copertina di segre notizie dalla crisi

La crisi della critica

L’impotenza della critica letteraria italiana contemporanea, schiacciata dall’autoreferenziale clan mediatico di un panorama culturale tanto più anonimo e massificato quanto meglio, è ormai un triste dato di fatto. Si fa un gran discutere, e a ragione, del senso che possa ancora avere battersi per interpretare e giudicare una letteratura svilita al rango di merce, subalterna al mercato e incapace di farsi ciò che per sua natura dovrebbe invece anzitutto essere, vale a dire ricerca e comprensione del senso integrale del mondo attraverso il linguaggio, sfida costante della parola scritta all’opacità inattingibile dell’esistenza. Come e perché infatti continuare a scovare nei suoi testi, oggi, quel quid invisibile «dietro cui sentiamo vibrare l’infinito», si domanda Giulio Ferroni in La solitudine del critico (Salerno Editrice, 2019), se tale compito ermeneutico ha perduto funzione civile e prestigio, sostituito com’è dalla pubblicità, da valutazioni basate sul flusso delle vendite e declinate in sondaggi, statistiche, classifiche al servizio del pensiero unico dominante dei cliché letterari alla moda.

Interrogativo sui suoi destini che, già posto con preveggente anticipo in Notizie dalla crisi di Cesare Segre (Einaudi, 1993) – sia pure ponendo il focus soprattutto sulle scelte metodologiche piuttosto che sugli ostacoli relativi all’orizzonte sociale – è ormai, più che grido d’allarme, amara constatazione dello stato di indifferente accessorietà nel quale sono relegati  quanti hanno ancora a cuore una letteratura contro «il troppo e il vano», sideralmente diversa cioè da quella che «collabora allo scarto, che non fa altro che ruotare intorno alla comunicazione già data, che non fa che cercare occasioni di presenza, producendo materiale da consumare», come osserva lucidamente Ferroni in Scritture a perdere, (Laterza, 2010).

La marginalizzazione della figura del critico, infatti, ha negli ultimi decenni assunto proporzioni di tale gravità che il suo dibattito non verte nemmeno più sulla necessità di rivederne gli assunti relativi al metodo, ma proprio sulla sua stessa ragion d’essere in quanto tale. Basti pensare a un libro come Sottotiro di Enzo Golino, pubblicato nel 2002 da Piero Manni Editore e rieditato nel 2013 da Bompiani, raccolta di quarantotto stroncature di altrettanti scrittori nata nel 1988 come rubrica del mensile Millelibri, rimasta prezioso e raro caso nella prospettiva critica recente, eccezion fatta per alcune perle come Sul banco dei cattivi di Ferroni, Onofri, La Porta e Berardinelli (Donzelli, 2006), dall’eloquente sottotitolo A proposito di Baricco e altri scrittori alla moda, o del già citato Scritture a perdere.

Come difatti scrive lo stesso Golino nell’introduzione alla prima edizione, sono via via andate perse le figure tanto del recensore che dello stroncato, appiattite entrambe da un’omologata, pacificata informazione a largo raggio che, aumentando la quantità delle recensioni, inversamente abbassa il peso specifico del giudizio positivo o negativo delle medesime.

L’attuale atrofia del discorso critico è data, in sostanza, perché la società delle lettere non esiste più, questo è il punto. Al di là dell’intenderne l’essenza in quanto strumento di intervento sociale o politico piuttosto che corpo autonomo di regole, strutture e meccanismi di indagine filologica e stilistica, è in sé proprio il suo fine di interrogazione del mondo che appare incomprensibile e fuori luogo nel contesto epocale della spettacolarizzata vacuità di un sapere alla deriva. Di fatto, nel nostro presente sfiancato dalla progressiva discesa agli inferi del sistema scolastico delle tre “i” – informatica, inglese, impresa – delle università dei crediti formativi, delle lauree brevi e dei settori disciplinari, non meno che avvilito dallo squallido parametro secondo il quale il valore dei prodotti artistici debba essere determinato dal volume delle vendite e dalla diffusione sui salotti social e nei media, la scomparsa dell’effettivo peso ponderale della letteratura e della discussione intorno a essa appare quantomeno inevitabile, oltre che prevedibile. Tuttavia il pericolo maggiore, per chi abbia contezza di ciò, è quello di rinchiudersi nelle consorterie intellettuali che ne offuscano ulteriormente l’orizzonte, nella passiva visione rinunciataria e manichea che contrappone il proprio salvifico status a quello di chi è perso nel rutilante, volgare nulla della pseudo cultura.

Perché, per paradosso, mai come oggi si assiste a un entusiastico proliferare a macchia d’olio di festival, fiere, saloni, reading, riviste, contest, corsi, lezioni e quant’altro, de visu o moltiplicati in rete attraverso una sorprendente parcellizzazione di blog, interventi, video di tavole rotonde, conferenze da remoto in tempo reale e così via. Si discute con passione di resistenza del critico e dell’intellettuale, del valore oppositivo del professore accademico, dello scrittore indenne al circo mediatico, della solitudine dell’editore coraggioso, dell’improcrastinabile necessità di combattere l’analfabetismo funzionale, ecc. Eppure spesso tutto questo assume le parvenze e i metodi di una roccaforte aristocratica che, al di là delle pur sacrosante intenzioni, divide i giusti dai peccatori con salomonica certezza, rintracciando le cause dell’incalzante barbarie dell’incultura di massa in qualcosa d’altro esterno a sé, astratto e inafferrabile: la globalizzazione, la generale decadenza dei tempi, la spinta dell’imperativo al consumo, l’onnipotenza della logica del profitto.

Certamente la crisi della critica, come osserva Francesco Muzzioli in Le teorie della critica letteraria (Carocci, 2019) è una crisi generale della criticità, dunque a più ampio spettro dell’intero universo sociale, culturale e letterario, ma quella del sentirsene al di sopra è una falsa prospettiva che non può portare a soluzioni concrete. Magari la sua eclisse si annidasse unicamente nella logica che muove le recensioni asservite del giornalista di turno, nell’elogio sperticato dei dimenticabili romanzetti di onnipresenti personaggi televisivi o nell’invadente imporsi delle dittature mediatiche. Affinché cambi l’esterno da noi occorre agire dal di dentro.

Il web pullula di riviste di alto profilo e acclarata militanza letteraria apparentemente aperte a collaborazioni esterne, entrare nelle quali è impossibile se non si fa parte di una ristretta cerchia di iniziati. Le case editrici più colte e controcorrente, quelle che mai pubblicherebbero un romanzo mainstream in odore di best seller commerciale, hanno al loro attivo editor incredibilmente ignari di chi sia Roland Barthes, o che con amabile disinvoltura etichettano E. A. Poe tra i giallisti. Gli stessi che, giustamente in guardia rispetto a certo facile dannunzianesimo decadente, in compenso selezionano i manoscritti col metro di un’intellighenzia settaria e tranchant chiusa nei canoni delle ultime tendenze dell’editing editoriale, per il quale ad esempio «qualsiasi eccedenza rispetto al linguaggio scorrevole viene stroncata», senza capire che quell’assenza di stile alla quale attribuiscono innovazione, modernità e qualità «nasconde, tutto sommato, uno stile, sia pure di tipo standardizzato e banale», come acutamente nota Muzzioli.

Se davvero vogliamo salvare la letteratura, è necessario comprendere che il compito svolto dalla critica non solo è ancora e sempre fondamentale ma che è addirittura diventato indispensabile. In uno scenario in cui perfino le case editrici più impegnate si limitano a combatterne pavidamente il degrado con la pubblicazione di vecchi classici di sicura vendita, o che con miope provincialismo preferiscono affidarne le sorti alle novità oltreoceano, concedendo col contagocce nulla o poca manovra agli esordienti italiani, una solida, motivata funzione in chiave interpretativa ed esplicativa anzitutto di riconoscimento – di scouting, diremmo oggi – nonché approfondimento, supporto e propagazione del testo letterario, è quanto di cui si sente maggiormente il bisogno. Occorrono in sostanza gli strumenti per l’acquisizione di una coscienza della scrittura e delle sue ragioni che, a fronte del non trovare legittimazione nel macro circuito dello scorrevole niente di una letteratura come super produzione e immediato consumo, svolga però il proprio esercizio al di dentro delle case editrici, dei premi letterari, dei blog, delle scuole di scrittura e di editing proprie a quel condiviso panorama culturale che, pur lottando contro la sua deriva, non è sempre all’altezza di un’opposizione strumentalmente adeguata.

Affinché dunque torni ad affermarsi una scrittura – e di conseguenza una critica – che non cerchi di piacere, ovvero svincolata dalle modalità sia del network culturale di matrice consumistica sia però da quelle di una sua sistematizzazione in canoni che finiscono loro malgrado per uniformarla, è utile ricordare che «un testo narrativo implica che infinite cose si possono scrivere in infiniti modi», come sottolinea Vanni Santoni in La scrittura non si insegna (Minimum Fax, 2020). Perché di fatto, insieme alla certezza che non esistono regole assolute in grado di scomporre la letteratura in algoritmi matematici, oggi è di primaria importanza che la figura del critico ricompatti la propria centralità in chiara opposizione a qualsivoglia aurea mediocritas, vale a dire tanto quella che si trova nell’illusoria comunicazione del vuoto quanto – e a maggior ragione – all’interno di quell’universo letterario che fa, sì, i conti con le contraddizioni del presente e ne interroga il destino, ma spesso vi impone i propri modelli e saperi con inconsapevole e pericolosa sicumera.

Poster The Father Flaneri

Nessun posto dove riposarsi

Il cinema non è nuovo al racconto della vecchiaia. The Father – Nulla è come sembra affronta l’argomento in maniera singolare, orientando la macchina da presa sulle allucinazioni di un malato di Alzheimer, un Anthony Hopkins da Oscar, vincitore della sua seconda statuetta come miglior attore protagonista.

L’attore gallese veste i panni di Anthony, un anziano diviso fra le preoccupazioni della figlia Anne, alla ricerca di una nuova badante che lo assista; l’ostilità del genero, un uomo non proprio compassionevole; il ricordo dell’altra figlia, Lucy, resa presente attraverso un quadro. Per tutto il film, e alla fine soprattutto, nulla è come sembra: i volti, i nomi, la casa, le parentele, gli avvenimenti. La storia non è altro che una continua fantasia del protagonista: la realtà è quella vissuta dallo sguardo di un malato di Alzheimer, che confonde e dimentica, perso nelle sue allucinazioni.

The Father ricorda molto la pellicola italiana Tutto quello che vuoi, nell’affermare che una patologia non può cancellare del tutto la vita vissuta, gli affetti e i sentimenti. Anche in quel caso il protagonista è un anziano alle prese col proprio presente labile e confuso, accompagnato per mano da un giovane badante che, grazie a lui, entra nel mondo con un tesoro nelle scarpe. Come si sa, però, ogni malato di Alzheimer indossa la patologia a modo proprio: se Giorgio è bloccato nei ricordi di un passato lontanissimo (la seconda guerra mondiale), Anthony si sente al sicuro tra le mura di quella che pensa essere la sua casa, coccolato dal pollo che gli prepara Anne e dal quadro della giovane Lucy, con l’unica preoccupazione di ritrovare l’orologio che puntualmente non indossa al polso.

Entrambi non mostrano alcuna indole all’angoscia, come invece accade in Still Alice, dove la protagonista vive il dramma di una forma precoce della malattia. Anthony e Giorgio sono due anziani inconsapevoli del proprio stato, che considerano come una cosa normalissima vivere nel passato oppure dimenticare elementi di nessuna importanza. Sembrano quasi non sentire il peso della malattia: mentre chi li circonda è afflitto dalla pena di una situazione incomprensibile, loro stanno “beati”, nell’innocenza di una vecchiaia che trascorre tra gli oggetti sicuri di una vita che ormai si è conclusa, nel bene e nel male. Se Alice si prepara, e con lei tutta la famiglia, a trascorrere un futuro pieno di dimenticanze, Anthony non vuole rinunciare al suo passato: perché accettare una badante quando ha una figlia amorevole che si prende cura di lui? Perché abbandonare una casa sicura per accontentare un genero poco compassionevole? Perché rinunciare al proprio orologio quando il tempo degli altri non corrisponde al suo?

The Father inizia quasi come un thriller, si trasforma in una commedia amara, per concludersi con il senso di vuoto legato alla verità. In mezzo, i segnali di una malattia invadente: l’orologio perennemente in giro per la casa, la forchetta dimenticata nella giacca, l’incapacità di distinguere un sogno dalla realtà.

L’opera prima del francese Florian Zeller, adattamento cinematografico della sua pièce teatrale del 2012, è davvero ben riuscita, soprattutto nel passaggio finale del bambino interiore che si sente abbandonato: «Mi sento come se stessi perdendo tutte le mie foglie. I rami e il vento e la pioggia. […] Non ho più nessun posto dove riposarmi. Ma so che il mio orologio è al polso. Per il viaggio».

The Father ci insegna a guardare la demenza senile, e l’Alzheimer in particolare, con tenerezza e compassione, andando al di là della fatica che essa può suscitare nelle persone che si prendono cura degli anziani. Tutto parte da una domanda, che è la stessa alla quale ogni famiglia dovrebbe tenere a mente nella tutela dei nonni: «Mi stai abbandonando. Cosa ne sarà di me?».

(The Father – Nulla è come sembra, di Florian Zeller, 2020, drammatico, 97’)

Copertina di Il capitale amoroso

Scegliere l’amore non è un pranzo di gala

La bella che impalma il principe azzurro. Lui renderà lei – che è già ricca dentro e dunque se lo merita, questo amore-premio – ricca fuori; e lei lo aiuterà a riscoprirsi ricco soprattutto dentro.

La sentite la musichetta tananananà di Pretty Woman? Riuscite a visualizzare tananananà Julia Roberts vestita da gran signora che fa shopping nei negozi più costosi, scagliando elegantemente sassolini dalla scarpa contro le commesse snob che l’avevano maltrattata?

Quello che non riuscite a ricordare, scommetto, è il finale del film. No, non Richard Gere arrampicato sulla scala, con La Traviata in sottofondo, che supera le sue fobie, tutte le sue fobie, per andare a dichiarare alla bella Vivian che, sostanzialmente, la «proteggerà dalle paure delle ipocondrie e dalle ingiustizie e dagli inganni del suo tempo e dai fallimenti che per sua natura normalmente attirerà».

Il vero finale è il carrello indietro sul bacio degli innamorati e una voce fuori campo che dice: «Benvenuti a Hollywood! Qual è il vostro sogno? Tutti vengono qui: questa è Hollywood, la città dei sogni. Alcuni si avverano, altri no, ma continuate a sognare! Questa è Hollywood: si deve sognare! Perciò, continuate a sognare!»

Jennifer Guerra, nel suo Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario (Bompiani, 2021), ammette che, in effetti, neanche lei se lo ricordava. E così nessuno dei suoi compagni del corso di letteratura a cui era stata fatta questa domanda.

È invece fondamentale tenere presente che gran parte dell’immaginario sull’amore è strutturato su una sua narrazione stereotipata e zuccherosa, e tutto il rapporto marcio, malato e narcisistico che la società sembra avere con l’amore deriva dalla sua exploitation romanzesca, hollywoodiana e pubblicitaria.

La società, infatti, dice Guerra, si comporta come «un amante dal cuore spezzato: cinica e sprezzante nei confronti dell’amore considerato un sentimento stupido, inutile e noioso, una fantasia per adolescenti, un ripiego per chi non sa stare da solo, un lusso per pochi». La narrazione dettata dalla saturazione dell’immaginario è funzionale alla costruzione di quell’individualismo su cui la logica del capitale punta tutto per renderci più soli, più deboli, più in lotta gli uni contro gli altri. Divide et impera, insomma.

D’altronde, che l’amore dopo i vent’anni fosse una cosa da cameriere, lo pensava, o perlomeno così si dice, il più stilosamente cinico dei grandi imprenditori italiani.

Guerra sposta invece i termini del discorso, attingendo all’idea della teorica femminista Bell Hooks: considerare l’amore come azione invece che come sentimento.

Un campo d’azione sul quale si può e si deve lavorare per produrre un antidoto alla società della prestazione, recuperando il concetto di amore per la collettività, l’agape, e orientandosi sull’idea di «comunità amorevole» di cui parlava Martin Luther King, basata sull’accoglienza delle singolarità e sull’abolizione di quelle che Hooks chiama le «false frontiere», cioè l’interessarsi soltanto al destino e alla felicità di chi è simile a noi.

Un compito per niente facile, immersi come siamo in questo brodo di attivismo performativo e ultracompetitività.

In questo senso l’amore – non solo quello che pensiamo di meritarci, che ci voglia tutte spettinate, ma soprattutto quello che dovremmo imparare a dare senza aspettare una contropartita, utilitaristicamente intesa – rischia di metterci in discussione molto più seriamente di quanto vorremmo.

Il cinismo nei confronti dell’amore nasconde il cinismo nei confronti della società, il tradimento della politica si riverbera nella disillusione amorosa che diventa una vera e propria forma di propaganda dei «profeti di sventura», come li chiama sempre Bell Hooks: i dettami neoliberisti dell’autosufficienza, dell’autoregolazione del mercato, del perseguimento dell’interesse del singolo, e il mito americano del self made man, sono esattamente ciò che serve al sistema per tenere attivo il meccanismo di competizione.

Trionfa l’amore come pragma (secondo la distinzione del sociologo John Alan Lee, alla cui opera, Colours of Love: An Exploration of the Ways of Loving, Guerra ricorre intelligentemente come criterio di classificazione), cioè come convenienza della relazione. Quel tentativo di massimizzazione del profitto e ammortizzazione dei rischi che il filosofo Alain Badiou definisce «amore securitario».

Mentre invece l’amore che Guerra ci invita a prendere in considerazione come allenamento alla costruzione di un mondo migliore per tutti è un concetto che ha molto a che vedere con quello di cura, un valore universale e fondante, di cui tutti dovremmo ripartirci la fatica (storicamente addossata alle sole donne).

Un anelito condiviso con un altro interessante manifesto, scritto dal collettivo inglese Care Collective, recentemente tradotto da Marie Moïse e Gaia Benzi e pubblicato da Alegre con una postfazione della stessa Jennifer Guerra, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza: «Per risolvere il problema della crisi della cura, la soluzione è solo una: cambiare. Cambiare il sistema, cambiare i paradigmi del lavoro, del tempo, della condivisione dei ruoli e dei compiti. E possiamo partire proprio da ciò che suggerisce Martin Luther King: la libertà individuale porta a una liberazione collettiva, tenendo a mente che non c’è liberazione se il lavoro di cura – necessario agli esseri umani, non al sistema – non diventa carico della comunità».

Scegliere l’amore non è certo un pranzo di gala.

L’ultimo capitolo di Guerra è dedicato ad Aleksandra Kollontaj – figura chiave della Russia rivoluzionaria, poi marginalizzata per le critiche mosse alla mentalità ancora patriarcale della Russia bolscevica e oggi quasi dimenticata – e alla sua definizione di amore nell’accezione più alta del termine, a cui Guerra guarda come modello. Eros alato, qualcosa che «porta a riconoscere i diritti e l’integrità della persona altrui, a favorire un rapporto di sostegno reciproco, di simpatia, partecipazione e comprensione per i bisogni dell’altro».

Sebbene ogni tanto, durante la lettura, venga da pensare – sulla scorta dello psicologo russo Aron Zalkind, critico proprio delle teorie della Kollontaj – che con il culto dell’Eros alato «non si possano costruire aeroplani», il punto è che in questo Manifesto non si parla di meccanica dei velivoli, ma di prove di volo. Come si diceva? Siate realisti, chiedete l’impossibile.

 

(Jennifer Guerra, Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, Bompiani, 2021, pp. 120, euro 15. Articolo di Giulia Marziali)
Copertina di volti d'Italia di Gaia van der Esch

Il popolo dei luoghi comuni

Una vecchia 600 azzurra, un intero paese da esplorare per quattro mesi, decine di persone di ogni età, sesso, professione, estrazione sociale e 46 quesiti da sottoporre loro per rispondere a un tutt’altro che semplice interrogativo: «Che cos’è l’identità italiana?»

Sono questi i presupposti che hanno accompagnato, a partire dal maggio 2019, Gaia van der Esch in quel viaggio poi culminato in Volti d’Italia, saggio on the road pubblicato nel 2021 da il Saggiatore.

Alla base un’ammissione di appartenenza ed estraneità allo stesso tempo: van der Esch nasce da madre milanese e padre olandese-canadese, trascorre l’infanzia in un «paesino arroccato su un lago nella provincia romana», poi si trasferisce all’estero per studiare a Harvard.

Non si cade in errore quando si ritiene che la distanza da un luogo, da una persona o da una situazione sia quasi propedeutica a una più fedele osservazione dei fatti. Come ricorda la stessa autrice nell’introduzione al volume, «più sono all’estero, più vedo l’Italia con una prospettiva quasi esterna, i suoi pregi e difetti mi diventano subito evidenti, così come il suo mosaico di paure e speranze».

Per trasformare quel sentimento informe in riflessione cosciente e rivelatrice su un tema decisivo come quello dell’identità è però necessario un approccio che non può esaurirsi alla mera raccolta di testimonianze e di luoghi comuni. L’impresa è ancor più difficile se si considera l’estrema complessità della materia: Italia è sinonimo di esasperato soggettivismo e grandi contraddizioni, di arretratezza, di assenza di civiltà, di chiusura mentale, di mancanza di valori; ma è anche culla della cultura, della generosità dei suoi abitanti, della bellezza incondizionata dei paesaggi, delle tradizioni centenarie.

L’operazione di Volti d’Italia è senz’altro originale: il topos del viaggio, caro alla letteratura, qui si piega a una causa nobile, restituire agli italiani quel binomio di bellezza e complessità per fare chiarezza in un periodo storico di non facile interpretazione. Ne emerge una diapositiva del territorio e delle sue persone che, come una cartolina ricordo che si spedisce al compagno di classe da una località balneare in estate, rimane impressa in chi è rimasto in città, finché non ricomincia la scuola a settembre.

A tratti esilarante, a tratti commovente, ogni racconto riportato è lo specchio della persona che legge. Ma, al primo quasi spontaneo moto di immedesimazione da parte del lettore, subentra poi la sensazione di un generale rabbonimento dell’autrice attraverso considerazioni legittime ma già ascoltate tante e tante volte.

Se è vero che la mentalità italiana è spesso ancorata a determinati schemi che continuano a ripetersi, è altrettanto vero che in un viaggio tra i volti d’Italia si cerchino spunti di riflessione inediti o, perlomeno, analizzati da un’altra prospettiva. Nonostante le tematiche emerse in ogni intervista siano vere (l’Italia è un paese in cui chiusura mentale e mancanza di civiltà hanno spesso occasione di agire), l’impressione è che il problema sia banalizzato.

Le principali considerazioni dell’autrice non aggiungono valore alla questione. Ad esempio:

«Cambiare si può – per i più pessimisti, sì, questo vale anche per l’Italia – e cambiare si deve; per i nostri figli e nipoti, per chi non è ancora nato ma anche per chi ci ha già lasciati, con la responsabilità di portare avanti le loro storie, la loro eredità, a testa alta».

O, ancora:

«Il nostro è un orgoglio antico, legato agli antenati, alla storia, che rimane ancora oggi il motore del paese: ogni persona con cui ho parlato condivide questa consapevolezza di discendere da un passato glorioso e, ancor più, la speranza di ritrovare, un giorno, questa grandiosità. Insomma, il nostro passato ci rende fieri ed è la scintilla che fa muovere milioni di persone: ci dà la voglia di alzarci la mattina, di lavorare, di mettere al mondo figli e costruire un futuro che ci oltrepassi».

Ne emerge un ritratto sicuramente caratteristico e veritiero all’interno di una struttura letteraria interessante, un ritratto guidato da un’intuizione intelligente che, però, non si è tradotta in qualcosa di più e non spinge alla riflessione.

 

(Gaia van der Esch, Volti d’Italia. Viaggio nei nostri pensieri, desideri e paure, il Saggiatore, 2021, 214 pp., euro 19, articolo di Giovanna Nappi)
Acari di Giampaolo G. Rugo

Di fili, esistenze e inafferrabilità

Acari (Neo Edizioni, 2021), esordio di Giampaolo G. Rugo, è un romanzo di racconti connessi da una sottile trama nascosta. Tredici racconti come tredici stanze che si illuminano giusto il tempo di scorgere che cosa c’è all’interno, chi vi abita, quali sentimenti albergano tra quelle pareti. Il veloce assaporare una storia, il cercare con lo sguardo qualche dettaglio che possa raccontare qualcosa in più del protagonista che popola quelle pagine e si è già altrove, spaesati dal cambio repentino, con domande che restano appese a possibili mancate risposte.

Eppure, qualcosa del precedente racconto resta, quasi fosse l’immagine evanescente che si sovrappone al fotogramma successivo. E il lettore si chiede quanto questo gioco di intersezioni sarà in grado di raccontargli del filo sotterraneo che lega ogni cosa.

Con Acari, Giampaolo G. Rugo vuole mettere in scena – lui che per il teatro e il cinema scrive da anni – un gioco di specchi per parlare dell’inafferrabilità delle cose. Sembra quasi un contrappasso, quindi, che il titolo del libro ruoti intorno al personaggio di Claudia, ex reginetta di bellezza che si è ritrovata a vendere aspirapolveri porta a porta. Elettrodomestici in grado di afferrare l’invisibile, quella moltitudine silenziosa che si ciba delle nostre scorie epiteliali, gli acari che si annidando sotto di noi e inquinano i nostri letti, disturbando metaforicamente e non il nostro riposo.

La cosa che più di tutte, però, risulta inafferrabile per i protagonisti che si avvicendano nelle pagine di Acari è la capacità di venire a patti con i propri fallimenti, o meglio con i propri mancati successi, quelli che sono scivolati di mano. Un senso di perenne inadeguatezza si srotola lungo tutta la narrazione e assume le fattezze di una voragine. C’è la vecchia ultracentenaria incapace di morire, il disabile che deve affidare alla mano degli altri ogni suo pensiero, chi attende seduto in poltrona di rielaborare un’assenza. Le vite descritte da Rugo appaiono segnate e ogni tentativo di riscatto si coagula nel ragionamento di uno dei personaggi, Mario, che con un nodo che serra gola e mente si sente sopraffatto dalla sua stessa affermazione: «il libero arbitrio di cui tutti cianciano, è solo la possibilità di scelta tra le poche opzioni che la vita ci permette».

Le storie prendono a intersecarsi tra loro come la tangenziale di una Roma gigantesca, ipertrofica, sfondo narrativo sempre un po’ appannato, seppur presente. I racconti di Rugo sono svincoli, sopraelevate, strade che possono congiungere o allontanare. Ci sono tanti mancati incontri nelle pagine di Acari. I protagonisti di queste storie sembrano costretti da un destino malevolo a perdersi e a perdere continuamente: perdere un amore, perdere l’occasione per svoltare la propria vita, perdere se stessi. Tuttavia, sebbene un sottofondo malinconico accompagni tutto il libro, non mancano lampi di cinica ironia realista a mitigare il sapore amaro che resta in bocca.

Nel leggere il libro di Rugo si avverte come le storie si siano generate in tempi differenti, per poi disporsi pian piano una accanto all’altra, sostanziandosi vicendevolmente. Voci e lessici diversi trovano posto in una narrazione che spazia nel tempo, e così il presente asfittico di una mancata promessa del calcio è messo di fianco alla leggerezza abbagliante di giovani liceali degli anni Ottanta travolti dall’ebbrezza di sentirsi vivi davanti a un letto d’ospedale.

Ogni racconto non è altro che la possibilità di guardare da una diversa prospettiva, spaziale e temporale, ciò che le altre storie hanno già raccontato o stanno per raccontare. Forse un tale gioco narrativo non è subito comprensibile e per questo motivo le prime storie di Acari possono apparire sconnesse, claudicanti. Si tratta solo di pazientare e di familiarizzare con la struttura costruita da Rugo per apprezzarne poi i rimandi e ritrovarsi a seguire le vite dei protagonisti per scoprire dove e come i vari fili si sono annodati per poi proseguire il loro percorso.

In Acari Giampaolo G. Rugo racconta vite umane, umanissime, talvolta invisibili e meschine come quelle degli stessi acari, e questo narrare antieroi che scivolano apparentemente non visti lungo l’asse temporale delle esistenze proprie e altrui lo fa con una lingua schietta e ionizzata, in grado di catturare le cariche positive o negative degli universi che descrive per restituirli tutti insieme al lettore, purificati.

 

(Giampaolo G. Rugo, Acari, Neo edizioni, 2021, 192 pp., euro 15, articolo di Giulia Eusebi)

 

A Quiet Place 2 Poster

Il ritorno del silenzio

Nel 2018 A Quiet Place era arrivato come una sorpresa nel panorama del cinema horror a sfondo distopico. Teso e concentrato, il film di John Krasinski riusciva a incollare gli spettatori allo schermo con un controllo della tensione ormai raro. Un’opera quasi perfetta, che aveva infatti conosciuto un successo quasi inatteso grazie al convinto apprezzamento di critica e pubblico. Elogi più che meritati, ma che hanno portato a un’evitabile conseguenza: la preparazione di un seguito. O forse, addirittura, alla creazione di un nuovo universo cinematografico.

Arriviamo così a A Quiet Place II, sequel sempre diretto da Krasinski che riprende le vicende della famiglia Abbott dopo la morte del padre e guida Lee. Dopo un’introduzione dedicata all’origine della minaccia aliena che arriva a sconvolgere la vita tranquilla della provincia statunitense, torniamo esattamente a dove era finito il primo film: il giorno 474 dopo l’invasione. Mamma Abbott deve portare in salvo i suoi tre figli dopo che la fattoria di famiglia è stata quasi distrutta nello scontro che conclude il primo film. I quattro trovano riparo in un edificio poco lontano, dove vengono salvati da Emmett, un amico del mondo di prima che vive lì solo e sulla soglia della paranoia. Dopo aver chiesto agli Abbott di andarsene, l’uomo si lascia convincere dalla piccola Regan – che nel primo film aveva scoperto un’arma per disorientare i nemici – a partire in missione per sconfiggere gli alieni. Nel frattempo, il fratello di Regan, Marcus, si prende cura del fratellino neonato mentre la madre è alla ricerca di preziose bombole di ossigeno.

A Quiet Place II recupera gli elementi di successo del primo film e ne prova a introdurre di nuovi senza però trovare una formula per replicarne fino in fondo l’efficacia.

Con un andamento tipico di molti seguiti – o anche di serie tv che continuano a prolungare la propria durata con stagioni superflue –, il nuovo film di Krasinski espande l’orizzonte ristretto dell’originale introducendo nuovi personaggi e nuovi spazi. Se A Quiet Place funzionava come un film di sopravvivenza collegato a una casa da difendere, qui il luogo della battaglia con l’alieno diventa il viaggio.

Questo nuovo scenario allargato disperde parte dell’efficacia del primo film, che aveva proprio nella dimensione ridotta uno dei propri punti di forza. Lo scontro con i mostri, poi,  risulta molto meno angosciante visto che ne conosciamo le debolezze.

Se nel complesso A Quiet Place II risulta un film d’azione efficace, il confronto inevitabile con quanto già visto porta a individuarne alcune dolorose debolezze.

Il titolo del 2018 si preoccupava soprattutto di andare in profondità. Era possibile leggere nel sottotesto una serie di tematiche interessanti sviluppate a dovere, dagli handicap che diventano elementi di forza al significato dell’essere genitore in un mondo in rovina. Questo seguito, invece, si accontenta di rimanere molto più in superficie. Sembra che lo sforzo di Krasinski – che di nuovo ha anche scritto e prodotto il film – sia rivolto soprattutto a gettare basi per ulteriori espansioni della sua creatura cinematografica. Un terzo titolo, del resto, è già stato annunciato per il 2023.

La continua pulsione verso l’usato sicuro di Hollywood ha portato alla cannibalizzazione di uno dei pochi film originali interessanti degli ultimi anni. Il franchise A Quiet Place riuscirà senz’altro a proporre nuovi brividi al pubblico e guadagni importanti ai produttori, ma rimane il sospetto che se Krasinski e gli altri avessero deciso di fermarsi avrebbero potuto lasciare, per una volta,  un segno con un film unico.

(A Quiet Place II, di John Krasinski, 2021, azione, 97’)

Apeirogon di McCann

Le mille e una notte

Provare a raccontare e condensare Apeirogon di Colum McCann (Feltrinelli, 2021, traduzione di Marinella Magrì) è come tentare di riportare le Mille e una notte a una mezza mattinata, o se si preferisce è come definire un lato di quel poligono dai lati infiniti che è l’apeirogon stesso. Del resto, in arabo la parola milleuno indica in un certo senso l’infinito. E la connessione con i racconti di Mille e una notte non è casuale. Ma andiamo con ordine.

L’operazione che muove McCann in questo romanzo ibrido è quella di rappresentare le sfaccettature infinite del conflitto israelo-palestinese, una realtà in continuo divenire, come purtroppo sappiamo bene dalle cronache quotidiane. La trama di Apeirogon sarebbe piuttosto semplice: Rami Elhanan, pubblicitario israeliano, nel 1997 perde una figlia – Smadar tredicenne – per un attentato kamikaze palestinese; Bassam Aramin, ex terrorista palestinese pentito, dieci anni dopo nel 2007 perde una figlia – Abir decenne – per un proiettile di gomma sparato da un giovane militare israeliano.

I due si ritrovano insieme in Combattenti per la Pace, un’organizzazione che ha come scopo quello di risolvere pacificamente la questione israelo-palestinese. Girano il mondo per raccontare la tragedia che li ha uniti, per esprimere il dolore che non si è trasformato in vendetta, perché la vendetta è una spirale senza fine, che non restituisce i morti alla vita. Il loro dolore è speculare e, come diceva Borges, «bastano due specchi l’uno di fronte all’altro per formare un labirinto».

McCann fa proprio questo. Nella vicenda di Rami e Bassam si addentra come in un labirinto. Avanza per associazione di idee, torna indietro, ripercorre varie volte corridoi già battuti e cerca elementi nuovi. Il romanzo è frammentato, consiste in 1001 paragrafi che progrediscono all’inizio da 1 a 500 per poi regredire da 500 a 1. Alcuni sono brevi quanto una frase, altri comprendenti fotografie alla W.G. Sebald, altri ancora semplicemente spazi vuoti (un riflesso di uno dei teoremi matematici che stanno alla base del romanzo). Torna il numero milleuno, come le notti di Sharazad, «uno stratagemma per la vita di fronte alla morte». E in questi paragrafi, che ricordano le schegge di una granata, svettano muri, checkpoint, strade divise, perfino orari sfasati di un’ora a distanza di pochi metri e poi l’incomunicabilità, l’incomprensione, la propria verità sbraitata in faccia all’altro. Rami e Bassam invece indossano il loro dolore contro l’odio, e per assurdo troveranno nelle loro genti i più acerrimi nemici.

Per tutta la narrazione McCann squaderna ogni dettaglio, lo viviseziona, fino a cercarne l’atomo originale. Segue gli stormi di uccelli che proprio su Israele hanno le loro principali rotte di migrazione. Poi rivede le morti di Smadar e Abir da ogni prospettiva. Sembra un ricercatore che passa al microscopio più e più volte il vetrino, e tutte le volte ci fa scoprire un elemento nuovo. Lo stesso fa con Rami e Bassam, ricostruisce le loro biografie passo per passo in un puzzle che spetta al lettore ricomporre. Rami, un israeliano che è contro l’occupazione; Bassam, un palestinese che studia la Shoah. È negli incroci delle loro esistenze, negli incroci del caso, della Storia che si rompono i cliché, perché «niente è mai un cliché mentre lo stai vivendo».

E poi c’è quella terra martoriata. Già, perché «qui la geografia è tutto». Il romanzo si apre con le colline di Gerusalemme immerse nella nebbia e si chiude con quelle di Gerico avvolte nell’oscurità, in un cerchio che alla fine è la rappresentazione geometrica dell’apeirogon. Terra sacra per tutte le grandi religioni monoteiste figlie di Abramo che qui si combattono da millenni.

McCann riesce in un’impresa complessa, direi epica, cioè di riuscire a narrare i fatti, a tracciare dei personaggi, a avere la precisione del saggista, a sperimentare strutturalmente senza mai perdere l’intensità della tragedia.

Da un lato, la morte di Smadar mentre camminava col suo walkman e ascoltava Nothing compares 2U di Sinéad O’Connor, a tredici anni – e per uno scherzo del destino suo padre Rami, anni prima aveva lanciato una campagna pubblicitaria con la foto di sua figlia che campeggiava per tutto il Paese: «Come sarà la vita in Israele quando Smadar avrà quindici anni?», e a quei quindici anni non c’è mai arrivata. Dall’altro, la morte di Abir uscita un attimo da scuola per comprarsi le caramelle. Caramelle infilate in un bracciale che suo padre indosserà a lungo finché sarà fermato a un checkpoint israeliano proprio perché ha quel braccialetto: credono sia esplosivo mascherato in caramelle.

Al romanzo di McCann si potrebbe obiettare che il suo è un ambizioso progetto di proporre una «cura», di tentare una «guarigione» per mezzo della parola al conflitto israelo-palestinese. Gli si potrebbe sollevare che lui è uno straniero, che non sa niente se non quello che ha studiato per il libro e ciò che gli hanno raccontato Rami e Bassam. Si potrebbe dire che era desideroso di risolvere, civilizzare e rivendicare; con tutte le buone intenzioni, ma che in realtà potrebbe risultare profondamente dannoso. Sono obiezioni che gli sono state sollevate in alcune recensioni. Anch’io, da principio, mi chiedevo come potesse raccontare e riportare al lettore quelle ferite, quelle divisioni, quel vivere tra muri e checkpoint. Poi ho capito che da irlandese, invece, di muri e divisioni ne capisce eccome. I muri sono tutti uguali, da Berlino a Belfast, passando per il Messico fino a Gerusalemme. Non c’è un copy sui muri e sulle divisioni.

McCann fa una grande operazione, con grande onestà intellettuale, con certosina pazienza di deflagrazione e ricostruzione, di frammentazione e ricomposizione. In ogni universo assoluto ci sono i Rami e i Bassam che rendono relativi quegli universi, ché l’apeirogon con i suoi infiniti lati è diverso a seconda dell’inquadratura da cui lo osservi. Riesce così a rendere in parola e romanzo quel che l’occhio osserva nel caleidoscopio.

E alla fine, con tutto il dolore e la potenza di un’esplosione, quando chiudi il libro sull’oscurità delle colline di Gerico, ti ronza nelle orecchie la frase che Bassam dice al giovane soldato israeliano che ha sparato e ucciso sua figlia: «Sei tu qui la vittima. Non io».

 

(Colum McCann, Apeirogon, trad. di Marinella Magrì, Feltrinelli, 2021, 528 pp., euro 22, articolo di Fernando Coratelli)

 

La commedia umana del lavoro di Linhart

L’alienazione del lavoro dalla catena di montaggio alla precarietà

In La commedia umana del lavoro (Mimesis, 2021) la sociologa francese Danièle Linhart riflette sui rapporti tra il lavoratore e le trasformazioni nell’organizzazione del lavoro intercorse fra gli anni del taylor-fordismo (a cavallo del Novecento) e quelli del postfordismo (dagli anni Ottanta a oggi). Se il taylor-fordismo si basava su una frammentazione, razionalizzazione e ripetizione dei processi produttivi all’interno della fabbrica, culminando nella logica e nella pratica della catena di montaggio, il postfordismo adotta tecnologie e criteri manageriali tali da valorizzare la specializzazione, la qualificazione e la flessibilità dei lavoratori per una produzione meno massificata e indistinta, tagliata sulla diversificazione dei consumi e concentrata sui servizi. Così almeno nelle classiche categorie della sociologia del lavoro; ma Danièle Linhart va oltre questa distinzione da manuale.

L’opera è suddivisa in tre parti. La prima ci racconta delle esperienze dirette dell’autrice ai convegni di varie istituzioni economiche e sociali francesi, inette di fronte alle problematiche dell’integrazione dei lavoratori nell’impresa postfordista. La seconda espone le dinamiche fisiche e i meccanismi di pensiero della vecchia impresa fordista e le differenze rispetto a oggi. La terza parte, infine, rivela come, dietro le rivoluzioni produttive e organizzative, quella del lavoratore continui a essere una condizione di alienazione. Ed è questa la tesi di fondo del libro.

Linhart smaschera il senso comune che vuole l’epoca fordista caratterizzata dalla disumanizzazione del lavoro e al contrario vede nella successiva società dei servizi una valorizzazione dell’uomo, addirittura una “super-umanizzazione”. In questa visione il lavoratore non sarebbe più l’anello della catena di montaggio con bassi livelli di istruzione, ma opererebbe dietro una scrivania vantando discreti titoli di studio, e di conseguenza avrebbe un certo grado di autonomia, che il datore di lavoro gli concederebbe seppure in un rapporto di dipendenza. La realtà è ben diversa. Con la perdita del posto fisso e l’avvento della flessibilità, il lavoratore si trova implicato in situazioni lavorative sempre più mutevoli e complesse, come in un videogame in cui a ogni livello si affrontano “mostri” sempre più difficili da combattere.

In una situazione del genere, anche la tanto esaltata “conoscenza” che sta dietro un titolo di studio perde potere, e diviene al limite irrilevante, se è vero che “certe cose” non si possono imparare a scuola. Il mito della nuova epoca, portato avanti dalle classi dominanti e dalla retorica manageriale, è quello della vitalità giovanile, la più adatta ai cambiamenti martellanti del postfordismo. Ma sono proprio i giovani le prime vittime di tale sistema. Scaraventati in mansioni inadeguate alla propria esperienza, sono costretti a segnare il passo. La cosa peggiore della precarietà, per Linhart, non è tanto il rischio di perdere il lavoro in sé, quanto la necessità di sottoporsi continuamente al giudizio altrui. Nella società della valutazione, l’individuo, se non riesce a adattarsi di continuo, sarà sempre condannato a non sentirsi all’altezza, quindi degradato umanamente.

Il libro passa in rassegna diverse esperienze, che confermano tutte la tesi di Linhart: dai medici agli impiegati, ai dipendenti del commercio (su tutti McDonald’s). In realtà questa situazione non nasce dal nulla. La catena di montaggio di Henry Ford privava il lavoratore delle sue qualità e delle sue esperienze rendendolo un anonimo ingranaggio di un circuito più ampio, fatto di macchine. Già allora si parlava di “fordite”, oggi più comunemente stress. E non stress fisico, ma soprattutto psichico. E già allora tempo di vita e tempo di lavoro diventavano una cosa sola, anche per colpa dei “dipartimenti di sociologia” che l’industriale americano creava appositamente allo scopo ultimo di verificare che l’operaio rispettasse tutte le premesse fisiche e morali dell’efficientismo in fabbrica.

La commedia umana del lavoro, però, smaschera pure un’altra menzogna: non è l’individualismo il motore del capitalismo. Sarà un caso, ma Henry Ford era esplicitamente ammirato da Hitler. E le sue catene di montaggio ispirarono l’Unione Sovietica, dove furono applicate degenerando nello stachanovismo. Che si parli di Ford, Hitler, Stalin – o Bezos e Zuckerberg – l’organizzazione capitalistica del lavoro proietta sempre, in qualche misura, in un totalitarismo orwelliano. Certo, con diverse sfumature, ma è identico il principio di oppressione e alienazione. Anche per questo il libro di Danièle Linhart è una lettura consigliatissima.

 

(Danièle Linhart, La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management neoliberale, traduzione di Ginevra Scarcia, postfazione di Enrico Donaggio, Mimesis, 2021, 166 pp., euro 14,  articolo di Francesco Nesti)
Copertina di Sogno europeo

Ricordare o dimenticare? Storia e memoria d’Europa

Ogni storia ha bisogno di un buon finale: non si perdona mai un epilogo mediocre, frettoloso o deludente. Ma per ottenere una conclusione efficace occorre fare delle scelte: capire quali elementi della storia ricordare e quali dimenticare, decidere se affidare le ultime parole a un’incrollabile speranza o a una spietata amarezza e, infine, tentare l’impossibile, ossia dare senso all’immaginazione.

Fu il sociologo americano Benedict Anderson a mostrare, nel 1983, il potere delle storie e dell’immaginazione nelle nostre vite. La domanda che si poneva, osservando i conflitti che dilaniavano Vietnam e Cambogia sul finire degli anni Settanta, era tanto semplice quanto sfuggente: cosa lega i membri di una nazione? O meglio, cos’è una nazione? Indifferente alla natura e alle sue leggi, la nazione descritta da Anderson è un processo culturale basato proprio sull’immaginazione: i suoi abitanti, condannati a essere una comunità senza però mai potersi incontrare di persona, creano continuamente storie, miti, simboli, memorie condivise e confini. L’immaginazione, perciò, sarebbe capace di stabilire la nascita e la fine di una nazione.

Basterebbe iniziare da qui, da Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi (Ed. or. 1983, ora Laterza, 2018), il saggio di Anderson divenuto in breve un classico (amato, citato e anche contestato), per avvicinarsi a un libro in apparenza diverso, pubblicato nei primi mesi del 2021: Il sogno europeo. Quattro lezioni dalla Storia (Keller editore, traduzione di Enrico Arosio).

La sua autrice, Aleida Assmann (che proprio a Anderson dedica più di una riflessione), parte da un pensiero terribilmente ottimista, difeso fin dal primo capitolo in modo assoluto, proprio come fece qualche anno fa Timothy Snyder nell’incipit delle sue Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica: contrariamente a quanto sostenuto da molti la Storia insegna e gli uomini possono imparare.

L’analisi si sofferma sul vecchio continente, sul lungo e tortuoso percorso che ha portato alla nascita dell’Unione Europea, sui fallimenti e le lezioni che i cittadini hanno potuto trarre (quattro, secondo Assmann: pace, democrazia, memoria e diritti umani) e sull’importanza dell’immaginazione, del ricordo e del dolore.

Quella dell’Europa, infatti, è una storia di violenza e di sangue, di sofferenze rivendicate e taciute, di nascita e di morte: è un viaggio crudele, che inizia dal trauma della Seconda guerra mondiale e dal relativo bisogno di proteggersi. Ma anche dall’esigenza di contenere, ancora una volta, le ambizioni della Germania. L’Unione Europea, perciò, nasce dalla paura, e soprattutto dalla necessità di includere qualsiasi cosa ritenuta pericolosa, trasformando i nemici in amici e rinunciando agli ideali di vendetta. In un suggestivo saggio di qualche anno fa (Geopolitica delle emozioni, Garzanti, 2009, trad. Sara Caraffini) Dominique Moïsi, sottolineava quanto la paura fosse il sentimento dominante e fondativo dell’Europa. Ben diversa dalla paura che ha invaso gli Stati Uniti negli ultimi anni, l’insicurezza europea ha radici profonde, che risiedono in quello che Moïsi riconosce come un problema identitario: cos’è l’Europa? Quali sono i suoi confini? C’è una coincidenza tra istituzioni e luoghi? Esiste una cultura europea? L’incapacità di rispondere pienamente a queste domande e l’ossessione per il passato, hanno contribuito (insieme ad altri fattori, ampiamente spiegati da Moïsi) a nutrire la paura.

Fu Churchill, sottolinea Assmann nel suo libro, a sostenere «la volontà di dimenticare», facendo affidamento sul desiderio tutto umano di condannare all’oblio ciò che fa soffrire. Non era Il silenzio del mare ostinato e implacabile descritto da Vercors, né tantomeno un faticoso processo di rimozione: dimenticare era considerato, in questo caso, come un atto politico, lontano dalla colpa della damnatio memoriae, ma vicina a quella «prassi di pacificazione», descritta dallo storico Christian Meier, che coinvolse Atene dopo la guerra civile.

«È chiaro che uno Stato non può esercitare un’influenza diretta sui ricordi personali dei suoi cittadini; può però sanzionare chi nel discorso pubblico rimesti in vecchie ferite, riattivando dolori e lutti, forieri a loro volta di risentimenti e aggressività», precisa Assmann. «La terapia dell’oblio» non convinse, tra gli altri, Hannah Arendt che riteneva indispensabile cercare la verità storica per elaborare i traumi del passato.

Ricordare o dimenticare, allora? Riappropriarsi del passato è un passo decisivo per l’Europa che risolve il problema attraverso la cosiddetta «cultura della memoria», indicata da Assmann come terza lezione, forse la più importante. O almeno quella che sostiene tutte le altre.

Nel caso del vecchio continente ricordare significa mettere in atto un processo dialogico, che superi il «carattere monologico della memoria nazionale»: ogni Paese, infatti, costruisce la propria identità intorno ai ricordi dei successi raggiunti e delle sofferenze subite, e all’esclusione consapevole e condivisa di colpe e misfatti. Attuare una «cultura della memoria», allora, rivela l’intenzione di comprendere che la Storia di un singolo Stato europeo è contagiata da tutte le altre; ricordare non esprime solo la volontà di riconoscere il proprio dolore, ma anche di accettare e accogliere quello altrui.

Assmann non si limita alla teoria, ma riporta esperienze, esempi e storie, per restituire concretezza e forza a quel «sogno europeo» (mai realmente nato), costruito su dolori, violenze e divisioni, ma anche su un futuro comune.

Torna alla mente un altro libro, diverso, ma capace anch’esso di mostrare il vecchio continente malato e diviso, Europa 33 (Adelphi, 2020, trad.di Federica e Lorenza di Lella) di Georges Simenon: un viaggio lucido e talvolta privo di speranza, o meglio una fotografia in bianco e nero, scattata un attimo prima che la tragedia si compia. Esiste un’Europa pubblica, racconta lo scrittore belga, conosciuta e invidiata; e un’altra Europa, affamata e rassegnata. Anche da questa differenza scaturirà il finale amaro della guerra, che Simenon non ha potuto raccontare in questo reportage: è riuscito, però, a restituire la consapevolezza di trovarsi di fronte all’inizio dell’orrore.

E se è vero (come insegna Simenon) che bisogna sempre avere il coraggio di osservare i fantasmi del nostro passato, Aleida Assmann ci ricorda l’importanza di continuare a interrogare la Storia e noi stessi.

C’era una volta Crudelia De Mon

Crudelia De Mon è senza dubbio uno dei personaggi malvagi più riusciti nella storia dell’animazione e del cinema. In La carica dei 101 era crudeltà allo stato puro. Dispotica, folle, irrazionale, perfetta. Quando Glenn Close ha dovuto interpretarla nella versione live action del film (era il 1996, le facevano già, e forse anche meglio) era riuscita a renderne alla perfezione il caos mentale.

La notizia di un film pensato per indagare sulla storia di Crudelia prima dei noti fatti di sequestri di dalmata aveva incuriosito molte persone. L’annuncio, poi, che negli elaborati panni della malvagia ci sarebbe stata Emma Stone aveva aperto la strada a moderati entusiasmi preventivi. Purtroppo, però, il Crudelia di Craig Gillespie è un malriuscito tentativo di normalizzare il male in una ricostruzione psicanalitica piuttosto elementari delle origini della ferocia.

La piccola Estella – vero nome di Crudelia – cresce avvolta d’amore materno e afflitta da una certa pulsione al caos. Dopo essere stata espulsa dall’esclusiva scuola in cui era iscritta, si trasferisce con la madre a Londra. Durante una sosta del viaggio, però, quello che sembra un drammatico incidente la priva per sempre della madre. Arrivata a Londra da sola, la bambina tormentata dai sensi di colpa conosce due bambini vagabondi, Horace e Jasper, che la invitano a unirsi alla loro banda. Estella cresce come piccola criminale prima di avviare una carriera nella moda al servizio della dispotica Baronessa Von Hellman, un personaggio a cui è legata molto più di quanto creda.

Nel delineare la genealogia del male di Crudelia, il regista Gillespie e gli sceneggiatori Dana Fox e Tony McNamara compiono il peccato mortale di umanizzare una delle rappresentazioni per antonomasia della malvagità a misura di bambino. La piccola Estella è una vittima di ingiustizie di ogni tipo che la formano un po’ alla volta fino a inaridirla. Manca però completamente quell’elemento di follia che possa spiegare come arrivi in età adulta al desiderio di farsi una pelliccia di cuccioli di dalmata.

Costruendo la storia della futura Crudelia, il film si preoccupa soprattutto di fornire un contesto per giustificarla. In un modo simile a come Todd Phillips ha costruito un Joker con cui è possibile – a tratti – solidarizzare, Gillespie sembra più interessato a far avvicinare il pubblico emotivamente a Estella/Crudelia. In questo modo, però, si perde l’essenza stessa del personaggio.

La carica dei 101 – sia nella versione animata che nel film – era un ottimo prodotto per l’infanzia. Per questo l’archetipo del male incarnato da Crudelia funzionava alla perfezione. In questo prequel, invece, la Disney si preoccupa di spiegare agli adulti il retroterra del personaggio. Un’operazione decisamente superflua e poco riuscita.

Priva della sua anima originale, Crudelia è solo una ragazza che cerca in ogni modo di ottenere la giustizia che le viene negata. Il personaggio della Baronessa è in questo senso molto più vicino allo spirito del villain del cartone animato. È infatti a lei, soprattutto, che si guarda per trovare un qualche tipo di collegamento con La carica dei 101, per ritrovare quel senso radicale di malvagità fine a se stessa.

Emma Stone ce la mette tutta per delineare un personaggio sfaccettato e complesso, ma non può molto. Così, tra estetizzazioni punk rock e anarchismi imborghesiti, il tentativo di retcon targato Disney sterilizza Crudelia e si preoccupa soprattutto di non fornire modelli negativi per non scandalizzare nessuno.

Di questa Crudelia  in carne e ossa rimarranno solamente i costumi elaborati, alcuni momenti sfarzosi ben coordinati e la ricca colonna sonora. Oltre agli inevitabili seguiti già annunciati.

(Crudelia, di Craig Gillespie, 2021, commedia, 134’)

Psychodonna di Rachele Bastreghi

Non è il primo tentativo da solista per Rachele Bastreghi, Psychodonna. Sei anni fa usciva con un bel lavoro, Marie, ma era un Ep di sette tracce, di cui due erano cover. La gestazione era stata completamente diversa: tutto nasceva dopo la sua interpretazione di una cantautrice francese, appunto Marie, nella fiction Rai Questo nostro amore.

In questo 2021, invece, dopo L’amore e la violenza 1 e 2, un vero e proprio esordio con un album di nove tracce, presentato come Lp e non come Ep. Pochi mesi dopo quello del suo compagno di viaggio nei Baustelle, Francesco Bianconi, che ha scritto il suo primo album solista, Forever.

La quasi concomitanza di queste due uscite porta quasi in automatico a doverne parlare insieme. E questo porta a pensare, a ripensare, a immaginare e a reimmaginare come venga percepita la figura di Bastreghi all’interno dei Baustelle.  Non c’era bisogno di Psychodonna per capirne la reale importanza. Chi ha sempre pensato che  fosse una sorta di gregaria, che si limitasse a cantare o a interpretare la fastidiosa parte sensuale del gruppo (contrapposta a quella oramai quasi ascetica di Bianconi), o non conosce i Baustelle o è in malafede.

Facendo comunque un breve parallelismo tra i due album: mentre Bianconi si è distaccato di netto nei confronti dell’approccio alla Baustelle (escludendo Fantasma, a cui deve molto),  in Psychodonna ci  ritroviamo in un contesto più familiare, qualcosa con cui abbiamo abbiamo avuto a che fare lungo la carriera del gruppo toscano – “Come Harry Stanton”, “Poi mi tiro su”, “Lei”, sono imbevute di Baustelle, soprattutto degli ultimi due L’amore e la violenza.

Su un’architettura sonora già rodata (per esempio l’arpeggio di “Not for me” riporta direttamente ad “Andarsene così“, da Amen), con alcune deviazioni tipo la cover scritta da Ivano Fossati per Anna Oxa del periodo punk (Oxanna), “Fatelo con me“, o il tecnho pop di “Penelope“, Bastreghi ha tirato su un vero e proprio concept che ha come nucleo narrativo la spinta esistenziale verso il non-essere ciò che è ordinario, lo status quo, il binario.

Riconosciamo in Bastreghi una scrittura evoluta e precisa.  Capace di veicolare la diversità come spinta propulsiva in un mondo che tende all’autoconservazione ipocrita e di facciata; come necessità il fuggire da certe logiche consolidate nel tempo e rivendicarne il proprio distacco.

Psychodonna è un album importante che non deve essere lasciato andare via e messo da parte come progetto B. C’è una coscienza di fondo che è difficile da trovare in giro, e una  sensibilità importante nell’affrontare quella materia infinitamente eterogenea che sono le esistenze.

La voce di  Bastreghi è una voce, è un inno all’autodeterminazione. Un taglio sulla superficie di un mondo miope.

 

 

 

Copertina di Urla sempre, primavera di Vaccari

Declinazioni della ribellione

L’ultimo libro di Michele Vaccari, Urla sempre, primavera (NN Editore, 2021), ha tutto l’aspetto di una sfida, letteraria e non solo. Storie, fili narrativi diversi per punto di vista, luogo e tempo, sono raggruppati qui in un romanzo che è composto da molteplici romanzi e da una pluralità di personaggi e caratteri; l’autore affronta a viso aperto il presente, non limitandosi a interrogarlo ma provocandolo, intaccandolo; soprattutto, però, Vaccari ha l’obiettivo di aggiornare – e rivitalizzare – la letteratura italiana di oggi. Il testo affonda le sue radici nella fantascienza, nella distopia e nel new weird, ma al contempo riprende scenari e movenze tipici della storia italiana, distorcendoli e reinterpretandoli – e quello che ne viene fuori è una combinazione riuscita tra romanzo storico, ucronia e vicenda intima.

Vaccari dipinge in maniera spregiudicata l’Italia del Ventunesimo secolo (i suoi orrori ma anche gli accenni di speranza, e resistenza) immaginandone un futuro cupo e parallelamente riadattandone il passato. Urla sempre, primavera è pertanto un libro profondamente (e quasi spudoratamente) italiano, che però guarda sempre ad alcune sperimentazioni della letteratura anglosassone. Il risultato, a tratti, è destabilizzante. Anche l’aspetto grafico del testo (con pagine di diversi colori e mappe a introduzione dei capitoli) testimonia d’altronde il desiderio di dar vita a qualcosa di sovversivo, un romanzo mondo e anche un non romanzo, un’indagine cupa e onirica sul presente, un trattato sulla ribellione.

Il libro è diviso in cinque macro-capitoli che sono cinque romanzi brevi. Il primo, “Libro rosso”, è ambientato nel 2022: un’oligarchia-dittatura di anziani, la Venerata Gherusia, sta prendendo il controllo dell’Italia: per farlo, ha decretato che le donne non possono più diventare madri. Zelinda, una ragazza incinta, scappa col suo compagno per le strade di una Genova apocalittica, che rimanda esplicitamente a quella del 2001 (a quel G8 che è per Vaccari il punto di non ritorno della storia italiana). Già qui, la prima intuizione: quella di Genova come luogo distopico, infatti, è una scelta che sposta il baricentro immaginativo, che crea nuovi spazi letterari. Successivamente, nel 2043 del “Libro blu”, Giuliani è un commissario di polizia in un’Italia in cui un referendum vuole ufficialmente sancire l’estinzione dei cittadini. L’uomo, tormentato e indifeso di fronte alle proprie colpe di gioventù, deve indagare sulla morte di un ultracentenario: un’occasione, forse, per redimersi. Nella terza parte, “Libro nero”, si torna indietro nel tempo: Spartaco, il padre di Zelinda, racconta la sua storia che è anche la Storia dell’Italia del Novecento. L’uomo, che si definisce queer (e che parla di sé al femminile), è prima un partigiano e poi un attivista per i diritti degli omosessuali. Gli anni Settanta saranno però inaugurati da un evento alternativo – e sconcertante – che stravolgerà la vita del protagonista e il destino del Paese. Nelle due parti finali, “Libro verde” e “Libro bianco”, a prendere la scena sarà Egle, figlia di Zelinda e nipote di Spartaco, una bambina e poi una donna cresciuta in mezzo alla natura selvaggia che circonda Genova, tra gli animali e gli orfani del bosco – i bambini nati clandestinamente e poi scampati per miracolo alla cattura. Egle, come sua madre e suo nonno, ha il potere di entrare nei sogni; lei, però, in più riesce anche a farli avverare, a realizzarli concretamente: il suo obiettivo è quello di entrare nei sogni del capo della Gherusia, e di convincerlo che l’esito del referendum non deve assolutamente essere accettato. Che l’umanità deve continuare a esistere.

A sorprendere, in Urla sempre, primavera, è il coraggio con cui Vaccari si confronta con svariati e complessi temi del contemporaneo: le questioni di genere, il cambiamento climatico, l’animalismo, il futuro dei giovani; parlare di romanzo mondo non è insomma un’esagerazione. In questa sfida, l’autore evita però ogni retorica e si serve invece delle armi dell’immaginazione; d’altronde il messaggio del libro è chiaro: sono proprio i sogni (intesi sia in chiave onirica ma anche come ambizioni di trasformazione, di miglioramento, di rivoluzione) a poter cambiare le cose, l’unica forza in grado di modificare il presente. Quello di Vaccari è un romanzo che si colloca apertamente (nei contenuti ma anche nella lingua e nel tono) come libro ribelle. I suoi protagonisti rappresentano diverse declinazioni della ribellione, e come molti ribelli abitano un perenne contrasto tra due aspirazioni: la felicità privata e il bene collettivo. Urla sempre, primavera è in effetti, tra le cose, un racconto epico: di solito, nei romanzi storici, storie minime di personaggi minori diventano emblematiche di un certo periodo; qui invece i protagonisti sono degli autentici eroi (o antieroi), che la Storia la affrontano da protagonisti, la cambiano sul serio, in meglio o in peggio che sia.

Vaccari estende poi questo discorso a un’ulteriore domanda esistenziale, quella sulla necessità della violenza; in altre parole: cos’è una rivoluzione? come si fa? Esiste una rivoluzione non violenta? Ogni rivoluzione o ambizione di rivolta, dalla Resistenza alla lotta onirica contro la Venerata Gherusia, è per lo scrittore in bilico tra due parole, due opposti: violenza e sogno, realtà e ideale.

Il tema principale del romanzo, come in ogni buona narrazione distopica, è comunque quello del futuro. L’accusa di Vaccari è la stessa dell’ambientalismo, e non solo: col nostro comportamento ci stiamo dimenticando di chi verrà dopo di noi. L’immagine della dittatura degli anziani è in questo senso parecchio significativa, oltre che disturbante, e racconta anche di un presente in cui i giovani sono spesso lasciati ai margini – in un’ottica lavorativa quanto politica ed esistenziale. Se spesso si critica alla letteratura la sua incapacità nell’affrontare concretamente il tema del futuro – colpa forse di un approccio retorico e colpevolizzante –, lo spunto di Vaccari è invece quello di costruire un’epica (fatta quindi di eroi e nemici, di tragedia, di lotta, di amore) intorno all’assunto che le nuove generazioni hanno diritto a costruirsi il proprio destino. La copertina stessa si inscrive nel medesimo discorso, con l’immagine (molto new weird) della ragazza-ambiente, Egle, simbolo di contrasto e di unione, dell’uomo – o meglio, del giovane – congiunto indissolubilmente alla natura. Vaccari poi inserisce la sua epica in una vicenda più grande, più antica; collega le cose, ritrova nel Novecento le radici del tracollo. Il romanzo distopico è così anche ucronico, e l’epica ha i suoi mitici poli opposti – uno positivo, l’altro negativo – nella Resistenza e nel G8 del 2001.

A parte la sua valenza politica, Urla sempre, primavera è soprattutto un libro visionario, un caleidoscopio di invenzioni e suggestioni letterarie: si passa da un immaginario da Signore delle mosche, però al contrario (con i bambini che sono gli unici incorrotti in una società corrotta), a uno alla Inception e poi alla Black mirror. A colpire sono soprattutto le storture, le immagini orrende e a tratti grandiose nella tragedia (come le donne incinte massacrate i cui cadaveri sono stati accatastati dentro lo stadio Ferraris). C’è anche l’idea di una neolingua incomprensibile che si diffonde in questa Italia devastata: si tratta di un parlare bruto, a metà tra il ghigno animale e il linguaggio vuoto dei social e del capitalismo. Tutto il futuro immaginato dallo scrittore è d’altronde caratterizzato da immagini depressive: quella di Vaccari è una distopia triste; il futuro non solo è invivibile e moralmente distorto, ma è anche privo di entusiasmo e di qualunque forma di bellezza. La luminosità di facciata di alcune distopie classiche è del tutto elusa, se non, ovviamente, nel suo opposto, nella ribellione. Si tratta d’altronde di un mondo che decide autonomamente di estinguersi, che ha cancellato il concetto stesso di gioventù. Per questo alla speranza (la primavera del titolo) non possono che associarsi topos epici come la lotta e il destino: alla grandiosità del dolore si oppone la grandiosità della rivolta.

 

(Michele Vaccari, Urla sempre, primavera, NN Editore, 2021, 448 pp., euro 19, articolo di Claudio Bello)