzo

Mark Lanegan, Has God Seen My Shadow? An Anthology 1989-2011
(Light In The Attic)

I fan di Lanegan non possono certo lamentarsi circa latitanza del loro eroe. L’ennesima uscita discografica dell’ex Screaming Trees non riguarda cover o duetti. Si tratta bensì di un’antologia: Has God Seen my Shadow? An Anthology 1989-2011. Più che valutare e criticare le scelte della tracklist del primo disco (nel secondo ci sono delle gustose rarità), l’opera va vista come un ottimo mezzo per gettare un amplio sguardo sull’oscura e affascinante carriera solista di Mark Lanegan. Da mettere sull’iPod.


St. Vincent, St. Vincent
(Loma Vista Universal)

Signore e signori, ecco a voi il capolavoro di St. Vincent. Dopo il duetto-consacrazione con David Byrne, il suo nuovo e omonimo album solista sancisce il definitivo apice della carriere dell’icona femmine della musica indie. Elettronica su chitarre massacrate per una sequela di brani in cui la nostra eroina declama una performance ispiratissima dietro l’altra. Superbo. Come il nuovo look.


The War On Drugs, Lost in the Dream
(Secretely Canadian)

Facile sfruttare il titolo per descrivere il terzo disco dei The War On Drugs. Formatosi nel 2005, in Pennsylvania, la band è ormai pronta per essere promossa a pieni voti. Anche se non li avete mai sentiti nominare – cosa possibilissima – i rockers americani hanno sfornato il classico disco che non lesinerà di ampliare il loro bacino di estimatori e fan. Bastano i nove minuti dell’iniziale “Under the Pressure” per capire che il livello è alto. E tra momenti più onirici e passaggi più massicci e rock, la qualità non si abbasserà mai. Non fate l’errore di non ascoltarli.


Pixies, Ep 2

Avevamo chiuso qualche mese fa augurandoci un secondo Ep migliore del primo sfornato dai Pixies. Sapete, essendo dei miti, il loro ritorno era circondato da attese e aspettative a dir poco alte. Bene, purtroppo, anche stavolta i quattro brani che pongono la seconda uscita direttamente fruibile da sito della band deludono a dir poco. Conviene, a questo punto, aspettare il tre?


The Baseball Projects, 3
(Yep Roc, Audioglobe)

Possono convivere musica e sport? Può un artista indie fare dei dischi sul baseball? La risposta è si, se a muovere le trame c’è quel piccolo grande eroe dell’underground americano chiamato Scott McCaughey. Membro aggiunto dei R.E.M. (è quello che nei live non si stacca di un passo da Peter Buck), leader degli Young Fresh Fellows e soprattutto dei mitici Minus 5. Ad accompagnare questo progetto ci sono proprio Buck e Mills, basso e chitarra dei R.E.M., a chiudere una formazione che vede la batterista Linda Pitmon e Steve Wynn. 3 è composto quindi di diciassette gradevolissimi brani rock in cui il baseball la fa da padrone, ma non così tanto da precludere l’ascolto a chi di questo sport non gliene frega nulla. E pensate che in alcuni brani ci sono come guest dei giocatori veri e propri!


Bologna Violenta, Uno Bianca
(WoodwormWallace)

Un disco che nel giro ha generato qualche polemica. Può un band trattare in un album dei fatti di cronaca che hanno causato spargimento di sangue? Si può fare musica parlando di ferite di cronaca ancora aperte? La domanda – e l’annessa risposta positiva – se la sono data i Bologna Violenta. Nicola Manzan, ideatore ed esecutore del progetto, dopo il periodo “alla Calibro 45”, decide di invischiare fino al midollo la sua musica nei fatti che dal 1987 al 1994 provocarono ventiquattro morti nella zona di Bologna. Appunto. Ventisette brani che ricostruiscono in maniera fredda e spietata quei fatti neri. Un lavoro che divide, e di questi tempi, ci sentiamo di dire: Fortunatamente!

 

Neil Young, Pono

No, tranquilli, non è il suo nuovo disco, ma una sorpresa! Stufo dell’Mp3 e di come secondo lui abbia rovinato la fruizione e la qualità musicale contemporanea, Mr. Young fa sbarcare Pono. Ovvero un lettore musicale ad altissima fedeltà supportato da file Flac. Dopo il successo del finanziamento tramite campagna Kickstarter, supportato da guest come Springsteen e Arcade Fire, il lettore di musica digitale progettato da Neil Young promette di fare una rivoluzione. Anni fa lo propose a Steven Jobs…

“Come fossi solo” di Marco Magini

A undici anni la Storia si stiracchia nello zaino. È un orecchio di pagella, un quartiere impettito del sussidiario. Non molto di più. Poi certo, esistono i Tg, a dispensare angosce, un sorbetto di esplosivo per digerire il minestrone. Ma comunque sembra fiction, apocalisse in un barattolo, disattivabile a comando.

Quello con davanti “tele”. Questo per me furono gli anni ’90. Impugni un pastello e correggi una cartina, perché all’improvviso anche la geografia ha cambiato grammatica. Certa gente litiga e le terre si sparentano. E tu ricami quella novità. Rifai l’orlo a un Paese che non pronunci neanche bene.

Ti raccontano che sullo stesso mare, rovesciando i terrazzi, si sentono le bombe tuffarsi come atleti. Addosso alle case, ai bambini come te. Una nazione chiamata Jugoslavia si è rotta come un vaso. Ma capirai soltanto dopo quanto è costata ogni scheggia. Molti ancora non lo hanno fatto.

E allora, a volte, intervengono i libri, a schiaffeggiarti di parole. Che hanno preso la rincorsa e poi anche la mira. Spalancando il sipario di un orrore vicino. L’inferno del dirimpettaio. Come fossi solo (Giunti, 2014) di Marco Magini è un romanzo nitido, efferatamente chiaro. Perfetto per colmare quei dirupi di passato in cui bastava poco per non sapere niente. La vicenda è vera, estratta dalla cronaca. La vicenda è guerra, quella in Bosnia Erzegovina. Snodata su tre voci. Dirk, un casco blu olandese stanziato a Srebrenica; Dražen, soldato serbo-croato e vero motore della trama intera e infine il giudice Gonzalez, spedito a L’Aja per emettere sentenza sul caso Erdemović. Il cognome di Dražen.

D’altronde la Storia ha bisogno di riordinare i cassetti, di trovare il suo mostro per sentirsi pulita. Per questo assolda la Giustizia. Non per chiederle di essere giusta. Esigendo che sia estrema. E basta.

Qual è la colpa del ragazzo? Dražen si è arruolato, per la terza volta. Sottostimando la tragedia in cui avrebbe dovuto affondare le mani. Una carneficina. L’impasto di morte più imponente dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Tra gli 8000 e i 10000 musulmani bosniaci trucidati dai serbi a Srebrenica. Carovane di civili. Persone qualunque. Dražen non è certo l’unico a partecipare. Di nuche ne avrà traforate settanta. Quasi fossero poche. Il problema è che Dražen è l’unico a confessare, a dichiararsi coinvolto e quindi macchiato. Come fosse solo, appunto.

E diventa il candidato ideale. Militare mezzosangue nel posto più putrido e nel momento più nero. Non poteva sottrarsi a quel diktat, è evidente. Uno sparo in cambio del respiro. Non ci sarebbero stati risparmi di vite. Srebrenica era «poco più di un simbolo dell’inevitabile, ultimo castello senza mura di un paese allo stremo». Ma nella sua ammissione, in quell’atto specchiato di disagio morale risiede già il suo castigo.

Il fastidio nato davanti agli stupri, ai corpi di donne defunte prima ancora di essere uccise si trasforma nel fastidio collettivo dei commilitoni, indignati da quel dissenso. E nel fastidio urticante di chi di fronte al suo gesto è “costretto” a punire. Senza troppe domande.

La realtà è più affollata. A popolare quel teatro sono in tanti, che non vengono avvistati. Che appaiono leggeri, troppo perché una Corte li soppesi. C’è l’Onu che resta spiazzata, forze in missione disarmata, incredule davanti all’avanzata serba. Uomini che come Dirk si scoprono impotenti, che per sopravvivere non opporranno uno starnuto. Uomini piccoli come pupazzi e grandi come nazioni. Come l’Europa.

A differenza dei bosniaci, Dirk potrà tornare in Olanda, ma comunque non sarà salvo. La catastrofe gli impregna le guance, gli ingolfa i sorrisi da riportare sotto vetro alla sua famiglia. Esserci stato e non aver fatto. Essersi girato per evitare di vedere. Aver arrugginito la coscienza al punto di metterla in cantina fino al volo di ritorno. Spettatore come Dražen. Ma senza obbligo di colpi.

Al giudice Gonzalez quel caso sembra lampante. Eppure, in corso d’opera, qualcosa accade. Qualcosa di minuscolo, d’irrilevante. «Circostanze insignificanti che accendono qualcosa d’irrazionale nella testa di una persona, un ricordo spiacevole, una fobia, un senso di inadeguatezza», in grado di stravolgere un risultato già deciso. Ed è Dražen a scontare quell’attimo.

La letteratura sta facendo spazio a questo cimitero. Altri titoli hanno incorniciato l’odio balcanico di quegli anni ancora freschi. Esempi diversi sono il Diario di Zlata (Rizzoli) della stessa undicenne Zlata Filipovic, Il violoncellista di Sarajevo (Mondadori) di Steven Galloway, Sarajevo mon amour (Infinito edizioni) di Jovan Divjak o il più famoso Venuto al mondo (Mondadori) di Margaret Mazzantini.

Qui Magini documenta il dramma attraverso tre sguardi. Non ci sono colpi di scena. C’è la sincera crudeltà dei fatti. Che resistono anche quando si occultano. C’è l’impatto dolente di un reportage rivisitato, rovistato nell’intimo. Qui il romanzo è urgenza, sorto dall’interesse verso un dato concreto. Urgenza di sapere e poi di capire. Qui si soffre, si storce la bocca. La Storia torna a interrogarsi/ci.

E il voto di nessuno sfiorerà la sufficienza.


(Marco Magini, Come fossi solo, Giunti, 2014, pag. 224, euro 14)

“Non buttiamoci giù” di Pascal Chaumeil

Presentato in anteprima mondiale all’ultima edizione del Festival di Berlino, Non buttiamoci giù è il quinto romanzo di Nick Hornby a venir trasformato in film per il cinema (About a boy ha avuto anche una versione televisiva ed è diventato serie tv per la NBC).

Quattro sconosciuti si ritrovano per caso sul tetto di un grattacielo di Londra la notte di Capodanno. Hanno tutti lo stesso scopo: suicidarsi. Ognuno ha un motivo valido per farlo. Martin, conduttore televisivo, è stato travolto da uno scandalo sessuale con una minorenne e ha perso tutto, dal lavoro alla famiglia; Jess, adolescente travagliata, ha perso una sorella che è semplicemente sparita un giorno e da allora non riesce più a capirsi con il padre, politico di punta dell’opposizione parlamentare; Maureen vive per suo figlio disabile e non ce la fa più a non ricevere amore; Jess è un musicista fallito finito a consegnare pizze a Londra dagli Stati Uniti. Il loro incontro casuale li spinge a rinunciare all’intento suicida e cercare, insieme, di trovare nuovi stimoli per vivere. Stringono un patto per non suicidarsi nelle successive sei settimane, fino al giorno di San Valentino, per decidere poi cosa fare di loro stessi.

C’è una forza nel romanzo di Nick Hornby, produttore esecutivo del film, che regge Non buttiamoci giù: la capacità di trattare con la giusta dose di umorismo nero un tema difficile come il suicidio e la volontà di morte. Hornby era riuscito nel libro del 2005 a trovare un equilibrio tra narrazione e riflessione sulla solitudine e disperazione che aveva garantito al romanzo la leggerezza malinconica che contraddistingue gran parte del lavoro dello scrittore inglese. Lo sceneggiatore Jack Thorne (tanta televisione, anche di successo, da Skins alle serie di This is England) e il regista Pascal Chaumeil (che pure si era fatto notare per leggerezza con Il truffacuori) non riescono proprio nell’intento di mantenersi sanamente cinici parlando di suicidio e finiscono per virare verso il più semplice e consolatorio dei buonismi.

Instabile e incoerente sin dalla scelta narrativa, che divide il film in un capitolo per personaggio con focalizzazione che si sposta a seconda della voce narrante, Non buttiamoci giù vanifica il materiale di partenza sviluppandosi fiaccamente verso un finale sereno che poco ha a che vedere con il romanzo e guadagnando di diritto la seconda posizione tra le trasposizioni cinematografiche meno riuscite del lavoro di Hornby (al primo posto è stabile È nata una star? nell’inopportuna versione di Lucio Pellegrini). Il film di Chaumeil, però, non risulta non riuscito solo rispetto al suo precedente letterario. È un film che non funziona nella sua interezza e nella sua autonomia. La maggiore debolezza è nella sceneggiatura, didascalica nei dialoghi, superficiale nella caratterizzazione dei personaggi. Nonostante il buon lavoro degli interpreti (Pierce Brosnan, Toni Colette, soprattutto Imogen Poots nei panni di Jess, mentre Aaron Paul fatica a scrollarsi di dosso il Pinkman di Breaking Bad) i quattro aspiranti suicidi sono piatti nella loro disperazione carica di stereotipi e appaiono come staccati, distanti, a parte rispetto alla trama specifica del film. Perché il contrasto che stride e non fa funzionare Non buttiamoci giù è proprio quello tra una storia che meriterebbe una narrazione adeguata, rispettosa del fondo drammatico della scelta di lanciarsi da un grattacielo e una confezione, uno stile di narrazione appunto, che non si discosta dai canoni della più convenzionale delle commedie con leggere venature drammatiche. Chaumeil e Thorne oscillano alla ricerca di un’espressione adeguata, barcollando tra i registri (iniziano sulla commedia nera, terminano in pieno buonismo) senza soluzione di continuità.

Senza l’umorismo di Hornby, quello che resta è uno spunto di partenza interessante e originale lasciato sviluppare nel più scontato e rassicurante dei modi.

 

(Non buttiamoci giù, di Pascal Chaumeil, 2013, commedia, 96’)

 

“Il mondo non mi deve nulla” di Massimo Carlotto

A proposito di scrittori e di loro svolte più o meno inaspettate, stavolta tocca a Massimo Carlotto. Pluripremiato autore di riferimento del noir italiano, lo scrittore padovano sferra con il suo ultimo Il mondo non mi deve nulla (E/O, 2014) il colpo più inaspettato, quello della vera e propria svolta.

Tutto inizia con una finestra aperta. A Rimini, nel cuore della notte. Fuori c’è Adelmo, ridotto a ladro dalla crisi. Ogni giornata una routine malata: il bere al bar, l’attesa delle tenebre, la speranza di qualcosa da rubare. La notte in cui il romanzo inizia, Adelmo vede una finestra aperta al primo piano di un edificio della zona benestante. Decide di andare a rapinare proprio lì. Ma presto scoprirà che dall’altra parte c’è Lise, ex-croupier di navi da crociera. Sessant’anni, ancora bella, ricca: sembra quasi aspettare che qualcuno entri all’improvviso da quella finestra. Poco a poco, pagina dopo pagina, il lettore e Anselmo scopriranno la terribile idea che Lise ha in testa.

I beffardi destini dei due protagonisti si incrociano così serata dopo serata, fino a sconvolgere in maniera beffarda e cinica i loro futuri. E non solo.

Con Il mondo non mi deve nulla, Massimo Carlotto calibra con bravura un breve ma intenso racconto dialogico. Il motore del tutto sono le parole che i protagonisti si scambiano. Parole d’amore, ciniche, dolorose. Le loro liti, le loro confessioni sono il mezzo con cui analizzare una spietata quanto attenta visione della vita e sulle sue false promesse. Sentimenti e scelte sbattute in faccia a un estraneo nella speranza di rendere meno amaro il passato. Una confessione a due in cui l’incontro diventa mezzo perfetto per un’ipotesi di riscatto.

Da leggere tutto in una notte, Il mondo non mi deve nulla è l’intenso e riuscito excursus di un autore che non esita a mettersi in gioco con una storia d’amore che solo lui poteva permettersi di scrivere.

 

(Massimo Carlotto, Il mondo non mi deve nulla, E/O, 2014, pp. 108, euro 9,50)

“Oscura immensità” per la regia di Alessandro Gassmann

Un atto di violenza che spezza due vite innocenti e lega indissolubilmente i sopravvissuti in un rapporto vittima-carnefice soggetto a continue inversioni. Sullo sfondo i grandi binomi: giustizia e vendetta, perdono e pena. Questo è Oscura immensità, tratto dal romanzo L’oscura immensità della morte di Massimo Carlotto e in scena al Teatro Eliseo di Roma per la regia di Alessandro Gassmann.

Raffaele Beggiato, condannato dalla colpa e dalla malattia, e Silvano Contin, l’uomo a cui sono stati portati via moglie e figlio, si incontrano dopo quindici anni di fronte alla richiesta di grazia dell’omicida ammalatosi di cancro. È possibile perdonare l’assassino della propria moglie e del proprio figlio? È possibile perdonarsi per aver commesso un atto così atroce? La malattia è una punizione? Inferta da chi? Il carcere dovrebbe avere una funzione punitiva o rieducativa? E a cosa serve invece? Domande in cui riecheggiano fatti di cronaca e grandi temi di filosofia e che ingolfano la sinossi semplice di questo spettacolo disperato, che, forte di una messa in scena particolarmente interessante, tra bianco e nero è tracimato oltre il bordo del buio e ha eliminato ogni sfumatura di grigio.

«Adesso la storia si fa antica» annuncia Silvano Contin dando una soluzione al difficile problema che l’adattamento teatrale di Oscura immensità pone al pubblico, rivelando come la forza di questo testo sia che la soluzione, per quanto amara, è quella che i personaggi percepiscono come giusta, ma non necessariamente quella che il pubblico, inteso non già come intelligenza collettiva quanto come insieme di singole individualità, potrebbe o meno condividere o apprezzare.

Lo stesso Carlotto rivela come la genesi del romanzo da cui si è dedotto il testo teatrale abbia richiesto un profondo studio delle realtà complementari, ma non alternative, delle vittime e dei condannati di e per crimini violenti e il valore dell’approfondimento è sottolineato dalla mancanza di retorica e dalla schiettezza con cui l’opera apre la mente dello spettatore alla riflessione consentendogli di spingersi già liberato da ogni falso pudore alla ricerca della propria personale risposta al dilemma tra vendetta e perdono.

Lo spettacolo, per quanto di forte impatto emotivo e visivo, soffre però dell’incompleto passaggio dalla parola scritta a quella scenica. Il testo non riesce a scollarsi con la decisione richiesta dalle pagine da cui proviene e nelle alternanze tra l’una e l’altra delle voci narranti sembra quasi di sentire calare, come una mannaia, il silenzio della pagina bianca che separa i capitoli di un libro.

La rappresentazione si svolge all’interno di scatole cinesi: piccole nicchie di spazio che emergono dal buio opprimente e rivelano il lavorio incessante di una macchina scenografica di proporzioni inattese. All’interno dello spazio delimitato da una quarta parete visibile, scelta come schermo per le videoproiezioni di Schiavoni, compaiono settori geometrici che contrappongono i personaggi e le dicotomie da loro rappresentate.

Casadio è veramente credibile nei panni di Raffaele Beggiato e i suoi monologhi, in cui si cede solo raramente alla tentazione di esternazioni urlate e poco credibili, sono graffianti e intensi quasi quanto il timbro ipnotico della sua voce. Scarpati, contribuisce a mantenere in equilibrio la bilancia della messa in scena quando, incarnando con inaspettata capacità d’inquietare, così iconograficamente vicino al Christian Bale di American Psycho, la gioia feroce della vendetta, si riavvicina al personaggio dal quale, a inizio spettacolo, dava l’impressione di aver preso le distanze.
 

Oscura Immensità
Tratto dal romanzo L’oscura immensità della morte di Massimo Carlotto
regia di Alessandro Gassmann
con Giulio Scarpati e Caludio Casadio
scene Gianluca Amodio
 

Prossime date
Roma – Teatro Eliseo dal 18 al 30 marzo
Torino – Teatro Gobetti dal 1 aprile al 6 aprile
Genova – Teatro della corte dall’8 aprile al 13 aprile

“Via dei ladri” di Mathias Énard

Altra cosa rispetto a Zona, il gran libro tradotto in italiano nel 2011, Via dei Ladri (Rizzoli, 2014), romanzo certo più maneggevole, rappresenta però un altro appuntamento considerevole con la scrittura di Mathias Énard. Se l’incipit è céliniano («Gli uomini sono cani, si strusciano fra loro nella miseria, si rotolano nella sporcizia e non sanno come uscirne, passano le giornate stesi nella polvere a leccarsi il pelo e il sesso, pronti a tutti per il pezzo di carne e l’osso marcio che qualcuno vorrà gettargli, e io sono come loro un essere umano quindi un rifiuto immondo schiavo degli istinti, un cane, un cane che morde quando ha paura e cerca le carezze») dopo qualche pagina la storia del giovane Lakhdar, marocchino di Tangeri che passa il tempo a guardare il mare col suo amico Bassam («con la faccia buona da bifolco»), pare adombrare un’obliqua, quasi sentimentale e amara amabilità. Ma ci si accorge presto che essa null’altro significa che un desiderio lancinante di vita in realtà destinato a frangersi sulle più assurde insensatezze del mondo, si tratti dell’Europa vagheggiata nel sogno erotico di una libertà inaudita, si tratti dell’Islam patriarcale in cui un padre, appunto, può riempire di botte un ragazzo come lui (e nel frattempo piangere per la vergogna) appena questi viene scoperto nudo con la cugina. Lakhdar da quel momento è costretto a lasciare la propria casa e ad arrangiarsi nella stessa Tangeri vendendo per conto di un tale che si fa chiamare  Sceicco – capo di un Gruppo Per La Diffusione Del Pensiero Coranico – libercoli a uso e consumo dei credenti musulmani: il più venduto, La sessualità nell’Islam.

Il Gruppo è agguerrito, il ragazzo molto meno. Ingenuo ma non troppo, apprende che i suoi datori di lavoro fanno il tifo per le rivolte arabe. Scopre che essi trovano nel fuoco incandescente che brucia il Maghreb il modo migliore per arrivare a «elezioni libere democratiche per prender il potere e poi […] islamizzare le costituzioni e le leggi» (cosa che peraltro molti media occidentali non hanno capito).

Lakhdar cerca di orientarsi, di capire cosa fare della propria vita, fino ad allargare lo spazio dei suoi vagabondaggi alla Spagna in cui alla fine decide di fuggire. Di sicurezze ne trova poche. Di occasioni ancor meno. Il lavoro è improbabile e ogni volta Lakhdar è costretto a ricominciare da zero. Gli tocca persino di avere a che fare con un infame che lucra sui morti annegati nelle tragiche imbarcate mediterranee per salvarsi dalla fame e dalla guerra. A parte il piacere dell’amore e quello per i romanzi gialli e i poeti arabi, ciò che vede intorno a lui è abbastanza indecifrabile. Nemmeno l’Europa è quella vagheggiata; l’aria è quella pessima che si respira negli anni della crisi. Il fatto che l’Occidente che riesce a frequentare sia per lo più quello delle suburre è persino marginale. Non ne intravede una migliore. Non vede speranze da nessuna parte, men che meno nelle rivoluzioni arabe su cui il potere islamico non smette di poggiare il proprio soffocante cappello. La violenza del mondo, quella sì. La vede e la subisce. Lo tenta, persino. Salvo comprendere che nella violenza «non c’è niente da spiegare». Non c’è nessuna strada, c’è solo il camminare.

(Mathias Énard Via dei Ladri, trad. di Yasmina Mélaouah, Rizzoli, 2014, pp. 300, euro 19)

“Bates Motel”: la seconda stagione

Chi era Norman Bates prima di diventare lo psicopatico assassino di Psycho?
Secondo i creatori di Bates Motel (tra cui Carlton Cuse, co-autore di Lost) era solo un ragazzo introverso e sensibile, deviato psicologicamente da un rapporto ambiguo e pericoloso con la madre Norma.
Questo rapporto morboso sviscerato in Bates Motel racconta l’evoluzione della pazzia che sfocia in Psycho in cui Norman Bates è un uomo che soffre un disturbo della personalità in cui la sua identità e quella della madre si sovrappongono: la serie ci fa finalmente conoscere la famosa Norma Bates, una donna forte e risoluta e unica figura di riferimento per Norman, che qui è un diciassettenne rimasto senza padre, schivo, con pochi amici e una spiccata predisposizione per l’isolamento e i passatempi macabri come – non poteva essere altrimenti – la tassidermia.

Norma esercita sul figlio un enorme potere, volontario e non, al punto che Norman considera le donne come rivali della madre e, vittima di quello che è un irrisolto complesso edipico, pur di allontanarle da sé finisce per ucciderle.

Con l’assassino della giovane e attraente professoressa da parte di Norman si era conclusa la prima stagione, registrando buoni ascolti e suscitando non poche curiosità. La seconda stagione è tornata da un paio di settimane e ci ha trascinato nuovamente a White Pine Bay, la cittadina in cui sorge il Bates Motel, riportandoci a qualche mese dopo gli ultimi avvenimenti. È stato più volte ribadito che questa serie non vuole essere un prequel di Psycho ma si ispira liberamente ai suoi personaggi: e infatti, sebbene le ambientazioni siano un chiaro richiamo al capolavoro hitchcockiano, le tecnologie e le tematiche creano una frattura netta tra passato e presente; Norma e Norman hanno un look fuori dal tempo, quasi vintage, ma abbondano di iPhone e pc ultimo modello, quasi a sottolineare come la strana coppia stoni nel contesto, così come stona il Motel, una struttura inquietante sorta nel posto sbagliato, fonte di potenziali buoni guadagni se solo non fosse destinato a restare tagliato fuori da una moderna superstrada in fase di costruzione.

La carta vincente di Bates Motel è stata quella di saper adattare in maniera fresca e moderna una storia di cui tutti conoscono il finale: non è chiaro se la strada intrapresa si concluderà laddove inizia Psycho, quel che è certo è che in mezzo si apriranno tanti sentieri non ancora battuti, dentro cui si muoveranno figure ambigue, cittadini corrotti e omertosi e un grosso traffico di marijuana.

Grazie alla recitazione di Vera Farmiga (Norma) e Freddie Highmore (Norman –sicuramente lo ricorderete meglio da bambino nei panni di Charlie Bucket ne La fabbrica di cioccolato con Johnny Depp), lo show acquista molti punti, specie quando deve dare forma con parole e immagini a comportamenti al confine della sanità mentale: l’interpretazione, nonché l’espressività e la mimica di Highmore ricordano in maniera inquietante Anthony Perkins, il Norman Bates originale, mentre la Farmiga riesce a far convivere il suo viso angelico col carattere di una donna fredda e manipolatrice, fragile solo all’apparenza, ingenua come una bambina quando se ve va in giro con il suo vestito a fiori ma abile calcolatrice quando si tratta di incastrare un nemico, nascondere un corpo o difendere sé stessa da accuse e cattiverie.

Se non avete mai visto Psycho l’ordine è quello di rimediare al più presto, in modo da godervi anche Bates Motel e apprezzarne l’ambizioso progetto di voler far rivivere un pezzo di storia del cinema adattandolo alle nuove generazioni che, purtroppo, si sono perse un po’ troppe cose.

 

“La paura e altri racconti della Grande Guerra” di Federico De Roberto

Della Grande Guerra – del cui colpo di pistola iniziale, a Sarajevo, si compiranno cent’anni giusti proprio il 28 giugno di quest’anno – sarebbe sbagliato aspettarsi, da questo asciutto, serrato racconto di Federico De Roberto, La paura (E/O, 2014), che torna in libreria dopo esservi comparso la prima volta nel 1921, un’analisi profonda, e magari umanamente sofferta, o una risentita denuncia, delle motivazioni meno confessabili, fossero l’imperialismo e il militarismo fin-de-siécle, o più brutalmente l’istinto belluino di Thanatos: tutto quello, insomma, a cui una corposa letteratura, saggistica certo, ma anche narrativa (per non parlare della metafisica rarefazione con cui si fa emblema lo stare «come /  d’autunno / sugli alberi / le foglie» dei soldati di Ungaretti) ci ha abituato, in questi cent’anni.

E, certo, il senso di sospensione delle pagine iniziali del racconto, con quell’attesa di un attacco nemico che sembra non voler venire mai, rievoca irresistibilmente le  pagine di Buzzati: e il confronto non è sicuramente, per altezza simbolica e scabra musicalità di dettato, a favore di De Roberto.

Né compaiono molte delle perplessità, umane e perfino evangeliche, prima ancora che d’impianto socialista, nutrite da altri ufficiali letterari – Lussu in primo luogo – a sfumare il personaggio del tenente Alfani: quello, cioè, sulcuipunto di vista, in sostanza, l’autore focalizza il meccanismo narrativo. Tant’è che solo alle sue riflessioni sono riservate le, poche, infrazioni alla regola veristica che prevede una rigorosa osservazione dei personaggi “dall’esterno”, senza sforamenti nel loro background emotivo e ideale; e che infatti funziona inflessibilmente per tutti gli altri personaggi del racconto, i soldati semplici falciati uno dopo l’altro, con supina osservanza di turnazioni nell’offrirsi alla fucileria austriaca, adesso sì, risvegliata.

Basti dire che l’umano-troppo-umano sentimento della paura non è ignoto, al tenente Alfani, come ai campioni di umanità ordinaria – tanto più, viene da dire, per le parlate regionali attentamente registrate da De Roberto con orecchio quasi da etnomusicologo, al pari delle citazioni di canti di trincea, ma senza il minimo brivido di contestazione antiunitaria, giacché ci si intende perfettamente, fra settentrionali e terroni – dei fanti a cui come ufficiale deve ordinare di andare a farsi ammazzare dai cecchini; ma De Roberto si affretta a fornirgliene l’antidoto: lui sì, lui solo, sa anche «lo sforzo sovrumano di vincere la paura» in cui la volontà «deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda», benché non gli riesca d’impedirsi che, subito dopo, la corda stessa diventi, con effetto cui il verismo granguignolesco non toglie però coloritura poetica, «la corda del beccaio che trascina la vittima al macello».

E quando, nella spannung emotiva del racconto, a rifiutarsi di andare incontro alla morte certa sotto la fucileria nemica (ungherese, si badi: finché c’erano stati i boemi, non erano mancati fra i due fronti scambi di pagnotte e pacchetti di sigarette, in un’afasica rivincita dell’umanità conculcata) sarà, inaspettatamente, proprio il più valoroso, e decorato, dei veterani di Libia, ebbene, il tenente non si tratterrà dal gesto retorico di strappargli dal petto il nastrino della decorazione, commentando per sovrappiù «Via questi stracci, se han da portarli i vili!», pronto già, di suo, a prenderne il posto sotto il fuoco dei nemici, non fosse  il sottufficiale a richiamarlo al dovere: «Lu no!… Lu el dev no lassà el so post…».

Forse è meglio, dunque, leggere, in questo racconto di pur efficace calibratura narrativa, la Grande Guerra come nient’altro che un crogiolo in cui viene portata al calor bianco l’umana capacità di comportamento abnorme: perché questo è la “paura” del titolo, nell’ottica del tenente Alfani, e di De Roberto con lui; questo, allo stesso modo, il colpo di fucile che chiuderà il racconto facendo «schizzare il cervello [del veterano renitente] contro i sacchi del parapetto».

L’abnormità, in altre parole, che già neiViceré avevamo visto aggredire in maniera diversificata, ma mai altro che repulsiva, e perfino caricaturistica, i membri tutti degeneri del ceto dominate, al crinale del passaggio di potere – come ormai siamo abituati a chiamarlo, per un automatismo dettato da uno di quei rari casi in cui, per giunta nell’opera di un dichiarato epigono di De Roberto, la letteratura ha plasmato il linguaggio, ancor prima che la mentalità degli italiani – gattopardesco.

(Federico De Roberto, La paura e altri racconti della Grande Guerra, E/O, 2014, pp. 144, euro 14)

“Il ricatto” di Eugenio Mira

Già passato al Torino Film Festival come film di chiusura, arriva Il ricatto, thriller di ambientazione musicale del regista spagnolo Eugenio Mira che guarda da vicino al cinema di Alfred Hitchcock.

Tom Selznick è un brillante pianista afflitto da panico da palcoscenico esploso dopo aver fallito l’esecuzione dal vivo di La Cinquette, pezzo per pianoforte solo di una complessità unica composto dal suo mentore Patrick Godureaux, unico interprete al mondo capace di suonare le ultime quattro battute. Proprio per rendere omaggio al suo maestro, scomparso l’anno prima, Selznick accetta di tornare a Chicago per esibirsi dal vivo, suonando il pianoforte appartenuto a Godureaux, dopo cinque anni di assenza dagli auditorium, per un evento promosso e ispirato dalla sua fidanzata, l’attrice di grande successo Emma. Durante il concerto scoprirà, dallo spartito, che la sua vita e quella di Emma sono in pericolo e che la sua sopravvivenza dipende esclusivamente da una perfetta interpretazione di La Cinquette. Tenuto sotto tiro dal fucile del suo interlocutore invisibile, il pianista non ha altra possibilità che concentrarsi su un’esecuzione impeccabile così come gli viene richiesto.

Non ha paura di confrontarsi con Alfred Hitchcock, il regista spagnolo Eugenio Mira, alla terza prova dopo i due thriller The Birthday e Agnosia, entrambi inediti in Italia. Il riferimento al maestro della suspense non è mascherato, e non ce n’è bisogno, è anzi il gioco su cui fa leva Il ricatto (molto più pertinente il titolo originale, Grand Piano). Perché se Hitchcock viene chiamato direttamente in causa da Selznick mentre parla per la prima volta con il suo aguzzino, con riferimento a Paura in palcoscenico, l’intera struttura della minaccia all’interno del teatro richiama L’uomo che sapeva troppo e la sequenza dell’attentato alla Royal Albert Hall.

Mira è abile nell’aggirare il rischio della ripetizione e della stasi implicite nel fixed setting e nella scelta di lasciare Elijah Wood in pratica solo sulla scena per gran parte del film. Proprio la contrapposizione tra la necessaria immobilità del bersaglio Selznick e la continua, incessante, idea della morte che il cecchino gli ispira parlandogli via auricolare, contribuisce a mantenere alto il livello di tensione in un modo che per certi versi ricorda In linea con l’assassino (2003) di Joel Schumacher.

La regia, anche essa mutuata da Hitchcock filtrato da Brian De Palma, non teme il virtuosismo, soprattutto nella prima parte più dinamica, lasciando muovere la camera senza stacchi di montaggio e con un uso anche troppo compiaciuto del piano sequenza e della profondità di campo. Notevole lo stacco gola tagliata – archetto di violoncello.

Forte della sua parallela attività di musicista e compositore per il grande schermo, Eugenio Mira declina in un’allegoria estremizzata il panico di esibirsi comune a molti artisti. La paura del palcoscenico si trasforma da concetto teorico e psicologico a minaccia concreta: all’errore non corrisponde più una recensione negativa ma la morte, con gli occhi del pubblico trasformati in mirini di fucile.

Chiamato a reggere il film per buona parte da solo, Elijah Wood se la cava producendosi anche in un pianismo credibile che ha richiesto mesi di preparazione per rendere verosimili anche i soli movimenti in scena.

Nonostante le numerose inverosimiglianze che riguardano soprattutto l’idea generale del palco trasformato in trappola mortale, Il ricatto riesce a mantenersi in una struttura compatta e tesa, forte anche di una breve durata, prima di rovinarsi in un finale eccessivamente, e inopportunamente, orientato verso l’azione. Se lo si guarda come un omaggio celebrativo e divertito a Hitchcock e al cinema noir anni Cinquanta, funziona. Se si cerca altro, è meglio lasciar perdere.

 

(Il ricatto, di Eugenio Mira, 2013, thriller, 90’)

 

“Augustus” di John E. Williams

Avevo appena finito di leggere, con vergognoso ritardo, Stoner, libro che ho amato come pochi altri, quando mi sono imbattuto in Augustus, l’ultimo romanzo di John Edward Williams, in cui si ripercorre la vita del primo imperatore romano con un piglio squisitamente letterario.

Uscito in autunno per Castelvecchi, preannunciato da un lato da pretestuose critiche di alcuni studiosi quali Luciano Canfora che lo hanno stroncato per alcune “deformazioni” storiche e, dall’altro, dall’attesa spasmodica di chi, come me, si aspettava tanto da questa pubblicazione, l’opera di Williams, in un modo o nell’altro, non ha lasciato nient’affatto indifferenti fosse anche perché questa pubblicazione ha conciso con la mostra dedicata ad Augusto presso le Scuderie del Quirinale, a Roma, organizzata, a duemila anni dalla morte (19 agosto 14 d.C.), per presentare le tappe fondamentali della folgorante storia personale del figlio adottivo e pronipote di Giulio Cesare.

La vita di Augusto, personaggio carismatico e affascinante da tanti punti vista, è ripercorsa sin dall’infanzia e da quella chiave di volta che fu l’uccisione del padre adottivo, l’uomo che aveva messo a soqquadro l’ordinamento ormai classico della Repubblica.

Tutto passa nelle sue mani ma lui non è altro che un ragazzo gracile, malaticcio, che porta con sé, in eredità, soltanto un nome e un po’ di soldi.

E sono proprio quel nome e quei soldi, lasciatigli da Giulio Cesare, in sintonia con una serie di scelte intuitive ma rischiosissime per un ragazzo della sua età ad avviare una carriera di successi irripetibili.

L’opera iniziata dal padre è conclusa dal figlio che ne farà tesoro per portare, a Roma, l’impero più grande e più affascinante della storia del’uomo occidentale.

Augusto riesce a porre fine alle lotte fratricide, cancella in poco tempo sanguinosi conflitti che consumato, dall’interno, la repubblica.

Più di quarant’anni di principato, in un impero che si estendeva in tutto il Mediterraneo, fino alla Turchia, e in tutta l’Europa centrale, sono abilmente raccontati dall’autore che attua un vero e proprio gioco di incastri tra documenti storici, invenzioni letterarie, punti di vista differenti, lettere e fatti accaduti raccontati con un taglio psicologico sicuramente occidentale e contemporanea.

Infatti, a mio avviso, la forza del libro non va cercata nella perfezione storica – che a volte lascia spazio a, scusate l’ossimoro, fantasie comunque verosimili – ma nella costruzione d’insieme, nella piattaforma a ragnatela creata magistralmente da Williams.

Concetti fondamentali come «pax», «pietas», «concordia» si adattano a una storia che, prima di tutto, è fatta da uomini. Augusto è il primo di un gruppo di amici – una formidabile brigata di pensatori, filosofi, poeti, artisti, uomini politici che vanno da Virgilio a Orazio passando per Mecenate – in cui tutti sono primi nella loro arte così come nella fedeltà e nella stima reciproca.

Augustus è un padre, di una figlia e di uno stato. Legatissimo alla prima, sceglie di sacrificarla per il secondo e ne soffre come solo un genitore e una persona che ama possono soffrire.

Augustus ha paura della morte e della solitudine, perché la morte e la solitudine lo attenderanno e probabilmente avrebbe voluto prima morire che rimanere solo, senza i suoi amici che periscono, tutti, prima di lui.

Certo Williams quando la narrazione attinge dall’epistolografia latina (che siano lettere o pagine di diario poco importa) sicuramente non rispetta il canone delle lettere nel mondo classico ma è come criticare la Yourcenar per il profilo psicologico modernissimo che caratterizza il suo Adriano.

A unire tra loro i testi di questo corpus creato ad hoc dall’autore, c’è una lingua meravigliosa, precisa, attenta, che non cade mai nel sensazionalismo. La stessa “perfezione” estetica che ci ha fatto innamorare di Stoner, un professore la cui vita sarebbe la paralisi del fascino se non ci fosse stata dietro la mano alchemica di Williams.

Alla fine del libro ci sentiamo amanti a cui è stato tolto troppo presto il proprio amato. O meglio i propri amati: sì perché più di Augusto ci innamoriamo dell’insolenza di Giulia, della saggezza di Agrippa, della sensibilità di Mecenate, dell’eroismo di Salvidieno Rufo; dell’intelligenza di Livia, del respiro di Roma.

Ci innamoriamo di un tempo forse tirannico, è vero, ma dal fascino indiscutibile. Un tempo di grandi uomini che, forse, solo nel Rinascimento italiano si è spostato nell’ombra di altri tempi.


(John Edward Williams, Augustus, trad. di B. Oddera e A. Lattanzi, Castelvecchi, 2013, pp. 384, euro 17,50)

“Canale Mussolini” di A. Pennacchi, G. e M. Lanzidei e M. Ruggeri

Tratto dal romanzo di Antonio Pennacchi vincitore del premio Strega, la rielaborazione a fumetti di Canale Mussolini (sceneggiatura: Graziano e Massimiliano Lanzidei, disegni: Mirka Ruggeri) compendia in quattro parti più epilogo l’epopea della bonifica dell’agro pontino. Pubblicato dalla giovane e brillante casa editrice Tunué nella collana Prospero’s Books, il graphic novel ripercorre fedelmente la trama del romanzo portando il lettore (quello del libro, ma anche quello nuovo) faccia a faccia con i Peruzzi, famiglia di coloni tra le centinaia chiamate a bonificare un territorio prima infestato dalla palude e dalla malaria.

L’Italia degli anni Trenta, la nascita del fascismo, il regime e le sue disgraziate guerre. Questi gli ingredienti di una storia che alterna l’epopea contadina e la storia nazionale, sulle orme di una famiglia giusta dalla parte sbagliata dalla storia, nel fremito di rivalsa collettiva e personale che dona la fame. Cacciati dalle proprie terre, i coloni si troveranno alle prese con una guerra di sopravvivenza in un territorio nuovo e ostile, mescolando passioni civile e personali al caso che le governa.

 

 

Il bel lavoro degli sceneggiatori rende il filo della narrazione semplice ma non ingenuo, cogliendo, da quel bacino ribollente di suggestioni che è il romanzo, alcuni motivi forti che fanno galoppare la vicenda da un capo all’altro dell’Italia senza indugi, da Caporetto all’Africa Orientale, tutto quello che succede è utile a una narrazione che ha dovuto lavorare molto di forbice per distillare l’essenziale e mantenere comunque il gusto epico che è stata la caratteristica principale del romanzo. Perfettamente calata nella sfida, Mirka Ruggeri dà un volto ai protagonisti della storia ricostruendo una suggestione visiva evocata nei toni seppia della memoria, in contrasto con il presente caldo e assolato dell’agro.

 

 

Un ottimo lavoro insomma, questo Canale Mussolini di Tunué, costruito su un solido successo e utile a portare ancora più lontano la storia di Pennacchi e della sua terra, che è anche la terra dell’editore, il che concorre a garantire un coinvolgimento ulteriore: «l’adattamento di Canale Mussolini ha una forte valenza simbolica per la nostra casa editrice, perché da una parte ci ha messo alla prova su un’opera che ha vinto il premio Strega, dall’altra racconta la nostra terra e le persone che hanno trasformato la selvaggia palude nella nostra amata città».

 

 

(Antonio Pennacchi, Graziano e Massimiliano Lanzidei, Mirka Ruggeri,Canale Mussolini, Tunué, 2014, pp. 185, euro 16,90)

“The Unnatural World” di Have a Nice Life

Dopo Micah P. Hinson, continua il nostro sguardo verso i lidi più indipendenti del circuito musicale. In questo caso però, preparatevi all’estremismo più assoluto. Dovrete affrontare degli sforzi, ma vi assicuro: il risultato finale vale ogni centesimo del prezzo del biglietto.

Il viaggio di quest’oggi ci porta in Connecticut, patria natia di Dan Barret e Tim Macugaperm, ovvero gli Have a Nice Life. Un nome di primo acchito ottimista, quasi solare, un buon augurio: bene, niente di più lontano dallo loro musica. Il loro esordio, l’ormai basilare Deathconsciusness, del 2008, è un doppio album sul tema della morte, che il gruppo stesso ha definito come «il disco più depresso della storia della musica». Ascoltatelo e non sarà difficile dargli torto. Conclusi alcuni progetti solisti, ecco dopo sei anni l’attesissimo seguito: The Unnatural World.

Un album – come il primo – assolutamente estraneo alle attuali logiche commerciali, sia a livello materiale che a livello concettuale. Per il primo aspetto, il disco non è acquistabile in nessun negozio sulla faccia della Terra: se lo volete, dovete scrivere una mail direttamente alla band. In un contesto dove tutto è immediatamente reperibile e scaricabile e anche la band più schiva e introversa non lesina tweet e stati su Facebook, un modello del genere sembra impensabile. A livello musicale poi, c’è un solo modo per ascoltarli: dargli del tempo e concedersi completamente. In un mondo dove la musica – in maniera più o meno superficiale – ci accompagna ovunque e nei più svariati formati, gli Have a Nice Life per ascoltarli devi fermarti e fare solo quello. È l’unico modo per scendere nel pauroso abisso del loro talento.

Difficile classificarli o inquadrarli: Joy Division all’estremo, il post-rock più sperimentale concepibile, ambient – industrial. Ma è solo una perdita di tempo: gli Have a Nice Life sono loro e basta. Chiudete gli occhi e lasciatevi avvolgere dall’inizio epico e solenne di “Guggenheim Wax Museum”. Incredibile. Come altrettanto d’impatto è “Defenestration Song” (tutti e due i membri della band hanno trascorsi di studi storici e si sente), dalla batteria suprema e il manto di chitarra avvolgente. Gli altri brani danno un profondo e spesso angosciante senso di ascesa, di volontà a elevarsi verso qualcosa di complesso. “Music Will Unntune the Sky”: cinque minuti in cui gli ultimi Swans sembrano un gruppo di liceali. Degna conclusione è allora “Emptiness Will Eat the Witch”, quasi dieci minuti di suono, battiti e sussurri a chiudere il rituale.

Tanti i tratti geniali del disco, dalla copertina assolutamente malata e bizzarra tratta dal film Madre Giovanna degli Angeli, ai brani concepiti come piccoli rituali, messe di celebrazione dell’anima.

Andando a concludere, gli Have a Nice Life sono senza dubbio uno dei gruppi più estremi e unici del panorama underground. Da culto assoluto. Ascoltarli più che un rischio, è una scelta. Non solo musicale.


(Have a Nice Life, The Unnatural World, Enemies List, 2014)