“Viviane Élisabeth Fauville” di Julia Deck

«Ti chiami Viviane Élisabeth Fauville, in Hermant. Hai quarantadue anni e il 23 agosto hai dato alla luce la tua prima figlia, che molto probabilmente rimarrà anche l’unica. Sei la responsabile della comunicazione della Bétons Biron, un’azienda con un alto fatturato che ha sede in un edificio di otto piani in rue de Ponthieu, a due passi dagli Champs-Élysées. […] Tuo marito, Julien Antoine Hermant, ingegnere del Genio Civile, è nato a Nevers quarantatré anni fa. È stato lui, il 30 settembre, a mettere fine a due anni di incubo coniugale».

Viviane Élisabeth Fauville (Adelphi, 2014) della scrittrice esordiente Julia Deck, caso editoriale in Francia, è un’immersione nell’oceano oscuro dell’inconscio della protagonista, un noir psicologico dal fascino inusitato e sinistro.

Il successo di questo romanzo risiede senza dubbio nella struttura narrativa. L’alternarsi fra la prima persona, che dà forza di io narrante a Viviane rivelandone i sentimenti, e la terza persona di un narratore onnisciente super partes che rende oggettivi i personaggi, è spezzato dall’uso insolito della seconda persona, plurale in francese, quel “voi” delle conversazioni formali che i traduttori Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco hanno reso in italiano al singolare per dare quell’oggettivo distacco con cui l’autrice guarda Viviane, un po’ avvicinandola, un po’ respingendola senza mai cedere alla tentazione di esprimere un giudizio moralista, memore della lezione dostoevskijana di Delitto e castigo.

Lo stesso alternarsi dei due nomi, Viviane ed Élisabeth, nel corso dei capitoli rivela una personalità sdoppiata, psicologicamente dissociata.

La mente di Viviane ci restituisce frammenti, scene isolate. Si presenta al lettore mentre su una sedia a dondolo culla la figlia di tre mesi, con la sgradevole sensazione però «di aver fatto, quattro o cinque ore fa, qualcosa che non avresti dovuto fare».

Viviane è una donna fragile e per questo da quando è stata abbandonata dal marito è in cura da uno psicanalista. Questi le fa sempre domande che la infastidiscono. Ora però anche lui l’ha lasciata sola. Non perché ritenesse la sua paziente clinicamente incurabile, ma perché messo a tacere per sempre da una ferita mortale da arma da taglio proprio quel giorno, il 16 novembre, in cui Viviane presa da una crisi, gli aveva chiesto un appuntamento urgente.

Viviane, scossa, ricostruisce allora le ore precedenti alla sua visita: il leggero e ricorrente malore, la telefonata al dottore, il passaggio a casa del marito per prendere alcune cose tra cui il set di coltelli regalatole dalla madre per il matrimonio, la conversazione irritante con l’analista Jacques Sergent, il sangue.

Viviane, convinta di esserne l’assassina, lascia ora il posto a Élisabeth, la quale avvia una serie di sconclusionate e personali indagini pedinando la moglie del dottore e l’amante e altri pazienti sospetti.

È la morte del suo psichiatra a minare l’unità di un io già così instabile e farne esplodere le rimozioni. Alcune domande spontaneamente sorgono nel lettore avvinto da una tensione tutta staticamente  psicologica: la separazione dal marito in una mente così permeabile sarà causa o effetto di tale evento?

Viviane sembra vivere in perenne stato confusionale. Prima ancora che madre è figlia. L’arma presunta del crimine le è stata regalata dalla madre. Ma la madre è morta lasciandole un appartamento in un bel quartiere di Parigi.

«E lei non chiede di meglio, mettere un po’ d’ordine nella sua memoria. Solo che i fatti, invece di venire alla luce, precipitano in un pozzo sempre più profondo.

Senza più un passato prossimo, si rifugia in quello remoto, si ricorda della madre che non ha né inizio né fine, che è impossibile datare quale che sia il metodo utilizzato, carbonio-14 o introspezione».

Solo la maniacale descrizione delle strade della capitale francese, che la protagonista percorre passando dagli arrondissement alto-borghesi ai bazar e negozi di immigrati di Gare de l’Est, fino a rue Louis-Blanc con i venditori di sigarette di contrabbando e caldarroste, sembra l’unico argine fisico alla follia delirante di Viviane. Ed è una metropoli tutt’altro che romantica, coperta com’è da una pesante coltre di neve, metafora dell’ottundimento della mente.

Nel frattempo le indagini della polizia proseguono parallele a quelle di Élisabeth, che non fa niente per non far convergere i sospetti su di lei. Ma nessuno in realtà la prende sul serio, anzi viene percepita come una «cosa da scansare», sola e abbandonata, con una bambina piccola come unico appiglio: «Una nuvola di polvere ti sale al cervello. Ti provoca un’immediata sudorazione, ti fa tremare le dita. Sull’orlo di un mancamento, ti aggrappi alla bambina perché ti impedisca di cadere. La bambina si rivela all’altezza della situazione».

Viviane Élisabeth Fauville è un noir in cui il vero nodo da sciogliere, il caso da risolvere non è tanto un omicidio quanto ritrovare una lucidità perduta che dia ordine a un quotidiano beckettianamente assurdo con colpo di scena finale.

(Julia Deck, Viviane Élisabeth Fauville, trad. di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi, 2014, pp. 129, euro 15)

“Memorie di un vecchio cialtrone” di Roland Topor

Chi ha ispirato Mondrian a dividere la tela in forme geometroche esatte? Chi ha inventato il cubismo? Chi ha favorito il surrealismo?

Memorie di un vecchio cialtrone (Voland, 2013) racconta una storia alternativa del Novecento, in cui il protagonista si muove come un Forrest Gump ante litteram propiziando le più importanti avanguardie tecniche e artistiche, mentre da del tu a Picasso e Gertrude Stein.

Precipitato nello squallore di una camera negli scantinati dell’hotel dove lavora come sguattero, dopo un’infanzia agiata e piena di promesse, il protagonista di queste memorie è un enfant prodige della pittura, dotato di un talento esuberante che tuttavia necessita di tecnica, duro lavoro e soprattutto fortuna. Con l’inseparabile compagno Franz K. parte allora alla volta di Parigi, dove conoscerà e frequenterà i più grandi artisti del secolo. Di lì in avanti la sua sarà una carriera folgorante, ricca di luci e ombre ma in costante ascesa, e la fortuna sarà tutt’altro che avara di incontri e momenti memorabili.

Con uno stile veloce e pungente, Roland Topor ci porta nella sua autobiografia ideale, lungo tutto il corso del secolo decimonono, il grande iceberg che ci siamo lasciati alle spalle da quattordici anni. Puntando tutto sulla forza della citazione e dell’allusione, questo semi sconosciuto (da noi) artigiano della creazione ci porta con sé nelle avventure picaresche del cialtrone a cui presta la voce. Presentatoci ufficialmente alla fine del viaggio da uno scritto di Carlo Mazza Galanti, «L’arte sottile della brutalità», ci troviamo di fronte un artista talentuoso e disturbante, anti-accademico, dispotico e fragile, impegnato in ogni campo dell’arte.

Roland Topor (1938-1997) ha collaborato con Federico Fellini e Roman Polanski (L’inquilino del terzo piano è tratto da un suo romanzo) e ha fondato il “movimento panico” insieme a Jodorowsky e Arrabal. Ora Voland ci propone, con questo Memorie di un vecchio cialtrone, la conoscenza più profonda di una voce così originale nel panorama del secondo Novecento francese.

(Roland Topor, Memorie di un vecchio cialtrone, a cura di Carlo Mazza Galanti, Voland, 2013, pp. 160, euro 14)

“Circo equestre Sgueglia” di Raffaele Viviani

Circo equestre Sgueglia, la prima commedia in tre atti di Raffaele Viviani, attore, commediografo e compositore napoletano vissuto nella prima metà del XX secolo, torna in scena dopo una lunga assenza dai palcoscenici teatrali per la regia di Alfredo Arias. Il regista, argentino naturalizzato francese, ha fatto una scelta particolarmente vicina sia alla sensibilità argentina sia alla tradizione partenopea e la messa in scena di questo melodramma fatto di grandi dolori e piccole storie che si svolge dietro le quinte del circo di Don Ciccio Sgueglia, si arricchisce di più di una contaminazione culturale e del vissuto dello stesso Arias.

«Davanti alla casa in cui abitavo con i miei genitori un giorno arrivò un circo molto povero, stoffe rattoppate con al centro i pali coni trapezi», racconta il regista presentando il suo lavoro, «all'esterno si potevano vedere, senza pagare, i volteggi di poveri acrobati. Qualche animale triste passeggiava senza comprendere questo paesaggio di desolazione. L'orso, la zebre, il dromedario asciugavano le loro lacrime sotto un sole opprimente».

Ambientata all’interno di un microcosmo fatto di stoffe rattoppate e quotidiana disperazione, tra carovane di case mobili, trapezi, cavalli e miseria, la storia ruota intorno alle figure di don Samuele e donna Zenobia, due clown, vittime dell’infedeltà dei rispettivi coniugi. L’uno e l’altra sono sciocchi che rifiutano la realtà anche quando è palese, sono ingenui innamorati che cercano inutilmente di porre rimedio alla passione altrui che li ridimensiona a livello di “danni collaterali”, sono l’oggetto della pena delle figure che li circondano e che con loro condividono un’esistenza di perenne precarietà, ma sono anche l’incarnazione della poesia fatta di castità, tenerezza e solidarietà nobili sentimenti capaci di elevare Pierrot e guadagnargli un posto a sedere sulla luna.

Il mondo del circo, il lavoro e la vita condivisi per mettere insieme lo spettacolo così come il carbone per accendere il fuoco e l’acqua per lavare i piatti e cucinare la pasta, esprimono, per Arias il legame tra gli esseri abbandonati dalla sorte. Nel circo i diseredati cercano rifugio in un’arte pericolosa per imparare a camminare sul filo che li tenga sospesi sopra la fame e la follia e, fatalmente, non riescono perché la fame e la follia sono bestie fameliche che prediligono pasteggiare con gli ultimi.

Circo equestre Sgueglia, produzione del Teatro stabile di Napoli e del Napoli Teatro Festival Italia, e vincitore del Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013, è uno spettacolo validissimo e assolutamente da consigliare, in grado di alternare una comicità aperta e naturale, di cui Massimiliano Gallo è un interprete efficacissimo, a momenti intimistici, struggenti e indelebili come le espressioni di Monica Nappo. Quest’opera ci rimanda a un mondo che non c’è più, o che forse non c’è mai stato, preso in mezzo tra le due Guerre – Circo equestre Sgueglia ha debuttato al Teatro Bellini di Napoli nel 1922 – e di cui conosciamo, in fondo, solo il viso, così simile al Gastone di Alberto Sordi, qui indossato da Mauro Gioia interprete delle didascalie del testo e della maggior parte dei passaggi musicali.
 

Circo equestre Sgueglia
Testo e musiche Raffaele Viviani
Regia Alfredo Arias
Con Massimiliano Gallo (Samuele), Monica Nappo (Zenobia), Tonino Taiuti (Bagonghi), Carmine Borrino (Giannetto), Lorena Cacciatore (Nicolina), Gennaro di Biase (Bettina), Giovanna Giuliani (Giannina), Lino Musella (Roberto), Marco Palumbo (Don Ciccio), Autilia Ranieri (Marietta) e con la partecipazione di Mauro Gioia (Narratore)
Musicisti Giuseppe Burgarella (pianoforte), Gianni Minale (fiati), Flavio Tanzi (percussioni), Marco Vidino(chitarra e mandolino)

Prossime date
Roma – Teatro Argentina dal 4 al 23 marzo
Genova – Teatro della Corte dal 25 al 30 marzo
Parma – Teatro due 1 e 2 aprile

“La solitudine di un riporto” di Daniele Zito

Chi vi scrive maneggia abitualmente merce radioattiva. Non esistono foglietti d’istruzione né sfolgoranti praterie di avvertenze. Esistono le mani e poi gli occhi e interi corridoi di pensieri. Esistono loro e il corteo di chi ci resta impigliato. Con danni imprevedibili e spesso permanenti. Persino tramandabili al futuro.

Chi vi scrive, per un’insana mistura di attrazione e mestiere, non può fare a meno di leggere.

Chi vi scrive lavora in libreria e, ovvia postilla, sta parlando di libri. Soprattutto di quella letale fattispecie che sono i romanzi. E quando s’imbatte in un oggetto simile, che per di più schiaffa sulla scena un libraio, il richiamo rischia di agganciarti i nervi. Ti sperona fin quando non t’invischi. Quindi, in questo caso, l’impatto con Daniele Zito è stato più che altro un tamponamento. Il titolo, La solitudine di un riporto (Hacca, 2013), non suggerisce granché. La copertina aggiunge solo un vecchio telefono nero, a strizzare i “dati anagrafici”. Con un filo che scavalca le dita. Il resto è da afferrare.

Il resto è la storia di Antonio Torrecamonica, libraio catanese con pochi stoici ciuffi acciambellati sulla testa. Soli come lui. È un libraio atipico, che detesta i suoi “prodotti”, che non snocciola consigli ai suoi clienti, che impiega le pagine di Anna Karenina per rimuovere incrostazioni profonde, le stesse di cui si occupa la carta igienica. Non si pronuncia perché non legge, perché ha promesso di non farlo troppo tempo prima, perché le parole impastano, aggrovigliano, intrappolano.

E sono solo sformati d’inganni. Stupido discuterne, per dimostrare di saperne, per sentirsi migliori di fronte a un altro viso. Irritante, no? Ma Antonio può permettersi di pensarla così, di ignorare o bistrattare i suoi avventori. Tanto quel negozio sopravvive comunque, al di là del venduto. Perché serve come copertura, per consegne che scottano. Il libraio è protetto da poteri di fango, da un boss che lo ha salvato/condannato.

Strappato dal manicomio perché nipote di una “Santa” e poi recintato di scaffali, senza alcuna possibilità di evadere. Semplicemente traslato, da una gabbia all’altra. Usato come pedina immobile.

Il libraio non si sposta, alterna passi sbriciolati. E non conosce vita al di là di quel bancone, di quelle copertine che gli occultano l’aria. Aspetta la valigia. Aspetta Paolo, quel “fratello” scappato da un altro lager di pazzi, che gli parla quando il telefono non squilla. E poi sparge bombe per polverizzare i vari concorrenti, soprattutto se sono Megastore. Tutto fruscia uguale, tremendamente sgangherato e atrocemente solito, finché non arriva un funerale. Che lo battezza all’amore. In chiesa incontra Irene e si scopre stregato come Florentino per Fermina. Scopre che un libro può trangugiargli il cuore e che la sua realtà potrebbe comporre altri capitoli. Ma i sentimenti deflagrano più degli ordigni, spezzano i polsi, setacciano il sangue. Ed è difficile mantenere il controllo. Soprattutto quando nessuno te lo insegna, quando i giorni contano pochi sorrisi e ancor meno docce. Quando per vivere basta un vestito soltanto: «Cinquantotto anni e nessuno con cui festeggiarli. La sua esistenza era solo piena di persone morte. Persone morte e fantasmi. Era troppo vecchio per prendere in considerazione anche l’idea di farla finita. I giovani suicidi sono belli e tragici, i vecchi che si suicidano sono brutti e ridicoli». E poi ancora: «Quei baffetti da soli non sarebbero bastati a difenderlo dal mondo. Forse avrebbe fatto meglio a coltivare una bella barbona francescana, in modo da lasciare in pasto alla cattiveria degli altri un po’ di naso e qualche avanzo di sguardi».

La vicenda s’ispessisce e poi scivola alla presa. Al male di vivere si aggiunge la malavita. Gli intrecci mafiosi diluviati un po’ dovunque, che trascendono l’insignificanza microscopica di un libraio ammattito.

E si disperdono nella normalità mostruosa dei loro olocausti. Che le forze dell’ordine non riescono a strozzare. Perché non c’è forza e non c’è ordine. Il commissario fiuta solo fantasmi e il questore arriccia il muso di fronte alla verità.

Nel suo deserto, quindi, Antonio non è l’unico. Ogni personaggio domiciliato nella trama è atomizzato quanto lui. A partire da Irene, vedova che per anni ha sposato un’assenza, per proseguire con Don Pietrino e il suo Vice, allattati col veleno, addestrati all’odio. Cani da combattimento abituati a mordere il dolore altrui, per non sentire il proprio. Ad annusare la paura sulla scorza del nemico.

Non per ucciderlo, per annientarlo.

Ben lontano da figure di libraio eroico e malinconico, come quello protagonista del romanzo di Asne Seierstad Il libraio di Kabul o dal tepore romantico di Jasmine ne La libreria dei nuovi inizi di Anjali Banerjee, il nostro Antonio punge, provoca, stizzisce, per poi schiudere l’urlo della sua fragilità. Quella di un uomo preso a calci sui sogni, per cui la pazzia non è altro che un rifugio della mente.

La lingua di Zito è schietta, amara come le esistenze che immortala, spietata anche con se stessa, con le fantasmagorie dei suoi pericoli continui. D’altronde, come si afferma nella storia, «la letteratura è sempre colpevole». Al di là dei suoi personaggi. Colpevole di tradire la realtà, di trafiggerla in mezzo alla gola e di raccontarle l’impossibile. Colpevole, quindi, come Antonio, di estrema innocenza.

(Daniele Zito, La solitudine di un riporto, Hacca, 2013, pp. 347, euro 15)

“Organi vitali” di Frank González-Crussí

La maggiore originalità, del pur interessante Organi vitali (Adelphi, 2014), di Frank González-Crussí, si può dire risieda in un motivo conduttore da cui si rivelano unificati i sette capitoli, dedicati ad altrettanti apparati anatomici, tutti “vitali” almeno nella stessa misura in cui restano – con l’ovvia eccezione di quello riproduttore maschile, su cui pure, non senza inspiegabilità, l’autore commenta: «Nell’osservare il fisico maschile è difficile respingere l’idea che i genitali siano un’estensione, un’aggiunta a cose fatte» quasi frettoloso e maldestro rimedio di una dimenticanza, applicato là dov’è «con l’aria di contrito imbarazzo di chi si rimbrotta da sé» – , oscuri e misteriosi, nel buio totale del nostro organismo: quello digestivo, l’escretore, il respiratorio, il riproduttivo, appunto, sia femminile che maschile, e, infine, quello cardiaco.

Ora, già questo buio interno, questa incomunicabilità con la parte presunta “nobile” dell’essere nostro, la mente e il suo luogo geografico di residenza («I Greci,» chiosa l’autore «da incondizionati ammiratori quali erano delle facoltà speculative, stabilirono una gerarchia delle parti del corpo, nella quale il capo, sede del raziocinio, era naturalmente collocato in posizione suprema»), è per ciò stesso all’origine di quello che, in prima istanza, potrebbe sembrare il motivo unificatore del divagante libretto: la disamina cioè di alcune soltanto, fra le molte assurdità generate, nei secoli, dal tentativo di venire a patti con questi nostri intrattabili coinquilini.

Ecco, così, sfilare davanti ai nostri occhi, a metà fra l’amaro compatimento e l’illuministica riprovazione di tanta capacità di autoinganno, clisteri praticati perfino alle principesse regali di Francia, sotto gli occhi esterrefatti del Roi-soleil in persona, metri di colon inutilmente resecati perché presunti portatori, benché sanissimi, di «autointossicazione intestinale», bevande («gonfia di vino i polmoni», già esortava Alceo) che «scendono per il polmone fin sotto ai reni», come impavidamente pontifica Platone in Timeo, XLIV 91a, asseriti «prepuzii di Gesù» (e il plurale è d’obbligo, perché ne vantarono il possesso almeno otto diverse località della Francia, per tacere di Roma, dove era venerato in Laterano) e organi sessuali di Napoleone o di Rasputin giunti per traverse e furfantesche vie a placare le brame di danarosi collezionisti.

Eppure, come si diceva, non è questo, a una più attenta lettura, il motivo profondo d’interesse del libro; come, meno ancora, i numerosi aneddoti (l’uomo che sopravvisse a un’aggressione fino a 84 anni con un buco nello stomaco, sfruttato dal medico suo “padrone” per esasperanti, persecutorie indagini sulla meccanica della digestione; Frédéric Chopin costretto da un’ordinanza antitubercolare a cercare riparo nell’umida e piovosa certosa abbandonata, a Majorca; e così via…) lardellati fra un “organo vitale” e l’altro forse per marcare meglio la differenza rispetto a un togato tomo universitario di storia della medicina; né mancano, in tal senso, addirittura citazioni di opere letterarie: i capitoli di Tacito sul matricidio perpetrato da Nerone (Ventrem feri!, «Colpisci il ventre!», grida Agrippina, scoprendosi il sesso), o L’inganno di Thomas Mann, di cui l’autore, evidentemente ignaro della, ormai acclarata, duplicità sessuale di quel grande, si sofferma ad ammirare, ingenuo e stupito, come quello manniano sia «uno dei pochi lavori di narrativa prodotti da uno scrittore uomo ma svolti al tempo stesso da un punto di vista convincentemente femminile».

Ma è magari proprio il richiamo a Mann, con la compresenza nelle sue opere, accanto al pulsare ampio e fluviale della più borghese sanità, del tema, decadentistico se altri mai, del Verfall, quando non del Tod bell’e buono – che lo incarnino bruni efebi polacchi, a Venezia, o focose portatrici di treponema palidum nel Doctor Faustus – , è proprio questo tema, a portarci al cuore del libro: giacché, appunto, presentandoci con dovizia di sfumature coloristiche, tattili, e perfino foniche (i “rantoli” variamente mescolati di muco e altri residui della corruzione, che si avvertono nel corpo devastato dei tubercolotici), i diversi apparati annidati nel fondo del nostro oscuro organismo, González-Crussí perviene ogni volta alla considerazione della compresenza in ciascuno di essi, necessaria, e quasi provvidenzialisticamente predisposta, di morte e vita, di generazione e decomposizione, che si tratti delle feci che stazionano nel nostro intestino (l’autore non lo nota: ma non può certo sfuggire il nesso, perfino glottologico, esistente nei due termini che indicano la morte e il prodotto finale della digestione, nella nostra come in molte delle lingue diffuse sul pianeta) o del sangue mestruale che provvede a liberare il corpo femminile di ogni possibile pascolo per batteri, una volta inutilizzati i materiali nutritivi approntati per la riproduzione. La morte insomma è «coesistente e contemporanea alla vita, e indispensabile alla sua prosecuzione». Che poi questo basti a «intravvedere vita e morte alla luce della conoscenza biologica che la specie ha perseguito con tanta tenacia e raggiunto con così coscienzioso puntiglio», magari sarà un po’ più difficile: ma il libro, almeno, è stato piacevole da leggere.


(Frank González-Crussí, Organi vitali, trad. di Gabriele Castellari, Adelphi, 2014, pp. 339, euro 18)

“La frattura” di Giovanna De Angelis

La frattura (Elliot, 2014) è il primo e ultimo romanzo di Giovanna De Angelis, uscito postumo come un anelito di seconda vita.
Francesca ha 36 anni, vive a Roma, traduce storie che non ama, ha un marito affettuoso, una madre assorta, un’amica attenta e un amante, Diego, che le ha cambiato la qualità dell’aria. La frattura è una malattia e risiede tra il «vento»e lo «schianto» – così si chiamano le due parti in cui è suddiviso il libro – tra ciò che smuove l’impasse e la fa vibrare, e ciò che invece è capace di arrestare ogni movimento.

Tutto si ferma, il corpo è stanco, la mente si appiglia a uno spiraglio di energia vitale che d’un tratto appare amore ma è solo un diversivo. Diego è un rivolo di vita, di estraneità che rende possibile il guardarsi senza dirsi la verità, il fingere che le cose siano ancora belle, il vivere la vita di un altro, il costruirsi idee e ritagliarle mentre il tempo è scandito dalle sedute di chemioterapia.

«Questo povero corpo» ripete Giovanna in un intreccio di mali, tra autobiografismo e narrazione. Eppure non lascia spazio a pena né ad autocommiserazione, non ci sono eroi nella sua storia, ma solo verità. Non c’è morale, ma egoismo, noncuranza, impossibilità di comprendere il dolore, perché «è solo di chi lo prova, e di nessun altro».

«Io non vi appartengo» dice Francesca e si riferisce ai medici, agli infermieri, alle premure di familiari e amici, alle frasi di circostanza, a chi non è legato al letto da una flebo.

Poi la vendetta, che distrugge gli oggetti e i legami, che fa di chi è debole un forte e con la quale Francesca si riprende la vita a dispetto di chi non ha avuto il coraggio di guardare in faccia quella imminenza di morte. In copertina è raffigurato il corpo di una donna, fasciata in un abito da bambola tinto di rosa. In mano, al posto della borsetta, una sega elettrica. Combattiva, tosta, femminile e ironica: così è Francesca e così gli amici descrivono Giovanna De Angelis.

171 pagine da bersi in poche ore e tutte d’un fiato. Una prosa scorrevole e voluttuosa, che diventa poetica nelle descrizioni dei vicoli di Roma, delle sofferenze del corpo, delle attese e delle piccole illusioni. Questo libro ha una propria voce e una sottile armonia di fondo. Sandra Petrignani, alla presentazione del 4 febbraio alla Casa delle Letterature di Roma, cita Marguerite Duras che stilò un decalogo di “buona scrittura” per esordienti. «Nel libro di Giò» dice«ritrovo tutto».

Yari Selvetella, scrittore ed ex compagno dell’autrice, ha raccontato, nella stessa occasione, che «l’ultimo suo segno, sul quaderno che aveva in ospedale, è stata una virgola. Aveva ancora tanto da dire». Si commuove e ci commuove, come il romanzo anche la vita, un rendez-vous tra durezza e ingenuità, la forza di due donne che sono una e sono tante.


(Giovanna De Angelis, La frattura, Elliot, 2014, pp. 171, euro 16,50)

“La variante Moro” di Elena Invernizzi

La variante Moro (Round Robin, 2012) è un romanzo di Elena Invernizzi.

Una scacchiera e due giocatori che si affrontano, il Bianco e il Nero, misteriosi avversari di una partita che ha in palio lo svelamento della propria identità e dei propri segreti. Una sola condizione: ogni volta che uno dei due mangia un pezzo, l’altro deve raccontare una storia. Così, fin dalle prime mosse, i personaggi iniziano a scoprirsi: il Bianco è un reduce della Legione straniera che ha partecipato come consulente a diverse operazioni del Plan Cóndor, il programma di repressione controrivoluzionaria messo in atto negli anni Settanta dai governi sudamericani col decisivo appoggio degli Stati Uniti; il Nero è un personaggio più enigmatico e impenetrabile, estremamente informato sulle fasi del sequestro Moro avvenuto in via Fani il 16 marzo del 1978.

La partita che si svolge sulla scacchiera è il riflesso della partita psicologica in corso tra i due giocatori, che si sfidano ripercorrendo vicende personali e non, legate ad alcune delle pagine più buie e controverse della storia recente, italiana e internazionale. I due personaggi oppongono le loro esperienze, il loro sapere e la loro astuzia in una partita che diventa necessariamente metafora dello scontro strategico fra le forze in campo in quel convulso contesto storico. Una partita dove risuonano le voci delle vittime e dei carnefici, l’eco dei sospetti e dei complotti, giocata alla ricerca di qualche frammento di verità o di giustizia.

Italia e Sudamerica sono due scacchiere dove è in gioco la vita democratica di interi Paesi. Da un lato, il caso Moro, archetipo di tutti i grandi “misteri italiani”, vero e proprio “buco nero” che risucchia dentro di sé tutte le forze del sistema e dell’anti-sistema, coinvolgendo svariati e pesanti interessi politici, ideologici, strategici (dal terrorismo di sinistra alla P2, dalla ‘ndrangheta alla NATO, dalla Dc ai servizi segreti internazionali); dall’altro lato una delle più massicce operazioni di intelligence anticomunista, responsabile di una paranoica e feroce repressione in nome di quella strategia politico-militare finalizzata a «destabilizzare per stabilizzare».

L’autrice fa scorrere la narrazione sul doppio binario politico e geografico, con particolare attenzione alle analogie, gli incroci e le coincidenze che emergono tra due mondi solo in apparenza distanti. Lo fa mescolando più voci: a quelle dei personaggi si aggiungono infatti le voci dei protagonisti diretti delle vicende, tratte da interviste e testimonianze, che contribuiscono a fare luce sugli aspetti più oscuri e ad approfondire le versioni più semplificate. La ricchezza, la precisione delle informazioni e la varietà delle fonti citate danno vita a un importante lavoro di ricostruzione storica che tuttavia, tramite l’espediente narrativo della competizione tra il Bianco e il Nero, non si arena nella semplice cronaca. Anzi, si vivacizza e si arricchisce di tensione drammatica nel sottile duello tra i due giocatori, tesi a carpire il segreto l’uno dell’altro e quindi a trovare una risposta agli interrogativi che si susseguono mossa dopo mossa, e che sono gli stessi interrogativi che la storia non smette di porci.


(Elena Invernizzi, La variante Moro, Round Robin, 2012, pp. 311, euro 15)

“Il vento di Sinnington” di Stefano Oddi

Il romanzo d’esordio di Stefano Oddi, Il vento di Sinnington (Ensemble, 2013), è come una parentesi dentro la quale il tempo sembra essersi fermato.

La storia è quella di Ennis Gump, un affermato attore di teatro che dopo tanti anni torna a far visita a Sinnington, la cittadina nel North Carolina che l’ha visto crescere e dove ha lasciato quelli che una volta erano i suoi migliori amici: Sinnington è rimasta la stessa, fatta eccezione per qualche casa nuova, qualcuno che non c’è più e qualcuno che invece è appena arrivato, ma durante quegli anni in cui Ennis è mancato sono mancate anche le risposte: perché i suoi amici lo hanno allontanato costringendolo a volersi lasciare tutto alle spalle?

La caratteristica di questo romanzo è la personificazione della cittadina di Sinnington, elevata a protagonista con tutte le sue strade, il suo mare e soprattutto il suo vento, con i suoi abitanti e la sua quotidianità collaudata, al punto che andarsene significa abbandonare un posto sicuro e amichevole, al riparo da tutto ciò che è il grande mondo all’esterno dove le città diventano sempre più grandi e i rapporti umani più freddi.

Le amicizie e i rapporti dell’infanzia e poi dell’adolescenza non sono solo un ricordo felice ma anche l’unica base solida della vita dei protagonisti, che tranne Ennis hanno scelto di restare a Sinnington e adattarsi pur di non rinnegare le proprie radici: il senso di appartenenza e la nostalgia sono un po’ le chiavi delle vicende, raccontate con uno stile semplice e carico di dialoghi e aggettivi, scorrevole anche se a tratti un po’ banale. Il finale è intuibile, sebbene una seconda e inaspettata sorpresa scorra come una doccia fredda sul lettore, che per tutto il tempo si sente circondato da certezze, da legami talmente forti che il tempo e le incomprensioni non possono spezzare, da luoghi che diventano immediatamente familiari.

Se cercate trame complesse e colpi di scena sappiate che in questo romanzo non troverete nulla di nuovo; quello che troverete però è un bel passatempo, una lettura piacevole il cui vero scopo non è tanto raccontare una storia ma parlare di sentimenti, provando a dar loro una forma grazie ai luoghi e alle persone.

Ennis Gump potrebbe essere una delle tante versioni moderne di Ulisse, che si assenta da casa per poi tornare e trovare tutto cambiato, tranne i dettagli che solo lui può riconoscere. Paragone un po’ azzardato, forse, Sinnington non è Itaca e Oddi non è Omero, ma il concetto di nostos è lo stesso.
E i lettori malinconici ne apprezzeranno senz’altro tutte le sfumature del vento.



(Stefano Oddi, Il vento di Sinnington, Ensemble, 2013, pp. 270, euro 16)

Hacca: l’acca-ttivante editoria di provincia

Era il 2007. Avevo appena debuttato dietro il punto info di una nota libreria. E cominciavo a raccogliere perle.

Richieste carpiate di clienti che pretendevano titoli senza conoscerli, che anelavano con forza un oggetto del tutto nebuloso, senza autore né trama, dove solo un geco in copertina (o forse un capitone, chissà) aveva attizzato una curiosità letale. Spesso si brancola per minuti di illazioni prima di carpire un sintomo di appiglio.

Un volta mi fu domandato: «Vorrei un libro di uno scrittore giovane, italiano mi pare, e una parola chiave potrebbe essere “vita”». Inutile specificare che anche quell’indizio si rivelò assente. Ma poi il ragazzo proseguì: «La casa editrice si chiama Hacca con l’h. Cioè non scritto semplicemente lettera acca, ma proprio letteralmente acca, appunto con l’h». Saremmo potuti restare incagliati per mezza giornata.

Ma fortunatamente, quel piccolo editore, nato appena un anno prima, lo avevo già notato. La sua è una storia volutamente periferica, distante dalle mosse centripete delle grandi realtà come Roma e Milano. Una storia che esige ancora più sforzo per salire a galla. E ovviamente restarci.

Hacca si affaccia sulla scena a Matelica, vicino Macerata, nel 2006, come costola della Halley editrice, incentrata sull’editoria professionale. La volontà, come afferma la stessa Francesca Chiappa, a capo della direzione editoriale, è fin da subito quella di «pubblicare narrativa contemporanea, soprattutto italiana, con uno sguardo privilegiato verso autori emergenti, in un momento in cui il mercato non incoraggiava ancora la pubblicazione di esordienti». Due anni dopo affiora la scelta di accostare al panorama attuale anche autori del Novecento ingiustamente accantonati e quindi sfrattati da ogni libreria.

La mission, energicamente perseguita, intende costruire un dialogo intorno ai libri realizzati, estendendo di volta in volta il dibattito a interlocutori differenti, perché dallo scambio di contributi e prospettive, soprattutto se spinosi e un po’ scomodi, può derivare un percorso inaspettato e un risultato originale.

In tempi tutt’altro che soffici per l’editoria, soprattutto di dimensioni più ristrette, la sola reazione opponibile alle spallate del mercato è la qualità. E Hacca lo sa. Decidendo, a fronte della saturazione a opera dei grandi gruppi, di pubblicare dieci libri l’anno e di proporre un’accuratezza redazionale che la contraddistingue. La grafica, minimalista ed elegante col suo bianco spesso prevalente, è affidata a un professionista come Maurizio Ceccato, che per ogni pubblicazione invita il lettore a intuire il libro, a conoscerlo ancor prima di averlo aperto. Inoltre i temi affrontati e gli stili narrativi sono frequentemente destinati a scuotere opinioni, anche a provocarle. Sempre dalle parole di Francesca Chiappa: «La nostra non è certo una letteratura consolatoria». Il suo obiettivo è sfidare, mettere in crisi, indurre allo scontro. Catalizzare una collisione con verità taglienti, rappresentate da autori come Alcìde Pierantozzi o Massimiliano Santarossa.


Il catalogo si compone di tre collane o direzioni di senso:

Novecento.0, diretta da Andrea Di Consoli e volta al recupero di scrittori non più stampati, come Giuseppe Bonura e Luigi Davì. Perché evolvere vuol dire non dimenticare, preservare uno sguardo ampio, multifocale, che si slancia lontano perché ricorda ciò che lo precede.

Narrativa italiana e straniera, imperniata «sugli attuali e potenziali immaginari che rispondono alla complessità del nostro esistere contemporaneo». Tra le varie firme annoverate, quelle di Vasile Ernu e Andrea Caterini.

Saggistica, declinato come «reportage narrativo, che tratta temi e urgenti istanze globali pubblicandone l’aspetto meno conosciuto della cronaca dei fatti, l’aspetto umano e critico, distillato dalle esperienze, riflessioni e ricordi dei maggiori protagonisti del giornalismo e della cultura nazionale e internazionale, impegnati da sempre al servizio dell’informazione».


Di seguito, come sempre nel nostro appuntamento, i titoli Hacca in cui siamo rimasti intrappolati:

Fototessere del delirio urbano, di Antonio Veneziani. Racconti-pugnale, pubblicati per la prima volta nel’94 dalle edizioni Il Segnale. Irriverenti, acidi, in bilico tra universi in guerra. Lapidi del quotidiano, dove il cinismo è il primo alfabeto.

Tempi stretti, di Ottiero Ottieri. Grande esempio di letteratura industriale, apparso nel’57 all’interno della collana Einaudi I Gettoni, diretta da Vittorini. L’ossessione produttiva comincia a farsi strada, l’affanno della fabbrica diventa quello dei rapporti umani, in un’Italia che scalpita per crescere. O per distruggersi.

Non capisco un’acca, di Maurizio Ceccato. Acrobazia letteraria. Gioco, esperimento linguistico in cui si ipotizza un vocabolario di soli lemmi contenti la particella “acca”. Vertigine di filastrocche e rebus, da far acca-pponare anche quelli più increduli.


Il resto degli acca-dimenti, perciò, aspetta solo di essere sfogliato.

“Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler” di Massimiliano Parente

«È tutto molto più superficiale di quanto sembra, ma è tutto molto più profondo di quanto non sembra una volta che hai stabilito che è superficiale, in quanto la superficialità, un certo tipo di superficialità, a pensarci profondamente, è molto meno superficiale della supposta profondità»: così Max Fontana sulla Nazi Pop Art, da lui stesso creata centrando l’aspetto estetico del nazismo. Tutto un programma. Fontana non è semplicemente un genio, proprio no, è se mai L’artista più grande del mondo dopo Adolf Hitler (Mondadori, 2014). Non si scherza con Max Fontana, non con l’uomo che ha raggiunto la famosità nel Musée d’Orsay eiaculando su L’origine della vita.

Da allora, un’escalation irrefrenabile, con la propria aura benjaminiana e con Martina, uno scimpanzé con le Nike Shox, come Fontana, che porta anche capelli verdi dal taglio hitlero-jacknicholsoniano spettinato. Un genio conclamato. E nessuno gli tocchi Martina, nessuno. E poi donne con le unghie smaltate di rosso, soprattutto quelle dei piedi, perché Max Fontana su certe cose non transige. Però per Selvaggia e Adele ha sofferto tanto. Ma la vita continua, masticando Vigorsol Hawaiian Cult e prendendo – ovviamente in maniera ossessivo-compulsiva – il Vicodin di Dr. House, idolo di Fontana, insieme a Dexter o al vecchio Duchamp. Ma il migliore, è superfluo ripeterlo, resta Hitler, si dica di lui ciò che si vuole, ma Hitler signoreggia, Hitler è un artista, ha realizzato il nazismo e in più incarna l’inconscio collettivo.

È un mondo difficile, certo, ma se hai i neuroni artista ti riescono cose incredibili, tipo Homicide Box, un appartamento con dentro un frigorifero per gelati con dentro il cadavere di Michelle Mutis: opera insuperabile. Con buona pace di Michelle, prima ingaggiata come segretaria da fellatio e poi assassinata con un fallo finto da un Max Fontana in preda alla gelosia. Capita, purtroppo; e pazienza, dai. Anzi, no; arte: si veda Cazzo marmoreo di Man Ray usato come arma di un delitto preterintenzionale non ancora scoperto, con ancora attaccati residui organici della vittima.

Twitta, Max Fontana, twitta con la stessa facilità con cui maneggia ready-mades; crea consensi: è l’uomo nuovo. Veramente troppo bello per essere vero. E infatti le cose precipiteranno.

Poco importa. Massimiliano Parente si immerge in questi tempi saturi di ogni cosa con un romanzo sopra le righe, scanzonato, istintivo e in verità tremendamente triste. Non si può non amare Max Fontana, è dentro di noi, sfacciatamente vivo, è nei nostri retropensieri, dove albergano poche virtù e tanti vizi, idee riciclate e pretese intellettualoidi: il regno dell’attualità, nella quale ridicoli lottiamo per il riconoscimento senza avvertire il fallimento, inconsapevoli del nostro statuto di spore del pressappoco. Struggenti le ultime pagine, sulle orme di Thelma & Louise. Poi il salto, che è una scelta, una presa di distanza… Ancora un capolavoro, l’ultimo, per Max Parente.


(Massimiliano Parente, Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, Mondadori, 2014, pp. 408, euro 18)

“300 - L’alba di un impero” di Noam Murro

Ci sono voluti sette anni per proseguire il racconto della seconda guerra persiana tra i greci e l’esercito asiatico guidato dall’imperatore Serse iniziato in 300 di Zack Snyder, ispirato dal fumetto omonimo di Frank Miller del 1998. Ora Snyder passa in sceneggiatura e produzione, lasciando la regia a Noam Murro sprovvisto di un testo di Miller a cui guardare, se non le bozze di quel Xerxex ancora in fase di scrittura che sarebbe dovuto uscire in contemporanea con il film.

Ricostruzione fantasiosa della battaglia di Salamina (480 a.c.) con cui l’alleanza delle poleis greche ottenne la prima importante vittoria contro le truppe persiane prima dei definitivi successi di Platea e Micale, 300 – L’alba di un impero ha il pregio più grande nello spunto narrativo: non seguito o prequel del film del 2007, ma storia parallela e contestuale, incentrata su fatti contemporanei alla battaglia delle Termopili messa in scena da Snyder. Si tratta di un modo inedito di fare cinema in cui si vede l’influenza dello sviluppo del linguaggio televisivo delle grandi serie.

Mentre Leonida resiste nella battaglia delle Termopili, l’ateniese Temistocle appresta la difesa marittima della Grecia alla guida di una flotta inferiore per numero, mezzi e risorse rispetto al colossale potenziale persiano, fronteggiando le navi condotte dal luogotenente di Serse, la sensuale e spietata Artemisia di Alicarnasso, a largo di capo Artemisio. Saranno le prove generali della battaglia di Salamina che portò una prima inattesa vittoria all’alleanza greca.

Ci sono molte licenze nell’esposizione dei fatti della seconda guerra persiana. Non poteva essere altrimenti. L’operazione è quella di perpetrare l’immaginario machista del primo film, ma se lì la storia veniva in soccorso con una trama di eroismo e sacrificio autentica, con la resistenza spartana delle Termopili che ha già in sé le caratteristiche sufficienti per elevare la storia a epica e che può anche portare a giustificare una certa libertà nei confronti della storiografia da parte di Miller prima e Snyder poi, le battaglie navali guidate da Temistocle hanno il sapore di un altro tipo di eroismo: non il valore personale, ma il genio tattico dello stratega. Un tipo di materiale ben diverso per essere convertito in cinema spettacolare, soprattutto per mostrarlo secondo i criteri dell’estetica generata dal primo 300. Ecco che quindi diventa necessaria un’opera di adattamento e trasformazione della storia per cercare di riproporre un film che sia il più possibile simile al precedente del 2007, con Temistocle elevato al rango di predestinato, cui viene attribuito un ruolo ben più importante della realtà dei fatti nella vittoria di Maratona durante la prima guerra persiana (490 a.c.), con tanto di responsabilità dell’uccisione del re Dario e della conseguente volontà di vendetta maturata dal figlio Serse, al quale va contrapposto un avversario di sicura presa individuato nel comandante Artemisia, regina di Alicarnasso, adattata a una rappresentazione sessuale-predatoria mutuata dalla serie HBO Il trono di spade.

Nello sforzo di accostarsi il più possibile allo stile visionario di Snyder, il pubblicitario Murro perde ogni traccia di identità limitandosi a riproporre le forme espositive di 300 esaltate questa volta, nelle intenzioni almeno del regista e della produzione, dalle possibilità del 3D, e cercando a tutti i costi la frase memorabile da consegnare all’immaginario collettivo al fianco dei vari «Questa è Sparta» e «Stasera ceneremo nell’Ade». Il punto è che senza il carisma dei personaggi (il Temistocle di Sullivan Stapleton è insignificante rispetto a Gerard Butler/Leonida, il temibile Serse di Rodrigo Santoro del primo film diventa praticamente un imbecille manipolato da Artemisia, interpretata da Eva Green, unica che lascia una traccia) e con una trama sfilacciata che non si preoccupa di essere continua, i tripudi di CGI e i virtuosismi di camera nelle scene di battaglia diventano ridondanti e sterili. Al quindicesimo fiotto di sangue proiettato dal 3D verso la platea nei primi dieci minuti si avverte molta più noia che meraviglia, e l’abuso del ralenti per dare enfasi ai movimenti dei guerrieri porta a chiedere quale sarebbe il reale minutaggio del film mandato tutto a velocità normale.

 

(300 – L’alba di un impero, di Noam Murro, 2014, fantasy/storico, 102’)

 

“La rivelazione greca” di Simone Weil

Sono articoli, saggi, spesso meri appunti sul senso stesso della grecità quelli raccolti ne La rivelazione greca di Simone Weil (Adelphi, 2014). Capita in questi scritti, composti tra il 1936 e il 1943, che a volte la semplicità coincida con la profondità (non casualmente alcuni testi erano stati concepiti per avvicinare «le masse popolari alla poesia greca» – lei, la Weil, il mondo operaio volle conoscerlo dal di dentro facendosi assumere nelle fabbriche della Renault). La letteratura tragica (Sofocle, perlopiù) e l’epos omericoin Weil vengono ricondotti alle loro ragioni originarie: il bene, il male, la forza, il destino, il dolore, le domande essenziali sul senso e il loro rinvio inevitabile a un piano metafisico. La filosofa non cerca chiavi filologiche. Nietzsche, che invece come filologo iniziò la sua attività intellettuale (ma l’abbandonò presto), non fu forse meno tendenzioso. Con la Weil disegna una diade ossimorica come altre mai. A entrambi non fa difetto la temerarietà e in ambedue i casi siamo di fronte a pensieri così radicali che l’idea di chiuderli poi in una cifra conclusiva sembra maldestra – la Grecia è un punto di partenza che li proietta molto lontano ma lascia trasparire paradossali e interessanti collusioni. In quanto investono il corpo, tutt’e due risultano filosofie poco addomesticabili. Se Nietzsche desume dallo spirito dionisiaco una «grande ragione» del corpo, e vi si esalta, la Weil nelle concrete esistenze delle sventurate Elettra o Antigone, nei massacri omerici legge l’imperio di una forza che si abbatte su di essi e li sottopone a prove terribili (nessuno intende sfuggirvi, il coraggio certo non gli manca, nemmeno a Simone, che decide di provare su di sé la violenza del lavoro basato sul dominio capitalistico).

L’Iliade è per lei l’opera prima in tutti i sensi (quanto all’Odissea il giudizio è ingeneroso, considerato com’è alla stregua di una riuscita imitazione). La definizione che la Weil ne dà come «poema della forza», Nietzsche forse l’avrebbe sottoscritta – ma con tutt’altro significato. La filosofa vi sottende una condizione umana che nella prostrazione e nello sguardo abissale su di essa si apre perciò alla grazia e alla trascendenza. La scommessa della Weil consiste insomma nel cercare nella Grecia i segni originari del Cristianesimo. La forza incombe, ma nessuno ne è entusiasta, come se anche i forti la subissero. Ché la forza riduce l’uomo a cosa: non vi è nulla di esaltante in essa. In Omero è solo una scure che si abbatte sugli uomini anche quando ne sembrerebbero i più esagitati interpreti. Tutti alla fine vi soccombono. Laddove Nietzsche vedrebbe il migliore tipo umano della storia, la Weil scruta una trama di afflizioni aperte verso la trascendenza in un percorso che attraversa metafisica e mistica – un’idea di Grecia che parte da Omero, attraversa gli orfici, i tragici, Platone e arriva ai Vangeli. Ora, un Platone religioso non sarebbe una novità e nemmeno Nietzsche avrebbe a che ridire: la radicale divergenza qui verterebbe sul giudizio di “valore” per i destini umani. Ma il Platone letto dalla Weil è qualcosa di più: costituirebbe l’apice del pensiero greco in una soluzione mistico-esoterica contrapposta così nettamente al razionalismo e all’intellettualismo aristotelico e dunque alla conoscenza scientifica da espellere quest’ultima dallo «spirito di verità» che le stava tanto a cuore. Intento temerario di sicuro, oggi più che mai.

(Simone Weil, La rivelazione greca, trad. e cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi, 2014, pp. 489, euro 28)