Copertina di Streghe fraterne di Volodine

Vociferazione nell’antro della strega

Nel raccontare la parabola narrativa dei suoi personaggi più celebri, quali Tomáŝ e Tereza, Franz e Sabina, Milan Kundera nel suo capolavoro del 1984, L’insostenibile leggerezza dell’essere, scriveva queste parole: «I personaggi non nascono da un corpo materno come gli esseri umani, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora, contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale che l’autore pensa nessuno abbia mai scoperto o sulla quale ritiene nessuno abbia mai detto qualcosa di essenziale». Questa citazione balza subito alla mente approcciandosi per la prima volta alle pagine inziali di Streghe fraterne, l’ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore francese Antoine Volodine per 66thand2nd, nel quale l’autore continua e prosegue la sua personalissima poetica definita post-esotica.

Nella prima delle tre parti in cui è suddiviso il libro, intitolata “Teatro o Morte”, la metafora attraverso la quale si dipana la storia è quella di un mondo apocalittico, grigio, privo di qualsiasi coordinata geografica ma verosimilmente identificabile negli ex territori dell’Unione Sovietica appartenenti alla regione del Caucaso. I modelli economici del passato sono crollati, lasciando dietro di sé nient’altro che devastazione e popoli da «fine-mondo». È da quest’atmosfera che, ripensando alle parole di Milan Kundera, emerge la figura di Éliane Schubert, una girovaga dal passato itinerante entrata in seguito a far parte della compagnia teatrale della Gran Nidiante, impegnata «attraverso villaggi e contrade recitando farse medievali e agit-prop». Istigata da un sadico aguzzino che la tiene prigioniera in un luogo non ben precisato, Éliane sarà costretta a ripercorrere interamente la sua storia, dalle origini passate ad apprendere oscuri slogan (nonostante sia difficile parlare di origini dato che il tempo, come qualsiasi altra coordinata esistente, è nel libro solo un’indicazione vaga e fittizia) al momento della sua morte in uno sperduto villaggio del Khorogon. Già dall’inizio quindi la voce di Éliane si presenta come la custode di alcune formule antiche, definite con il termine evocativo di cantopera, insegnatele dalla madre e dalla nonna quand’ancora era una bambina piccolissima e il cui significato rimane a lei stessa incerto.

Nella seconda parte, “Le vociferazioni”, la sensazione che abbiamo è quella di essere trascinati all’interno di un cerimoniale arcaico, una litania ossessiva che condivide assieme alle componenti magiche una ritualità che si evince non solo dalle parole utilizzate, ma dalla stessa struttura del testo. E in effetti, leggendo queste singole frasi brevi, slegate da qualsiasi significato logico («1. Procedi fino al sedicesimo singulto! 2. Procedi con o senza mani rugose! 3. Che importano le rughe sulle spalle!») ciò che più colpisce è il ritmo martellante, ripetuto, quasi estatico, di questi frantumi di suono che assomigliano a quella «poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili» di bufaliniana memoria. A quanto pare queste imprecazioni sarebbero state ispirate ad Antoine Volodine dalle visioni di una sciamana siberiano-coreana conosciuta fra le sponde di Macao, tale Maria Soudaïeva. Ma dicevamo della struttura, dell’impianto che queste vociferazioni assumono disponendosi sulla carta bianca della pagina: 343 versi sciolti (7x7x7) su 49 capitoli (7×7) dove 49 sono anche i giorni che nel Libro tibetano dei morti separano l’uomo dal momento della sua morte a quello della rinascita. Al di là dell’evidente simbologia escatologica che attraversa questa sezione, è interessante cercare di interrogarsi sulle modalità in cui l’autore ha cercato di amalgamare le diverse parti che compongono il libro. A questo proposito, ci viene incontro la breve didascalia situata nel frontespizio, la quale al di sotto del titolo, Streghe fraterne, vede la presenza della sola parola intrarcane.

Nell’immaginario dello scrittore francese questo termine suggerisce uno spazio chiuso, esoterico, del quale può far parte solo una cerchia ristretta. Qui, due testi di natura diversa (come sono quelli che ci troviamo di fronte) riescono a dialogare tra loro in un continuo scambio di informazioni, disponendosi quindi come attraverso una struttura circolare, capace di passare indifferentemente da una sezione all’altra. In questo senso, Volodine lascia a discrezione del lettore la possibilità di decidere il modo in cui legare e combinare tra loro i diversi contenuti, senza ispirare a questo nessuna indicazione preferenziale.

L’ultima parte, dal titolo “Dura nox sed nox”, presenta, nell’arco di un tempo indefinito che dura l’attimo di una notte eterna, un’unica frase che si scioglie per più di cento pagine, dando voce a una misteriosa coscienza, uno spirito malvagio che passando da un corpo all’altro – in un’eterna reincarnazione che ricorda in maniera parodistica il ciclo delle vite del samsara – compie ogni genere di nefandezza senza alcuno scrupolo di sorta.

Quella che Volodine opera è in sintesi la dissoluzione del mondo contemporaneo, delineata ricreando un scenario in cui tutto è sepolto sotto le macerie. Il mondo che ci si para davanti agli occhi è un mondo distrutto, dalle tinte apocalittiche, dove le strutture sociali, politiche, economiche e urbanistiche hanno lasciato il posto a un panorama asfittico, privo di una qualsiasi forma d’organizzazione. In questo contesto primitivo, ciò che rimane non è altro che la parola, con tutto il suo potere evocativo. Un linguaggio che però non segue delle regole prestabilite né una sua logica, caratterizzandosi invece per le proprie qualità arcane il cui manifestarsi non può che avvenire attraverso la sua componente magica. Ma qual è appunto e come si esplica questa parola, questo linguaggio magico? Attraverso la ritualità, la ripetizione ciclica e quindi la formulazione mnemonica da non dimenticare e il cui scopo principale consiste nell’evocare, nel dar vita e forma alla cosa ripetuta.

Per concludere, tutti questi elementi come la cantopera portata in eredità e trasmessa da Éliane, le vociferazioni, le vite cicliche di Hadeff Kakaìne (uno dei tanti nomi assunti dall’essere protagonista delle ultime pagine), contribuiscono nell’insieme a creare quel mondo che Volodine ha tratteggiato più e più volte non solo in Streghe fraterne, ma nel corso dell’intera sua produzione letteraria, delineando una poetica ben precisa. Esattamente come accadeva per la civiltà egizia, la sola enunciazione della parola ha in queste pagine il potere di rendere immediatamente reale e tangibile il concetto espresso, senza che possa esistere un effettivo confine tra parola e magia. Lo stesso geroglifico, per il solo fatto di dispiegarsi sul papiro, era capace di donare concretezza all’idea astratta che si voleva esprimere, di modo che qualsiasi processo di nominazione equivalesse a un processo di creazione, ciò che l’autore francese non dimentica mai, neanche per un istante, di ricordarci attraverso tutto il suo libro.

 

(Antoine Volodine, Streghe fraterne, trad. di Anna D’Elia, 66thand2nd, 2021,  272 pp., euro 17, articolo di Davide Tamburrini)
dipinto ispirato a Chostolmér, Il cavallo narratore (1901) di Giovanni Marchini (particolare)

Gli animali narratori

Scrive Lev Tolstoj nel proprio Diario: «Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata» (Garzanti, 1924, p. 90).

Nel saggio del 1917 L’arte come procedimento (che oggi si legge in italiano in I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, a cura di T. Todorov, Einaudi, 1968, pp. 65-94), Viktor Šklovskij adopera questo breve passo per significare l’«automatismo» della percezione che «si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra» (p. 82), quel meccanismo, cioè, per cui gli oggetti finiscono via via con l’essere recepiti dall’osservatore come usuali: «L’oggetto si trova dinanzi a noi, noi lo sappiamo, ma non lo vediamo» (p. 83). È con lo «straniamento», inteso come pratica artistico-letteraria capace di sottrarre la materia narrata alla convenzionalità della prospettiva canonica, afferma Šklovskij, che essi vengono invece presentati sotto una nuova luce, rivelando lati inediti.

A tale scopo (vale a dire intensificare e, contemporaneamente, rinnovare l’impressione ricavata dal lettore) rispondono specifiche modalità linguistico-descrittive, formali e strutturali, nel cui novero si conta anche l’adozione di una prospettiva che s’identifica con quella di un personaggio altrimenti secondario, tradizionalmente subordinato ai grandi protagonisti della storia per ragioni economiche, per ceto sociale, per età, per genere o persino per specie animale.

 

 

Narratore «straniato»: il cavallo tolstojano

 

Šklovskij medesimo propone il caso del racconto tolstojano Cholstomér (Storia di un cavallo, 1876), dove al narratore eterodiegetico della parte introduttiva e di quella conclusiva si sostituisce, nei capitoli centrali, la voce autodiegetica del purosangue pezzato protagonista, cosicché «le cose vengono straniate non dalla nostra, ma dalla percezione che ne ha il cavallo» (p. 83). Questi, chiamato Mužik I ma soprannominato Cholstomér (Passolungo) per la rapidità nella corsa, incomincia a raccontare ai giovani cavalli dell’allevamento dov’egli è adoperato quale bestia da soma tutte le proprie peripezie, ripercorrendo e contemporaneamente commentando quegli avvenimenti che nel corso della vita gli hanno svelato la vera natura degli uomini, i quali «si fan guidare nella vita non dai fatti, ma dalle parole» (p. 84).

Esempio assai significativo di tale procedimento narrativo è offerto dalla descrizione «straniata» che l’animale (talmente estraneo al consorzio degli uomini da credere che sarebbe stato curato dalla scabbia da quello stesso scuoiatore presso il quale viene invece condotto per essere soppresso) restituisce circa l’istituto umano della proprietà (L. Tolstoj, I cosacchi e altri racconti, Garzanti, 2019, pp. 317-360: 338):

«Per me la cosa si faceva assolutamente oscura a riguardo del significato delle parole: il suo puledro, il proprio puledro, dalle quali vedevo che la gente presupponeva un legame tra me e il capostalliere. In che consistesse questo legame, non potei allora in nessun modo capire. Solo molto tempo dopo, quando mi separarono dagli altri cavalli, capii cosa significava. Ma allora non potevo assolutamente capire cosa significava che chiamassero me proprietà di una persona. Le parole: “il mio cavallo” riferite a me, cavallo vivo, mi sembravano altrettanto strane quanto le parole “la mia terra”, “la mia aria”, “la mia acqua”. […] Il significato è questo: gli uomini […] amano non tanto la possibilità di fare o non fare qualcosa, quanto la possibilità di utilizzare per diversi oggetti certe parole tra loro convenute. Queste parole, ritenute tra di loro molto importanti, sono le parole mio, mia, che essi usano per le cose, le creature e le materie più disparate, anche per la terra, gli uomini e i cavalli. […] In definitiva, ampliato il numero delle mie osservazioni, mi convinsi che, non soltanto in riferimento a noi cavalli, il concetto di mio non ha nessun altro fondamento se non il basso e animalesco uso umano, da loro chiamato senso o diritto di proprietà».

Da questo passo si deduce che l’adozione di un’ottica «straniata» non comporta affatto un abbassamento tematico-tonale della materia trattata né tantomeno relega l’azione narrativa a quella deformitas di motivi tipica di talune forme letterarie ‒ analizzate nel terzo capitolo de Le forme brevi della narrativa (Carocci, 2020); al contrario, un narratore «straniato», collocando ciò che viene di solito percepito come usuale in una serie semantica diversa da quella che gli è abitudinariamente assegnata, scandaglia una tematica della quale intende svelare le implicazioni oppure isolare particolari componenti, così da individuare le criticità di un discorso, non di rado, complesso.

 

 

La profezia post-apocalittica degli animali volponiani

 

Nella letteratura novecentesca sono numerosi i romanzi che rimodulano la società umana sulla base della voce diretta o indiretta, singola o corale, degli animali ‒ si pensi anche solo alla paradigmatica Fattoria degli animali orwelliana.

Particolarmente interessante il caso de Il pianeta irritabile (Einaudi, 1978) di Paolo Volponi, autore convinto che la letteratura «non deve rappresentare la realtà, ma deve romperla» e che «starebbe proprio ai lettori […] non respingere il libro che non appaia subito accomodante» (Romanzi e prose, a cura di E. Zinato, Einaudi, 2002, p. 1170).

In questo romanzo dal finale incompiuto, «a metà strada tra il genere di fantascienza e quello della favola allegorica» (Andrea Inglese, «Cahiers d’études italiennes», 7), l’intreccio si edifica sul viaggio intrapreso nell’anno 2293, in occasione dell’ultima catastrofe planetaria della terra, da un esiguo quanto eterogeneo gruppo di esseri viventi sopravvissuti. In primis, il babbuino Epistola che, temuto per aggressività ma rispettato per carisma, guida i compagni verso un nuovo utopico regno, vietato all’essere umano: «È meglio se spopolata la terra dove andiamo? – domandò [il nano Mamerte]. Così dice Epistola, ‒ rispose Roboamo, ‒ e a noi sembra giusto» (Il pianeta irritabile, Einaudi, 2014, p. 30). Roboamo è il dottissimo elefante con il dono della parola, capace di citare a memoria la commedia dantesca. C’è poi Plan Calcule, l’oca dalle sviluppate abilità logico-matematiche; infine, il nano sfigurato Mamerte, il quale in virtù della propria conformazione fisica era stato costretto, dalla società capitalistica stigmatizzata nell’immagine del circo da dove provengono tutti e quattro i personaggi (una «microsocietà gerarchica e crudele», scrive Inglese), a vivere come uno schiavo.

In questo caso la voce narrante non coincide con quella di uno degli animali sulla scena (tanto più che oca e babbuino non possiedono facoltà di parola, benché la sappiano comprendere). Questi personaggi zoomorfi tuttavia rappresentano ciascuno un aspetto del mondo naturale o umano su cui Volponi intende calamitare l’attenzione, come suggerito già dai loro nomi: l’istinto animale che, per sopravvivere, nega l’uomo è rappresentato da Epistola, la cui morte alla fine del romanzo si rende simbolicamente necessaria, affinché gli altri possano raggiungere il nuovo regno dove animali e uomini finalmente convivranno; Roboamo è la memoria collettiva di una cultura antica che cerca di auto-salvaguardarsi e di sfuggire alla commercializzazione imperante nella società di massa; Plan Calcule, infine, evoca la reminiscenza della téchne sulla quale si basava il mondo pre-apocalittico.

Questa impostazione dei personaggi di babbuino, elefante e oca contribuisce fortemente alla duplice invettiva di cui il romanzo si fa vettore: in primo luogo, la critica al nucleare, sul quale Volponi si esprime in termini estremi (Volponi e la scrittura materialistica, a cura di F. Bettini, Lithos, 1995, p. 52): «Ero convinto che, se le bombe atomiche le avevano costruite, prima o poi le avrebbero pure tirate, e che la guerra nucleare avrebbe distrutto l’umanità. Era il mio pensiero fisso, ossessivo».

 

 

In seconda istanza, la condanna, presente anche nella scrittura saggistica, al «potere economico» che tenta di «sovrapporre i propri termini a quelli storici […] e tornare ad essere tutto, principio e fine» (Scritti dal margine, Lupetti-Manni, 1995, p. 58).

Inoltre, è proprio nel processo di “animalizzazione” dell’uomo che Volponi individua la strategia indispensabile per costruire una società nuova. Quando i tre superstiti dallo scontro con il governatore significativamente chiamato Moneta soddisfano la fame mangiando il foglio di riso che, fino ad allora gelosamente custodito da Mamerte, contiene la poesia della suora di Kanton, sulla ragione umana prevale quella animale: è l’istintiva e primordiale risposta ai bisogni naturali che traduce il «valore simbolico» del foglio conservato nel «valore d’uso» del foglio consumato, come notato ancora una volta da Inglese.

L’originaria animalità ritrovata dall’uomo costituisce dopotutto un tema ricorrente nella produzione volponiana, come mostrano il vincitore del premio Strega La macchina mondiale (Garzanti, 1965) e Corporale (Einaudi, 1974), dove però al flusso narrativo non concorre alcuna presenza zoomorfa.

È insomma anche grazie all’adozione di una simile prospettiva che Il pianeta irritabile si oppone a quella che Italo Calvino definisce, considerandola cifra distintiva degli anni Settanta, la «assuefazione all’ambiente», contro la quale egli anzi confida nella «risposta di una letteratura che non sia mimetica», ma che sia, si potrebbe per l’appunto dire, straniante (Saggi, a cura di M. Barenghi, Mondadori, vol. II, 1995, p. 2934).

 

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[Nel testo, il dipinto ispirato a Chostolmér, Il cavallo narratore (1901) di Giovanni Marchini (particolare) e la fotoriproduzione di P. Volponi, La macchina mondiale (Garzanti, 1965)]

Poster di Qui rido io

Scarpetta: il padre di una stirpe

Qui rido io è un film metateatrale: raccontando un breve periodo della vita di Eduardo Scarpetta, Mario Martone coglie l’occasione per illuminare la storia del nostro teatro. Una commedia nella commedia, che intreccia i diversi piani: vita privata e rappresentazione scenica, contesto culturale e scandalo sociale. «Il film è scritto come una commedia, – spiega il regista – impostato e diretto per far sì che le scene fossero tutti palcoscenici, perché dovunque si mette in scena una recita».

Sullo sfondo di un’Italia di fine Ottocento, Scarpetta si impone per la sua originalità di commediografo: dopo la gavetta nei panni di Pulcinella, ne trasforma le fattezze e il nome, dando a don Felice Sciosciammocca i tratti della maschera moderna. L’attore che indossa un personaggio dai lineamenti fissi e statici diventa il mattatore del palcoscenico. Scarpetta rimarca il lato umano delle sue storie facendole aderire alla realtà del pubblico. Con don Felice è evidente la “morte” di Pulcinella, e il passaggio all’attore-autore che muta nei testi, al cambiare del contesto sociale e della nuova classe di cui è espressione: non più la nobiltà sbeffeggiata dal popolo, ma la piccola borghesia della maschera di Sciosciammocca. La stessa che poi indosserà Totò nei tre adattamenti di Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà (1954) e Il medico dei pazzi (1954).

Scarpetta è il genio comico che anticipa la contemporaneità, portando in scena una rivoluzione nel teatro napoletano, e italiano in generale. Per Martone è una figura prismatica, «caso estremo di essere umano. La cosa che mi affascinava di lui era questo aspetto primordiale, quasi mitologico, questo padre-caos da cui viene generato tanto talento, se non addirittura del genio, come nel caso del figlio Eduardo De Filippo».

Certamente, l’harem in cui trasformò la sua casa non può essere tenuto in minor conto nel racconto biografico di un uomo come Scarpetta, che non si vergognò di aprire il suo palcoscenico ai figli illegittimi, divenendo il capostipite di una vera e propria dinastia di artisti. Il primogenito Vincenzo, attore, musicista e autore teatrale, nato dal matrimonio con Rosa De Filippo; Maria, attrice e autrice (famosa come Mascaria), nata da una relazione con Francesca Giannetti e adottata poi dalla moglie di Scarpetta; Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, attori e autori teatrali, figli illegittimi avuti dalla nipote di sua moglie, Luisa De Filippo; Eduardo, attore e commediografo noto con il cognome Passarelli, e Pasquale De Filippo, attore caratterista, frutto di una relazione extra coniugale con la sorellastra della moglie, Anna, da cui sarebbe nato anche Ernesto Murolo (poeta, drammaturgo e padre del celebre cantautore Roberto), adottato da Vincenzo Murolo e Maria Palumbo. L’unico figlio che non si dedica al teatro è Domenico, riconosciuto da Scarpetta, ma frutto di una relazione precedente al matrimonio della moglie Rosa con il re Vittorio Emanuele II.

«C’è della follia nel fatto che Scarpetta faccia figli con la moglie, con la sorella e con la nipote della moglie, – spiega Martone – è pur vero che compatta questa famiglia, considerando che ha fatto studiare le figlie femmine come i figli maschi. C’è tanto dolore, tanta compassione ma anche tanto orgoglio».

Il palcoscenico è un tutt’uno con la vita di questa grande famiglia allargata, dove anche i bambini (o meglio i tre De Filippo) sono coinvolti nelle commedie, passandosi il ruolo del piccolo Peppiniello, che, paradossalmente, ha cucita addosso la battuta “Vincenzo m’è pate a me”, implicitamente traducibile con “Eduardo è mio padre”. Scarpetta, infatti, si fa chiamare zio dai figli non riconosciuti ufficialmente, ma non per questo ne disdegna la presenza; anzi, andando oltre il cognome anagrafico si fa padre spirituale di una carovana di commedianti, tutti figli putativi di un rivoluzionario dell’arte scenica.

Anche l’episodio della denuncia di plagio fattagli recapitare da D’Annunzio, dopo aver parodiato al maschile La figlia di Iorio, diventa occasione di “spettacolo” per Scarpetta. La scena si sposta nell’aula di tribunale, dove si disputa una guerra di parole fra scuole di pensiero: quella più pacata guidata da Salvatore Di Giacomo, e quella disaccrante dello stretto Scarpetta, difeso da Benedetto Croce nel suo essere un giullare del teatro dell’epoca. Se gli artisti suoi conterranei vedono in lui un malfattore, difendendo un poeta come D’Annunzio (che forse non era poi meno strano del “loro” Eduardo), Scarpetta difende la sua arte di commediante, nato per fare il giullare dissacrante. Tolta la maschera di Pulcinella, ci mette la faccia nel raccontare con leggerezza la vita dei napoletani. La sua vocazione è portare la risata e il divertimento a teatro, lasciando alle mura domestiche il compito di nascondere il segreto di un uomo che accoglie i suoi ospiti con la scritta “qui rido io”, ma che in fondo non ride mai nei panni di se stesso. Anzi, è un uomo profondamente solo, capace di divertirsi solo nel buio della notte, quando scrive le sue battute, beandosi delle risate che sta mettendo in scena.

(Qui rido io, di Mario Martone, 2021, drammatico, 133’)

Copertina di Spatriati di Desiati

L’omaggio a una generazione raminga

C’è una differenza tra essere un expat e uno spatriato: “spatriètƏ”, aggettivo pugliese che non ha genere e che dà il titolo all’ultimo romanzo di Mario Desiati (Einaudi, 2021), sta per ramingo, incerto, senza meta, ed elude il termine con cui, semplicemente, si indica qualcuno che cambia patria.

La percezione che tutto quel che conta stia succedendo fuori dal tuo mondo di provincia: in un momento in cui si cerca di assegnare un territorio a un individuo perché rassicurante e catalogante, l’autore risponde con una storia in cui ci rammenta che «cresciamo foresta», che le radici si possono recidere ma che le origini restano come un patto d’appartenenza.

I due protagonisti, Claudia e Francesco, difendono un tipo di identità che non deve aderire necessariamente agli schemi della provincia pugliese, ma potrebbe essere una qualsiasi provincia italiana: il loro rapporto attraversa il romanzo dall’inizio alla fine, una traiettoria potente che terrà il ritmo talora poetico, talora ruvido e istintivo del libro.

Avvolti da una medesima fiamma come Ulisse e Diomede, cercano un modo per imporsi e definirsi, per trovare un posto nel mondo. Sono diversi, accomunati all’inizio della narrazione solo dal fatto di essere i figli di una coppia di adulteri: la madre di lui e il padre di lei sono amanti, vivi solo amandosi e riscattandosi dai rispettivi matrimoni, che ovviamente non funzionano.

Francesco è annodato alle radici del proprio paese d’origine e, anche se ribelle e intollerante ai paradigmi asfissianti della sua Martina Franca, non possiede l’indole di Claudia, più trasgressiva, insofferente, votata a partire, andare altrove, definire sé stessa in una realtà distante, che spezza le regole della provincia. I due si divideranno senza mai dividersi: a tenere saldo il legame sarà l’innamoramento costante di Francesco per Claudia, che invece intraprende altre esperienze, talvolta estreme.

«Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato che potessero giudicarmi inadatto».

Crescendo le due monadi si articolano in scelte sempre più distanti che, capitolo dopo capitolo, disegnano luoghi diversi: dalla Puglia delle processioni – «la Valle d’Itria e i crateri bianchi di Ostuni e Locorotondo», Bari con il suo mare di due colori, «verdognolo a riva, cobalto oltre i frangiflutti», il cielo violaceo e rosso di Taranto, Torre Canne e Savelletri, i trulli di Martina e Cisternino – si approda a Londra, Milano e Berlino. La narrazione cambia, fotografa le esperienze lavorative contemporanee di una generazione irregolare con ambizioni e contratti duttili, le storie d’amore trasgressive e affamate.

«Non tornerò per salvarti, dovrai venire tu da me», dice Claudia a Francesco, chiuso nel suo guscio fatto di vicoli e di tradizioni, che stride con i quartieri chiassosi e moderni delle capitali europee, i posti dove ciò che credi di essere prende forma diversa.

«Presi a leggere i suoi scrittori, era il modo più facile per avvicinarmi a lei. Sono stati gli anni in cui ho letto di più, perché mi ero sintonizzato, o provavo a farlo, con lo spirito di Claudia. Maria Marcone, Rina Durante, Mariateresa Di Lascia, nomi che non mi avrebbero mai detto nulla senza di lei».

Desiati racconta e raccoglie la Puglia letteraria: come nel passaggio in cui Claudia legge una poesia di Vittorio Bodini, il più noto e amato poeta pugliese, o in cui usa l’espressione «franare sotto i piedi», emersa da La malapianta di Rina Durante, una ricerca che passa per il sociologo Franco Cassano e la poetessa Claudia Ruggeri. Anche la struttura del romanzo è volutamente letteraria, con l’uso di parole che vanno dal dialetto della Valle d’Itria al tedesco. Lo stesso autore ha definito il dialetto polisemico: «Ogni parola racchiude un mondo, mentre il tedesco riflette una forma mentale schematica, più rigida. Uno è liquido, l’altro è denso».

Come “malenvirne”, inteso come persona che rompe gli equilibri, elemento impazzito all’interno di una comunità, e “Sehnsucht”, che deriva dall’antico tedesco “sensuht”, che indicava la malattia derivante dal bramare un oggetto irraggiungibile e può essere tradotta come “struggimento”.

Proprio il corpo e la carnalità sono fondamentali: la sensualità aleggia sin dall’inizio e si trasforma una tensione erotica che accompagna l’intera narrazione, sino alla commistione dei generi e al punto di vista di diverse generazioni – se pensiamo agli adulteri, i genitori dei protagonisti.

In Spatriati i personaggi affrontano diverse cadute: fasi nelle quali falliscono, sono impreparati, ma recuperano in fretta «la solennità dello spirito che tenta di rialzarsi e riappropriarsi dei muscoli, dei tendini, dei nervi». Ma il rapporto tra Claudia e Francesco non si interrompe mai: corre sul filo degli eventi, resistendo ai cambiamenti e alle diverse esperienze, in un continuo rigenerarsi di un rapporto forte ma fluido. E la loro grande forza sta in questo: essere certi in un’epoca incerta. Spatriati è il racconto di diverse emancipazioni, ma anche di ritorni, in cui l’illusione di essere salvi si mescola al riappacificarsi con le radici.

 

(Mario Desiati, Spatriati, Einaudi, 2021, 266 pp., euro 20, articolo di Antonella De Biasi)

 

Il tempo dei Low

Quello che i coniugi Mimi Parker e Alan Sparhawk sono riusciti a fare con Double Negative e, ora, con Hey What, deve ricordarci che è finito il tempo dell’equivalenza Low-Slowcore.

In Other and Sixies si avvertiva una specie di stallo, di vaga incertezza: c’era sì, appunto, lo slowcore di I Could Live in Hope, ma  c’era anche qualcosa che suonava come l’anticamera di quello che poi sarebbe stato. Il loro approccio stava cambiando. Sapevano di trovarsi a un bivio: dopo quasi tre decenni, arrendersi  definitivamente al bellissimo ma inevitabile sempre uguale oppure sterzare verso luoghi ancora inesplorati. Cercare di dare ai Low un’altra pelle.

Ed è proprio un’altra pelle quella che ci fanno vedere, oggi: la muta iniziata con Other and Sixies e proseguita con Double Negative, fa il suo corso sprigionando un tipo di bellezza (cerebrale, oscura) difficilmente replicabile.

Perché se con  Double Negative ci addentravamo in una lingua che pensavamo i Low non avrebbero mai parlato, con Hey What non era scontato vederli arrivare a tanto: quest’ultimo lavoro è la liturgia computerizzata di un altro mondo che sta per finire e, soprattutto, la distorsione definitiva del loro io.

L’estetica dell’album si fonda su concetti di manipolazione digitale come chiave di lettura del reale. Un uso complesso, delicato, ambiguo.  Sfociare in qualcosa di sterile è facile.  E qui sta tutta la grandezza del duo: giocare con l’alterazione di sé riuscendo a non soffocare quella potenza melodica che li ha sempre caratterizzati, trasformando il tutto un grande album pop di chissà quale epoca. Un cortocircuito bellissimo e straziante.

Non c’è un pezzo che svetta sugli altri (se non “Don’t Walk Away” che è strutturalmente diverso da tutto quello che ha attorno, o “Days Like These“, un pezzo di un album di Bon Iver del 2100), ma un unico flusso contorto in cui i Low ci hanno dato la possibilità di immergerci.

Hey What si candida a essere uno degli album dell’anno, i Low sono dei giganti e il nuovo corso non fa che sottolinearlo per l’ennesima volta.

Copertina di Un piede in paradiso di Rash

Il punto di vista dei sommersi

A proposito della pubblicazione di Principianti di Raymond Carver – la versione postuma della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, epurata dalle pesanti cesure dello storico editor Gordon Lish –, Alessandro Baricco affermò che era «come scoprire i diversi strati di fondazione di una città antica».

Nel 2021, quando La Nuova Frontiera dà alle stampe Un piede in paradiso, è proprio questo che sta facendo: riacciuffare nel tempo una perla oltreoceano, il romanzo di Ron Rash pubblicato nel 2002 con il titolo One Foot in Eden; la traduzione è affidata a Tommaso Pincio, con il compito di restituire nella nostra lingua la polifonia di voci che lo compongono.

Per il lettore italiano, in effetti, è come scoprire una città sommersa, il che ci porta dritti al cuore della vicenda. Ci troviamo a Oconee, contea agricola degli Appalachi nel South Carolina, una terra che sembra nascere per essere sottratta a chi la abita. È accaduto agli Cherokee, spinti verso le montagne dai colonizzatori di ieri; quindi, in questa estate torrida dei primi anni Cinquanta, alla piccola comunità rurale destinata a disperdersi per lasciare spazio alla Carolina Power, la compagnia elettrica che ha in programma di inondare la valle per creare una diga e un lago da cui ricavare energia.

Se il solido realismo dello scenario è quello delle grandi storie di William Faulkner o di Flannery O’Connor, non è però unicamente la scelta dell’ambientazione a intrecciare il filo rosso che lega Rash ai grandi narratori del Sud. Si tratta, piuttosto, del vivido lirismo e della grazia pittorica di cui il paesaggio è impregnato, che tuttavia non appesantiscono la tensione tipicamente americana della narrazione. Non sorprende, a tal proposito, il fatto che il romanzo, nel 2002, sia uscito insieme a una raccolta di poesie dell’autore sugli stessi temi, Raising the Dead, esplicitando l’intento di fondere contenuti e registri.

Di voce in voce, dunque, dalla pagina si leva il ritratto di una terra che ha qualcosa di mitico già prima di scomparire, così come eroici appaiono gli uomini che la popolano, con la loro ostinazione a strapparle ogni giorno quanto basta per vivere.

Il primo a introdurci tra le montagne, presso questi uomini, è lo sceriffo Will Alexander, chiamato a indagare sulla scomparsa del giovane Holland Winchester, reduce decorato della guerra di Corea e grande attaccabrighe. Quella dello sceriffo, personaggio acuto e a tratti tormentato dalla nostalgia della piccola contea che ha abbandonato per uno stipendio fisso in città, è la prima delle cinque prospettive che compongono il romanzo. Vale la pena osservare come sia lui che l’ultimo personaggio, Il vice, non siano introdotti con il loro nome, bensì con la loro funzione sociale. I rappresentanti della legge, insomma, racchiudono il romanzo, consentendo al lettore di apprezzare l’andamento discendente della storia, quasi l’inquadratura si stringesse progressivamente sul carattere dei personaggi fino a intrufolarsi nell’intimo della loro casa, nei loro pensieri più bui. L’omicidio attorno a cui ruota la vicenda, d’altra parte, viene presto relegato a pretesto per lo sviluppo di considerazioni esistenziali sulla natura dell’uomo e ciò che la società gli richiede, sui limiti e i confini interiori, sulla perdita degli affetti personali e quella di intere comunità, inesorabilmente sommerse dall’industrializzazione.

Al momento della scomparsa del ragazzo, il vicino di casa, il coltivatore di tabacco Billy Holcombe, viene accusato di omicidio. Dalla tenuta adiacente, la madre di Winchester dice allo sceriffo di aver sentito due spari e punta subito il dito verso la casa di Billy. Il movente pare essere la relazione che il figlio avrebbe avuto con sua moglie Amy, dalla quale, forse, ha origine il bambino che ha in grembo.

Date le premesse, il caso sembra destinato a risolversi nel giro di qualche ora, eppure il corpo non viene mai rinvenuto. Dopo una serie di buchi nell’acqua, lo sceriffo è costretto a dichiarare chiuse le indagini, lasciando così spazio alle altre quattro voci che si susseguono e che spesso tornano sugli stessi episodi con uno slittamento prospettico.

Il presunto omicidio, via via, arretra sullo sfondo. In primo piano rimangono personaggi articolati, in cui si rivela pienamente la volontà di Rash di applicare al panorama letterario conosciuto una psicologia che metta in crisi i costrutti tradizionali, donando al romanzo un ampio respiro contemporaneo. È il caso del tema della mascolinità, che si esprime anche per mezzo dell’unica voce femminile, quella di Amy Holcombe. Il suo monologo, in seconda posizione, è per altro il più affascinante dal punto di vista del racconto introspettivo, e testimonia lo sforzo di Rash di interpretare i pensieri di una donna e la sua percezione del mondo prevalentemente maschile che la circonda per illuminarne i lati contraddittori.

«Nel cuore di una donna scorrono fiumi troppo profondi per un uomo», riflette il marito nel capitolo seguente. Proprio il taciturno Billy sempre chino sui campi, che, insieme all’autore, riconosce così candidamente i suoi limiti di comprensione, incarna infatti questa difficoltà rispetto alla rappresentazione univoca di un maschile che fa sempre più fatica a definirsi e che acquista complessità grazie all’intersezione dei punti di vista.

Rimasto storpio e sterile a causa di una poliomielite, Billy intrattiene una relazione autentica e viscerale con la terra e proprio da questo rapporto così fatalista, forse, trae la forza per accogliere il comportamento di Amy senza spezzarsi e senza mai indulgere a un facile moralismo, regalandoci alcune tra le riflessioni più struggenti del romanzo. La possibilità di una qualunque stigmatizzazione di genere, infine, è neutralizzata dalla figura del virile Holland Winchester – amante temporaneo di Amy e rimedio alla sterilità di Billy – che si rivela tragicamente oggettivato e manipolato.

La penultima voce, quella del figlio che si trova a fare i conti con le sue origini, spinge avanti la narrazione di vent’anni. «Ma niente è solido e duraturo», diceva lo sceriffo nel primo capitolo. «Le nostre vite si reggono su fondamenta instabili. Non è necessario leggere i libri di storia per scoprirlo. Ti basta conoscere la storia della tua vita». Isaac cerca di mettere insieme i fili della sua e, come gli altri personaggi, si scopre indeciso, combattuto in una collisione di sentimenti che innalzano la pagina e le conferiscono una tinta espressionista.

L’ultima visione della contea, quasi onirica, arriva per bocca del vicesceriffo. Il libro, ormai, trabocca dell’acqua che ricopre Oconee; un’acqua piena di tempo con dentro i suoi uomini e il suo mais, il tabacco, la Corea di un tempo e il Vietnam che echeggia nelle televisioni, lasciandoci una malinconia che di rimando è simile all’acqua: di passaggio, destinata a diventare altro.

«Ho pensato alle radici che assorbivano quella pioggia e tutta quell’acqua che si riversava su foglie e fusti, allagando la piantagione come un fiume. Sapevo che per molte piante era ormai troppo tardi, ma qualcuna si sarebbe salvata. E già questo era molto più di quanto mi aspettassi il giorno prima».

 

(Ron Rash, Un piede in paradiso, trad. di Tommaso Pincio, La Nuova Frontiera, 2021, 256 pp., euro 16,90, articolo di Elena Panzera)
Copertina di Dieci storie quasi vere di Gambaro

La verità nelle case degli altri

La metafora dell’osservatore che scruta attraverso le finestre all’interno delle case degli altri si rivela piuttosto calzante per descrivere l’esordio di Daniela Gambaro con l’editore Nutrimenti – già premiato al Campiello Opera prima 2021. Dieci storie quasi vere, come suggerisce il titolo, è una raccolta di dieci racconti di normale quotidianità, che si ha l’impressione di guardare a distanza ravvicinata, comodamente seduti su una panchina all’esterno di un’abitazione.

All’interno di queste abitazioni si racchiude l’universo cosmo dell’individuo, così fragile e delicato da dover essere preservato da ciò che di tremendo accade nel mondo da una parte, ma sempre in divenire, sopravvissuto e quindi impossibile da catturare dall’altra.

Alle prese con un dolore, con una scoperta, con una consapevolezza di sé o di qualcuno di diverso da sé, gli uomini e le donne di Gambaro hanno consistenza e sentimenti reali. Non sorprende quindi che la brevità dei racconti non sia affatto d’intralcio, e spiani anzi il terreno affinché tutti i personaggi, dai minori ai protagonisti, possano muoversi e affermarsi.

L’escamotage letterario utilizzato è rodato ma efficace: si è calati in un contesto piuttosto consueto, come in un tradizionale viaggio dell’eroe; qui, subentra un elemento esterno – un trasloco imminente, tartarughe marine che depongono le uova sulla spiaggia, il silenzio di una casa che fino a pochi giorni prima era rumorosa e intrisa di pollo fritto –, che interrompe o modifica la rotta; ciascun evento diventa così il pretesto per la rivelazione di un significato che trova la forza di esprimersi sollecitato dalle circostanze.

I rapporti familiari qui descritti, soprattutto quelli materni, si disvelano però non improvvisamente, come accadrebbe in un’epifania, ma per gradi, come in un rilascio lento e costante di tensione. È quello che accade alla protagonista di La Llorona, tra i racconti più significativi dell’intero libro. La donna sta affrontando un lutto traumatico e si è lasciata trascinare dalle sue amiche per un viaggio in Messico, nella speranza che questo possa facilitare un ritorno alla normalità. In un campeggio, dopo aver promesso ai genitori di una bambina, Gabriela, di occuparsi di lei durante la loro assenza, mentre il resto del gruppo ormai dorme dopo aver spiato le tartarughe a riva, in lei subentra un senso di pace, di comprensione, di conoscenza di sé stessa e delle cose che la circondano.

«Poi cercai le tartarughe in lontananza, provai a individuare i dossi rugosi e scuri dei loro carapaci, ma non riuscii a vederli. Mi avviai nella direzione in cui avevo visto procedere i ragazzi quella notte, ma quando raggiunsi il punto dove la prima delle tartarughe aveva scavato per deporre le uova, mi accorsi che non c’era più. Tutto ciò che rimaneva erano la sabbia smossa, disordinata, e il guscio lucente di qualche uovo più in superficie rispetto agli altri. Della tartaruga, delle tartarughe, non c’era più traccia, né lì né più avanti».

Quelle femminili sono figure fondamentali nella struttura portante della raccolta; il loro ruolo non è però rimarcato a tutti i costi: nella naturalezza dei rapporti narrati, come quello tra una figlia ormai adulta e sua madre, o quello tra una donna e la babysitter del suo bambino, si stagliano con nettezza sulla pagina e sono riconoscibili: persone uniche con storie altrettanto uniche. È il caso, ad esempio, del rapporto tri-generazionale in L’ultima dei Mohicani, in cui il ruolo materno si sdoppia in quello di mamma e di nonna; o in Aderenze, dove l’apparente incomunicabilità tra due donne che non hanno niente in comune si traduce in una forma di affetto autentica e speciale. O, ancora, in La stanza in più, dove l’affermazione della propria vita deve scontrarsi con il trauma di un tradimento.

Ogni storia è poi accompagnata e sostenuta da una scrittura armoniosa, snella, da uno stile vivido e, dove richiesto, anche esilarante: lo sfondo perfetto per una raccolta già matura.

 

(Daniela Gambaro, Dieci storie quasi vere, Nutrimenti, 2020, 136 pp., euro 15, articolo di Giovanna Nappi)
La redazione consiglia

LIBRI PER L’ESTATE 2021

Ci troviamo di fronte all’ennesima estate strana, fatta di desideri di fuga e ansie da pandemia. Ma che partiate o che restiate a casa, i libri sapranno sempre darvi la risposta giusta. Per questo abbiamo deciso di tornare con i nostri consigli di lettura per le vacanze. Una lista di libri decisamente variegata che possa servirvi quantomeno per distrarvi un po’ da nuovi decreti e vecchie minacce di chiusure a colori.

 

 

Niccolò Amelii

I mesi estivi sono per me, lettore compulsivo ma sistematico, mesi un po’ anarchici, votati spesso a ripescaggi, contaminazioni e accostamenti disorganizzati e intuitivi. Mi sistemo davanti alla pila sempre crescente dei libri accumulatisi nei mesi precedenti, scosto via il sottile strato di polvere sedimentatosi sulle copertine e mi lascio guidare dalla curiosità del momento e dalla voglia di essere almeno per qualche settimana dedito a letture puramente disinteressate (non legate dunque prettamente a ragioni lavorative). Ecco allora, in ordine sparso, i libri che terrò a portata di mano, tra il comodino e la borsa da mare: tra le uscite più recenti due libri che mi incuriosiscono per lo stile e la tematica, Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata di Raphael Bob-Waksberg (Einaudi), raccolta di racconti che mette al centro l’amore e le sue sfaccettate declinazioni contemporanee, e Spatriati di Mario Desiati (Einaudi), storia generazionale di chi è o si vorrebbe sempre altrove (fisicamente e mentalmente) nel tentativo di ridefinire la propria fisionomia e la propria identità irrisolta. Tra i recuperi cronologicamente più lontani nel tempo, le mie scelte sono ricadute invece su La città degli untori di Corrado Stajano, radiografia narrativo-giornalistica di una Milano oscura e impensata, pubblicato nel 2009 da Garzanti e poi riproposto da il Saggiatore, e su America amore di Alberto Arbasino (Adelphi), volume di quasi novecento pagine che affronterò a poco a poco con rapide, sconnesse quanto goduriose incursioni, accompagnando la prosa mirabile di Arbasino e i suoi finissimi ritratti americani magari con un gin tonic da bere rigorosamente al tramonto.

 

 

Claudio Bello

Ad agosto mi piace lasciarmi ossessionare da qualche autore ossessivo. Quest’anno, come già ripeto da un po’ a qualche amico altrettanto nerd, voglio passare un’estate post-esotica, dedicarmi cioè alla lettura di Antoine Volodine. Penso che comincerò con Terminus radioso (66thand2nd), un libro visionario ambientato in un mondo contaminato e in preda alla catastrofe (perché non è vero che l’estate è tutta allegria. Bisogna rivalutare la malinconia dell’estate). In realtà sono anche fatalmente tentato da Vorrh di Brian Catling (Safarà), che parla di un’enorme foresta viva e labirintica, e mi sembra un trionfo del new weird (che è stato la mia ossessione dell’inverno). Voglio anche dedicarmi alle raccolte di racconti, però, perché leggerle d’estate è un grande piacere (ma in realtà lo è anche in tutte le altre stagioni). Per ora ho tre idee: Le visionarie (Not, a cura di Ann & Jeff VanderMeer), Novena di Marco Marrucci (Racconti edizioni) e Storie dell’arcobaleno di William T. Vollmann (minimum fax). Probabilmente li ficcherò in valigia tutti e tre. Di certo non rinuncerò a un saggio: pensavo ad Allucinazioni americane (Adelphi), il libro che Roberto Calasso ha dedicato a Hitchcock. Infine, una mia personale tradizione: ogni estate leggo un libro di Stephen King, e questa volta si tratterà di Le notti di Salem (Sperling & Kupfer), una magistrale storia di paura con vampiri e case stregate.

 

 

Giovanni Bitetto

Questa estate, complice alcuni concorsi pubblici in cui sono andato a impelagarmi, non avrò molto tempo per leggere. Dunque immaginerò un me ipotetico che, come ogni agosto che si rispetti, passi le ore pomeridiane dondolando su un’amaca di una qualche fazenda pugliese. La mia proiezione rispetterà un certo gusto per le belle lettere portandosi dietro Fifty-fifty (TerraRossa edizioni), primo volume di un dittico di Ezio Sinigaglia, valente penna manierista riscoperta negli ultimi anni dall’alacre lavoro di Giovanni Turi e Giuseppe Girimonti Greco. A ciò, quel me infastidito dal caldo, aggiungerà le sfuriate di Teatro VI, sesto e conclusivo volume dell’opera teatrale di Thomas Bernhard, recentemente edito da Einaudi. Ricordandosi poi che bisogna pur interessarsi dell’oggi, l’avveduto ectoplasma sfoglierà (finalmente in italiano!) Cyclonopedia (Luiss University Press), caposaldo della theory fiction di Reza Negarestani, e Cosmotecnica (Nero edizioni), intrigante saggio sulla questione tecnologica in Cina per mano di Yuk Hui – due ottimi libri per accreditarsi in ambienti ketamina&lotta di classe. Infine, quel pigro impostore si tufferà in territori adelphiani ripescando La Gran Bevuta, primo romanzo del mistagogo René Daumal, e Lettere II, secondo volume delle lettere di Samuel Beckett che ripercorre gli anni della guerra. Saziato da questa scorpacciata si avvicinerà a me, chino su infinite sillogi di quiz a risposta multipla, e mi ringrazierà con sorriso sornione. Inutile dire che la risposta non è qui riportabile.

 

 

Elisa Carrara

«Amiamo stupirci, come i bambini, ma non troppo. Quando lo stupore c’imponga di uscire veramente di noi stessi, di perdere l’equilibrio per ritrovarne forse un altro più arrischiato, allora arricciamo la bocca, pestiamo i piedi, davvero ritorniamo bambini». Scriveva così Cesare Pavese in un articolo pubblicato nell’estate del 1945 su L’Unità di Torino: si intitola Leggere e racchiude tutto ciò che, secondo me, si dovrebbe sapere poco prima di aprire un libro. Ho sempre ammirato chi è in grado di fare liste, progetti, chi decide cosa e quando leggere, senza lasciarsi distrarre: da tempo ho accettato, con una certa ostile arrendevolezza, che il caso governa le nostre scelte più di quanto immaginiamo. Perciò la mia unica certezza, in quest’estate offuscata, sarà affidarmi alle parole altrui: ossia cercare letture capaci di far «perdere l’equilibrio», di stravolgere non il mondo, che ha lo straordinario potere di rimanere sempre uguale a sé stesso, ma il modo di vedere le cose. Letture distanti dall’amore ingiustificato per l’ordine, per l’equilibrio, per le simmetrie dilaganti. Spero, allora, di perdermi nel pensiero di Edgar Morin, del quale ho letto ancora troppo poco, di riconciliarmi con la forza del cinema (attraverso la rilettura di alcuni classici e di altre novità), di recuperare la visione di Todorov, e quella, ancora sconosciuta, di Iris Murdoch. E, infine,  di scovare saggi e reportage narrativi che mostrino luci e ombre del nostro passato e del nostro presente.

 

 

Francesca Ceci

In un’estate nuovamente incerta, in cui non si progetta troppo per non essere smentiti, non si parte troppo per non illudersi eccessivamente, una piccola forte certezza rimane la libertà di poter leggere comunque e dovunque.
Senza un vero e proprio programma di lettura e senza sapere dove esattamente arriveranno, i libri in vista sono sempre quasi troppi, estivi e non, ma destinati loro malgrado a questo periodo. Tra i tanti in attesa c’è Quaderno dei fari di Jazmina Barrera (La Nuova Frontiera), che promette un percorso tra le coste e le scogliere per allontanarsi da se stessi; c’è Latte arcobaleno di Paul Mendez (Atlantide edizioni), che inizia con un boxeur giamaicano nell’Inghilterra degli anni cinquanta e che fin dalla sinossi fa pensare a James Baldwin. E poi c’è un libro che tutto sembra tranne una leggera lettura estiva ma di cui ho sentito tanto parlare in questi mesi, tra riviste e podcast, che forse in un momento controcorrente come è l’estate troverò il coraggio di iniziare: Se la morte ti ha tolto qualcosa tu restituiscilo  (Utopia) della poetessa danese Naja Marie Aidt.

 

 

Daniele De Cristofaro

Di solito nelle mie letture sono abituato ad alternare un saggio a un romanzo, giusto per tenere la mente un po’ attiva da un lato e distenderla dall’altro. Penso proprio che anche per questa estate non farò eccezione, perciò i miei consigli di lettura seguiranno per lo più questo personale parametro.
Partirei col raccomandare, per quanto riguarda la saggistica, un libro che ho amato molto ai tempi dell’università e che rileggerei molto volentieri: Geometria delle passioni (Feltrinelli) del filosofo Remo Bodei, illustre accademico nonché persona dotata di straordinaria umiltà, scomparso purtroppo da due anni. Saltando poi al romanzo, sempre in tema di riletture, non mi dispiacerebbe riprendere in mano Tropico del Capricorno(Mondadori) di Henry Miller, lettura anch’essa un po’ datata, risale infatti ai tempi del liceo e che fu per me come una vera e propria folgorazione: dopo quello del Cancro, infatti, concentrato più sul piano narrativo-biografico, Tropico del Capricorno regala anche suggestive riflessioni filosofiche. Dalla citazione di un personaggio come Henry Miller alla connessione con la figura dell’outsider il passaggio è breve e quasi obbligato, e mi riporta a un altro saggio che vorrei consigliare: L’Outsider di Colin Wilson (Atlantide). Infine concludo citando il romanzo di un autore che sono sicuro non mi deluderà: Schiavo d’amore di Somerset Maugham (Adelphi), di cui ho potuto apprezzare la fluida prosa già con Il filo del rasoio e con Acque morte, sempre editi da Adelphi.

 

 

Dario De Cristofaro

«L’uomo è un animale viaggiante», così iniziava un libro di Manganelli che consigliavo qualche anno fa (Cina e altri Orienti, ndr). Faccio mio ancora una volta questo enunciato e mi appunto i libri che porterò con me questa estate. Moby Dick di Herman Melville è una certezza da rileggere; terminato questo leggerò sicuramente Alabama di Alessandro Barbero (Sellerio) e Quando vi ucciderete, maestro? di Antonio Franchini. In questi giorni ho comprato anche Contro l’impegno di Walter Siti (Rizzoli), Opera aperta di Umberto Eco e L’arte della guerriglia di Gastone Breccia (il Mulino), con cui concluderò le mie letture estive.

 

 

Daria De Pascale

Il 2021 è cominciato come un anno di scoperta: mi ritrovo, quasi sempre per caso, ad avvicinarmi a territori (purtroppo al momento solo letterari) che fino a poco tempo fa mi erano del tutto estranei, per cui non avevo mai provato interesse. Scopro nomi, luoghi, fascinazioni nuove, ed è con questo spirito che metto insieme una lista di possibili letture estive, sempre pronta a lasciarmi trascinare altrove da altre casualità.
Dopo un intensissimo mese insieme a 2666 di Roberto Bolaño (Adelphi), continuerò a esplorare un po’ a tentoni il mondo sudamericano con L’occasione di Juan José Saer (La Nuova Frontiera) e Andarsene di Rodrigo Hasbún (Sur). Farò poi un lungo viaggio fino alla Finlandia – dove l’anno, appunto, è iniziato –, per scoprire Fair Play di Tove Jansson (Iperborea), e mi aspetto già di trovare lì nuove ragioni per fermarmi, mandando all’aria ogni piano di lettura. Nonostante tutto, cercherò però di mantenere dritta la barra e seguire le due direzioni di lettura più costanti di questo periodo: l’editoria, con Cose da fare a Francoforte quando sei morto di Matteo Codignola (Adelphi), e ciò che si muove tra il new weird e la theory fiction, recuperando finalmente Ballardismo applicato di Simon Sellars (Nero edizioni).

 

 

Giulia Eusebi

Mai come in questo agosto ho necessità di intraprendere dei viaggi: fisici, metafisici, mentali. La scelta delle mie letture estive è quindi ricaduta su una triade che mi dia la possibilità – o almeno questo è l’auspicio – di studiare itinerari, scoprire nuove strade, ritornare in luoghi conosciuti per guardarli da una diversa prospettiva e, non ultimo, di fare incontri e ascoltare storie.
Parto con Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta di Pier Vittorio Tondelli per una necessità di ripercorrere il passato recente della provincia italiana attraverso quello che l’autore stesso definisce «un viaggio, per frammenti, reportage, illuminazioni interiori, riflessioni, descrizioni partecipi e dirette, nella parte degli anni Ottanta più creativa e sperimentale».
Il viaggio prosegue con Nella foresta delle metropoli di Karl-Markus Gauss, perché sono rimasta affascinata dalla definizione che Ilma Rakusa ha fatto del libro, ovvero «una cartografia biografica dell’Europa». Un modo nostalgico di esplorare, di entrare in contatto con i luoghi e le persone che li hanno vissuti.
E dopo aver viaggiato nel Vecchio continente, vorrei avventurarmi in mare, portando con me Quaderno dei fari di Jazmina Barrera, per apprendere le storie che si celano dietro questi giganti romantici, guardiani della terra e delle acque, che hanno affascinato scrittrici e scrittori. Una sorta di portolano letterario e spirituale che mi accompagni nel viaggio e che mi permetta sempre di trovare un porto in cui approdare.

 

 

Martin Hofer

Questa estate è iniziata all’insegna delle città letterarie, prima con la lettura di Super-Cannes di J.G. Ballard (Feltrinelli), poi con la rilettura ad alcuni anni di distanza di L’altra parte di Alfred Kubin (Adelphi), entrambi consigliatissimi. Per il mese di agosto ho la possibilità di pescare da una bella pila di provviste accumulate nelle ultime settimane: ci sarà senz’altro spazio per Padre Occidentale (effequ), l’opera seconda di Simone Lisi, e magari anche per il recupero di Terminus Radioso di Antoine Volodine (66thand2nd) e di Necropolis di Giordano Tedoldi (Chiarelettere).

 

 

Luigi Ippoliti

Cercherò di essere il più razionale possibile, evitando progetti di lettura irrealizzabili: per festeggiare l’Europeo appena vinto, ho già sul comodino il libro di Stefano Piri Italia-Francia, l’ultima notte felice (66thand2nd). Poi, visto che ho appena terminato Tre millimetri al giorno di Richard Matheson (che vi consiglio), continuerò con la fantascienza e mi butterò sul suo grande classico Io sono leggenda. Infine, per forza di cose, terminerò quest’estate con Due vite di Emanuele Trevi. Con questi tre libri dovrei stare tranquillo, anche se la tentazione di leggere quel vecchio amore giovanile che è Palahniuk mi porterà dritto al suo nuovo L’invenzione del suono (Mondadori). Vediamo.

 

 

Giuseppe Maria Marmo

L’estate con tutto il carico di bilanci e riconciliazioni che si porta dietro è una valanga che ci soverchia tra un bagno e l’altro. Quindi per una sana dose di leggerezza con ghiaccio sto cercando di scovare in tutti i mercatini dell’usato un libro fantasma scritto da Umberto Eco e Roberto Leydi nel 1961, dal titolo Shaker. Il libro dei cocktail (Pizzi Editore); un allegro, colto e ironico volume sull’arte della mixologia, dove sardonicamente il giovane semiologo, allora ventinovenne, ci illustra con dovizia di particolari la ricetta per produrre nella vasca da bagno un buon gin speziato. Nell’attesa e con la speranza di trovare questo piccolo tesoro porterò con me il primo romanzo di Tommaso Landolfi, La pietra lunare(Adelphi), un testo immaginifico nel quale l’incontro tra città e provincia, convenzione sociale e irrazionalità del mito, viene scaraventato nel tumulto dell’iniziazione erotica. Città aperta di Teju Cole (Einaudi) sarà sicuramente la mia seconda lettura estiva; un romanzo che con la sua marcata componente esplorativa ricorda in qualche modo lo stato d’animo che accompagna questa stagione di novità e cambi di rotta. Lo sguardo dell’eroe sembra essere quello di chi d’estate scruta un posto o una situazione per la prima volta; uno sguardo delicato e profondo che raccoglie impressioni e rivela i nostri confini. Tra i libri che ho messo in valigia c’è anche Piranesi (Fazi Editore) di Susanna Clarke; romanzo fantasy inusuale dove il protagonista abita in una sorta di palazzo labirintico da cui non esce mai. Un testo che subisce l’influenza di grandi classici della letteratura come La biblioteca di Babele di Borges e Aspettando Godot di Beckett ma che si rifà anche al mito della caverna di Platone. Infine ho deciso di dedicarmi alla rilettura di Solo (Carbonio), un racconto lungo di August Strindberg, nella nuova traduzione di Franco Perelli, in cui il protagonista attraverso il faticoso ma necessario esercizio della solitudine osserva con elegante realismo la propria trasfigurazione morale.

 

 

Giovanna Nappi

I libri scelti per il periodo estivo sono per me sempre all’insegna dei grandi ritorni. In prima linea quello – attesissimo – in libreria di Mario Desiati, con Spatriati, da poco pubblicato da Einaudi: autore ormai già portavoce di più di una generazione di ragazzi e ragazze, erge a protagonisti i cosiddetti «spatriati», i senza patria, cittadini del mondo che a fatica, ancora oggi, vengono inquadrati in categorie socialmente accettate. Sarà poi la volta di A volte una bella pensata di Ken Kesey, autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Quasi novecento pagine alla scoperta dell’America, nel cuore dell’Oregon, dove scoppia una rivolta sindacale tra le file degli operai dell’industria del legno. È questo lo spunto per ricreare personaggi già definiti «indimenticabili», tra paesaggi maestosi ed epopee familiari che tornano finalmente in Italia dopo cinquantasette anni grazie a Black Coffee. Ultimo volume della tornata estiva di letture, Panico di James Ellroy. Per inquadrarlo basterebbero poche parole: fumo, alcol, violenza, una città che marcisce; tra queste coordinate, in una Los Angeles degli anni Cinquanta, un ex poliziotto si ritrova in scandali e complotti più pericolosi di quanto avrebbe voluto.

 

 

Gabriele Sabatini

Libro da spiaggia, ma solo perché si presenta sotto l’intreccio di brevi biografie, comode da leggersi fra un bagno e un gelato (rigorosamente in quest’ordine per evitare congestioni), Disorganici. Maestri involontari del Novecento di Filippo La Porta: una enciclopedia portatile di figure con cui occorre trovare la giusta confidenza se si prova a capire il secolo passato e interpretare il tempo presente. Fra loro manca però Leone Ginzburg, sulle cui Lettere dal confino tornerò certamente in ogni spostamento fino a settembre; un po’ perché i carteggi sono sempre appassionanti (salvate e stampate mail e chat, i nipotini vi ringrazieranno), un po’ perché da qualche tempo penso a come sarebbe stata l’Einaudi degli anni Cinquanta se lui fosse sopravvissuto alla violenza nazifascista. E se poi alla fine di agosto mi dovessi rendere conto di aver speso troppo (e succederà), potrei attingere alla Teoria dei sentimenti morali per ricordarmi, attraverso le amene pagine di Come Adam Smith può cambiarvi la vita di Russ Roberts, che il denaro forse non è tutto.

 

 

Cristiana Saporito

Quest’anno mi sono infatuata della tarologia. Precisiamo subito, non intendo propinarvi interattivi in diretta sul ritorno del partner animico né snocciolare drappelli di arcani maggiori, con spolverate di oracoli della Sibilla. Sarebbe bello, ammetto, ma non lo farò. Però questa passione ancora in stato fetale mi ha già trasmesso una traccia lampante, che è quella che vorrei condividere, in stile lanterna cinese spedita tra i nembi. Nulla di quello che accade, accade e basta. Si verifica perché esiste un motivo. Perché i nostri pensieri ci traghettano ovunque. Ovviamente anche davanti a un libro.
Quindi vi propongo un gioco: davanti ai vostri scaffali o a quelli di una libreria, avvicinatevi e inspirate. Poi, lasciatevi attrarre. A me è successo di totalizzare un bottino da corredo matrimoniale.
Qualcosa di nuovo. Qualcosa di vecchio. Qualcosa di prestato. Qualcosa di azzurro. Qualcosa con cui partire e per cui restare impigliati. Ecco quello che deborda dal bagaglio:

Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor (vecchio, minimum fax): qui siamo di fronte all’immensità. Ed è normale supporre di trovarsi spaesati. Enormità di una scrittrice mai abbastanza letta e sempre pronta a spiazzarci. Storia fitta e bruciante di Francis Marion, orfano di quattro anni rapito dal suo prozio ultrareligioso e intenzionato a farne un uomo di puro spirito. A 14 anni Francis riapproda a casa con una missione addosso. E un grumo di nodi contro cui schiantarsi. Non c’è molto da aggiungere. Se non il brutale, impagabile impatto. Con i crateri insaziati della legge interiore.
I mostri del mare di Chloe Aridjis (nuovo, Playground): amate i romanzi di formazione? Quelli da evento spartiacque, che in un’estate, un viaggio, condensano il senso labile e cocente dell’esistere? Quelli del prima e del “mai più come prima”, dell’inesausto crescere cercando? Allora spiaggiatevi tra queste pagine. Tra i relitti di Luisa e la sua insofferenza. Il tutto fatalmente condito da mareggiate di new wave anni Ottanta. Per me un richiamo irresistibile.
La vita segreta delle api di Sue Monk Kidd (prestato, Mondadori): se una parte di voi, più o meno consapevolmente, agogna una rinascita, orbitate intorno al titolo giusto. Lily non può vantare nessuna credenziale per essere felice, con un padre che la imbottisce di lividi e una madre morta forse prima di poterla amare. Eppure palpita un riscatto. Tra le carezze della sua governante e le geometrie di un insetto magico. Delizia di un mistero nascosto nel minuscolo.
Gli affamati di Mattia Insolia (prestato, Ponte alle Grazie): romanzo potente, sul disagio insanabile di due fratelli. Antonio e Paolo vivono in bilico nell’equilibrio di vetro che hanno costruito per loro. Ma il passato scuote la pelle delle loro abitudini, le trova sguarnite a lasciarsi ferire. Come noi che leggiamo questa lingua fendente.
E il suo mosaico di solitudini.
La simmetria dei desideri di Eshkol Nevo (Blu e universale, Neri Pozza): questo, signori, è il libro perfetto. Per chi? Per chiunque abbia un amico. E sappia e sperimenti cosa vuol dire tradire il confine dell’altro. Fare il male pensando al meglio, trafiggere il tu con le più alte intenzioni. È il romanzo dell’amicizia che invecchia, che resiste franando. Insomma, è il romanzo per la propria valigia e per quella di chi amiamo.
Se poi la stesa terminasse con il dieci di coppe, allora il trionfo sarebbe garantito…

 

 

Francesco Vannutelli

L’obiettivo dell’estate è leggere (almeno) La storia di Elsa Morante, probabilmente un po’ in formato audiolibro durante i viaggi in macchina, un po’ su carta. Nella mia scorta di titoli da leggere e che probabilmente porterò in giro con me ci sono anche Dominio di Andrea Esposito (ilSaggiatore), Esercizi di fiducia di Susan Choi (edizioni SUR), Domani avremo altri nomi di Patricio Pron e Le canaglie di Angelo Carotenuto.

 

 

Foto: Mathilde Langevin, via Unsplash.

foto di Nika Turbina

Nika Turbina, il fiore d’assenzio

«Il motoscafo taglia la laguna increspata verso San Michele, e Nika ride quando gli spruzzi d’acqua la sfiorano. “È bello correre, sembra di essere al luna park, e questa città tutta d’ acqua è come una favola”». Così il 30 maggio 1985 Roberto Bianchin scrive su La Repubblica, in occasione dell’assegnazione a Venezia del Leone d’oro alla poesia. L’edizione di quell’anno vanta nomi sia del panorama italiano sia internazionale.

Nei primi anni Ottanta della selezione degli autori nostrani si occupa Paolo Ruffilli e risaltano subito poeti del calibro di Dario Bellezza, Franco Fortini e Gabriella Sobrino. Tuttavia, il premio è invenzione di un altro vivace scrittore, attento alle novità editoriali e con uno spiccato spirito critico: Franco Zagato. Proprio lui si occupa, invece, di scegliere gli autori stranieri. Quell’anno sono selezioni il senegalese Leopold Senghor e lo statunitense Robert Creeley. Fra queste autorevoli personalità letterarie, emerge un altro ospite totalmente inusuale e che farà molto parlare di sé. Si tratta di Nika Turbina, poetessa sovietica di undici anni che vanta al suo attivo un solo libro, edito in Italia nel 1984 dalle Edizioni del Leone – la casa editrice di Zagato, appunto. Prima di lei tale onorificenza era stata assegnata solo a un’altra scrittrice russa: Anna Achmatova, all’età di sessant’anni e come coronamento per la sua carriera.

Il libro è Quaderno di appunti – oggi introvabile – per la traduzione di Evelina Pascucci e le illustrazioni di Ernesto Treccani. Il libro ha la particolarità di essere uscito in Italia ancora prima che in Urss: infatti, da questa pubblicazione seguiranno ben dodici traduzioni aumentando esponenzialmente così il successo della poetessa. Il libro sarà edito in Unione sovietica solo alla fine del 1984 con una tiratura di trentamila copie – un numero esorbitante per la poesia – che finirà in pochissimo tempo.

In occasione della premiazione la Turbina è accompagnata dalla nonna Ljudmila Karpova e dal russo Evgenij Evtušenko che cura anche l’introduzione all’opera. Il cosiddetto poeta del disgelo è acclamato e rispettato artisticamente in Italia e vanta al suo attivo pubblicazioni con Garzanti, Mondadori, Feltrinelli, Editori Riuniti ecc. Poi, nel 1985 sarà pubblicato anche il suo pometto Mamma e la bomba sempre per la casa editrice di Zagato. È lui stesso a caldeggiare la promozione della poetica della Nika Turbina, dopo averla incontrata per la prima volta nel 1983.

 

Genesi di una enfant prodige

Nika Turbina nasce a Yalta nel 1974. Il padre abbandona subito la famiglia e Nika cresce con la madre scultrice – Maya Nikanorkina – e i nonni. Per anni si vocifera addirittura che sia figlia del poeta Andrei Voznesensky – illazione poi smentita. In particolare, il nonno è Anatolij Nikanorkin, poeta discretamente affermato. La nonna, in compenso, lavora in un albergo e conosce molte personalità letteraria di passaggio.

La Turbina fin dalla tenera età ha problemi respiratori e fatica a dormire la notte. I famigliari le leggono versi delle poesie più svariate per distrarla e non farla agitare ulteriormente. La bambina ne impara alcune a memorie e comincia a ripeterle nei momenti di irrequietezza. Sempre nell’articolo di Roberto Bianchin, la Turbina afferma: «Ho cominciato a comporre versi a voce alta quando avevo tre anni. Battevo i pugni sui tasti di un pianoforte a coda e componevo. I versi sono venuti a me come qualcosa di straordinario che giunge all’ uomo e poi si allontana. Ma per ora questo qualcosa resta, è come un sogno che permane…».

Da queste suggestioni, la poetessa comincia a comporre senza nemmeno saper scrivere. Acconciata à la Mireille Mathieu – come ricorda l’amico Vlad Vasyukhin –, parla in maniera semplice, intuitiva, come se stesse recitando i versi mandati a memoria. Specialmente i nonni si rendono conto dell’eccezionalità del fatto e iniziano a scrivere i componimenti della nipote. Le prime liriche riportate e di cui ancora oggi si ha testimonianza risalgono al 1981, quando ha soli sette anni. Soprattutto grazie ai contatti della nonna, il talento della Turbina riesce a uscire dai confini provinciali di Yalta e ad approdare nelle metropoli dell’Unione sovietica. Grazie al supporto dello scrittore Julian Semënov, il giornale Komsomolka ne pubblica i versi e addirittura viene ospitata in alcune trasmissioni televisive.

La voce giunge così fino a Evtušenko che fin da subito si dimostra scettico nei confronti di un talento così prematuro. È opinione già diffusa all’epoca che le poesie non siano della bambina, bensì dei parenti che cercano semplicemente un modo per ottenere successo. Tuttavia, Evtušenko decide di ricevere la Turbina a Peredelkino, fuori Mosca, nella dacia di Pasternak. Così Evtušenko scrive nell’introduzione a Quaderno di appunti: «Le chiesi di recitarmi dei versi. Tutti i dubbi che si trattasse di una mistificazione letteraria caddero all’istante: solo i poeti possono recitare in quel modo. La sua voce vibra di un suono particolare, direi macerato». E in effetti basta guardare qualche vecchio filmato sul web per comprendere tutta la forza emotiva con cui la Turbina recita, come posseduta dal più alto spirito poetico. Proprio per questo motivo – anche per fugare ogni dubbio – quasi contemporaneamente all’uscita del volume vede la luce anche un disco che raccoglie le sue letture.

Consapevole delle parole, soppesa ogni sillaba con rarissima sensibilità. È stupefacente come nella recitazione – per parafrasare uno dei suoi passaggi più famosi – i versi assumano proprio il peso delle pietre, senza che essi possano lasciare indifferente lo spettatore. A leggere testimonianze di questo tenore vengono alla mente numerosi esempi e talenti letterari precoci: si pensi all’impressione che il giovanissimo Rimbaud lasciava ai suoi interlocutori o lo stupore di chi ascoltava con rapimento l’adolescente von Hofmannsthal. Oppure per citare un riferimento più vicino alla Turbina – la quale frequentava la medesima scuola –, si pensi anche alla straordinaria voce di Maria Cvetaeva che all’età di quindici anni scrisse: «Verrà il tempo dei miei versi/come per i vini pregiati». A proposito, Evtušenko dedicherà alla Cvetaeva – autrice anche de Le notti fiorentine – la straziante lirica Il chiodo di Elabuga – in ricordo del suicidio della scrittrice – contenuta nella raccolta Le betulle nane («Vorrei restare un poco / dove ha vissuto lei, Marina Ivànovna»). Ma tutti gli esempi citati erano adolescenti – o stavamo diventando tali – a differenza della Turbina.

Nei suoi versi si scorge un’inusuale maturità, connotata da una vena spiccatamente tragica. È come se la poetessa avesse vissuto l’intero spettro dei sentimenti, cogliendone ogni sfumatura, senza che però li abbia vissuti. L’ineluttabilità del tempo, la fine di un amore, l’ipocrisia umana; sono solo alcuni dei temi che vengono trattati nel libro. Inoltre, il tutto, è impreziosito da un linguaggio semplice, diretto. I versi sono brevi e abbozzano – Bozza era il titolo letterale dell’opera prima – una serie di scorsi destinati a imprimersi nella mente del lettore. Zagato si interroga sul destino dell’enfant prodige. Si tratta di «una meteora passeggera o continuerà a salire i faticosi e dolenti gradini di quella scala che porta sempre più in lato, anche se nessuno finora ci ha detto dove conduce?».

L’introduzione al volume, inoltre, è ulteriormente arricchita da una poesia inedita dello stesso Evtušenko che rende omaggio alla «bambina-poeta». Il componimento prende spunto dal primo incontro fra i due («sul marciapiede, nelle orme non cancellate di Pasternak  / lasciavi le tue»). Inevitabilmente seguono riflessioni fra le diverse generazioni e l’inevitabile perdita dell’innocenza in cambio della maturità. Ma la padronanza artistica di un letterato esperto è forse barattabile con lo spontaneo slancio vitale della fanciullezza? «Bambini segreti, noi. / Adulti non abbastanza, perché / temiamo d’essere bambini». In Evtušenko c’è tutta la dolcezza d’un padre poetico, capace di amare la propria figlia e al contempo già in grado di soffrirne la mancanza. In questa poesia senza titolo, il poeta di Zima canta la celestiale fragilità della sua beniamina e al contempo sa perfettamente che di fronte a lui vi è innanzitutto una bambina. Evtušenko in quegli anni diviene una guida per Nika Turbina, tanto da essere definito una sorta di “padrino”. Nel repertorio fotografico della poetessa si vedono i due persino al luna park, intenti a giocare e ridere. Turbina chiamava affettuosamente Evtušenko “zio Zenja”. La stima della bambina verso di lui è tale che gli dedicherà direttamente ben due poesie dalla sua prima raccolta: la prima è Anno 1941, ispirata alla prima sceneggiatura del Poeta, Giardino d’infanzia; la seconda, invece, è La guida – voi, un’autentica dichiarazione di affetto e stima verso il suo vate. Questo componimento, in particolare, recita: «La guida – voi / io invece – un vecchio cieco. / Voi – il controllore, / io – non ho il biglietto. / […] La voce umana – voi, / io – un verso dimenticato».

 

Da Quaderno di appunti alla prematura scomparsa

Quaderno di appunti, in particolare, è suddiviso in tre sezioni e ognuna di esse fa riferimento all’anno in cui sono stati composti i relativi versi. La silloge – composta tra il 1981 e il 1983 – è composta dunque da: Sono gravi i miei versi, Sono un fiore d’assenzio e Un quaderno di appunti la mia vita. Dichiaratamente ispiratosi a quest’ultima parte, il titolo del libro è scelto grazie al supporto di Evtušenko, in quanto: «un bambino di nove anni racchiude in sé temi e motivi che, sviluppandosi, formeranno l’uomo. E come in un quaderno d’appunti nascono e si delineano le forme del pensiero poetico, così nel bambino si delineano i tratti della futura maturità morale».

Il volumetto, come anticipato, è un caso editoriale e permette a Nika Turbina di viaggiare per tutto il mondo, tenendo addirittura delle letture in varie università. Stimata da moltissimi autori, avrà il sostegno – fra gli altri – anche di Iosif Brodskij. La seconda raccolta – Scale che salgono, scale che scendono – rimane inedita in Italia e nonostante il successo di pubblico non riesce a eguagliare minimamente il caso editoriale del 1984.

Ormai adolescente, la Turbina non riesce a rinnovarsi e anche venuto a mancare il sostegno di Evtušenko diviene sempre più irrequieta. Il pubblico sembra aver perso interesse nei confronti della bambina-poeta e non apprezza più in maniera così appassionata i suoi componimenti. Oltre a essere l’età di transizione per eccellenza, l’adolescenza porta anche il nuovo matrimonio della madre e la nascita di un secondo figlio. Il rapporto fra la Turbina e la madre peggiore e comincia la fuga della poetessa che sposa – a soli sedici anni – un ricco psichiatra italiano di settantasei anni residente in Svizzera. La relazione dura solo un anno e Turbina ritorna a Mosca con l’intento di cimentarsi nello studio della letteratura e della cinematografia. In quegli anni la sua produzione non è più così prolifica – risulta che in Svizzera abbia scritto una sola poesia – e il pubblico non è più attirato come prima dalla sua opera. La bambina finisce di essere tale e non impressiona più la sua voce, ormai non più acerba e così spontaneamente ispirata.

Gli anni Novanta, inoltre, sono caratterizzata dall’abuso di droghe e alcool che ben presto la portano a una depressione. La notte tra il 14 e il 15 maggio del 1997 tenta il suicidio buttandosi dal quinto piano e riporta danni permanenti alla schiena. Tuttavia, la morte avviene l’11 maggio del 2002, quando cade tragicamente da una finestra morendo sul colpo. Così recita la poesia Bambola nel 1983: «Una bambola rotta. / Non ho cuore in petto, / l’hanno dimenticato, / E in un angolo scuro, inutile / mi hanno abbandonato. / Una bambola rotta, / sento soltanto, sul far del giorno, / sommesso il sussurro di un sogno».

 

L’eredità di Nika Turbina

Ancora oggi la storia della Turbina è avvolta in un dedalo di ambiguità e contraddizioni. La vicenda ha attirato l’attenzione di diversi scrittori e giornalisti fino a giungere ad Alexader Ratner. Nel suo libro uscito in Russia nel 2018 sostiene addirittura che i componimenti dell’infanzia non siano riconducibili alla bambina, bensì a famigliari e amici. Nonostante i dubbi e le provocazioni, è innegabile come la poetessa continui a scrivere durante gli anni, seppur in maniera meno frequente. Questo portò nel 2011 alla pubblicazione postuma di Stala risovat svoyu sudbu – letteralmente Ho cominciato a dipingere il mio destino – che raccoglie l’opera omnia dell’autrice: dalle poesie dell’infanzia alle pagine di diario. Poco prima in Italia era stato anche pubblicato Sono pesi queste mie poesie – edito dalle Edizioni Via del Vento – a cura di Federico Federici che ripropone in una nuova traduzione di alcune poesie di Quaderno di appunti e altre ancora degli anni immediatamente successivi. Come ricorda lo stesso Federici nei suoi saggi critici sulla poetessa – poi pubblicati in un volumetto autonomamente – le pagine del diario svelano la vita della Turbina sotto una luce inedita. Sconvolgente il passaggio in cui scrive: «Tutto quello che dovevo, l’ho detto da bambina, nelle mie poesie. Non c’era bisogno che diventassi donna».

I migliori album fino a questo momento

Siamo arrivati a poco più di metà anno e abbiamo deciso di fare un breve elenco (in ordine puramente casuale) degli album usciti in questo 2021 che, per ora, ci hanno colpito di più.

 

Ira, Iosonouncane: album ambizioso, il più ambizioso del cantautore sardo. Monumentale, complesso.  Di difficile metabolizzazione, si sviluppa in quasi due ore di suoni. Un  dedalo di suggestioni in cui è facilissimo (e pure bello) perdercisi. È meglio di Die? Domanda a cui si potrà rispondere tra qualche tempo. Per ora ci godiamo il coraggio di Iosonouncane.

 

Boy From Michigan, John Grant: un nuovo album di John Grant è sempre una bella notizia. Forse non raggiungerà mai più il livello altissimo di Queen of Denmark, capolavoro anni ’10 di cui si parla sempre troppo poco,  ma in quest’ultimo lavoro ritroviamo quegli sprazi melodici che hanno reso grande il cantante americano.

 

Blue WeekendWolf Alice: album di grande impatto per la band inglese, dove il dream pop si mescola con lo shogaze fino ad arrivare a toccare suggestioni synth grunge. Non l’album dell’anno, ma qualcosa di cui periodicamente avremo bisogno. Da ascoltare “Delicious Things

 

Paesaggio dopo la battaglia, Vasco Brondi: Forse sarà impopolare questa segnalazione, perché probabilmente il tempo d’oro di Vasco Brondi è passato. Paesaggio dopo la battaglia non è la cosa migliore scritta dall’artista emiliano, ma ci ridà indietro alcuni spunti dei primi album che negli ultimi anni mancavano (Terra). La chiusura dell’esperienza Le luci della centrale elettrica gli ha fatto bene.

 

Forme complesse, Fine Before You Came: Non i FBYC a cui siamo semore stati abituati. Il loro ultimo album è un lavoro più cerebrale, che lavora per sottrazione. Più melodico e cantautorale rispetto al passato, il gruppo tanto caro a Niccolò Contessa tira fuori qualcosa di veramente importante.

 

For The First Time, Black Country, New Road: album potente per gli inglesi, trascinante e suggestivo. Un miscuglio di generi (post rock, jazz rock) e una consapevolezza notevole per un gruppo al suo esordio. Se non l’avete ancora ascoltato, potrebbe diventare l’inaspettata colonna sonora perfetta di questa estate.

 

Psychodonna, Rachele Bastreghi: Tutte le luci erano su Francesco Bianconi e il suo primo e tanto aspettato album d’esordio. Minore attesa per l’altra parte dei Baustelle, Rachele Bastreghi, che invece scrive un lavoro di alto spessore cantautorale, ricordandoci (se ce ne fosse bisogno) la sua importanza nel terzetto toscano.

Copertina del Manifesto della cura

#ItaliaSiCura, ma si è sgretolata

Al terzo anno delle medie gli insegnanti ci fecero partecipare a un progetto sulla scuola di Barbiana, alla fine del quale era prevista una visita alla minuscola frazione di Vicchio. In cima alla salita c’erano solo una chiesa e un campanile, sembrava assurdo che l’insieme di così poche architetture potesse addirittura avere un nome proprio. Tre cose mi colpirono molto quando arrivammo: l’isolamento del luogo, la piscina che Don Milani aveva costruito per insegnare a nuotare a bambini cresciuti tra le montagne e la scritta «I CARE» sulla porta dell’aula. Michele Gesualdi, che della scuola fu allievo, ci accolse entusiasta e ci spiegò che ogni bambino di dieci anni che segua quel monito è un alunno di Don Milani. «Capite?» ci diceva indicando la scritta, «significa “mi sta a cuore”, “ho caro qualcosa”, “prendermene cura”. Lo si usa quando ti importa di qualcosa come a lui importava dei suoi alunni figli di contadini. Ma per lui era anche e soprattutto quell’energia trascinante che ci doveva distinguere nella vita, l’interesse per la causa e per gli altri». Don Milani utilizzava quella parola inglese intraducibile, che richiamava un affetto descrivibile italiano solo attraverso la somma semantica di più parole, come se per restituirne l’intensità si potesse solo lavorare per aggiunte.

La parola care è tornata al centro del dibattito in Gran Bretagna con l’avvento del Covid-19: in quante delle declinazioni del termine ha fallito il governo di Boris Johnson? È quello che si propone di capire, in termini costruttivi, il Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza firmato da The Care Collective e pubblicato in Italia da Alegre. Sono tre le accezioni principali della parola: caring for che si riferisce agli aspetti più concreti della cura, caring about che descrive l’investimento emotivo e il nostro attaccamento agli altri e infine caring whit che si riferisce al nostro «piano politico» per trasformare il mondo.

Partendo proprio dal caring for, e quindi osservando il modo in cui il governo inglese si è occupato dei suoi cittadini, il Manifesto annuncia un primo paradosso: chi più dipende dal bisogno della cura altrui sono i ricchi, che delegano ad altri, in quasi tutti gli ambiti, la cura della loro vita e dei loro affetti, dalla gestione domestica alla crescita dei figli. In un mondo in cui indipendenza e autonomia sono diventati pilastri su cui si valuta lo status del soggetto, è chiaro perché si ambisca a essere indipendenti dagli aspetti della cura. Questo avviene proprio perché il concetto di cura è per sua natura relazionale, e alimenta inoltre atteggiamenti, quali la tenerezza e l’attenzione, da sempre accostati alla sfera femminile, in contrasto con i dettami comportamentali della virilità. Per questo motivo la cura è stata patologizzata, assegnata a terzi o a strutture specializzate che gestiscono i relativi ambiti della vita in parallelo rispetto allo spazio pubblico in cui le nostre vite si svolgono.

Il caring about richiama allora una “debolezza” che si manifesta in ognuno di noi in forme e modi variabili, ma che riusciamo a gestire solo entro appositi spazi in cui non mostriamo al mondo intero il bisogno dell’altro. La richiesta di aiuto è ritenuta “femminile” perché presunto segno di scarsa forza d’animo, ma lo è anche nella misura in cui sono storicamente le donne a rispondere a questa necessità: sono soprattutto loro, infatti, a prestarsi là dove c’è bisogno di sostegno. Ma come sottolineano gli autori la parola care esprime la nostra parte tenera, una sfera che, come il libro mette in luce, è fonte di fragilità sia quando si reclama un aiuto sia quando l’aiuto viene dato. Non è un caso che il femminismo della seconda ondata denunciasse la fatica fisica e psicologica che le casalinghe provavano, estenuate dal lavoro di cura. Tutto ciò racconta del grande vuoto culturale che abbiamo nei confronti della cura personale e altrui. Se da una parte è demonizzata come un difetto, dall’altra la cura è stata relegata a soggetti considerati inferiori e per questo considerati adatti a gestire le “degradazioni” della nostra vita: le donne, i neri e la servitù.

Da qui il chiaro bisogno di costruire un’immagine sana e genuina della cura attraverso una risignificazione culturale: un caring whit che racconti come la politica possa inserirsi in questo spazio. Non è difficile cogliere come lo spirito culturale dell’indipendenza sia stato assunto quale indirizzo politico dai governi, nel scegliere le modalità amministrative con cui curare. Delegata al privato e taciuta per vergogna, la cura si svolge quasi sempre entro un rapporto uno a uno: il bisogno di cura nasce dalla consapevolezza che da soli non resistiamo, ma la soluzione rimane confinata allo spazio del singolo, che da solo chiederà aiuto e da solo potrà uscirne.

Vivere questa fase storica segnata dalla pandemia è stato come assistere a un film dai colori saturati tratto da un romanzo distopico: un primario del più celebre ospedale della capitale ha trovato la ricetta dell’elisir di lunga vita e perché la pozione funzioni deve tagliarsi le braccia, ma tutto il film si incentra sulla lotta fisica per tentare di berlo. Un film sulla solitudine, sulla contraddittorietà del valore dell’autonomia, un film che suscita rigetto, non ti è bastata la lezione? Perché non chiedi aiuto? Abbiamo vissuto la metafora fisica di un’atomizzazione già presente a livello emotivo che è diventata palese quando il distanziamento ha aggravato la solitudine che fin da prima caratterizzava le nostre vite. Al contrario, in filigrana a tutto il libro viene ribadito il principio annunciato nel titolo: dobbiamo percepirci in un sistema organico in cui si abbracci come valore l’interdipendenza reciproca. Per questo motivo curare è azione politica: valorizzare gli spazi pubblici, le piazze, le biblioteche, le società di mutuo soccorso.

Jennifer Guerra ha curato la postfazione del Manifesto offrendo una lettura italiana della parola “cura”. Come nota giustamente, il decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, quello del primo lockdown pandemico, è stato chiamato #CuraItalia, un nome che doveva esprimere l’intenzione di rafforzare il servizio sanitario e aiutare famiglie, lavoratori e imprese. Allora la parola cura sembrava la risposta più ovvia a un’emergenza del calibro di una crisi pandemica globale, un farmaco politico unico e necessario per rispondere a esigenze collettive. I decreti successivi hanno però sostituito “cura” con “ristori”, e dai suoi beneficiari sono state eliminate le famiglie. Nessuna cura, ma una benefica compensazione a fronte della fatica sostenuta, qualcosa che assomiglia più a un premio fedeltà che a un aiuto concreto e sistemico.

Il lavoro del Care Collective rischia di limitarsi a un’orazione ricca di buoni intenti che però non scende in un’analisi profonda dei sistemi di cura imperanti, e che si rivelano semplici palliativi. Né offre risposte concrete su come potrebbe funzionare una società che si fa carico della cura e si realizza nella sua interdipendenza. Sicuramente, però, aiuta a riflettere sulla società in cui viviamo. Per esempio a scoprire che no, l’Italia non si è curata, e non è nemmeno sicura nel modo a cui vorrebbe alludere l’hashtag #ItaliaSiCura promosso dall’attuale governo. Forse, come diceva Susan Sontag, la malattia è una metafora, e noi possiamo coglierla nella scelta delle parole con cui è stata raccontata. Nel nostro caso, un paese infetto che cura i sintomi e non aggredisce il fattore patogeno.

 

(The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, trad. it. Marie Moïse e Gaia Benzi, prefazione di Sara R. Farris, postfazione di Jennifer Guerra, Alegre, 2021, pp. 128, euro 12. Articolo di Anita Fallani)

Copertina di E poi saremo salvi di Carati

Spingere la vita in avanti

«Ogni oggetto del mondo ha almeno due vite», diceva l’artista Alighiero Boetti, tanto da mettere in crisi la propria identità, per poi sviluppare artisticamente un’identità doppia. Questa divisione, questo frazionamento dell’unità, dà luogo a un prolungato e ineluttabile processo di separazione all’infinito che alla lunga rischia di non permettere più la riunificazione, la ricomposizione delle scissioni avvenute. C’è questo concetto alla base di E poi saremo salvi, il romanzo d’esordio di Alessandra Carati (Mondadori, 2021).

La storia inizia in quel maledetto 1992 in Bosnia, quando prende il via la disgregazione della ex Jugoslavia che fu di Tito, e che portò a una guerra devastante, a un genocidio incomprensibile nel cuore dell’Europa orientale. L’autrice fa una scelta coraggiosa: entra narrativamente in Aida, una bambina bosniaca cinquenne costretta a fuggire dal suo piccolo villaggio con la madre incinta, in un’orribile e interminabile notte nella quale raggiungerà il padre: con lui, passeranno il confine per arrivare in Italia.

La condizione di profughi resterà loro attaccata per anni, per sempre, una condizione che sembra assumere quella di apolide, che si riverbera in modo differente su ciascun componente della famiglia. Fatima, la madre, dopo avere partorito Ibro, il figlio di cui era incinta al momento della fuga, diventa abulica, dimagrisce, «si rifiutava di spingere la vita in avanti», fino a mettere a rischio la salute del neonato. Damir, il padre, un uomo forte, un comunista convinto ai tempi di Tito, tanto da vivere con una gigantografia del generale, in questa seconda vita «non riusciva a essere un vincente», forse perché dentro si porta il tormento di essere scappato dal suo paese e «di non essere un buon patriota». Così, agli occhi della figlia finisce col diventare «cattivo, e il suo odio si spandeva come olio su chiunque fosse a tiro». Come non bastasse, il padre prova a salvare l’identità perduta attraverso la religione; lui che era sempre stato ateo, improvvisamente segue i precetti del Profeta e pretende che facciano altrettanto i figli, Aida in particolare.

Lei, dal canto suo, vuole integrarsi, vuole scrollarsi di dosso quella non-appartenenza a qualsiasi luogo; già, perché non è italiana, ma non è più neanche bosniaca, se è vero che comincia a dimenticare la sua lingua madre. Ibro invece, nato in Italia, porta il nome del fratello maggiore del padre, morto quando aveva due anni – e per Aida questa scelta suona come sinistro presagio. È un bambino vivace, anche troppo, che solo la protagonista riesce talvolta a calmare. Il suo è un disagio innato, un’eco ancestrale che ha assorbito forse in quella notte di fuga.

Nella prima metà del romanzo, Alessandra Carati si addentra in una realtà di rado raccontata dalla letteratura mainstream, quella guerra di Bosnia che sembra sia stata in parte cancellata dalle nostre memorie. Qualche anno fa era uscito per Bompiani un altro grande esordio, quello di Ismet Prcić, Schegge (Bompiani, 2015), che descriveva quel contesto terrificante, e che con E poi saremo salvi condivide parecchi punti: dalla fuga alla perdita di identità, dalla guerra che ti porti dietro, anzi addosso come un tatuaggio indelebile, al senso di colpa per avere lasciato ad altri il compito di lottare per il tuo paese.

Non c’è nostalgia di casa, c’è invece una presenza costante dello sradicamento, che in Aida si percepisce perfino nella sua volontà di farsi adottare da Emilia e Franco, i volontari che li hanno aiutati, per diventare cittadina italiana a tutti gli effetti. Come nel romanzo di Prcić, la Bosnia è in ogni cosa, metafora sinistra di un secolo – il Novecento – che si è aperto con la Grande guerra scatenata a Sarajevo e lì si è concluso con l’ultima guerra su territorio europeo. Quando Aida ormai sedicenne torna nella sua Bosnia, si rende conto della distanza che si è creata dal giorno della fuga, tanto da dire che «tutta la nostra vita era divisa tra un prima e un dopo», cosa che la spinge a uno straniamento, così che «la vita prima della guerra era una dimensione parallela, a volte mi domandavo se fosse davvero esistita».

Questa instabilità territoriale, accompagnata da uno straniamento identitario, si riflette a pieno sulla fragilità emotiva dei personaggi, tanto che nella seconda parte di E poi saremo salvi il focus si sposta sulla malattia mentale di Ibro. Aida vede pian piano precipitare suo fratello in quella che poi verrà diagnosticata come schizofrenia paranoide. È un crollo verticale, lo sfaldamento inarrestabile di una vita come lo era stato di un paese. Lei le prova tutte, si laurea perfino in medicina, come se solo questo potesse bastare a guarire quelle ferite profonde che ciascuno di loro reca in sé.

Quello di Alessandra Carati non è un romanzo consolatorio, non prova a rimettere in ordine i tasselli come un puzzle. Racconta una verità drammatica e, come tale, non tutti i pezzi possono andare al proprio posto, soprattutto perché rispecchia la vita che talvolta ci scivola via «di dosso e non sapeva come trattenerla, perciò piangeva, s’infuriava».

È un romanzo crudo, scritto con una lingua piana e ritmata, che riflette a pieno il senso della guerra, della perdita, dell’incurabilità dell’io. Eppure, in quella crudeltà, c’è una compostezza autoriale che rende ancor più vivido il racconto, che non lascia via di fuga al lettore, che si ritrova a fare i conti con Aida di quella separazione iniziale, e che non potrà più tornare all’unità originaria.

 

(Alessandra Carati, E poi saremo salvi, Mondadori, 2021, 276 pp., euro 18, articolo di Fernando Coratelli)