Vite rubate di Neil Vallelly

L’età del futilitarismo

«Le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda», osservava John Maynard Keynes. «Gli uomini pratici, che si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto». È vero: spesso si scambiano per verità assolute visioni politiche del tutto opinabili, tanto più di parte quanto più si presentano come necessarie, naturali, incontrovertibili. È quel che accade oggi con l’ideologia dell’utile, della quale siamo tutti schiavi. Un giovane economista neozelandese, Neil Vallelly, ha dedicato all’argomento un saggio illuminante.

Il suo libro nasce per far discutere: un feroce attacco all’egemonia neoliberale, accusata di devastare l’esistenza delle persone in nome del nulla. Un volume agile, dato alle stampe in Italia da Atlantide con il titolo di Vite rubate, che ricostruisce la lunga deriva del pensiero occidentale, così ossessionato dall’inseguire ciò che è utile da perdere la cognizione di cosa lo è davvero.

Dopotutto, argomenta l’autore, «l’utilità non è qualcosa che esiste in natura; non c’è un concetto neutro e oggettivo. L’utilità è sempre un prodotto delle relazioni umane e delle strutture di potere all’interno di una società». È un concetto, quindi, in cui si confondono i confini tra politico, economico, sociale e filosofico. Per questo occorre sfidare il culto di questa parola-chiave, architrave di una filosofia illusoria. In tutto il saggio – che lo stesso Vallelly definisce «una critica alla vita quotidiana nel neoliberalismo» – ritorna con insistenza l’idea che la nostra società non insegua l’utile, bensì il futile: di qui il titolo originale Futilitarism.

La critica del presente, portata avanti con una prosa limpida e appassionata, non si arresta al sistema economico, ma investe i limiti stessi del pensiero contemporaneo. Vallelly se la prende direttamente con Jeremy Bentham, filosofo inglese unanimemente considerato il precursore dell’utilitarismo, accusandolo di essere «responsabile per aver spianato la strada alla prioritizzazione delle esperienze individuali di utilità rispetto a quelle collettive o sociali». Insomma: prima l’individuo, poi la società. Ammesso che vi sia una società, visto che due secoli dopo Margaret Thatcher coniò per la nuova ideologia neoliberale il suo slogan più agghiacciante: «La società non esiste».

In poche parole, Vallelly mette in questione nientemeno che l’attuale sistema di valori della politica, cultura e società mondiale. Il criterio economico, la necessità di fare soldi, di misurare il successo e la felicità: paccottiglia che già Keynes in persona aveva contestato, e che anziché liberare l’individuo lo rende schiavo, bloccato in comunità tossiche e sull’orlo del baratro. Un sistema perverso, che l’autore denuncia nelle sue terribili ricadute antropologiche, per la sua tendenza ad avvelenare tutte le sfere della vita quotidiana e di comunità.

Corredato da un ricco apparato bibliografico, Vite rubate è anche un affresco particolareggiato dell’ipersfruttamento del lavoratore in un nuovo millennio nel quale ormai trionfa l’homo futilitus, più che l’homo oeconomicus. Non più soggetto – la persona cara anche al cristianesimo sociale di un padre costituente come Dossetti – ma progetto, la “Io S.p.A.” (un concetto inventato da Tom Peters), da promuovere sul mercato come un prodotto qualsiasi. Un declino della società e dell’uomo dal chiaro significato politico: «Il vero scopo del brand chiamato Tu non è quello di consentire l’emancipazione personale di massa» come suggerisce Peters, «ma di oscurare il ripristino del potere di classe che sta al cuore del neoliberalismo».

Ecco perché Vite rubate. Il capitalismo rapina le persone della propria esistenza: costruisce una «comunità paranoica», nella quale ognuno è ossessionato dall’autopromozione anche nei rapporti personali, e in cui lo sfruttamento, l’ingiustizia sociale e gli altri danni del sistema vengono mascherati da fallimenti personali, la cui responsabilità è attribuita all’individuo che, per definizione, non si è impegnato abbastanza.

Per Vallelly il passaggio all’inciviltà è connaturato al capitalismo. Quando l’uomo diventa homo oeconomicus lascia dietro di sé la figura dell’homo politicus, di persona che esiste e vive in società. A essere archiviato è «l’umanesimo stesso». Non a caso la società evolve verso la moltiplicazione dei «lavori di merda» (i «bullshit jobs» di cui parlava il grande antropologo radicale David Graeber), che non sono davvero funzionali a qualcosa, ma servono soltanto a «giustificare le carriere di chi lo svolge»: un inno alla «fusione di inutilità economica e sacrificio esistenziale», una bancarotta emotiva eletta a sistema, che disinnesca il conflitto distributivo e spezza il desiderio di riscatto degli sfruttati.

Sono «lavori di merda» tutti quelli dei quali si può fare a meno: posti amministrativi in settori come il telemarketing, i servizi finanziari, le relazioni pubbliche. E non a caso la pandemia di Covid, aprendo ampi spazi di riflessione nella vita di ognuno di noi, ha innescato prima il fenomeno delle Grandi dimissioni (migliaia di persone disposte a licenziarsi pur di non tornare a un lavoro avvilente e sfibrante) e poi, oggi, al quiet quitting (cioè lavorare, sì, ma il meno possibile).

Come sempre accade in queste ricostruzioni, non manca la critica a chi doveva teoricamente contrastare i fenomeni neoliberali e invece si è abbandonato alla corrente. Ampia e approfondita la critica alle amministrazioni Clinton e Obama (ma anche ai Governi Blair), colpevoli di aver abdicato al futilitarismo imperante, segnalandosi per un mix di classismo e razzismo a prima vista invisibili, ma concreti nel ridurre diritti e prospettive di vita per milioni di persone. Era l’epoca in cui si voleva «porre fine al welfare per come lo conosciamo», transitare dalle politiche di solidarietà pubblica all’assunzione personale di responsabilità (che nei fatti significa scarica sui più deboli tutti i costi e le conseguenze delle fragilità sociali, economiche e psicologiche).

Il culto dell’opportunità, lo svuotamento di senso del linguaggio (un fenomeno che Vallely chiama «semiocapitalismo»), l’abitudine a percepire la drammaticità delle crisi come una normalità, l’apatia che investe gli elettorati delusi dai leader che eleggono: tutto cospira verso una polarizzazione infantilizzante del dibattito pubblico in cui ci si urla addosso. La nuova lotta delle idee a colpi di tweet velenosi si svolge sull’asse tra l’establishment, che difende un sistema alienante, e i nuovi partiti populisti che promettono false vie di fuga. Siamo allo smantellamento della dinamica democratica, che invece si basa sul pensiero, sul dialogo e sul negoziato.

Chi vuole reagire cade spesso nella trappola della finzione politica: «attività di piccola scala che [gli elettori-cittadini] percepiscono come politiche, ma che invece rafforzano lo status quo». È la militanza del consumatore-attivista dedito al buy-cottaggio, in ossequio al facile slogan del «Vota col portafogli!» col quale ci si risparmia l’organizzazione o partecipazione a movimenti di massa: in definitiva, il nostro è un mondo in cui ogni diritto umano finisce per ridursi al «diritto di cavarsela da soli in un ordine mondiale ultracompetitivo». Una sorta di nuovo homo homini lupus onnipervasivo: al lavoro, a casa, a scuola, tutti a caccia di nuove opportunità, nuovi titoli, nuovi investimenti su sé stessi, e quindi tutti più soli, più insicuri, più disperati.

Lo stesso discorso può essere applicato anche al clima, forse la più fondamentale lotta politica del tempo presente: è chiaro a tutti che la raccolta differenziata non basta, che servono azioni collettive per intervenire sui grandi players dell’energia e dell’industria. Ma il tipico intellettuale contemporaneo respinge di fatto lo slogan “Socialismo o estinzione” e insiste su irrilevanti comportamenti individuali. E «se la scelta è tra salvare il soggetto individuale o il clima, la razionalità neoliberale fa sì che il primo avrà sempre la meglio». Piuttosto che salvarci tutti, meglio estinguerci uno alla volta.

Il libro di Vallelly è un quadro a tinte fosche, che descrive la nostra società futilitarista e la sua folle corsa verso la produzione di beni e di esistenze inutili. Un veemente j’accuse contro un modello sociale imperniato sull’«individualismo esasperato» e la sua tendenza ad annullare le esistenze delle persone bruciandone le reali possibilità di vita. Una prospettiva nuova sulla miseria della società neoliberale tanto ben riuscita quanto poco convincente è invece la pur suggestiva promessa di riscatto e di emancipazione del «futilitariato». E non perché questa promessa venga esposta in modo frettoloso nelle conclusioni del libro – quasi un coup de théatre per non scoraggiare il lettore-attivista. Quanto per la pervasività del neoliberalismo che Vallelly mostra nelle pagine precedenti in tutta la sua forza: una presenza inquietante, di cui l’autore ha il merito di svelare le ombre e le trappole che finora il lettore aveva soltanto intuito.

 

(Neil Vallelly, Vite Rubate. Dal sogno capitalista al futilitarismo, trad. di Thomas Fazi, Atlantide, 2022, 240 pp., 18,50 euro. Articolo di Marco Di Geronimo)

 

Copertina Stalingrado di Grossman

Un’opera mondo sulla natura umana

Pubblicato durante la campagna antisemita del regime staliniano sulla rivista sovietica «Novyj mir», nel 1952 vede la luce Za pravoe delo (Per una giusta causa), il romanzo che negli originari intenti dell’autore (di famiglia ebraica) avrebbe dovuto precedere – nella sua diffusione occidentale – il ben più conosciuto Vita e destino e chiamarsi Stalingrado. Un manoscritto dalla storia editoriale assai travagliata e lunga, scritto e revisionato da Grossman almeno quattro volte, al fine di assecondare il demone più temuto da ogni artista, la censura. E tuttavia, dopo un’accoglienza entusiastica da parte della critica e la candidatura al premio Stalin, il clima di tensione politica scatenatosi all’indomani di un presunto complotto ai danni del dittatore, ordito da medici ebrei, alimentò ed estese l’odio in maniera generale e tramutò l’opinione dei giornali nazionali in «un romanzo che distorce l’immagine del popolo sovietico». Molto peggio capitò al seguito della dilogia, terminato nel 1960 e sequestrato dal KGB per le sue tematiche del tutto più esplicite; se il Guerra e Pace del Novecento ha infatti potuto essere tradotto in quasi tutte le lingue europee, in cinese e perfino in vietnamita, lo si deve allo scrittore Vladimir Vojnovič che di nascosto ne portò in Svizzera una copia in microfilm. Poi, L’Âge d’Homme di Losanna, editore specializzato in pubblicazioni di dissidenti sovietici e slavi, lo diede alle stampe nel 1980. Come ritiene Robert Chandler in chiusura alla recente edizione Adelphi di Stalingrado, mentre quest’ultimo «è meno filosofico, più immediato, contiene una storia umana più ricca e variegata», il capolavoro Vita e destino è considerato il manifesto della filosofia morale e politica di Grossman, «una meditazione sulla natura del totalitarismo, sul pericolo di ogni ideologia, sulla responsabilità morale che un individuo ha delle proprie azioni».

E in effetti, Vita e destino diventa una lettura irrinunciabile laddove si volesse comprendere appieno il pensiero del comunemente definito Tolstoj dell’URSS. L’epopea di Stalingrado non è soltanto uno straordinario racconto della gesta eroiche di un popolo che si difende dall’invasore nazista nel corso della battaglia omonima, ma una vera e propria opera mondo che mette a nudo la natura umana. Non vi è alcuna celebrazione dei vincitori, nessun senso di rivalsa, bensì un’analisi approfondita degli innumerevoli personaggi, della loro sofferenza, del senso d’abbandono, un’esemplare indagine sui tormenti di tante anime corrotte o lacerate per sempre dallo stalinismo e dal nazismo. Il ritratto degli attori principali e dei comprimari, le reazioni e la descrizione dei sentimenti rispetto agli eventi che accadono sono il frutto di un’incommensurabile maestria. Il realismo di Grossman trova il suo apice nella rappresentazione degli stati d’animo dei soldati che partono per il fronte, che si ritirano in seguito alla straripante avanzata tedesca, che combattono nella città assediata fino all’estremo sacrificio – gli uomini del civico 6/1, per esempio, che patiscono la fame e il freddo nei rifugi sotterranei, che attaccano il nemico sulla riva destra del Volga e lo costringono al ripiegamento.

Minuscoli dettagli sono funzionali allo scrittore ebreo-sovietico per raccontarci uno spaccato di vita di taluno o talaltro personaggio e spiegarci quanto la guerra sia totalizzante. Il contadino Pёtr Semёnovič Vavilov, chiamato alle armi, dopo aver lasciato il kolchoz, una moglie, una figlia e il calore della sua isba, si ritrova a dover sistemare la porta di un’abitazione dispersa nella steppa, per aiutare la vecchia proprietaria che ha sfamato lui e i compagni: «Il suo occhio di falco aveva adocchiato una tavola appoggiata alla parete. Prese la scure, e le somiglianze con la sua gli misero tristezza. Gli misero tristezza anche le differenze con la sua – era più leggera, e anche il manico era più lungo e sottile: gli ricordarono quanto fosse distante da casa. La donna capì cosa stava pensando, e disse: “Sta’ tranquillo che ci torni, a casa”. “Eh” rispose lui. “La strada da casa al fronte è breve, ma quella dal fronte a casa è bella lunga”».

Più avanti, sempre i soldati di cui fa parte Vavilov, asserragliati nella stazione di Stalingrado, la notte prima di essere annientati dai tedeschi si intrattengono in una conversazione. A un certo punto, Muljarčuk discorre del suo passato e scandisce il nome della propria madre: «Aveva pensato che, se non gliel’avesse raccontato lui, i suoi compagni non avrebbero mai saputo quanto si stava bene d’estate a Polonnoe, con gli zuccherifici intorno, o quant’era bella sua madre e che brava sarta era stata».

Un ulteriore esempio, riportato anche da Chandler nella postfazione, riguarda il maggiore Berёzkin, ignaro del destino della propria consorte, che durante una cena in una casa semibuia nei pressi del Volga si imbatte in dei pomodori: «Cominciò a tastare i pomodori per trovarne uno maturo ma sodo, e per un attimo si commosse ricordando che la moglie lo rimproverava sempre, quando lo faceva a casa con i pomodori e i cetrioli nel piatto di portata».

E a riprova degli impatti globali della guerra, Grossman non trascura neppure la fauna della steppa, dove gli uccelli selvatici devono volare in un’aria pregna di fumo, i pesci sono obbligati a inabissarsi sul fondo del fiume per evitare il rumore assordante delle granate, le lepri e i topi si abituano con fatica all’odore di bruciato e ai tremori della terra, le vacche perdono latte per il nervosismo e i cani latrano di notte.

 

La lettera di Anna

 

Sebbene l’accostamento tra Grossman e Tolstoj compaia in svariati articoli di critica letteraria per una plateale somiglianza delle vicende narrate nei rispettivi capolavori, nonché per il contributo morale e filosofico che entrambi hanno consegnato ai posteri, il primo ha vissuto la guerra per davvero, trascorrendo oltre mille giorni al fronte quale corrispondente del quotidiano «Krasnaja Zvezda». E in effetti, non si può prescindere da un approfondimento della biografia dell’autore, per constatare come gli avvenimenti drammatici abbiano letteralmente fondato i temi di quest’opera.

Nato e cresciuto a Berdičev (Ucraina) in una famiglia ebraica, ingegnere chimico, nel 1930 Grossman lasciò la professione per dedicarsi alla scrittura e al giornalismo. Quando la città natale, all’epoca considerata tra i più importanti centri dell’ebraismo dell’Est Europa, venne invasa dall’esercito tedesco, la madre di Grossman, Ekaterina Savel’evna, fu confinata in un ghetto e successivamente fucilata. Nella ricostruzione di Chandler, leggiamo che Vasilij «provava un senso di colpa profondo, per aver permesso che […] restasse a Berdičev anziché insistere perché andasse a stare con lui e la moglie a Mosca». A tal riguardo, il personaggio che nel romanzo emerge su tutti per la complessità e per il preponderante numero di pagine a lui dedicate è il fisico nucleare Viktor Pavlovič Štrum, il quale pur essendo ispirato con ogni probabilità alla figura di Lev Jakovlevič Štrum – tra i fondatori della fisica nucleare sovietica, giustiziato per «trockismo» nel ’36 – deve considerarsi come l’alter ego dell’autore. Anche Štrum-personaggio ha una madre rimasta a Berdičev, Anna Semёnovna, che vive gli orrori dell’occupazione e invia al figlio lontano una lettera d’addio di una gravità sconvolgente. Ritenuta il pezzo artistico più brillante di Grossman, seppur citata in varie circostanze di Stalingrado, se ne scopre il contenuto – lungo un intero capitolo – in Vita e destino. Oltre a circostanziare i terribili fatti del trasferimento forzato nel ghetto, ciò che colpisce è la descrizione dello stato d’animo di Anna, al momento dell’ingresso: «Sai cosa ho provato una volta dietro il filo, Viktor caro? Pensavo che avrei avuto paura. Invece, figurati, in quel recinto per le bestie mi sono sentita sollevata. E non perché io sia succube, no. No. Ero attorniata da gente con il mio stesso destino, lì dentro, non avrei dovuto camminare sul selciato come un cavallo, né mi avrebbero fissato con cattiveria; i conoscenti mi avrebbero guardato negli occhi e non mi avrebbero evitato. Tutti avevamo il marchio imposto dai nazisti, dunque dentro il recinto quel marchio non mi avrebbe bruciato troppo il cuore. Non mi sarei sentita un animale senza diritti, ma una persona sfortunata. Per questo ho provato sollievo».

Le quattordici pagine del racconto di Anna Semёnovna, unitamente a quelle dedicate alle gasazioni, rappresentano la testimonianza di un’immane crudeltà che rimane impressa più di tutto nella mente del lettore, e costituiscono anche, a conferma della puntigliosa analisi di Grossman sui comportamenti umani, una denuncia per i russi che rimasero indifferenti o aiutarono il nemico nel folle progetto di epurazione. Dice Anna: «Sotto la mia finestra la moglie del portinaio commentava: “Grazie a Dio gli ebrei hanno i giorni contati”. […] Ho chiesto che mi pagassero l’ultimo mese di lavoro, ma il nuovo dirigente mi ha risposto di domandarli a Stalin, i soldi che avevo guadagnato con i sovietici, di scrivergli a Mosca. […] E il dottor Tkačev mi ha stretto la mano. Non so cosa sia peggio: la cattiveria o la compassione con la quale di solito si guarda un gatto rognoso a cui resta poco da vivere. […] quelli che chiedono di liberare la Russia dagli ebrei si umiliano di fronte ai tedeschi e sono pronti a vendere la Russia per trenta denari nazisti».

E verso le battute finali della missiva, come a esacerbare involontariamente il senso di colpa del figlio personaggio-autore, la donna esplicita la paura e la rassegnazione per una situazione che non si sarebbe risolta in alcun modo: «Da bambino correvi da me perché ti difendessi. In questi momenti di debolezza vorrei essere io a nascondere la testa tra le tua ginocchia così che tu, forte e intelligente come sei, potessi proteggermi, difendermi. […] Penso al suicidio, e non so cosa sia a trattenermi, se la debolezza, la forza o una speranza priva di senso».

La lettera di Anna Semёnovna include il leitmotiv di molti filoni narrativi in cui vengono coinvolti altri comprimari: il dualistico rapporto madre-figlio. Tenuti distanti dagli eventi bellici, le loro storie viaggiano su binari paralleli; ogni possibilità di rincontrarsi è vana, ma il dolore dell’assenza trasmuta nell’illusione che induce ad agire e che dona tensione e potenza a ogni riga che compone la pagina. E così, Ljudmila Nikolaevna Šapošnikova, moglie di Štrum, affronta una lunga e pericolosa traversata del Volga per raggiungere l’ospedale militare in cui è ricoverato Tolja, figlio avuto dal primo marito, ferito gravemente in combattimento. Non arriverà in tempo.

Il diciassettenne Sergej (Serёža) Šapošnikov (tra gli eroi del civico 6/1), nipote di Ljudmila, partito volontario, apprende da una lettera che la madre, Ida Semёnovna, è morta. Ida non era mai stata una donna così amorevole nei riguardi del figlio. Soleva lasciarlo per molti mesi a Stalingrado, a casa della nonna paterna affinché se ne occupasse, e quando Serёža vi si trasferì per sempre, lei gli scriveva di rado. Eppure, il giovane, preso atto della sua scomparsa, diventa taciturno ed elude le domande dei compagni:
«”Cosa c’era scritto nella lettera?” gli domandò [Čencov]. “Sei il primo che ne riceve una”.
Serёža lo guardò di nuovo e disse:
“Sì, è vero. Sono il primo”.
“Cos’hai agli occhi?”.
“Mi fanno male. Sarà la polvere” rispose Serёža».

Il tema madre-figlio è centrale per Grossman anche nell’agghiacciante resoconto di un massacro. È il caso del piccolo David – nome non casuale –, e di Sof’ja Osipovna Levinton, medico chirurgo amica degli Šapošnikov. I due si conoscono su un vagone diretto a un campo di sterminio. David è solo: la mamma si trova a Mosca e per motivi economici lo aveva affidato provvisoriamente alla nonna, nell’Ucraina occupata. Durante il viaggio, Sof’ja, che non ha mai avuto bambini, s’intenerisce davanti al terrore muto del ragazzino, gli sussurra parole dolci, lo accompagna tenendolo per mano fin dentro al lager, e quell’inspiegabile protezione materna la induce a rinunciare alla salvezza (forse momentanea) che la sua professione le avrebbe dato.

All’ennesimo addio tra una madre e un figlio – l’unico che avviene senza distacco fisico – assiste la bella Evgenija (Ženja) Nikolaevna Šapošnikova, mentre sta fuggendo per le strade bombardate di Stalingrado. Si tratta di due sconosciuti, un’anziana donna che si accascia a terra e un uomo dal viso tondo e dall’impermeabile grigio che cerca di sollevarla: «La vecchia accarezzava le guance dell’uomo inginocchiato, e fu allora che Ženja capì cosa c’era in quel palmo rugoso, che poi era l’unica cosa degna che ci fosse al mondo, per lei. C’era la tenerezza di una madre, c’era la supplica di una creatura inerme come un bambino, c’era la gratitudine per quel figlio che l’amava, c’erano le lacrime e la voglia di consolarlo, lui ormai grande e forte, ma che nulla poteva in quel momento; c’era il perdono delle colpe di lui, c’era l’addio alla vita, c’era la voglia di respirare e di vedere la luce del giorno».

Copertina di Vita e destino di Grossman

 

La bontà illogica

 

Se l’effetto più catastrofico della guerra è la perdita della “madre” – intesa, in senso lato, come patria, casa, origini, cultura, normalità e l’insieme dei valori che ci rendono degni di vivere –, viene da chiedersi come si sia arrivati a questo, come le ideologie nazionaliste abbiano potuto attecchire sui popoli. Al riguardo, le riflessioni filosofiche di Grossman si pongono lo scopo di liberare la realtà dalle sovrastrutture mitiche e di sgombrare le menti da tutte le deformazioni della propaganda. L’analisi è profondamente legata all’essere umano, ai suoi comportamenti e alla sua natura, ma per poterla comprendere bisogna tener conto fin dall’inizio di un principio dal quale non si può prescindere: esiste una sola e unica verità. Rifiutando e disprezzando le illazioni imposte dal nazionalsocialismo e dal bolscevismo, non rimane che l’uomo libero, razionale e buono.

Grossman tenta di esaminare la radice dell’antisemitismo e arriva alla conclusione che esso «è l’espressione della mediocrità, dell’incapacità di vincere in uno scontro ad armi pari: nelle scienze, nel commercio, nell’artigianato e nella pittura. L’antisemitismo è la misura della mediocrità umana. […] L’antisemitismo è l’espressione dell’ignoranza delle masse che non sanno trovare una ragione a disgrazie e patimenti». L’autore attribuisce alla minoranza ebraica alcuni tratti specifici che nel corso della storia l’hanno sempre distinta rispetto agli altri gruppi etnici. Innanzitutto, l’ebraismo si intreccia e si confonde con molte questioni politiche e religiose universali; la diffusione degli ebrei nel mondo è capillare e l’industrializzazione ha loro permesso di specializzarsi in ambito tecnologico e di accumulare capitali commerciali; per indole, gli ebrei non rimangono confinati in periferia, ma cercano di distinguersi «là dove prosperano il pensiero e l’azione», integrandosi con gli autoctoni, ma allo stesso tempo mantenendo la cultura e le tradizioni proprie. Si annoverano tra gli ebrei i migliori fisici nucleari, direttori di banche, inventori di reattori atomici e medici. Questi successi hanno generato tra le folle un odio e una frustrazione sfociate in un antisemitismo dalle molteplici forme, latenti o esplicite. Esso può riguardare il singolo, una società, uno Stato: «Nei paesi democratici può insorgere un antisemitismo di natura sociale, che si manifesta negli organi di stampa appartenenti a gruppi reazionari […] e in un sistema religioso o ideologico reazionario. Nei paesi totalitari, dove la società civile non esiste, può svilupparsi solo un antisemitismo di Stato». Negli Stati totalitari, aggiunge Grossman, in un primo momento l’antisemitismo è discriminatorio, e pertanto agli ebrei viene impedito l’esercizio di alcuni diritti (la frequenza delle università, l’occupazione di posizioni di prestigio, ecc…), poi avviene lo sterminio.

In Vita e destino, più che in Stalingrado, l’autore ci fornisce un quadro allarmante degli orrori dello stalinismo ricordando le purghe del 1937, mostrandoci spaccati di vita dei deportati nei campi di lavoro siberiani, presentandoci un’intellighenzia che durante le cene centellina le parole per la paura del sospetto e dello screditamento. Siamo in un’epoca in cui Dostoevskij è da considerarsi reazionario, i decadentisti sono inutili, mentre Tolstoj e Čechov risultano funzionali al realismo socialista, ma con un capovolgimento totale delle loro idee democratiche che porrebbero, invece, l’uomo al centro del sistema. È proprio l’uomo che l’ideologia cerca di seppellire. Quando Štrum si ritrova a compilare un questionario per l’Istituto di Fisica, è obbligato a indicare la sua estrazione sociale (borghese), quella dei genitori e quella dei genitori dei genitori, e riflette sulla somiglianza di fondo tra nazismo e stalinismo: «[…] non c’è dubbio che anche ai tedeschi parrà etico chiederti la nazionalità. Uccidere gli ebrei perché sono ebrei è terribile, non si discute. Sono essere umani, sono uomini, gli ebrei: buoni, cattivi, sciocchi o talentuosi, ottusi, allegri, bravi, sensibili o taccagni. A Hitler, invece, non importa: quel che conta, per lui, è che siano ebrei! E io protesto con tutto me stesso! Il nostro, però, è un principio analogo: quel che conta è che tu sia nobile, kulak o mercante. Cosa importa se sei bravo, cattivo, talentuoso, buono, sciocco o allegro?».

Di estremo interesse è la scena che ritrae il colloquio tra lo Sturm-bannfϋhrer Liss e il prigioniero Mostovskoj, intellettuale sostenitore del socialismo sovietico. Il funzionario delle SS lo invita a ragionare sulle identiche metodologie adottate dai tedeschi e dai russi: «voi avete ucciso milioni di persone, e gli unici a capire che andava fatto siamo stati noi tedeschi! […] A che cosa si deve tanta ostilità tra noi? […] Siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno “Stato partito”. […] La bandiera rossa sventola anche sul nostro Stato popolare, anche noi chiamiamo all’unità nazionale, alla cooperazione, anche noi diciamo: “Il partito esprime il sogno dell’operaio tedesco”. E anche voi usate parole come “popolo” e “lavoro”. […] Il socialismo in un solo paese esige che si elimini la libertà di seminare e di vendere, e Stalin non ha esitato a far fuori milioni di contadini. Hitler s’è reso conto che il socialismo nazionalista tedesco aveva un nemico: l’ebraismo. E ha deciso di eliminare milioni di ebrei». E Mostovskoj, che ha sempre una risposta per tutto, stavolta tace in preda ai dubbi e non riesce a controbattere.

Un’efficace metafora che sintetizza gli effetti delle ideologie sulle menti degli esseri umani è la «teoria della pasta lievitata» che emerge in un memorabile dibattito tra Štrum e il suo mentore Čepyžin in Stalingrado. Secondo Čepyžin, il nazismo è forte, ma è destinato a soccombere. Esiste un limite al suo potere che risiede nella morale e nella bontà del popolo. Esse sono indistruttibili e prima o poi lo annienteranno. Nell’impasto del popolo tedesco, Hitler, infatti, non ha modificato la proporzione degli ingredienti, bensì l’ordine. Ha portato a galla le nefandezze, il passato reazionario della Germania, e ha depositato sul fondo la saggezza popolare, il buon senso, la bellezza dell’arte, della letteratura e delle scienze tedesche; ha rinchiuso nel lager le persone oneste, i fiori all’occhiello di ogni città. Eppure, la debolezza dell’hitlerismo risiede nel non poter dichiarare apertamente i crimini peggiori, perché il male, pur producendo altro male, potrebbe anche generare il bene. È un’osservazione di incredibile acutezza, sulla quale Grossman si sofferma più volte nel corso degli eventi narrati. Secondo lui, la proclamazione dell’immoralità, della negazione delle libertà altrui, della soppressione dei diritti, riaccenderebbe l’anima del popolo che, seppur annebbiata, non può essere modificata. Ben presto, ci si renderebbe conto di quanto inumano sia il nazismo. In Vita e destino, Grossman finalmente dà un nome a questa propensione immutabile dell’anima: la bontà illogica. Essa è la chiave di lettura dell’intera opera.

Esaminando il concetto di bene, infatti, l’autore rileva come nel corso dei secoli questa parola abbia perso significato, relativizzandosi, miniaturizzandosi e arrivando a giustificare gli atti più crudeli. Ogni setta, religione, ideologia, classe politica, partito, nazione ha perseguito il proprio bene, ammantandolo di universalità: «Il mio bene coincide con il bene di tutti, il mio bene non serve a me soltanto, ma a ogni altro uomo. E facendo il mio bene, mi metto al servizio dell’umanità intera». È per il bene dei cristiani, per esempio, che sono avvenute le torture dell’Inquisizione o il massacro delle tribù pagane della Tasmania. Proprio per il bene sociale si è verificata in Unione Sovietica la collettivizzazione forzata e le uccisioni di centinaia di migliaia di uomini e donne. È per il bene dei tedeschi che il nazismo massacra milioni di ebrei. Il bene vero, invece, è per Grossman quel bene che alberga in ogni essere umano, che induce ad amare gli esseri viventi, la vita, è quella felicità al termine di una giornata di lavoro. «È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie». Si tratta di una bontà che appartiene al singolo e che è eterna, istintiva e cieca. È quella bontà inspiegabile che induce una vecchia russa a dare da bere a un soldato tedesco in fin di vita, la stessa bontà «che scagiona la tarantola che morde il neonato». È forte finché non diventa mercanzia dei profeti, è forte finché paradossalmente rimane priva di forza: «Appena la si vuole trasformare in forza, la bontà si perde, scolora, si offusca, svanisce». Quanto più è debole tanto più è invincibile. La bontà illogica è l’arma che ci ha salvato e che ci salverà dal male perché costituisce il senso dell’umanità. La vittoria di Stalingrado non è la vittoria del bolscevismo contro il nazismo o del bene contro il male, ma è la vittoria dell’uomo.

 

La scelta

 

Leggendo Grossman è difficile non pensare al monumentale Europe Central (Mondadori, 2005) di William T. Vollmann, un romanzo postmoderno e «massimalista», secondo la definizione che si desume dal fortunato saggio di Stefano Ercolino (Il romanzo massimalista, Bompiani, 2015). E molte sono le analogie tra le due opere. Anche per Vollmann, la letteratura è uno strumento di indagine morale e anche in Europe Central i personaggi vengono posti dinanzi a delle scelte drammatiche. L’esempio più lampante è l’ufficiale delle Waffen-SS Kurt Gerstein, membro dell’Istituto d’Igiene delle SS, che viene a conoscenza dell’uso reale del gas Zyklon B, nel campo di concentramento di Auschwitz. Sconvolto e combattuto tra il desiderio di salvare gli ebrei e preservare la vita della propria famiglia, l’uomo tenta in più occasioni di informare i governi dei paesi neutrali, ma senza successo.

In Vita e destino, il solito Štrum viene invitato ad abiurare pubblicamente la sua scoperta – una formula matematica relativa al meccanismo di disintegrazione dei nuclei atomici – in quanto contraria alle idee leniniste sulla natura della materia. Egli rifiuta e viene abbandonato e criticato dai colleghi, vivendo nel timore di essere arrestato da un momento all’altro. Inaspettatamente, però, riceve una telefonata riabilitante da parte di Stalin in persona, che lo invita a proseguire i lavori. Per Štrum, tutto cambia in meglio, riacquista credito tra i suoi ex delatori e ottiene un aumento di stipendio. Quando, però, il regime gli chiede di firmare una denuncia nei confronti di due medici accusati di un presunto crimine – analogamente a quanto accaduto allo stesso Grossman –, egli cede alle sue lusinghe e al timore di perdere tutto, smarrendo la propria identità e lacerandosi nel senso di colpa. Ecco l’obiettivo di uno Stato totalitario: l’obbedienza cieca, la distruzione del corpo, la conquista dell’anima e la resa incondizionata dell’uomo.

Sia Europe Central che l’epopea di Stalingrado sono opere polifoniche dove molti comprimari si esprimono allo stesso modo: sono quei casi in cui a parlare è l’ideologia del blocco tedesco o di quello sovietico. Tra i personaggi che invece sono in contrasto con il partito o che ne subiscono le conseguenze, Vollmann racconta le “parabole” (una sua definizione) di musicisti, partigiani, scultori, artisti – figure realmente esistite –, mentre Grossman è ispirato dai fisici e dagli scienziati. Per entrambi gli autori l’arte e la scienza rappresentano una forma di ribellione al totalitarismo e devono essere scevre da ogni influenza.

La vita è libertà, ci dice Grossman. Ma sebbene anche la volontà dell’uomo sia libera, in epoche tremende egli non è più artefice del proprio destino perché «è il destino del mondo ad arrogarsi il diritto di condannare o concedere la grazia, di portare agli allori o di ridurre in miseria, e persino di ridurre in polvere di lager, tuttavia né il destino del mondo, né la storia, né la collera dello Stato […] erano in grado di cambiare coloro che rispondono al nome di uomini».

 

 

(Vasilij Grossman, Stalingrado, trad. di Claudia Zonghetti, Adelphi, 2022, 884 pp., euro 28; Vita e destino, trad. di Claudia Zonghetti, Adelphi, 2022, pp. 982, euro 16, articolo di Carmine Madeo)

 

Nulla è quello che sembra

L’anno 99 di un secolo può suscitare malumori, come fu alla vigilia del Nuovo Millennio, quando non mancarono previsioni infondate sulla fine del mondo. In 1899, la serie Netflix firmata dagli stessi autori di Dark, non ha un impianto apocalittico classico, ma il numero 99 assume un certo peso, soprattutto in relazione alla forte simbologia labirintica che contraddistingue la scrittura di Baran bo Odar e Jantje Friese.

Non è un caso che 9+9 faccia 18 (come il secolo in cui è ambientata questa prima stagione), e non sembra affatto scontato che alla fine ritorni sempre lo stesso numero. Il 1899 è anche l’anno in cui Kate Chopin pubblica Il risveglio, romanzo che compare per un attimo a rinsaldare il legame con un’epoca in cui la donna aveva ben poche libertà, chiaro rimando alla protagonista della serie, Maura Franklin, figura solitaria alla ricerca della propria memoria e segnata da una maternità complessa, tema centrale del libro pubblicato alla fine dell’Ottocento, che probabilmente rappresenterà anche uno dei filoni principali che guideranno le stagioni prossime di 1899. Maura è infatti una madre che ha perso apparentemente tutto, ma è anche una donna che scopre, districandosi nel rebus che le si apre di fronte, le sue qualità intellettive: quando la rotta della nave che la sta portando in America viene deviata per soccorrere un altro transatlantico scomparso, un nuovo mondo, per così dire, irrompe proprio nel bel mezzo dell’oceano, scardinando l’orientamento di tutti i passeggeri. Non a caso il numero della sua stanza, la 1011, ricorda il sistema binario utilizzato dall’informatica per la rappresentazione interna dell’informazione. La sequenza di bit potrebbe avere un ruolo fondamentale nella comprensione di eventi spesso indecifrabili, almeno nelle prime puntate, quando tutto il mistero orienta in ben altra direzione.

Se in Dark sono i salti temporali e il teletrasporto a essere al centro del mistero, qui i viaggi nello spazio della mente sono l’enigma da risolvere tra passaggi nascosti e sogni che ricordano il passato. In un intreccio sempre più cervellotico, 1899 non è una serie per distratti: i dettagli sono così tanti che si rischia di perdersi in un groviglio incomprensibile. Nulla di quello che si vede sembra essere reale: anche la stessa musica tende a ingannare, trascinando la serie sulle sponde di un thriller cupo ai confini dell’horror, che si disvela solo alla fine come un lungo preambolo a una trama fantascientifica.

1899 rimanda sicuramente al già visto. Per esempio Inception del 2010, nel labirinto di sogni racchiusi uno dentro l’altro che confondono al punto da non riuscire più a comprendere il confine tra la realtà della veglia e la finzione del sonno. Oppure Lost, cominciando dai flashback che aprono ogni puntata di 1899 per raccontarci un pezzettino dei personaggi principali che andranno a costruire la storia, e finendo con le anomalie spazio-temporali che ne definiscono la mitologia. L’intreccio mostra, invece, evidenti somiglianze (ai limiti del plagio effettivamente palesato) con il fumetto Black Silence del 2016: una fra tutte, la centralità della piramide, una sorta di chiave, nel senso letterale del termine, per comprendere parte del marchingegno che muove tutti gli eventi.

C’è poi la mitologia. Quella dei nomi dati alle navi che traghettano su un oceano mai luminoso: Kerberos e Prometheus. Il primo, un essere mostruoso messo a guardia degli inferi; il secondo, figlio di Titani che rubò il fuoco agli Dei per darlo agli uomini. Il Cerbero guardiano dell’Ade viene preso a prestito per le sue tre teste che rappresentano il passato, il presente e il futuro. Ma Kerberos è anche l’identificativo di un protocollo di rete che consente la comunicazione fra terminali mediante un sistema di autenticazione presso un server. Ciò a conferma di quanto quello che si vede non aderisca mai all’immagine percepita, ma nasconda sempre un tassello per comprendere il passaggio successivo di un rompicapo ai confini tra videogioco e realtà virtuale. Il Cerbero è quindi un luogo di perdizione, dove le categorie temporali e spaziali diventano una questione di codici che aprono varchi, deviano le direzioni e trasformano il confine dei sogni. Prometeo, invece, è “colui che riflette prima”: astuto e intelligente, viene contrapposto al fratello Epimeteo, “colui che riflette dopo”. Chiaro riferimento al binomio tra Maura, la protagonista, e il fratello Ciaran: lei nata “per cercare”, e soffrire inevitabilmente, apre ogni porta, si addentra nei meandri più bui, spinta dalla brama di maggiore conoscenza; lui venuto al mondo “per evitare”, ed essere felice, è il grande assente di tutta la serie.

In 1899 la filosofia e la psicologia, la tecnologia e la fantascienza, la medicina e gli avatar si mescolano in un intrigo forse un po’ troppo audace nella sua complessità, chiaramente legato allo stile narrativo di Dark. Nulla toglie all’originalità di una serie che, nonostante le evidenti influenze di quanto già visto e scritto, propone nella sua prima stagione un genere nuovo, capace di mescolare insieme thriller psicologico e sci-fi.

Proust e il rapporto tra soggetto e oggetto

Nessun autore, prima di Proust, aveva celebrato così intensamente il primato assoluto dell’Io. In tutta la sua produzione, inclusa quella giovanile – dalla raccolta di novelle I piaceri e i giorni (1896) al romanzo incompiuto Jean Santeuil, composto tra il 1895 e il 1900 e rimasto inedito fino al 1952 – la realtà si trasferisce e rivive nello spazio interiore, non rifugio o comoda evasione ma unico luogo abitabile dove si colgono le risonanze e i veri significati delle cose, stabilendo le impalpabili equivalenze tra percezione soggettiva e dato oggettivo. Ma ciò che ne fa uno scrittore unico, definendo le coordinate della propria grandezza e sconcertante modernità, è l’aver compreso e superato quel diffuso orientamento del pensiero, tra fine Ottocento e primo Novecento, che respingendo la precedente cultura positivista basata sull’obiettività del reale ripiegava nell’interiorità e nell’irrazionale.

Proust difatti accoglie e va oltre quest’intuizione, disegnando un’idea del mondo totalmente nuova in cui l’Io non è in contrapposizione con l’esterno, piuttosto a esso interrelato in una sorta di rapporto osmotico. Non dunque divisione netta e invalicabile separazione ma reciproco, incessante fluire dall’una nell’altro e viceversa. Come nota Carlo Alberto Redi in Proust zoologo (Carocci, 2022), Proust ha intuito prima di Heidegger la natura periferica – ovvero votata all’esterno – dell’identità, dando luogo a una soggettività mobile e cangiante, sia pure latente e sconosciuta, «un puzzle le cui tessere devono essere rintracciate nell’altro», in ciò che è al di fuori di sé.

Tra i primi critici proustiani, ne Il romanzo del Novecento (Garzanti, 1971), a proposito di Proust fermo con attenzione appassionata sul cespuglio di rose del Bengala, Giacomo Debenedetti esplora non già la concentrazione nella ricerca della loro essenza bensì il suo rovesciamento, vale a dire l’atteggiamento di chi si espone a farsi cercare dalla sostanza profonda di quei fiori. Perché, se l’«intenzionalità» di Husserl afferma che non è possibile dissolvere gli oggetti nella coscienza, cioè che tra noi e l’oggetto che vediamo c’è una distanza, conoscerlo corrisponde a «esplodere verso» per correre di là da sé, nella direzione di ciò che non è l’Io, laggiù accanto alle cose e tuttavia fuori. Ma la folgorante novità di Proust chino sul cespuglio di rose, per Debenedetti, suppone un’intenzionalità non sua ma degli oggetti. Sono loro infatti che devono «esplodere verso» di noi, parlarci e quasi riconoscerci, prendere coscienza di noi che li guardiamo, che vorremmo esplorarli, misteriosi araldi che ci recano l’annuncio di una dimensione inesplorata che esiste dietro i segni di quella visibile, e con la quale siamo in fluida relazione.

È per questo che a differenza del romanzo ottocentesco, in cui l’universo delle idee costituiva l’impalcatura necessaria a farvi muovere i personaggi, seguendo cioè il distacco tra soggettivo e oggettivo, la teoria alla base dell’opera proustiana non è una quinta teatrale ma una sorta di protagonista essa stessa: microcosmo dei personaggi e macrocosmo dei concetti sono inscindibili, a pari merito, nella voce del Narratore e nella polverizzazione della trama. In sostanza, l’impianto de La Recherche è simile a una cattedrale, ovvero uno spazio di connessione tra piani temporali e trame testuali che si diramano vertiginosamente, collegando il prima e il dopo dell’opera, nel confronto con il Tempo. Anche figura cardine e tema ricorrente – le varie chiese immaginarie composte da elementi presi a prestito da edifici reali, o San Marco a Venezia, la cui pavimentazione irregolare permetterà al Narratore di ritrovare il tempo perduto – il topos della cattedrale, ci ricorda Jean-Yves-Tadié in Proust e la società (Carocci, 2022) le cui sezioni Proust aveva ipotizzato, come confidò a un amico, di chiamare “portico” e “vetrata dell’abside”, è direttamente menzionato dal suo autore ne Il tempo ritrovato, quando leggiamo: «avrei costruito il mio libro, non oso dire ambiziosamente come una cattedrale».

Cattedrale dunque come immagine in cui non v’è scissione tra dentro e fuori, paragonabile a uno stato del divenire incarnato dai personaggi, un esempio fra tutti Albertine e le sue metamorfosi: uccello, pianta, paesaggio. «Essere di fuga» per eccellenza, è un po’ Odette, un po’ Andrée, un po’ Marcel. È tutte queste cose insieme e contemporaneamente, senza che si possa mai dire che cosa veramente sia. Ecco il sorpasso della prospettiva del romanzo tradizionale, rispetto al quale La Recherche, «espressione sublime della necessità di Proust di comunicare il disagio della propria condizione», del proprio stare nel mondo – in der Welt Stein – come ci dice Carlo Alberto Redi, non dà per scontata la netta divisione tra soggettività e oggettività bensì la indaga, «SOS che viene da lontano», nel tentativo «di rispondere al “principio di insufficienza”» di Georges Bataille, quello che impone a noi stessi di non schivare gli interrogativi alla base della vita umana.

Di fronte a una realtà incoerente, contraddittoria, in una parola imperscrutabile, condizione dissociata alla quale non sfugge nemmeno l’interiorità dello stesso Marcel, di cui non conosciamo «quali siano i suoi veri sentimenti, i suoi pensieri, i suoi intenti. Sappiamo che essi non corrispondono alle sue parole, ma fino alla fine non siamo in grado di ricostruirli» (Stefano Brugnuolo, Dalla parte di Proust, Carocci 2022), l’eccezionalità de La Recherche consiste nel tentativo di spiegare e conciliare sempre, a dispetto di tutto, il perché di noi nel mondo. Ma la sua missione di rendere intellegibile l’inintelligibile, quello «strumento ottico in grado di far vedere sé stessi. Deformante come un caleidoscopio, riflettente come una lente, rifrangente come la lanterna magica», quale descritto da Roberta Capotorti in Leggere Proust (Carocci, 2022), per sua stessa natura pone il proprio sguardo soggettivo, in rapporto all’oggettività del reale, ora travisandola ora idealizzandola, ovvero mancandola sempre.

 

 

È questa la tristezza metafisica cui allude Ernst Robert Curtius in Marcel Proust (Il Mulino, 1985) poiché, se unicamente la spiritualizzazione della realtà attraverso l’arte può dare senso alla vita, liberando l’essere che è in noi per sottrarlo al regno del contingente e del casuale, tuttavia Proust ci dice che l’amore è una malattia, l’amicizia un’illusione. Certamente le resurrezioni del nostro Io interiore ci salvano restituendoci il contatto con una realtà superiore, ed è questo il compito affidato alla letteratura. Ciononostante il platonismo di Proust, ossia la nostalgia che aspira a ritrovare il fondamento eterno delle cose, tema ostinato de La Recherche, cozza di continuo contro gli abbagli di un legame col mondo deludente, fuorviante o impossibile.

Tale stato d’animo, presente nell’opera proustiana a partire già da I piaceri e i giorni, ripubblicato recentemente da Mondadori (2022) con traduzione di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, è il «lieve suono argentino impercettibile e profondo come il battito di un cuore» – che subito riporta al tintinnio della campanella del giardino di Combray de Il Tempo ritrovato – che si trova in Morte di Baldassare Silvande, la seconda novella che compone il volume. Quel flebile suono di campane, «voce presente eppure molto antica», che da un lontano villaggio arriva al protagonista nei suoi ultimi istanti, porta in sé un’importante rivelazione. Come più tardi sarà per il Narratore, che da remote profondità sentirà affiorare «quella dimensione enorme che non sapeva di possedere», in Baldassare risorge il suo Io più autentico e dimenticato, mentre svaniscono le vane ambizioni e i sogni mai concretizzati.

Tuttavia, con i suoi tradimenti e le sue ambiguità, la vita ci delude e disorienta. Gilberte è ora affettuosa ora indifferente, Madame Verdurin al contempo generosa quanto opportunista e malevola, Morel un gigolò egoista e vigliacco, prima disertore infine eroe sul campo di battaglia, la domestica Françoise capace di grande amore e dedizione come di gratuite piccinerie e crudeltà, Bergotte di alto profilo morale ma anche piccolo arrivista, e così via per Albertine, Charlus, Swann e ogni altro personaggio che popola La Recherche. I nostri tentativi di entrare in contatto con quanto è esterno da noi, decifrando ciò che vediamo, non arrivano a risvegliare il fondo nascosto e inesprimibile della vita, impotenti a sapercela spiegare.

Nella dedica Al mio amico Willie Heath, che apre I piaceri, Proust parla dell’esistenza che, «nella sua durezza, ci incalza troppo da vicino» e «ci fa male all’anima, continuamente». Quand’era bambino, l’autore credeva che a nessun personaggio della Bibbia quanto Noè fosse spettato un destino infelice, per via del diluvio che lo costrinse a rimanere chiuso nell’arca per quaranta giorni. Soltanto in seguito capì «che Noè non riuscì mai a vedere il mondo così bene come lo vide dall’arca, benché l’arca fosse chiusa e sulla terra regnasse l’oscurità» perché – come ci dice Lorenzo Renzi ripercorrendo la geniale lettura di Erich Auerbach in Mimesis (Gli elfi e il Cancelliere. In Germania con Proust, Il Mulino, 2015), in Proust la concezione moderna dello spazio-tempo dell’Io si collega a quella neoplatonica per la quale l’immagine dell’oggetto, trovandosi già nell’anima dell’artista, gli rende possibile distaccarvisi in veste di osservatore.

Proust ragazzo aveva quindi precocemente intuito che quello di Noè, già contenendo in sé l’immagine del mondo dietro il buio del diluvio, è l’unico sguardo che permette di abolire la distanza tra soggetto e oggetto, leggendo senza fraintendimenti la realtà nella sua verità. Il solo che può disvelarci l’essenza che giace al fondo di noi stessi e delle cose, dissolvendo le delusioni della vita, la sua malinconia, la sua amarezza, nella continua ricerca del contatto altro che le apra a noi, quell’«intenzionalità» che le faccia «esplodere verso» per svelarci infine il loro segreto.

Assedio animale di Londono

Il rancore vivente di Hukuméiji

«Questo paese è pieno di echi. Ti sembrano rinchiusi nel vuoto delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini, senti che ti calpestano i passi. Senti degli scricchiolii. Risate. Risate ormai molto vecchie, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Senti tutto ciò. Penso che arriverà un giorno in cui questi rumori finiranno».

Queste sono le parole che Juan Preciado, il protagonista di Pedro Páramo del messicano Juan Rulfo, sente pronunciare da Damiana Cisneros, uno dei fantasmi di Comala, città messicana immaginaria situata nei pressi di Colima e caduta in rovina a seguito della rabbia – o meglio, del «rancore vivente» – di Pedro Páramo, colui che attraverso la corruzione, l’omicidio dei rivali e i matrimoni di convenienza è riuscito a tenere il potere sulla città.

Juan Rulfo racconta una storia di denuncia dello sfruttamento dell’America Latina da parte di proprietari terrieri corrotti e di colonizzatori che mancano di rispetto ai luoghi e alle tradizioni indigene e autoctone. La descrizione che Rulfo fa di Comala – e più in generale dell’America Latina – è però quella di un luogo pieno di spiriti, di rancori mai sopiti, che prima o poi chiedono il conto agli sfruttatori per vendicare gli oppressi.

Juan Rulfo è anche il punto di riferimento dell’autrice colombiana Vanessa Londoño, di cui Polidoro Editore ha pubblicato Assedio animale, tradotto da Massimiliano Bonatto. Londoño ambienta il suo romanzo nel paese immaginario di Hukuméiji, nei pressi del fiume Don Diego. Quella di Hukuméiji è «una geografia profonda e piena di animali» che «assediano le persone nelle loro case, al lavoro, in tutti i luoghi chiusi in cui vivevano». È un luogo che ribolle di una memoria fatta di corpi deformati e mutilati, di terre espropriate e paesaggi distrutti dall’arroganza del potere.

La memoria si risveglia – e questa è una prima somiglianza con Pedro Páramo attraverso una pioggia torrenziale che riporta a galla i cadaveri del passato e che trascina con sé ciò che resta in un processo di ricordo e oblio senza tregua. Così riaffiorano i ricordi di Fernanda Huanci, la india che ha perso le gambe perché indossava gli stivali mentre lavorava la terra, di Yarima, la levatrice a cui è stata tagliata la lingua per essersi opposta all’accoppiamento forzato con il Torero, quelli di un padre a cui hanno sparato agli occhi per essersi opposto all’esproprio delle terre da parte di una multinazionale, e infine di una ragazza a cui sono state tagliate le mani perché accusata ingiustamente di furto di bestiame. Tutte queste sono storie che la penna di Londoño rievoca mescolando – parafrasando T.S. Eliot – memoria con desiderio, inteso come «corpo che insegue se stesso fino a saziare l’imprevedibile geografia dei suoi appetiti», fino al momento in cui riesce a soddisfare la propria sete di vendetta.

Assedio animale ha però molti altri punti di contatto con Pedro Páramo. Fra questi la denuncia dello sfruttamento e dell’oppressione, e l’esercizio della memoria realizzato attraverso uno stile modernista e suggestivo in cui passato e presente, fantasmi e luoghi in rovina si uniscono in un unico flusso di coscienza. A differenza di Rulfo, Londoño opera un passo in più che, come spiega in una recente intervista rilasciata per «Al dìa», consiste nel «creare la tensione – che si vive in America Latina – tra esercizio di memoria e dimenticanza persistente». Questo contrasto fra memoria e oblio è molto sentito in America Latina, specie se si tiene a mente la questione dei desaparecidos e della deforestazione dell’Amazzonia, dove il paesaggio naturale è sempre accostato alle tradizioni e alla cultura indigena.

Parlando di rapporto fra luogo e memoria, un altro romanzo che viene in mente in questo senso è La donna abitata della nicaraguense Gioconda Belli. Sebbene sia più incentrato sul rapporto fra il corpo femminile e l’opposizione armata alla dittatura, Assedio animale condivide con La donna abitata la stessa tensione fra memoria e presente attraverso gli spazi. Basta leggere questo brano tratto dal romanzo di Belli, dove a parlare è lo spirito della guerriera indigena Itzà, motore dell’azione della protagonista Lavinia:

«Sono io stessa parte di un giardino. E quest’albero vive di nuovo nella mia vita. Era tutto malandato, ma io ho fatto scorrere nuova linfa in tutti i suoi rami e, quando verrà il suo tempo, darà frutti e allora il ciclo ricomincerà ancora».

Quello che descrive qui Belli è simile a ciò che si legge in Londoño. In entrambe gli spazi e i luoghi della narrazione sono intrisi di memoria e di passato. Ogni elemento ambientale infatti è collegato a un passato di violenza che costringe sia i personaggi che i lettori a fare un esercizio di memoria necessario: i personaggi per confrontarsi con le proprie colpe, sebbene un’espiazione vera e propria come in Pedro Páramo sia impossibile; i lettori per avere consapevolezza di quanto ancora sia influente il passato coloniale del Sudamerica. Nel fare ciò, Londoño lavora rappresentando le ferite dei luoghi e delle persone, le cicatrici che faticano a rimarginarsi senza l’esercizio della memoria, che costituisce lo scopo principale della letteratura dell’autrice colombiana, come scrive all’inizio del libro: «Credo che la letteratura sia l’atto di restituire vitalità agli arti mozzati, di raccontare le storie dei corpi che si ostinano a ricordare le parti mutilate e i loro fantasmi».

L’importanza che Londoño dà agli arti mozzati la si comprende dalla struttura del libro. Esso si suddivide in quattro parti, che corrispondono a quattro personaggi a cui manca una parte del corpo: a Fernanda le gambe, a Yarima la lingua, al padre gli occhi e alla ragazza le mani. Questi arti fantasmi costituiscono insieme un corpo che, come dice Yarima nel secondo capitolo, permette all’autrice di inventare una storia che molto ha a che fare con la realtà, in particolare la Colombia, paese martoriato dalle multinazionali, dalla sopraffazione dei signori della droga e dalla guerriglia armata:

«Il mio corpo deve sforzarsi per risanare, tanto che i suoi punti di sutura non fanno più miracoli, e adesso le cicatrici spiccano come larve sporgenti incapaci di trasformarsi in pelle. Alla mia età la guarigione diventa meno prodigiosa e questo fa sì che le mie gambe assomiglino a un inventario di storie, di ferite in ritardo, incapaci di migliorare».

La tensione fra ricordo e oblio è molto forte: c’è la voglia di dimenticare e voltare pagina e la difficoltà nel farlo, al punto che è necessario raccontare il proprio dolore per espellerlo. Raccontare però equivale in questo caso ad abbandonarsi al rancore per i soprusi subiti:

«Strofino con rancore il corpo sulle piastrelle per assicurarmi che non ci sia sabbia e questo mi intristisce, ma di colpo sento che sui moncherini mi cresce un paio di mani nuove, che al mio corpo crescono le gambe tagliate di Fernanda Huanci, che dall’esofago mi cresce lo scheletro immune della lingua tagliata alla levatrice muta, che nelle mie orbite sgorgano nuovi occhi, quelli perduti dal padre del soldato per i pallini da caccia conficcati nelle retine».

Ed è qui che ritorna, dunque, Pedro Páramo: sia la pioggia che gli arti mutilati dei personaggi sono espressione di un incessante rancore vivente, che se nel caso di Rulfo scompare con la morte, in Londoño è destinato a riemergere: la pioggia che alimenta il fiume non solo fa riaffiorare «i corpi trascinati dalla valanga di fango, ma anche quelli abbandonati tempo indietro», e rivendica «l’antico territorio» conquistato dagli oppressori. Tutto questo avviene in maniera incessante, senza tregua, così come senza tregua sono le voci dei fantasmi del passato, destinate a non zittirsi mai. Voci alimentate dalla letteratura, che dà vita ai fantasmi per vendicarli dei torti subiti.

Con Assedio animale Vanessa Londoño ritrae usando uno stile fra sogno e realtà una storia di rabbia mai sopita e ferite difficili da sanare. Nel paese immaginario di Hukuméiji e nella sua pioggia torrenziale si può rintracciare la storia di qualsiasi stato sudamericano, che sia la Colombia della stessa Londoño, il Messico di Rulfo o altri ancora: paesi martoriati dall’oppressione, in cui ogni luogo e ogni ferita costringe a un confronto serrato con il passato. Queste cicatrici, però, sono destinate a non rimarginarsi mai se non attraverso la letteratura, che parte dalle cicatrici per vendicare gli oppressi. Come disse una volta la poetessa Carmen Yañez, «la poesia è la mia dolce vendetta»; per Londoño invece la letteratura è una vendetta senza fine, che non avrà pace finché non avrà assolto al suo compito: costringere le persone a fare esercizio di memoria per vendicare i fantasmi del passato.

 

(Vanessa Londoño, Assedio animale, trad. di Massimiliano Bonatto, Alessandro Polidoro Editore, 130 pp., euro 15,00, articolo di Alberto Paolo Palumbo)

 

Copertina di Roma, non altro di Prato

Sulla persistenza di una Roma autentica

Roma, non altro (2022) è la nuova raccolta di scritti che Quodlibet dedica a Dolores Prato (1892-1983). Scrittrice e giornalista vissuta nell’arco del Novecento, ha messo in discussione la trasformazione di Roma appena diventata capitale d’Italia, attraverso uno sguardo in controtendenza rispetto alla storiografia risorgimentale. Con il titolo “Voce fuori coro” di Dolores Prato, nel 2016 era già uscito un altro volume più frammentato e vario negli argomenti. Entrambe le preziose pubblicazioni postume sono curate e commentate da Valentina Polci, studiosa e docente dell’Università di Macerata, capace di portare alla luce con rigore il vasto repertorio di manoscritti che hanno affollato i cassetti dell’autrice fino alla vecchiaia.

In Roma, non altro sono riuniti una trentina di brevi saggi giornalistici, di un’intensità inconsueta tanto per lo spessore di conoscenza (diretta e filologica) quanto per la qualità dei sentimenti. Dolores Prato ha un’ossessione: Roma. E non riesce a farsene una ragione: diventando capitale d’Italia la città ha subito una vera e propria devastazione, invece di essere compresa. Nel corso di tutta la sua vita Prato ha provato a parlare di questa profonda metamorfosi (urbana, culturale, morale) negli articoli usciti sui quotidiani. Non moltissimi e, seppure persistenti nel tema e nell’acutezza delle osservazioni, nemmeno molto apprezzati dagli editori.

I momenti epici della trasformazione della giovane capitale del Regno sono dissacrati da una Prato ormai ottantenne che, allo scoccare del centenario di Roma Capitale, non considera chiuso il conto con la storia. I testi controcorrente che vuole pubblicare sono frutto di diverse riscritture e sono raccolti in parte in questo volume, che ne chiarisce la genesi e i ricchi rimandi. Racchiuse dentro la copertina fucsia fiammante di Quodlibet (per la collana Storie) si ritrovano quelle parole rivolte contro i tradimenti operati nei confronti di una città che è vulnerabile alle forze del potere ma non si piega alle forze del tempo.

Qual è lo strumento che Dolores Prato usa per convincere dell’importanza di una persistenza autentica di Roma? Le ridondanze tra le diverse anime della scrittrice – cattolica, antifascista, antimonarchica, comunista – operano un’instancabile interrogazione dei quartieri, delle strade, dei monumenti. L’effetto è quello di un repertorio di immagini fuori dagli immaginari correnti, posate in uno stato di grazia su oggetti, paesaggi, manufatti urbani, molto o poco noti: il fiume, i colli, alcuni edifici, scorci da cartolina. Sono avvolti da questa luminosa visione della città persino alcuni personaggi del tempo, in cui la giornalista inciampa mentre porta avanti la sua inchiesta quotidiana a suon di passi e ricognizioni. Lo sprezzo e l’affetto si depositano sui luoghi di una città che sembra essere soltanto sua ma è molto più fedele a quella reale rispetto alle narrazioni e alle retoriche banalizzanti.

Bisogna avere il coraggio di disvelare e di non adagiarsi sui luoghi comuni. È un esercizio che si impara a fare mentre si leggono le descrizioni incredibili di parti di città dimenticate – o che non esistono più –, riportate in vita dalla perseveranza smascherante di questa scrittrice ancora troppo poco conosciuta. Tutto viene riconsacrato per mostrare che la più autentica natura di Roma – segreta come il vero nome, cui si allude nel primo saggio – forse non può essere mai conosciuta del tutto ma appare attraverso bagliori intermittenti. Non c’è una sola Roma, alta o bassa, dei colli o del Tevere: ce ne sono tante e le contrapposizioni non servono a definirla. Anche se Dolores Prato propende per la bellezza prerisorgimentale, al netto di tutti i rimproveri rivolti a chi non ne ha preservato l’integrità il punto non è stabilire nemmeno se Roma era meglio “prima” o “poi”. Il punto è convincersi della necessità di un patto nuovo tra parole e luoghi.

Il lavoro certosino di Prato infatti non è rivolto solo contro la distruzione e l’oblio dei luoghi ma soprattutto contro «la stanchezza delle parole», quelle parole grosse di cui ci siamo nutriti e con le quali «guerreggiamo», «intontiti» perché non ne conosciamo più il significato. L’esito di un patto tra luoghi antichissimi (o estinti) e parole vernacolari (da reimparare a pronunciare) sembrerebbe paradossalmente l’esplosione di un pensiero leggero e nuovo, che si libera del fardello di quella retorica celebrativa tutta italiana, appiccicata a Roma come succede in un amore tossico: riversandoci sopra qualsiasi pregiudizio positivo e negativo. Il conto in sospeso con l’innamoramento tra Roma e lo Stato italiano, che ha portato al consumo turistico di massa della Roma artistica, terminata la lettura è davanti ai nostri occhi. Il plagio è svelato, sta a noi liberarcene d’ora in poi.

Ma in questo scontro finale, sembra forse dirci Prato, non vince nessuno: perché Roma imperterrita ricrea ovunque quella rena dorata simile alla sabbia del Tevere che vola sul Gianicolo. Questa polvere ricopre le cose per lasciarle scoprire a coloro che sono capaci di conoscerla e non cedono al desiderio di denigrarla. A costoro sono destinati doni prelibati, di cui un assaggio è offerto da Roma, non altro. Il libro ha sicuramente un potenziale diretto per chi di Roma si occupa o a Roma vive, ma contiene anche un secondo messaggio, accessibile con un piccolo sforzo, destinato a chi Roma non la conosce affatto o la vede per la prima volta. Il lettore facilmente si lega al filo critico e poetico che la curatrice tesse, sperando che continuino a uscire altri scritti dagli archivi.

 

(Dolores Prato, Roma, non altro, a cura di Valentina Polci, Quodlibet, 2022, 208 pp., euro 16, recensione di Martina Pietropaoli)
Avere tutto di Missiroli

Avere tutto sfidando tutto

Avere tutto. Più che un’asserzione, il titolo dell’ultimo romanzo di Marco Missiroli sembra lo spettro di un punto interrogativo che trascina subito il lettore nel testo. Avere tutto significa in fondo desiderare «solo le due o tre cose per cui veniamo al mondo» e ciclicamente chiedersi se, al cospetto della morte di chi abita il nostro mondo emotivo e della vita che ci rimane, si sia riusciti a raggiungere quel che si voleva.

Dopo il successo di Atti osceni in luogo privato, uscito nel 2015 per Feltrinelli, e di Fedeltà, edito da Einaudi nel 2019, Avere tutto è quasi un “corpo minore” della produzione letteraria di Missiroli, ma al contempo è la sintesi maggiore tra stile e lingua, tra le sue radici, aggrovigliate in una Rimini malinconica e non soleggiata, e due anime preponderanti, quella del gioco d’azzardo e quella dei sentimenti.

La narrazione si apre in prima persona con un dialogo asciutto tra padre e figlio, la diade che dominerà il romanzo: Sandro raggiunge a Rimini Nando, il quale dopo la morte della moglie Caterina, compagna di una vita e anche di brillanti gare di ballo, dedica il suo tempo alla cura dell’orto per poi sparire di sera, a bordo della sua Renault 5, per rincasare a notte fonda.

È qui che il nervo ostinato della passione principale del padre ferroviere viene rivelata: frequenta ancora una sala da ballo, dove ritrova la verve dei tempi passati, quando sognava di essere il migliore, vincere tutto, con la moglie.

Durante la convivenza nella casa di famiglia, ancora intrisa della presenza della madre, i due uomini tengono le fila di un rapporto intermittente eppure diretto, che passa dalla timidezza, da alcune forme di pudore, alla ricerca di verità assolute. Proprio durante questi confronti Sandro racconta al padre come ha avuto inizio la sua vita di giocatore d’azzardo, mentre Nando rivela al figlio di avere un male perfido e incurabile e di avere ormai poco tempo a disposizione.

Il rapporto tra padre e figlio non è un tema nuovo nella narrativa di Missiroli, ma in queste pagine traspare con una maturità definitiva, imbevuta dei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autore, che rinforzano una struttura sentimentale che non si perde mai, dalla prima all’ultima pagina.

Poi c’è il tavolo, il gioco, il rischio. Impossibile non rievocare i grandi classici incentrati sulla figura del giocatore: La mano sbagliata di Jean-Michel Guenassia col suo Baptiste Dupré, e Il giocatore di Fëdor Dostoevskij che aveva come protagonista Aleksej Ivanovic, personaggio letterario carismatico e tormentato. Sandro è un giocatore vincente, bravo: vince perché «domina il punto di rottura», tiene insieme tutto quando la partita diventa pericolosa e ci si può «far male». Non è comunque indenne dalla perdita: ha perso Giulia, la donna della sua vita, come suo padre ha perso la moglie ballerina, ma allo stesso tempo, al tavolo, nei ricchi appartamenti milanesi, sfida ogni dinamica per avere tutto.

Per Nando «avere tutto» è il primo premio al Gran Galà della Baia Imperiale di Gabicce grazie al salto Scirea del Pasadèl da lui inventato; per il figlio, è godere del formicolio ai polpastrelli tenendo in mano le carte, spennare tutti, vincere. Sfidando tutto.

Attraversando la narrazione si resta colpiti dal linguaggio italoriminese: i dialoghi sono vivi, corti e caldi, e reggono il dolore e il senso di sconfitta di fronte alla morte e alle rese dei conti, e la rievocazione degli eventi positivi e dei desideri, di fronte a una stessa domanda che torna spesso: cosa faresti con un milione di euro e un bel po’ di anni in meno?

Una domanda-trabocchetto, perché si basa sulle ombre, sulle vite secondarie che non si sono potute scegliere. Le risposte dei due protagonisti variano spesso, mettono insieme elementi della vita vera e quella sognata. Le figure di Caterina e Giulia sono distanti, aleggiano soltanto, ma rappresentano le fondamenta della storia e danno modo ai due uomini di ritrovarsi: apparentemente la traccia narrativa si poggia sulla grammatica maschile, ma in realtà il lessico famigliare di questi protagonisti è intriso di femminile.

Nando e Sandro si sciolgono in una Rimini che ha un ruolo centrale nel romanzo: se il lettore si immagina una Rimini chiassosa, con chioschetti di bevande, lidi affollati, locali sulla spiaggia, viene invece portato in una città umida e silenziosa, lo sfondo perfetto del rapporto complicato di un padre e un figlio. La città controversa a cui si torna: una Rimini fuori stagione, quieta, contrapposta a una Milano di sottofondo che crea corazze in Sandro, il figlio protagonista, ma che la città natale lima, scalfisce, riportandolo a una dolcezza più antica.

 

(Marco Missiroli, Avere tutto, Einaudi, 2022, 159 pp., euro 18, articolo di Antonella De Biasi)

 

Poster del film Le nuotatrici

State dalla nostra parte

Le storie vere raccontate dal cinema hanno sempre un certo fascino, segno che la vita reale non ha mai nulla di banale. Nel nostro paese poi, con un governo che appena insediatosi si è concentrato con particolare attenzione sul tema dell’immigrazione, il film Netflix Le nuotatrici potrebbe essere quello che ci voleva nel tentativo di aprire gli occhi a quanti sono concentrati su numeri e paure.

Sebbene non racconti una storia italiana (come fu per il documentario Ghiaccio di Tomaso Clavarino, che seguiva i passi dei sei ragazzi fondatori della prima squadra di curling composta da soli rifugiati), la regista Sally El Hosaini lancia un messaggio universale, soprattutto all’Europa: la cura dell’umanità non può prescindere dall’accoglienza, e dall’accoglienza dovrebbe nascere la volontà politica di creare corridoi umanitari sicuri e legali. Si tratta di un tema enorme, difficile da costruire quando i soggetti in campo sono molti, ma l’Europa, quale continente vincitore del premio Nobel per la pace nel 2012, dovrà per forza dare delle risposte umane e coese.

A dieci anni da My Brother the Devil, con protagonisti due fratelli britannici di origini egiziane, Le nuotatrici racconta di un viaggio al femminile. Due sorelle siriane decidono di scappare dalla guerra per rifugiarsi in Germania, dove sperano di far arrivare anche i genitori e la sorellina attraverso il ricongiungimento famigliare. La loro avventura viene, però, segnata negativamente dal gommone su cui salgono per arrivare a Lesbo, dalle vesciche ai piedi dopo giorni lungo i binari della ex Jugoslavia, dai camion senza ossigeno, dai contrabbandieri che approfittano della disperazione per fare soldi. Già fin qui il film potrebbe concludersi, talmente è grande il carico di emozioni che vengono evocate: la speranza e la paura, l’immaginazione e la rassegnazione, il futuro segnato da un presente atroce e un passato costellato dalla domanda se le bombe non fossero state meno dolorose di quel lungo viaggio.

La regista però ci racconta anche un’altra storia: scappare non significa lasciarsi alle spalle la vita. Anzi, i sogni possono trasformarsi nell’unica motivazione per continuare a camminare, e trascinarsi nonostante la fatica e la disperazione. Così è stato per Yusra Mardini, nuotatrice instancabile. Arrivata finalmente in Germania ricomincia ad allenarsi per gareggiare. Il papà è lontano, la Siria è ormai un paese pieno di macerie, ma la fiaccola della passione non si è mai spenta. Nuotare con la squadra dei rifugiati significa portare ancora più in alto la bandiera della patria abbandonata. Diventata poi Ambasciatrice di Buona Volontà dell’UNHCR, si è fatta portavoce di quanti non vogliono rinunciare al proprio futuro. «Non c’è da vergognarsi nell’essere un rifugiato se ricordiamo chi siamo. Siamo ancora i medici, gli ingegneri, gli avvocati, gli insegnanti, gli studenti che eravamo quando ci trovavamo nelle nostre case. Siamo ancora madri e padri, fratelli e sorelle. Sono state la guerra e le persecuzioni a costringerci ad abbandonare le nostre case per cercare la pace. Questo vuol dire essere un rifugiato. Ecco chi sono io. Ecco chi siamo tutti noi, quella popolazione senza patria che cresce di giorno in giorno. Sono una rifugiata e sono orgogliosa di battermi per la pace, l’onore e la dignità di tutti coloro che fuggono dalla violenza. Unitevi a me. State dalla nostra parte».

(Le nuotatrici, di Sally El Hosaini, 2022, drammatico, 134’)

copertina di Domani interrogo di Cenciarelli

Ritratto scolastico

La scuola è un luogo vivo, reattivo: riversa la sua energia giovanile sul mondo, ma a volte subisce da quello un’oppressione. Se osservata da vicino, per chi ha figli o insegna, se ne percepisce il brulicare anche quando a prevalere sono i disincanti, assorbiti per lo più dalla sfiducia degli adulti. La scuola da almeno quarant’anni è un terreno continuamente rivangato da volontà di riforme: a prevalere, nell’esperienza concreta di chi ci lavora, è adesso la giungla burocratica. Il resto è affidato forse più alle singole capacità e dedizioni di docenti e alunni. Di problemi ce ne sono molti, sebbene le notizie mettano in luce prevalentemente quelli.

Per guardare meglio in che modo ogni microcosmo di classe è un mondo, ci aiuta Domani interrogo, il nuovo romanzo di Gaja Cenciarelli (Marsilio, 2022), che racconta con grazia narrativa come vive uno di questi nuclei fondamentali del presente e del futuro. Dal passato ci arrivano narrazioni scolastiche, una varia mitologia tra letteratura, cinema e tv, e ora sono i social a fare rumore. Cenciarelli dribbla ogni retorica e affonda con cognizione e realismo in una storia scolastica del presente italiano, ancora più romano e ancora più di una classe monade, alle prese qui con l’ora d’inglese in una scuola della periferia di Roma Est, durante l’anno di maturità. A insegnare, nella ciclicità assurda delle rotazioni di cattedre, che rende tutto precario, è “La Professoressa” (la conosceremo sempre con questo sostantivo, senza il nome, al massimo apostrofata dagli alunni in un cinguettante e romanesco «pressoré!»). La Professoressa è donna schermo piuttosto trasparente della stessa autrice, che insegna appunto inglese (oltre a essere una delle migliori traduttrici letterarie italiane) e che vive l’esperienza della docenza nella vasta estensione della lotta che è la città di Roma, come spesso racconta con piccoli apologhi sulle sue pagine social).

La classe-monade Quinta A di Domani interrogo si estende oltre il suo perimetro, perché la vita di chi ha rapporti con gli studenti, se considerati come persone, come La Professoressa fa, si sposta spesso nei corridoi, nel cortile, sul marciapiede fuori dai cancello e infine al Bar Naut. Domani interrogo fa un ritratto di come sia complesso oggi insegnare, nell’impasto tra “la materia” del programma e “le storie” dei singoli, a loro volta dentro un organismo instabile che è “la classe”. Cenciarelli dispiega il racconto cronologicamente, mescolando i registri. Si ride spesso, ma il romanzo restituisce una difficoltà oggettiva. Ci sono storie anche difficili, c’è la periferia di una grande città come Roma, ci sono i dubbi della professoressa, ma anche la sua determinazione che vince un clima generale di scontentezza, sia di studenti che dei suoi colleghi. Non si tratta di un ottimismo o “buonismo” cieco, al contrario la Professoressa ci vede benissimo.

Col suo realismo, lo si può leggere come un reportage, ma il romanzo è anche portatore di uno sguardo necessario, che parte da un assunto preciso: i ragazzi e le ragazze sono il nostro futuro – e sono soprattutto il loro futuro. Cresciuti forse con tante distorsioni, distrazioni, nichilismo, paure, la loro formazione ci riguarda tutti. Uno sguardo che l’autrice affida a un espediente narrativo: spesso la voce narrante apre squarci sul futuro di alcuni ragazzi, perché non ha bisogno di essere giraffa (quella in copertina) e «di avere il collo lungo per conoscere il futuro», lei lo sa «perché io sono la scuola», dice non con l’orgoglio di chi si è assunta quella responsabilità di accompagnarli nella crescita (sebbene il mondo adulto spezzi quella formazione proprio con la transitorietà dei docenti). Così il romanzo restituisce bene quell’energia instabile di possibilità che è la scuola, che resta tale anche quando se ne mostrano – nei destini di alcuni ragazzi – i fallimenti.

Domani interrogo già dal titolo gioca sul calembour: la scuola è uno spaziotempo da cui ogni giovane persona interroga il suo futuro – e tutti noi possiamo in essa interrogare il nostro domani. Cenciarelli racconta senza fare sconti a nessuno, tanto meno ai ragazzi e le ragazze, fotografa la loro distanza, l’amarezza (qui tutto è precario e «noi semo monnezza», dice uno studente), ingaggia poi un tango etico con gli alunni, li conquista sul loro terreno grazie all’ascolto, ne ottiene il rispetto (dal romanzo emerge che disfattismo, aggressività, paura e mancanza di stima di sé stessi sono più forti nei maschi, mentre le femmine spesso li rimproverano per questo). È una guerra amorosa, come nel madrigale di Ariosto si canta: «Quanto ha guerra maggiore / intorno in ogni loco e in su le porte / tanto più un grande amore / si ripara nel core, e fa più forte».

Dalla lotta La Professoressa raccoglie perle anche nei fondali più muschiosi e in ombra, dà improvvise accensioni per i concetti che arrivano dagli autori in programma, compresi Joyce e Woolf. Non mancano i fallimenti, che tuttavia sono «sublimi» per La Professoressa, non solo per la guida spirituale di Beckett («Fail again. Fail better») ma perché l’insegnamento della materia è sempre il pretesto di un post-testo, ovvero serve proprio ad attivare un romanzo di formazione, ma tutto da scrivere e immaginare. La scuola costruisce ricordi futuri. La scuola è ciò che forma anime, coscienze, a dispetto di tutto ciò che in essa non ha forma. Il programma è il sapere, che La Professoressa porta ai suoi studenti, ma c’è però anche quello che lei «non sa». Tra apertura all’ascolto e fermezza nel fare ciò che a scuola si fa (imparare) si gioca la dialettica in cui formare è verbo che include sia cognizioni che dolori. Imparare idee, visioni, saper usare le parole, serve poi a non arrendersi a destini percepiti prima di tutto dai ragazzi come immutabili.

Il racconto della realtà porta nel romanzo l’elemento della droga, costante del libro, convitato di pietra che diventa il tema di avvertimento continuo della Professoressa ai ragazzi e che incrina i rapporti con la classe fino alle minacce di un «mondo di quelli fuori» che è il vero Moloch che mette a rischio la scuola. “Fuori” significa famiglie in difficoltà economica, rapporti spezzati, pochissime prospettive. Ma il romanzo, per quanto voglia raccontare una comunità, sa ben tenere le distinzioni individuali. C’è il ragazzo che studia, c’è la ragazza che si illumina ed è curiosa e brava anche se non è certa del suo talento, e c’è chi ha il talento della danza con una carriera avviata. Così come c’è chi preferisce spacciare o ciondolarsi in una vita di gang.

“Salvarsi” è verbo che ricorre nel romanzo: la scuola «salva ogni giorno» la Prof (e anche l’autrice, professoressa Cenciarelli, come scrive nell’esergo); i ragazzi cercano di salvarsi non solo dal rischio interrogazione ma da ben altre minacce. Il romanzo racconta e non ha ricette morali, anche se il cuore di tutto sta in un mix di dono e scelta etica, ed è quello di stare con loro e «nel loro mondo», come scriveva Sandro Onofri, che affiora nei ricordi della Professoressa (e di Gaja Cenciarelli narratrice – e, se mi è possibile dire, anche nei miei: indimenticato Sandro, che bisognerebbe far rileggere a un mondo editoriale dalla memoria corta). Stando in quel mondo, accompagnare nel cambiamento, qualunque esso sia, ben oltre “la materia”. Un po’ alla Gertrude Stein, Cenciarelli ci dice che «la scuola è la scuola è la scuola». Se non una missione (che sa di colonialismo), fare scuola come la fa La Professoressa è certo una dépense, come l’erotismo per Bataille. Oltre ogni valutazione, ogni apprendimento, pure necessario, quel che impariamo dal romanzo di Gaja Cenciarelli è che la scuola ha a che fare con l’amore per la vita, con quella pulsione inspiegabile con cui alla fine la vita stessa, se interrogata, risponde come Molly Bloom: «sì».

 

(Gaja Cenciarelli, Domani interrogo, Marsilio, 2022, 240 pp., euro 17, articolo di Mario De Santis)

 

Copertina di Ferrovie del Messico di Griffi

Guerra, bibliofilia e mal di denti

Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, pubblicato all’inizio dell’estate da Laurana Editore, si è imposto velocemente come uno dei più sorprendenti romanzi italiani degli ultimi tempi – e come il caso letterario dell’anno della piccola e media editoria nostrana. Il libro è sembrato fin da subito possedere il fascino contraddittorio di alcuni oggetti di culto (quello di un giocattolo impolverato trovato in soffitta, i cui ingranaggi risultino intellegibili; quello del vecchio vinile che gracchia e pare cantato in un alfabeto sconosciuto; quello di un libro perduto nell’incendio della Biblioteca di Alessandria). Ferrovie del Messico è accessibile ed esoterico, antico e postmoderno, buffo e straziante. Romanzo e antiromanzo.

Poiché qui si sta parlando in primis di un oggetto, è doveroso partire dalla sua mole: Ferrovie del Messico è un libro grosso, fisicamente ingombrante, un monolite bianchissimo (che pure possiede una paradossale leggerezza, quando lo si tiene nel palmo di una mano: lievità forse concessa per grazia dalla Madonna con teschio in copertina). La dimensione materiale, insomma, testimonia da sola l’ambizione. In un passaggio nodale di 2666 di Roberto Bolaño – un nome che ritornerà nel corso di questo articolo – un personaggio si lamenta del fatto che i lettori preferiscano i libri brevi e perfetti a quelli enormi, molteplici e appunto imperfetti (Bartleby a Moby Dick, per fare un esempio): «In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore». Ecco, il romanzo di Griffi è una battaglia campale, per rimanere nel gergo militare, un romanzo lungo, spudoratamente lungo (sulle 800 pagine), e pieno zeppo di personaggi; in una parola, «enciclopedico», come lo definisce giustamente Marco Drago nella postfazione. In questo, i modelli – i «grandi maestri» bolañiani – che si possono accostare all’autore sono tanti: il citato scrittore cileno, ovviamente, e poi Pynchon, Vollmann e in generale i postmoderni americani, Littell, se si pensa a Le benevole, i grandi romanzieri sperimentali di inizio Novecento e, perché no, a tratti anche quelli massimalisti dell’Ottocento – questo però, va detto, è un romanzo fortemente novecentista, nel senso che trasuda nostalgia nei confronti del secolo breve, delle sue sanguinose traversie e dei suoi angosciati interpreti.

Il romanzo è ambientato principalmente in Piemonte, ad Asti, nel 1944, ed è una storia di guerra, resistenza, amore e letteratura. Siamo nella Repubblica di Salò, e Cesco Magetti, il protagonista, milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria, è un giovane molto poco convinto del proprio fascismo, parecchio idealista ma precocemente disilluso. Nelle prime pagine gli viene assegnato un compito assurdo, che pare provenga dalle più alte sfere delle istituzioni naziste: compilare una mappa dettagliata delle ferrovie del Messico. Il fatto è che all’epoca il Messico era un luogo tanto lontano da sembrare leggendario, figurarsi le sue ferrovie. Cesco è spiazzato, non ha molte idee su come adempiere agli ordini; gli viene in soccorso la bibliotecaria della città, la bella e folle Tilde – di cui lui si innamora all’istante –, che lo informa dell’esistenza di un misterioso libro, Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México, di un certo Gustavo Adolfo Baz, che potrebbe aiutarlo ma che risulta però in prestito. Comincia allora per il giovane un girovagare caotico per Asti, alla ricerca del libro che pare essere passato per mille mani e adesso non volersi in nessun modo far trovare.

Cesco è l’eroe romanzesco contemporaneo per eccellenza: vaga per la città cercando qualcosa che forse neanche esiste, e al contempo riflette instancabilmente, si affligge, si interroga sulla politica, sull’arte, sul futuro; si dà dello stupido e poi si esalta; ama disperatamente e senza essere ricambiato; di pratico, però, combina ben poco. Tornando al discorso sul romanzo novecentista, si potrebbe insomma affermare che Cesco è un inetto, e la sua inettitudine è rappresentata da un dettaglio marginale ma proprio per questo risolutivo (come per lo Zeno di Svevo lo era la sigaretta): il mal di denti, di cui il ragazzo soffre terribilmente e che non vuole farsi curare, essendo terrorizzato dai dentisti (nota a margine: sarebbe interessante fare un campionario di dentisti e mal di denti in letteratura o nel cinema; a me viene in mente solo il film Il maratoneta, dove Dustin Hoffman veniva torturato da un dentista nazista). Per tutto il corso del romanzo Cesco, disperato per il lavoro, per l’amore e per gli amici perduti negli angoli più oscuri dell’Europa in guerra, continua imperterrito a soffrire per i suoi denti e a non farseli curare. Sul finale si chiarirà come quel dolore del corpo sia simbolo di una ferita più profonda, spirituale, ma la paura di Cesco, anche presa nella sua infantile e fisica banalità, riesce da sola a dare spessore al personaggio, a fissarlo nella mente – e nel cuore – del lettore.

Cesco è però solo il cuore di una ragnatela ingarbugliata – uno gnommero di gaddiana memoria – composta di una mirabolante quantità di storie, personaggi, racconti, scenette, enigmi, proclami e follie varie. Griffi si dimostra abilissimo nell’arte incantatoria della divagazione, che è la parola chiave per cogliere lo spirito di Ferrovie del Messico. La trama di questo romanzo-antiromanzo è deformabile, aperta in più punti, mobile. Da una cosa – un episodio, una personalità, un dettaglio – può venirne fuori qualunque altra: un excursus sulle regole del gioco del golf può sfociare così nella descrizione di un bombardamento, e la vita coniugale di Hitler in una disamina sull’eccesso di anglicismi. E poi ci sono i personaggi, tanti, variegati e misteriosi: sono poeti, partigiani, fascisti, viaggiatori, agenti segreti, prostitute, preti, cartografi, becchini, costruttori di ferrovie e altro ancora. La quarta di copertina (bellissima, la trovate qui. Leggetela con piacere, perché il lavoro di scrivere quarte è tra i più delicati del mondo e viene sempre ingiustamente tralasciato) è costituita di un lungo elenco dei personaggi più importanti, che riempie tutte e due le bandelle, e testimonia la pluralità dei caratteri – e delle vicissitudini – in gioco. Ferrovie del Messico è pura letteratura potenziale, esempio di non-finito (e quindi di infinito); è un libro fatto di scatole cinesi che potrebbe anche non concludersi mai, come spiega Marco Drago, in cui c’è sempre un’ulteriore storia che da un momento all’altro salterà fuori a scombinare i piani.

Una combinatorietà di destini e piani di lettura tanto libera e sfrenata evidenzia bene il carattere di gioco del romanzo – “gioco” inteso sia nel senso più intellettuale e postmodernista del termine, sia in quello fanciullesco di schietto divertimento e gusto della lettura. E questo sebbene uno dei temi principali di Ferrovie del Messico sia il luogo per eccellenza del tragico: la guerra. Griffi dimostra infatti una delle più grottesche leggi della narrazione: quando viene utilizzato per raccontare una catastrofe, il tono comico funziona sempre alla perfezione. Il resoconto della Seconda guerra mondiale oscilla tra l’esilarante e l’orrorifico, l’assurdo e il drammatico: è un libro, questo, che fa ridere per lunghi tratti, e che in altri fa piangere. All’epica – e la Resistenza è ovviamente la maggiore fonte di epos della letteratura contemporanea italiana – si aggiunge la commedia; e quindi, accanto a Fenoglio, che è la fonte di ispirazione maggiore visti argomento e luoghi, va citato anche Joseph Heller e il suo Comma 22. Come per lo scrittore americano, per Griffi la guerra e la sua burocrazia sono le espressioni maggiori e più drammatiche della stupidità umana, e come tali vanno raccontate, alla stregua di un disperato romanzo dell’assurdo. Commuoversi e ridere sono allora i due antidoti al nichilismo: «Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta».

Comicità e tragedia, dunque, divagazioni e inettitudine. Manca però l’ingrediente principale di Ferrovie del Messico, il collante di questo bizzarro groviglio. Si tratta della letteratura, o meglio Letteratura, con la L maiuscola. Ed ecco che si ritorna a Bolaño, che è, probabilmente, il più importante modello di Griffi. Già il titolo, con quell’esplicito richiamo al Messico e al tema del viaggio, strizza subito l’occhio ai cultori dell’autore cileno (e in generale agli appassionati di letteratura latinoamericana). Oltretutto, uno dei personaggi dei Detective selvaggi – Arturo Belano, alter ego dello scrittore – compare in un breve passaggio di Ferrovie. Ma ciò che accomuna di più Griffi e Bolaño è che gli universi letterari di entrambi sono dominati dalla Letteratura. In che senso dominati? Per dirla in modo chiaro: nei loro romanzi la Letteratura è molto più importante di quanto non lo sia nel mondo reale; lì le persone, più o meno tutte, parlano costantemente di libri, ci sono poeti e poesie sparsi in ogni angolo del globo, e qualunque banale attività diviene metafora del processo letterario (uno dei capitoli più riusciti di Ferrovie del Messico è la risoluzione di un cruciverba che a tratti assomiglia a un racconto di Agatha Christie). Insomma, la Letteratura è forma ma anche sostanza del mondo, in definitiva è ciò per cui si vive e per cui si muore. Griffi fa parte di quella schiera di scrittori che provano nostalgia per questo mondo fatto tutto di Letteratura, mondo che forse un lontano giorno è esistito ma di cui ormai non conserviamo memoria: tra questi scrittori-bibliofili si possono per esempio menzionare Borges, citato più volte nel romanzo, Eco, Vila-Matas, Wilcock, e tra i contemporanei sicuramente Mbougar Sarr con il suo notevole romanzo La memoria più recondita degli uomini (titolo che è una citazione, indovinate, di Bolaño). Ferrovie del Messico è, per concludere e dare un’ultima definizione, un romanzo che si divora. Nel mondo della Letteratura con la L maiuscola d’altronde vige una sola morale, o meglio un solo imperativo: leggere, leggere, leggere.

 

(Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana Editore, 2022, 824 pp., euro 22, articolo di Claudio Bello)
immagine per le crepe della storia

L’Europa e le crepe della storia

«La crepa mi scruta. Parte dal pavimento, risale al di sopra del piano del tavolo, taglia a metà la parete e si dissolve in aria all’altezza del telaio della finestra, come un fiume che si getta in mare. Guardo la crepa piena di nerume, prima dritta come una vena, poi tortuosa come un nervo. Lei è lì e io, seduta al tavolo accanto, rumino un po’, scruto il suo interno nero e mi chiedo quante persone cadrebbero in quella crepa se a Bucarest tremasse di nuovo la terra».

Osservare le crepe della storia, dei luoghi, delle persone; studiare da vicino le faglie, le fratture e le tensioni dell’Europa è un esercizio che non smette mai di sorprendere: il fascino (e il rischio) è rendersi conto di come ogni Paese sia, in realtà, solo un mosaico di crepe.

Margo Rejmer, giovane scrittrice polacca (nata a Varsavia nel 1985), ha raccontato cosa significhi entrare in una delle tante incrinature che fanno parte della nostra storia, viverci e provare a capirla: il suo lungo e appassionante reportage sulla capitale della Romania (Bucarest. Polvere e sangue, Keller editore, 2022) restituisce i contrasti, i vuoti e i pieni, il silenzio e le grida, le pietre e la polvere di un Paese che si è ritrovato (come altri) a dover fare i conti con i suoi confini e la sua identità.

Margo Rejmer per due anni vive la città, la percorre, sale sugli autobus, affitta vari appartamenti, gira in bicicletta, parla con le persone, prende i taxi; si imbatte nei cani randagi che circolano indisturbati, i guardiani temuti dei quartieri, amati e odiati dai suoi abitanti.

Raccoglie la storia di Elena, arrestata nell’autunno mite del 1954: suo fratello è fuggito a Parigi, poi addestrato dai servizi segreti americani e mandato a Salisburgo. Rientra a Bucarest, viene arrestato, e con lui anche la madre, la sorella e suo marito. Elena finisce in prigione e partorisce durante l’inverno, in una stanza vuota, soffocando le grida, mentre le pareti sono ricoperte di ghiaccio. La bambina le viene tolta e poi ridata a distanza di mesi, come in un crudele gioco, che ha il solo scopo di convincerla a ricorrere all’adozione.

Trent’anni dopo, un altro inverno e la città sprofonda nel buio: negli appartamenti più grandi vivono 3 o 4 famiglie, su ordine del governo. Il Conducător è cambiato, ma non il controllo sulla vita e sul corpo delle donne: dal 1966, infatti, Ceauşescu ha trasformato l’aborto in un reato. Le donne finiscono in carcere o muoiono, dissanguate e dimenticate.

Bucarest, all’epoca è un cantiere, un’infinita distesa di gru, pronte a ridisegnare l’anima dell’intera nazione. La città è lo specchio di queste contraddizioni: si appropria del vuoto e della rigidità del totalitarismo, ma cerca di mantenere la fastosità delle capitali occidentali.

 

 

Il diritto di scegliere, di trovare un’identità, ma anche di dimenticare, di chiudere le crepe o, al contrario, di tenerle aperte, vive, per non cancellare nulla. La città conserva intatta la sua doppia coscienza, tra i nostalgici di Ceauşescu e chi prova orrore ricordando la dittatura.

«Cosa sono? Chiede la Romania. Al tempo stesso ha però una paura tremenda e si tormenta in modo atroce per la sua marginalità, per il fatto di essere terra di periferia e di pastori, una terra in prestito, inesistente».

Rejmer dedica vari capitoli ai simboli della città, il viale dell’Unificazione e la Casa del Popolo (oggi Palazzo del Parlamento), ispirati alla maestosità degli spazi parigini, ma gravati dalla durezza e dall’austerità del classicismo socialista.

Quanto più le città si popolano di edifici imponenti, tanto più le vite dei singoli diventano minuscole, fino a sprofondare nel sottosuolo. Nel 1982 Marshall Berman, filosofo marxista, concentrò il suo lavoro proprio intorno ai simboli delle moderne metropoli. La sua opera più celebre e suggestiva Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria si basa, infatti, su una riflessione: la modernità, con la sua energia costante e distruttiva, rende impermanente ogni cosa che crea: il suo solo scopo è creare, di nuovo e di più. Berman, intellettuale radicale e impegnato, vissuto in piena Guerra fredda, distingue due tipi differenti di modernismo e posa lo sguardo su New York (sua città natale) e sulle trasformazioni di San Pietroburgo nel XIX e nel XX secolo.

Le strutture newyorchesi oltre a essere, «espressioni simboliche della modernità», lottano continuamente per la loro stessa vita, «per un po’ di sole e di luce», cercando, invano, di resistere alla morte a cui sono condannate. L’architettura di San Pietroburgo ha invece dato vita, tra le altre cose, a una cultura vastissima e sotterranea: la sua lunga e travagliata storia, la maestosità dei suoi monumenti, la grandezza delle sue strade e infine la sua trasformazione in simbolo stesso dello stalinismo, hanno creato uomini desiderosi di far sentire la propria voce, di urlare il proprio dissenso, anche al di fuori dei confini della città. Come Vladimir Dremlyuga, arrestato per aver manifestato contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, «la voce solitaria, ma persistente del piccolo uomo nella immensa piazza pubblica», del quale Berman riporta le parole: «per dieci minuti, durante la dimostrazione, sono stato un cittadino».

Un destino per certi versi analogo, tormenta Bucarest che ogni giorno combatte affinché i simboli che l’hanno modellata assumano un altro, diverso significato. Ricordare o dimenticare è, infatti, uno dei dubbi che ha attraversato, o meglio ossessionato, l’Europa durante il Novecento. Ma non sono solo le grandi potenze a dover fare i conti con il loro passato e con il concetto di identità: è, infatti, nei luoghi di confine, in quelle che crediamo essere le crepe della storia, che gli interrogativi rischiano di moltiplicarsi. Come sottolinea Milan Kundera nel suo discorso al Congresso degli scrittori cecoslovacchi (riportato nella raccolta Un Occidente prigioniero, Adelphi, 2022), le nazioni spesso avvertono «la propria esistenza come una certezza». Nessuna nazione, tuttavia, nasce dal nulla: e solo alcune, vivono sperimentando la paura di morire. È la «non-certezza», dice Kundera (nello stesso anno in cui Vladimir Dremlyuga venne arrestato) a caratterizzare la storia culturale, politica e sociale della Cecoslovacchia. È il 1967, e gli intellettuali non possono non interrogarsi sul loro ruolo di fronte alla politica stalinista dell’Unione Sovietica, colpevole di aver fagocitato la cultura dei loro Paesi non solo attraverso l’occupazione, ma anche attraverso un rapido processo di uniformazione e di offuscamento delle tradizioni. La Cecoslovacchia, così come altre «piccole nazioni», è stata relegata ai margini, «alla periferia culturale dell’Europa».

 

 

Le domande che Kundera pone al suo pubblico, in modo volutamente ingenuo e provocatorio, (i piccoli popoli hanno il diritto di esistere? O dovrebbero essere inglobati da nazioni più grandi?) vengono ampliate in un articolo firmato oltre un decennio dopo. Siamo nel 1983, e i tempi sono straordinariamente uguali e diversi. La guerra fredda è ormai consolidata e sono passati cinque anni dal devastante terremoto che ha colpito la Romania (e a cui Margo Rejmer dedica un intero capitolo del suo libro). Kundera in questo breve ma incisivo articolo uscito su Le Débat, affronta un tema a lui caro, ossia l’identità attraverso lo sguardo dell’altro: «ma se vivere significa esistere agli occhi di chi amiamo», scrive, «l’Europa centrale non esiste più. Più esattamente agli occhi dell’amata Europa, è solo una parte dell’impero sovietico e nient’altro». La coscienza di esistere diviene così il soggetto del dramma europeo e non solo: Kundera finisce per indagare il ruolo dell’altro e si interroga su quanta importanza abbia l’identità che ci viene imposta.

Copertina di Arriva l'oritteropo di Jessica Anthony

Animali bizzarri alla resa dei conti

Il mondo, si sa, è pieno di animali curiosi: armadilli, ornitorinchi, narvali, talpe dal muso stellato, solo per citarne alcuni. Tali mirabolanti creature nutrono da sempre l’immaginario collettivo e letterario travalicando generi e tradizioni. Per loro c’è spazio (quasi) dappertutto: dal mito al romanzo fantasy, dal bestiario al fumetto, questi esseri bizzarri compaiono trasfigurati in una marea di storie, trascendendo all’occorrenza la realtà da cui pure, in qualche misura, provengono. L’oritteropo letterario di Jessica Anthony (autrice di Arriva l’oritteropo , Sur 2022), al contrario, non ha nulla di immaginario: la sua concretezza è più che palese benché priva di vita o, meglio, impagliata. Il che, tuttavia, non sottrae nulla alla potenza evocativa e straniante dovuta al suo aspetto estroso.

Per chi se lo stesse chiedendo, l’oritteropo è una sorta di maiale dal muso lungo (simile a quello del formichiere) dotato di un paio di orecchie affusolate che ricordano quelle dei conigli e di una coda identica a quella dei canguri. Mammifero africano antichissimo, vive perlopiù di notte cacciando formiche e scavando tane lunghe e labirintiche dove si rifugia nelle ore diurne. Vederlo alla luce del sole è praticamente impossibile, tant’è che in molte culture africane è associato alla stregoneria: il popolo Hausa, per esempio, ritiene che gli amuleti realizzati con i suoi organi donino poteri straordinari, a cominciare dall’invisibilità.

Il romanzo di Anthony si apre con un vertiginoso sommario incentrato sull’evoluzione del misterioso animale che, come suggerisce il titolo, costituisce da subito il centro propulsore della narrazione. L’intreccio si dipana su due trame parallele: la prima è ambientata nel presente e ha per protagonista Alex Wilson, aitante deputato repubblicano con una fissazione maniacale per Ronald Reagan; la seconda, invece, racconta la storia di Titus Downing, eccellente tassidermista dell’Inghilterra vittoriana dal carattere solitario e introverso.

Lontani nel tempo e nello spazio, i due personaggi hanno tuttavia almeno tre cose in comune: sono entrambi segretamente omosessuali, ricevono in regalo la strana bestiola dai rispettivi amanti e, in conseguenza di ciò, le loro vite tracollano. Anzi, a dirla tutta, inizialmente rasentano il grottesco, in seguito inciampano nella dimensione del surreale per poi schiantarsi, infine, in due epiloghi distinti e paralleli.

L’autrice intreccia le vicende dei due personaggi attraverso il corpo materiale dell’oritteropo che si costituisce ben presto per entrambi come lo specchio in cui riflettere i segreti più intimi, le passioni indicibili, i desideri nascosti. E se per il tassidermista ottocentesco l’animale diventa il macabro strumento attraverso cui esprimere l’intensità del suo amore proibito, per lo spregiudicato politico americano è invece l’incarnazione di un presagio sinistro, la materializzazione di una disfatta esistenziale incombente da cui non c’è modo di fuggire.

Repressi, entrambi cercano di indossare la maschera dell’oppressore innescando così una reazione a catena dagli effetti tragicomici. La paura di perdere la propria credibilità li attanaglia: Downing in quanto scienziato e Wilson in quanto politico non sarebbero più ciò che sono se emergesse la verità del loro orientamento sessuale; è proprio questa paura, che diventa via via sempre più ingestibile, a trascinarli in un vortice di equivoci e di paradossi.

La scrittrice non concede a nessuno dei due il tempo di riflettere: non c’è modo di elaborare le proprie contraddizioni né tantomeno di prendere le misure dalla frattura tra dentro e fuori esistente nella vita di entrambi: l’arrivo dell’oritteropo segna un punto di non ritorno, una resa dei conti che non può più essere procrastinata.

Al tempo stesso, però, c’è un elemento stilistico che salta subito all’occhio e che sottolinea una profonda differenza tra Downing e Wilson. Mentre la storia del primo è raccontata nella forma classica della narrazione onnisciente, per quella del politico contemporaneo Jessica Anthony sceglie la narrazione in seconda persona, ottenendo un risultato ambiguo e intrigante: se al principio, infatti, la sensazione è quella di entrare noi stessi nella mente del personaggio, proseguendo, pagina dopo pagina, si finisce con il chiedersi quanto viceversa sia il personaggio a essere entrato nella nostra mente.

Arriva l’oritteropo è una commedia nera che assomiglia molto a una pièce teatrale: le descrizioni dettagliatissime, i dialoghi serrati, il ritmo accelerato della scrittura, il gioco di immedesimazione con i protagonisti conferiscono al romanzo la potenza immersiva tipica dei testi scritti per il palcoscenico.

D’altronde il tema delle apparenze pervade il romanzo: Anthony ci ricorda che in fondo tutti, ogni giorno, mettiamo in scena noi stessi e, parafrasando Erving Goffman, viviamo la dimensione sociale del quotidiano in forma di rappresentazione. A seconda del contesto, indossiamo maschere, interpretiamo ruoli, incarniamo personaggi. Da questa teatralità è impossibile sottrarsi ma è altrettanto vero che se ne può essere variabilmente consapevoli.

L’oritteropo impagliato è come il fantasma del padre di Amleto: la sua apparizione induce i protagonisti a chiedersi cosa davvero è e cosa, invece, sembra ma non è affatto; la sua stranezza li costringe alla resa dei conti ricordando – tanto a loro quanto a noi – che l’evoluzione non è un processo di miglioramento infinito ma piuttosto un tentativo costante, e talvolta assai maldestro, di adattamento all’ambiente.

 

(Jessica Anthony, Arriva l’oritteropo, trad. di Dario Diofebi e Martina Testa, Sur, 2022, 179 pp., euro 16,50, articolo di Cristina Cassese)