La donna gelata di Ernaux

Come si diventa una donna gelata

C’è a volte, nell’infanzia, un modello scontato e sbagliato di quali siano o debbano essere i ruoli dell’uomo e della donna, nella famiglia e nella società, in cui le donne sono immaginate come «fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa»; un archetipo che ignora la forza, la semplicità e talvolta la necessità delle donne di parlare ad alta voce, avere le mani ruvide, poter essere scarmigliate. È da questa immagine distorta che ha inizio La donna gelata (L’Orma editore, 2021) di Annie Ernaux, bambina degli anni Quaranta che non trova riscontro dentro casa – vivendo con la madre, ascoltando nonne e zie, confrontandosi con le donne della propria famiglia – delle idee che aleggiano fuori, nelle case delle amiche, a scuola, per le strade della provincia francese.

È anzi proprio grazie alla madre, alla suddivisione delle competenze e delle preoccupazioni con il padre, ai piccoli gesti che due genitori compiono l’uno verso l’altro e, insieme o separatamente, verso la figlia, che questa cresce attraverso dubbi meravigliosi, si forma affacciandosi sul mondo attraverso i libri e crea senza rendersene conto il legame tra la bambina del passato, la ragazza che la segue e la donna del futuro, oggi del presente, in grado di andare oltre ogni stereotipo e di ragionare sul superamento dei ruoli imposti e sugli ideali di uguaglianza.

«Come avrei potuto, vivendo accanto a lei, non essere persuasa della magnificenza della condizione femminile, o persino della superiorità delle donne sugli uomini? Mia madre è la forza e la tempesta, ma anche la bellezza, la curiosità per il mondo, l’apripista sulla strada verso il futuro, che mi dice di non aver mai paura di niente e di nessuno».

Ancora una volta Annie Ernaux va oltre la difficoltà di raccontare se stessa per raccontare tutte le donne, riesce a condividere i passaggi tradizionali della vita di ciascuna – l’ingenuità dell’infanzia, la curiosità dell’adolescenza, le avventure timide, la maturità spaventosa – permettendo a ogni lettore e a ogni lettrice di potersi immedesimare o discostare, di stupirsi di quello che scopre e non conosceva o di specchiarsi nelle stesse idee, nelle analoghe esperienze.

Gli anni della crescita non sono solo quelli dei confronti con le amiche e della scoperta dei corpi, sono anche influenzati dalla poesia, dalla bellezza, dalla filosofia – da Kant, da Prévert, da Baudelaire, da Camus –, ma soprattutto sono accompagnati da parole decisive e da pensieri che contribuiscono alla formazione della donna che la Ernaux diventerà e che scrive oggi: quelli di Simone De Beauvoir, che gettano dubbi sul desiderio, sull’amore e sul matrimonio, che non chiariscono ma confondono su cosa si dovrebbe volere, che tuttavia illuminano quasi inconsapevolmente consentendo di formarsi e di riconoscersi.

Ma la fase più controversa e più piena di interrogativi sembra essere quella che precede il matrimonio e la vita in comune, il passaggio dall’essere una persona unica, con le proprie abitudini e libertà, al diventare parte di qualcosa di più grande e talvolta di più bello, ma che implica rinuncia, trasformazione, abbandono necessario di un pezzo di sé. Il surrealismo non è più quello che si studia all’università o che si sa riconoscere nei quadri, surrealiste sono le abitudini che diventano accasamento, la dolcezza che sa di malinconia, l’impossibilità di riconoscersi e una nuova forma di accettazione di sé, di quello che si è voluto o forse no, necessariamente di quello che comunque si è diventati.

«Sono finiti senza che me ne accorgessi, i miei anni di apprendistato. Dopo arriva l’abitudine. Una somma di intimi rumori d’interno, macinacaffè, pentole, una professoressa sobria, la moglie di un quadro che per uscire si veste Cacharel o Rodier. Una donna gelata».

 

(Annie Ernaux, La donna gelata, trad. di Lorenzo Flabbi, L’Orma editore, pp. 192, euro 17, articolo di Francesca Ceci)

 

Copertina di Il capitalismo spiegato a mia nipote di Ziegler

Un sistema di oppressione

Alla soglia dei novant’anni, Jean Ziegler colpisce ancora. Il sociologo svizzero conquistò una meritata notorietà – pari al disprezzo di molti connazionali – sollevando negli anni Settanta e Ottanta il velo di ipocrisia che circondava il sistema bancario elvetico, con due libri di grande successo internazionale quali Una Svizzera al di sopra di ogni sospetto e La Svizzera lava sempre più bianco. Dal 2000 Ziegler abbandonò la lunga esperienza politica al Parlamento federale del suo paese per divenire Relatore speciale sul diritto all’alimentazione alle Nazioni Unite. E da questo vero e proprio osservatorio sulla fame e la miseria del mondo comprese e seppe descrivere con straordinaria lucidità le più gravi storture della globalizzazione capitalistica in atto. All’epoca, significava remare quasi da soli contro le violente correnti della “fine della storia”.

Oggi le devastazioni prodotte dall’idolatria del mercato sono evidenti a chiunque abbia occhi per vedere: il capitalismo sregolato, svincolatosi dal controllo democratico degli Stati, si è risolto in una sorta di neofeudalesimo. Più che nelle mani del “mercato”, le sorti della civiltà sono nelle mani di un’oligarchia di multinazionali e giganti della finanza. È La privatizzazione del mondo, come Ziegler intitolò un libro preveggente del 2002.

Ma abbiamo occhi per vedere? Scoraggiati dalle miserie del dibattito pubblico e del teatrino cui si è ridotta la politica (colpevole di aver scatenato le forze che ora la condannano all’irrilevanza, cioè di aver creduto alla favola per cui il mercato non solo saprebbe autoregolarsi, ma saprebbe regolare la società meglio delle istituzioni pubbliche), tendiamo a perdere di vista il quadro generale in cui si inseriscono i nostri problemi quotidiani – disoccupazione, salari bassi, servizi pubblici sottofinanziati, luoghi invivibili – e persino a rimuovere dalla coscienza chi è condannato a condizioni di povertà assoluta in luoghi dimenticati. La parola chiave – non a caso tabù sui media – è ancora capitalismo, e per cercare di aprirci gli occhi Ziegler si affida a un’operazione editoriale di straordinaria efficacia: il dialogo con la nipote Zohra.

Il capitalismo spiegato a mia nipote (Meltemi, 2021) è un libro densissimo di spunti illuminanti ma anche semplice e breve, e l’espediente funziona proprio perché Zohra non è una bambina ingenua che si espone all’indottrinamento del nonno, ma una ragazza semi-adulta, consapevole, colta e sensibile, a cui manca solo la visione d’insieme, la capacità di unire i pezzi del puzzle. Il suo idealismo giovanile e disorientato rappresenta perfettamente la realtà di un capitalismo che sempre più agisce – dietro il velo del marketing e il fascino del consumo – come una forza impersonale e senza volto, sfuggente e lontana proprio mentre si rivela più pervasiva.

Come “nonno Jean” spiega alla nipote, quasi ogni aspetto delle nostre vite è stato mercificato o, peggio, sottratto al controllo democratico. Quasi ogni speranza di reale sviluppo umano nei paesi del Terzo mondo si è legata a doppio filo con l’imperialismo economico dell’Occidente e delle sue voraci compagnie transnazionali. Mentre le disuguaglianze di reddito dilagano, i governi non sono nemmeno in grado di pretendere che le grandi aziende restituiscano alla collettività qualche briciola in forma di tasse. La fame miete milioni di vittime ogni anno, mentre lo spreco diviene il motore economico di un Occidente ormai sbandato e senza controllo. I tentativi di greenwashing non riescono minimamente a scalfire le responsabilità del capitalismo nel riscaldamento globale e in tanti disastri ambientali. Insomma: i destini del mondo sono il sottoprodotto della lotta sfrenata per il profitto di pochi oligarchi, in grado di decidere della vita e della morte di milioni di persone.

Certo il mondo non è ridotto a un deserto, ed è questo il grande paradosso che rende ancora più urgente il superamento di un sistema incapace di distribuire equamente la straripante ricchezza che è in grado di produrre – per pochi. A questo proposito, Ziegler si rifà all’interpretazione dell’“economia arcipelago”: «Le reti economiche e finanziarie delle metropoli, dei grandi centri industriali nel mono» «interagiscono con profonde relazioni di interdipendenza che si sovrappongono agli stati-nazione. Tra queste isole di prosperità, interi paesi stanno scomparendo dalla storia, come navi fantasma». E anche sulle isole più rigogliose si moltiplicano le aree emarginate, dimenticate, sconfitte.

Il capitalismo dunque si rivela oggi una forza distruttiva e parassitaria, ma soprattutto incontrollata. Ziegler però non si limita a mettere in luce le derive degli ultimi quarant’anni (ciò che va sotto la formula di “neoliberismo”). Tutta la storia del capitalismo è costellata di devastazioni, più che di modernizzazione e creatività: senza imperialismo, colonialismo, schiavitù e sfruttamento non sarebbe mai arrivato a dominare il mondo e a trasformare l’Occidente in un modello che pretende di essere universale.

La ricognizione storica dell’autore è impressionante e più che mai necessaria. Se però c’è un limite in questo libro è lo spazio troppo ridotto concesso alle discontinuità degli ultimi anni, che forse possiamo ritenere inevitabili, ma di cui sarebbe utile indagare meglio le radici: in particolare la crisi del “matrimonio di convenienza” tra capitalismo e politica democratica.

Probabilmente Ziegler ha ragione di sostenere che «Il capitalismo non può essere ridefinito, deve essere distrutto […] affinché si possa concepire un’organizzazione sociale ed economica del tutto inedita». Ma attenzione, dalla sua implosione potrebbe emergere qualcosa di peggio, un feudalesimo de jure oltre che de facto. Anche per questo è necessario riscoprire la dimensione dell’utopia come motore del cambiamento: non è un caso che, fra tutti gli insegnamenti di nonno Jean, questo sia per Zohra il più sorprendente ed esaltante.

 

(Jean Ziegler, Il capitalismo spiegato a mia nipote. Nella speranza che ne vedrà la fine, trad. it. di Gaia Raimondi, prefazione di Vladimiro Giacché, Meltemi, 2021, pp. 120, euro 12)

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Un altro giro poster film

Ubriachi di vita

Molti film possono essere considerati belli; solo alcuni lasciano il segno nella storia del cinemaUn altro giro è sicuramente uno di questi, non a caso vincitore del premio Oscar e del premio César come miglior film straniero, oltre che dell’European Film Award per la pellicola, la regia, la sceneggiatura e l’attore protagonista.

Dopo Il sospetto del 2012, Thomas Vinterberg e Mads Mikkelsen, che allora vinse il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes, tornano insieme; e l’unione fa scintille. La trama sembrerebbe di per sé banalissima. Quattro insegnanti cenano fuori per festeggiare un compleanno e rimangono incuriositi dalle affermazioni dello psichiatra norvegese Finn Skårderud, secondo il quale l’uomo sarebbe nato con un deficit da alcol pari allo 0,05%. Decidono allora di sperimentare la cosa sulla propria pelle nel tentativo di raggiungere effetti positivi in campo sociale e professionale. Nella prima fase si fermano al limite massimo stabilito, poi si spingono fino allo 0,1%, per affrontare alla fine le conseguenze della sbronza vera e propria.

Raccontato così, Un altro giro appare un film frivolo e alquanto insignificante, piuttosto ridicolo e di poco conto, volto a proporre un’apologia dell’alcol e un’esaltazione dell’ubriachezza. In realtà, si tratta di una storia che racconta l’amore in tutti i suoi volti: quando si coltiva un’amicizia, mentre si è in piena crisi di coppia, se si riscopre il proprio mestiere, quando si canta la patria, mentre si incoraggia un giovane inesperto, se si balla la vita. La pellicola compone un inno intorno ai sentimenti che possono celarsi dietro ogni avvenimento e in fondo a tutti i rapporti: dal patriottismo alla figliolanza, passando per l’amicizia e la famiglia.

La teoria alcolica che tira le fila della trama non è altro che una scusa per parlare d’altro: fino a che punto si è disposti a superare i propri limiti? È possibile affrontare ciò che più spaventa della vita? Il dolore e il fallimento conducono solo alla rassegnazione?

Vinterberg, che ha perso la figlia proprio all’inizio delle riprese, si interroga sul tema della vita, costruendovi intorno un racconto originalissimo, totalmente privo di quell’auto celebrazione che lo avrebbe potuto influenzare dopo il lutto. E lo fa partendo da un’idea presuntamente scientifica che ha sotteso l’esistenza di molti personaggi pubblici, da Hemingway a Churchill, introdotti più volte nel film a sostegno dell’intuizione che l’alcol possa avere effetti positivi soprattutto in campo lavorativo.

In Un altro giro non se ne parla, ma la citazione presa a prestito da Finn Skårderud non è altro che uno stralcio della prefazione all’edizione norvegese de Gli effetti psicologici del vino di Edmondo De Amicis, che nel 1880 affrontò l’argomento, con la stessa leggerezza di Vinterberg.

Non un elogio dell’ubriachezza, ma l’attestazione di un’idea. Se inizialmente l’assunzione moderata di alcol può suscitare degli effetti benefici («La nostra percezione è così lucida, la parola così facile, la voce così ricca, sentiamo una traspirazione così gradevole, il complesso di tutte le nostre forze così dolcemente fuso, la vita così piena ad un tempo e così leggera! E la conversazione procede mirabilmente»), la «progressione dell’ebrezza» conduce all’oblio della dipendenza. Proprio come accade nelle tre fasi sperimentate dai quattro amici insegnanti: se lo 0,05% di alcol crea una certa fluidità nell’esistenza, e lo 0,1% ne aumenta la spensieratezza, l’assenza di limiti significa totale perdita di quel controllo necessario per non farsi sfuggire la vita dalle mani.

Triplicità che è al centro anche della filosofia di Søren Kierkegaard, filosofo danese di inizio Ottocento, non a caso citato da Vinterberg a inizio film. La sua teoria sperimentale pone la vita di fronte alla soggettività dell’esistenza che interroga l’uomo sulla possibilità della scelta. Da qui può nascerne angoscia, in rapporto con il mondo, oppure disperazione, in relazione con l’interiorità.

Mads Mikkelsen entra perfettamente nella parte di Martin, uomo insoddisfatto del lavoro e della vita di coppia, incapace di entrare in contatto con il proprio io interiore e con la vertigine della libertà. Con la scusa dell’alcol si rilassa, lasciandosi andare all’ebrezza che sembra cancellare i brutti pensieri. Ma il disagio è sempre in agguato: il trucco sta nella scelta di agire, superando l’insicurezza che può nascere dalle mille possibilità che la vita ci presentano. È allora che Martin viene ispirato dalla fede nella vita, esplodendo in un ballo liberatorio che lascia davvero una bella sensazione in chi viene coinvolto, anche solo attraverso uno schermo.

Mads Mikkelsen inizia con una lacrima e finisce con un salto, che ricorda i suoi trascorsi di ballerino. In mezzo ci sono bicchieri e bicchieri di alcol: eccitanti e divertenti, ma anche drammatici e molto deludenti. Thomas Vinterberg offre così la faccia benevola e positiva de La grande abbuffata. Anche lì ci sono quattro uomini che si uniscono in un esperimento, ma il loro mangiare fino allo stremo aveva come obiettivo la morte. Qui l’alcol ha invece l’effetto contrario, ossia quello di esaltare la vita, nonostante l’angoscia che spesso può attraversarla.

Omaggio anche a Gli idioti di Lars Von Trier, secondo film del movimento Dogma 95 fondato proprio con Vinterberg, dove il tema di fondo è sempre quello della sperimentazione di un comportamento (la simulazione di un ritardo mentale), Un altro giro offre uno spunto per raccontare la maturità di un’esistenza che riscopre se stessa, e la scelta libera che la costruisce.

(Un altro giro, di Thomas Vinterberg, 2020, drammatico, 116’)

Copertina di Stiamo abbastanza bene di Spiedo

Una particella della generazione senza fiato

“Stiamo abbastanza bene” è un’asserzione comune, un modo di dire, una scappatoia detta a chi distrattamente chiede:“Come va?” Francesco Spiedo nel suo esordio letterario prova a definire il senso di una frase tanto vaga.

Stiamo abbastanza bene (Fandango, 2020) ha le vesti di un romanzo di formazione, in cui la struttura confessionale ricorda un’autobiografia. A parlare è Andrea, venticinquenne napoletano che col cuore infranto fugge a Milano senza sapere bene cosa aspettarsi e cosa cercare. Il libro, dunque, provando a elevare il particolare a universale attraverso gli occhi e l’esperienza del protagonista, vuole porre l’attenzione su una generazione senza fiato, disillusa ma caparbia. La narrazione, però, tutta in prima persona singolare, è inaffidabile; il lettore si ritrova a fare i conti con la realtà di Andrea, deve provare a comprendere le ragioni – non sempre razionalizzabili – di un individuo alle prese con la propria esistenza. Il tempo del racconto, per giunta, è il presente, è impossibile rilassarsi, gli eventi si susseguono, si accavallano, e tutto procede in un caotico turbinio. Spiedo ci catapulta nella testa del protagonista e lo fa attraverso uno stile leggero e asciutto che ricorda il linguaggio parlato e che, piccola nota amara, in alcuni casi pare sfuggire al controllo dello scrittore.

Senza avvisare nessuno, un giorno Andrea Lanzetta va a Milano. Un napoletano nel capoluogo lombardo: l’inizio di molte riuscite commedie italiane; il libro, come dimostra il ritmo tragicomico della storia, prende le mosse proprio da tale filone narrativo, ne sono presenti persino i tipici e immancabili cliché: la famiglia in ansia per un figlio immigrato, un futuro incerto e la cifra d’origine fermamente difesa. L’unica vera differenza è l’epoca in cui la migrazione avviene: siamo nel 2016 e Andrea fa parte della generazione nata dopo quella del precariato: i ragazzi che hanno dai venticinque ai trent’anni, coloro che nella vita si accontentano di stare “abbastanza bene”, che nell’assolutezza della felicità in fondo non ci hanno creduto mai.

La struttura del libro è geometrica, ben organizzata. Spiedo, attraverso la voce di Andrea, descrive i suoi personaggi in soggettiva, con pochi tratti. Ma nel contatto con l’altro si palesa l’ambiguità del protagonista in continuo bilico tra la voglia di solitudine e l’affannosa ricerca di un appiglio sentimentale per riuscire a sopravvivere al proprio disordine emotivo.

Andrea vive da solo, in un monolocale con una macchia di umidità sul soffitto che sembra peggiorare in maniera direttamente proporzionale al suo declino esistenziale. Inizialmente trova lavoro come sostituto di Don Enzo, il portiere del suo palazzo, napoletano come lui, che decide di aiutarlo e proteggerlo e che, dovendo andare in vacanza con la moglie per qualche giorno, gli chiede di prendere il suo posto a difesa dell’edificio sito in via Nino Bixio 14. Grazie a questo nuovo impiego ha modo di conoscere i condomini, tra cui i giovani figli della professoressa Colombo, Anastasia e Filippo, da tenere sotto controllo per l’abitudine di fumare una canna nel cortile prima di andare a scuola. Anastasia è la prima ragazza che Andrea incontra a Milano, e nel descriverla prende forma uno dei tratti distintivi del romanzo: per il protagonista l’universo femminile ha un potere benefico, palliativo, tratteggiato in aperto conflitto con la narrazione dei ragazzi quasi sempre problematici, infidi, viscidi o pericolosi. Le donne sono le sole entità benigne in grado di aiutare Andrea a tirare avanti, di traghettarlo verso una pace aleatoria e irraggiungibile. Una scappatoia per dimenticare Luisa, che gli ha spezzato il cuore.

Il venticinquenne, fresco di laurea in matematica, non ha nessuna intenzione di sfruttare i propri studi, preferisce che la vita gli accada, che le cose succedano senza che lui provi a opporre resistenza. Così, sempre grazie a Don Enzo, diventa responsabile alla sicurezza in un supermercato aperto ventiquattro ore su ventiquattro, e in seguito trova lavoro come cameriere al Confine, un piccolo locale dal nome emblematico dove conosce Clara, cinque lettere come Luisa, con la quale inizia un’intensa e vivida relazione.

Andrea, però, è un soggetto nevrotico, ha il vizio di contare qualunque cosa e non riesce mai a fare completamente i conti con sé stesso. La sua fuga non gli ha permesso di elaborare il lutto della relazione finita, e attraverso le comparazioni tra Napoli e Milano – anche se rappresentate con i soliti cliché – mostra tutte le proprie insicurezze, traslandole nella diafana discrepanza delle due città. Le descrizioni, infatti, sanno di nostalgia e lotta interiore: Napoli è come Andrea, dolce e amara, irregolare, incoerente eppure capace di un amore incondizionato; Milano invece è precisa, puntuale ma fredda, una città divisiva, in cui non esiste passato e tutto è presente, persino il futuro, e dove la commedia umana che la contraddistingue, troppo attenta all’attimo per indugiare nei ricordi, è meno vitale che a Napoli.

Ma Andrea è partenopeo, e fuggire da questo è impossibile: chi nasce a Napoli muore napoletano – come affermerà verso la fine del romanzo zio Toni, lo zio d’America, milionario e dionisiaco – e presto sarà costretto ad ammetterlo a sé stesso: non si può fuggire dalle emozioni, dalle responsabilità e dalle origini.

Francesco Spiedo, in Stiamo abbastanza bene, ci mostra le fragilità di un’età sottovalutata e spesso banalizzata, attraverso lo sguardo di Andrea ci catapulta in uno spazio narrativo che ricalca la nostra quotidianità. Il protagonista è una sorta di moderno Sisifo, che a un tratto, ormai stanco di resistere e lottare, si lascia andare nell’autocommiserazione e nella casualità esistenziale. Il dolore per la fine di una relazione però sembra esagerato, irresponsabile e stucchevole, ma proprio quando il lettore è allo stremo, pronto a puntare il dito verso la codardia del protagonista, le cose cambiano: la relazione con Clara prima, e il ritorno a Napoli poi, danno ad Andrea la forza di reagire, di prendere coscienza. Il masso incomincia a risalire la china e la macchia di umidità nel monolocale viene finalmente tinteggiata: una pulizia dell’anima prima che domestica.

Andrea comprende così che l’unico modo per uscire dalle incertezze dei nostri giorni è trovare il coraggio di cambiare, perché nella vita, prima o poi, a tutti si rivela la necessità di scegliere, di assumersi il peso delle proprie incombenze e delle proprie aspettative. In fondo, sono le nostre azioni a definire cosa c’è e cosa manca in quel caliginoso “abbastanza”.

 

Francesco Spiedo, Stiamo abbastanza bene, Fandango Libri, 2020, 304 pp., euro 18,50, articolo di Giuseppe Maria Marmo)
Ostuni

Détour

Quasi senza accorgermene ho finito la tesi, l’ho discussa nella sessione di luglio e sono partito per una breve vacanza insieme a Greta. Sempre senza accorgermene ho cominciato a derubarla in modo sistematico. Sulla spiaggia, di notte, al ristorante, in auto. Ho iniziato per essere risarcito e continuo perché il mio bisogno di risarcimento non ha fine.
L’idea del Salento è stata di Greta, che studia alla Normale e ha un’amica, anche lei normalista, originaria di Lecce. Ci siamo conosciuti mentre preparavo una tesi sulle transazioni di denaro nei Miserabili di Victor Hugo. Secondo il relatore, ai fini della mia ricerca era fondamentale che consultassi un certo fascicolo della Revue des Deux Mondes di cui non esistevano altre copie se non nella biblioteca della Normale. Un caso bizzarro, se si può parlare di caso per queste faccende, ha legato anche il primo incontro con Greta a un piccolo furto. In biblioteca non è infrequente che qualcuno dimentichi di recuperare dal contatore la tessera per le fotocopie. Per tutto il periodo della tesi, così, sono andato avanti senza spendere un euro, lasciando che la mia ricerca fosse finanziata dalla distrazione collettiva.
«Scusa, hai preso la mia tessera?», mi chiese Greta apparendomi alle spalle mentre fotocopiavo le pagine della rivista. «Chi, io?», risposi sciolto, con in tasca la tessera che avevo tolto dal contatore un minuto prima. Avevo avuto la prontezza di introdurre subito la mia (“mia” si fa per dire), la feci uscire e, con uno sguardo da pokerista, gliela passai. Greta studiò con cura la superficie. Sbuffò: impossibile, disse, era uscita dalla stanza giusto il tempo di una telefonata ed era passato il solito stronzo. Quel mese aveva già perso due tessere e adesso stava attentissima, aveva addirittura marcato le sue iniziali sull’angolo, insieme al numero di matricola.
Allargai le braccia e, un po’ per l’effettivo senso di colpa, un po’ perché ho sempre trovato adorabili le smorfie di delusione, la invitai a prendere quel tipo di caffè che prelude al corteggiamento. Lei accettò senza esitare. Doveva aver capito che in me c’era qualcosa di torbido, non so come ma alcune ragazze lo percepiscono e ne restano incuriosite.
«Comunque lo so che l’hai presa tu, la tessera», mi sussurrò Greta alcune settimane più tardi con l’orecchio sul mio petto, la terza o la quarta volta che facevamo l’amore. Negai; lei insisté e io negai con più determinazione, ottuso e maledetto come quei personaggi dell’Antico Testamento su cui, inevitabile, si abbatterà un flagello.

Abbiamo noleggiato un’auto all’aeroporto di Brindisi. Greta mi ha strappato di mano le chiavi e si è messa al volante: dice sempre che guido come una vecchia. Alla svolta per Lecce, dopo un’occhiata miope alla segnaletica, ha preso uno svincolo. «Guarda che stiamo andando dalla parte opposta», le ho fatto notare appena mi sono accorto che il mare era sul lato sbagliato.
«Lo so, facciamo un piccolo détour», mi ha risposto allegra. «Voglio vedere Cisternino».
«Ma nel contratto del noleggio non abbiamo un limite di chilometri? Se sforiamo, poi ci tocca pagare di più e…»
«Ti prego, no. Il conteggio dei chilometri in vacanza no, dai!»
Per non fare il noioso ho lasciato perdere. Greta studia le tecniche narrative dei romanzi cavallereschi, e Il détour del cavaliere bretone è l’argomento della tesina complementare che prepara per ottenere il diploma di licenza della Normale. Se ho ben capito, le svolte improvvise, le deviazioni inaspettate e irragionevoli dei cavalieri alla ricerca di avventura sono la chiave fondamentale per leggere quei romanzi, che si svuoterebbero di senso se il racconto dovesse seguire una linea diritta.
All’arrivo Greta ha preteso di dormire in una tipica casa bianca di Cisternino (ottanta euro) e di mangiare la tipica carne alla brace di Cisternino (trenta a testa).
Il giorno dopo guidavo io. Siamo passati da Ostuni per vedere altre case bianche, dopodiché siamo tornati verso Brindisi per continuare in direzione di Lecce. Stavo per imboccare la superstrada quando Greta, piedi sul cruscotto come da peggiore tradizione, ha gridato «Détour!», indicandomi l’uscita di una rotatoria. «Ci facciamo mezz’oretta di mare a Torre…»
«Senti», l’ho interrotta, «non voglio essere pesante. Ma nel contratto del noleggio abbiamo un limite di chilometri e a me non va di…»
«Aridagli con ’sti chilometri! Voglio fare un tuffo, va bene? Ci sono cinquanta gradi in questo cesso di macchina che hai scelto tu. Almeno lasciami fare un bagno in pace prima della sauna sulla superstrada».
È stato a questo punto che ho messo a fuoco quello che forse avevo intuito fin dal primo caffè: la nostra relazione è frutto di un equivoco. Studente curioso ama studentessa brillante, come se questo potesse bastare per essere felici. La verità è che condividiamo interessi di superficie ma restiamo divisi su tutto; veniamo da mondi diversi e andremo in direzioni opposte. E io non ho più soldi.
Senza fare obiezioni ho guidato in silenzio fino a Torre Guaceto (venticinque chilometri ad andare e venticinque a tornare), dove sono rimasto in auto per protesta mentre Greta andava a fare il bagno.
Il primo furto non si scorda mai: venti azzurrissimi euro facevano capolino dal portafogli abbandonato sul sedile. Li ho estratti in fretta, nervoso ed esitante, e in definitiva convinto che sì, stavo facendo una cosa sbagliata ma per una causa giusta: la mia riparazione. Al ritorno Greta non si è accorta di niente.
La lascerò all’aeroporto, è deciso, appena saremo a Pisa. Non ho voglia di guastarmi la vacanza della mia laurea con discussioni e lacrime. Il Salento è splendido e chissà quando mi ricapiterà. Farò finta di niente per qualche giorno, mi sono portato da leggere Infinite Jest (quarto tentativo) e non permetterò che la fine banale di una banale storia di non-amore mi distolga ancora una volta dall’impresa.

Da quando abbiamo fatto base a Lecce, i détours si sono sprecati, complice Luisa, l’amica di Greta che pretende di farci visitare ogni singolo rimasuglio di civiltà messapica (argomento della sua tesina di licenza), di farci mangiare ogni piatto tipico, di introdurci agli arcani del vento salentino, con i relativi cambi di rotta da costa ionica a adriatica e viceversa.
Dopo quello inaugurale i furti sono diventati più spontanei e la mia tecnica si è affinata. Le remore della prima volta hanno ceduto il passo all’abitudine di una pratica ragionieristica, in fondo un po’ noiosa ma da completare con scrupolo per rimettere i conti in pari.
Ogni notte mi sveglio per andare in bagno e prelevo dieci euro dalla borsa di Greta; altri cinque li trattengo da un resto; un biglietto da venti mi rimane appiccicato alle dita nella confusione accaldata degli aperitivi.
Non credo che si possa parlare di cleptomania. Mi sento legittimato a rubare sulla base di alcune considerazioni razionali e argomentabili: l’estrazione altoborghese di Greta, prima di tutto, architetto il padre e notaio la madre. Quando ha compiuto diciotto anni e ha vinto il concorso in Normale, anziché regalarle una Nissan Micra, i genitori le hanno comprato un appartamento a Pisa. Greta, tra l’altro, ha deciso di non abitarci, credo per un qualche regolamento o per una consuetudine secolare che obbliga i normalisti a vivere in collegio. L’appartamento, allora, è stato affittato, e il ricavato (settecento euro che sputaci sopra) è diventato la paghetta di Greta, a cui si aggiunge la sua – meritata, ci mancherebbe – borsa di studio.
Per quanto riguarda me, la mia situazione economica giustifica, se non i furti, di certo la mia preoccupazione ogni volta che Greta strilla «Détour!» e mi costringe a cambi di programma talmente sconcertanti da sembrare deliberate crudeltà. Stamani, lasciandoci Otranto alle spalle, abbiamo definitivamente sforato il tetto di chilometri. Ogni metro che percorreremo da qui alla fine della vacanza andrà pagato extra.
A Pisa, pur senza funzionare, le cose si mantenevano in equilibrio. Costretta a entrare in risonanza con la vibrazione di una comunità studentesca mediamente povera e di sinistra, Greta non ha mai lasciato emergere il suo lato godereccio, o forse non ne ha mai avuto una vera occasione. Anche in vacanza, a ben guardare, non è tanto in gioco un autentico bisogno di lusso, quanto piuttosto l’esigenza di evitare i calcoli, di poter spendere come se i soldi non dovessero finire mai.

Alle undici abbiamo fatto tappa a Santa Maria di Leuca. Secondo uno schema ormai collaudato mi sono steso sull’asciugamano con il mio libro e, quando le ragazze si sono lanciate in acqua, ho preso il portafogli di Greta e ho incamerato cinquanta euro. Forse stavolta ho esagerato, ma anche loro ormai non si regolano più. Ieri sera ho dovuto fare resistenza per non finire in un ristorante che, pare, è in lizza per ricevere la sua prima stella Michelin.
Non volevo rovinare la serata e ho ceduto più tardi, quando si è trattato di andare fino a Gallipoli (trentacinque più trentacinque, settanta chilometri extra), dove Luisa voleva mostrarci a tutti i costi un’oscena discoteca, prima con l’intenzione di guidarci – cito – «in un safari del cattivo gusto», per poi passare lei stessa alla caccia grossa verso le tre del mattino, quando ha iniziato a limonarsi un quarantenne con le sopracciglia e la barba perfettamente sagomate.
«Bella serata di…», prima che riuscissi a dire merda, Greta mi ha mangiato vivo: «Ma tu che ti lamenti tanto, eh, che vorresti fare? Si può sapere? Dai! proponi qualcosa di divertente. Fosse stato per te potevamo passare le vacanze della tua laurea a Marina di Pisa…»
Era il momento perfetto per lasciarla, ma mi sono morso la lingua e sono rimasto in silenzio. Ancora due giorni di vacanza e sarà finita. In fondo Greta ha ragione, abbiamo ragione tutti e due. Io sono un poveraccio da Marina di Pisa e lei ha tutto il diritto di godersi i soldi suoi e della sua famiglia. A condizione che questo non costringa me a vendere un polmone nel deep web quando torneremo dalle vacanze.
Motivo per cui, mentre Luisa e Greta sguazzavano al largo, ho fatto un secondo esproprio di venti euro. Tre minuti dopo ho guardato Luisa tuffarsi da uno scoglio e, drogato di adrenalina, ho proceduto a un addebito di cinquanta euro anche nei suoi confronti.
Quando sono tornate a riva e Luisa ha cercato il portafogli per comprarsi un gelato, si è subito accorta dell’ammanco. Greta no: da quando siamo arrivati le avrò scucito trecento, trecentocinquanta euro, e lei non si è resa conto di niente. Come se nulla fosse ha ritirato al bancomat due giorni fa, e di nuovo ieri prima di andare a cena.
A quanto pare Luisa condivide con Greta molte cose ma non il bug che la rende incapace di tenere il conto del denaro. Ora che ci penso, non ci ha invitato a casa sua nemmeno per un caffè (noi alloggiamo in un B&B di amici suoi, economico ma non regalato). Forse la sua famiglia abita in un appartamento misero e per lei questi giorni di vacanza con Greta sono un inevitabile costo d’esercizio per non sfigurare con una compagna di collegio. Un’emorragia, insomma, da affrontare ostentando entusiasmo e con la speranza che il bluff regga fino a dopodomani.

Addirittura una denuncia ai carabinieri per un furtarello di cinquanta euro. E poi il miserabile sarei io…
Luisa ripone le sue speranze nella telecamera del bar, anche se il maresciallo – un maschio italico che vedendo entrare due ragazze in pareo si è dimostrato di squisita galanteria – dice che ci sarà poco da fare, anche perché molte telecamere che si vedono in giro sono trappole cinesi che sgranano qualsiasi sagoma più lontana di due metri.
Io sono rimasto calmissimo. Durante il verbale ho ripetuto quel che avevo già detto alle ragazze: mi sono allontanato solo un momento per fare pipì e non ho notato niente di sospetto.
A me hanno rubato qualcosa? Non credo. O meglio, è possibile ma non saprei dire: mica uno sta a contare se gli mancano venti euro. E i cellulari? Tutti al loro posto, li avevamo messi nella borsa frigo per non lasciarli al sole.
Uscendo dalla caserma, un po’ in colpa per il détour tutt’altro che vacanziero e, chissà, pentita anche per la sua reazione da proletaria, Luisa propone di tirarci su il morale portandoci a mangiare i ricci di mare in un ristorantino che conosce. Più che un ristorante è una baracca di lamiere. Sulla lavagnetta all’ingresso sono esibiti senza vergogna i nomi di alcuni molluschi che presumo sia illegale pescare.
Davanti al ristorante vediamo la minuscola filiale di una banca mai sentita, Credito cooperativo di Vattelapesca. Greta ne approfitta per fare un altro prelievo al bancomat, ma sullo schermo compare un messaggio di errore. Quasi a compensare l’entusiasmo meridionalista che rivolge a tutto ciò che è territorio, tradizione, gastronomia e arte, Luisa non perde occasione per stigmatizzare l’arretratezza di qualsiasi apparato moderno che si riveli obsoleto e rozzo. «Figurati», scherza con Greta convincendola ad abbandonare il bancomat, «al massimo ’sto coso sarà abilitato per il prelievo del bisante medievale».
Torniamo a Lecce nel pomeriggio e ci troviamo per l’aperitivo con Luisa alle sette in punto sotto la colonna di Sant’Oronzo. Sulla strada per il bar Greta tenta un altro prelievo da uno sportello Unicredit e poi al Monte dei Paschi. Il responso è sempre lo stesso: carta non abilitata.
Temo di sapere che cosa sta succedendo e la conferma arriva quando Greta, più infastidita che allarmata, si decide a chiamare il numero del servizio clienti e scopre di aver superato il massimale dei prelievi mensili. «E allora alziamolo», la sento dire, adesso piuttosto scocciata. E subito dopo: «Password a sei cifre? Ma quali sei cifre?»
Niente da fare, per modificare i massimali ci vuole questo codice di sicurezza che Greta non sa, o non trova, forse ce l’ha da qualche parte a Pisa scritto chissà dove. Fine della chiamata.
Questa effimera epifania della povertà non ostacola l’ambizioso programma della serata. «Tu hai contante, no?», mi chiede Greta, e già capisco come finirà la nostra storia. Dovrei lasciarla adesso prima che sia troppo tardi, ma sarebbe davvero spiacevole nei confronti di Luisa, che in fondo è una bravissima ragazza e non desidera altro che farci passare vacanze felici.
Pago io l’aperitivo (diciotto euro), faccio benzina (cinquantasette euro). Anche stasera non rinunciamo a un piccolo détour di otto-dieci chilometri per andare a prendere Lorenzo e Marco, due amici di Luisa che abitano fuori Lecce e verranno a cena con noi sulla costa ionica.
Sono entrambi simpatici e alla mano. Per la prima volta in sei giorni mi sento rilassato. A cena beviamo un Primitivo di Manduria (ventisei euro) che fa impallidire il Chianti da tre euro e quarantanove che sono abituato a bere alle serate studentesche.
Sarà l’abbronzatura, sarà che sono un po’ brillo, ma devo ammettere che stasera, anche se resto deciso a lasciarla, Greta è davvero bellissima. La guardo camminare verso il bagno e non vedo l’ora di tornare a casa con lei per approfittarne una penultima o un’ultima volta. Da quando siamo arrivati non abbiamo ancora fatto l’amore, un po’ per la stanchezza delle giornate lunghe, del mare, degli spostamenti in macchina, e un po’ per le tensioni che si sono accumulate. Tra ieri e oggi ci saremmo detti sì e no venti parole, tutte sul registro della comunicazione di servizio. Ma è un bene, mi dico, i viaggi servono anche a questo: uno scarto dalla normalità che consente di rimuovere la scorza della convenzione e scoprire la vera essenza delle—certo che è proprio splendida, la mia Greta! Cari Lorenzo e Marco, vi credete bravi a dissimulare, ma vi ho pizzicati diverse volte con gli occhi nel décolleté valorizzato dall’abbronzatura. L’ha notato anche il cameriere, che infatti fa lo splendido solo con lei. E aggiungiamoci le gambe lunghe, le caviglie sottili, il portamento da ballerina. Merito anche della mamma notaio, che è una pazza anaffettiva, dice Greta, ma almeno l’ha obbligata a fare sport fin da piccola.
Ho voglia di tornare in camera con lei. Paghiamo e andiamo. Siparietto su chi guida e chi non guida. Le ragazze si sentono troppo ubriache, facciamo il gioco dello stecchino e perde Lorenzo. La traversata del tacco dello Stivale tocca a te, amico mio. E meno male, perché il Primitivo mi ha steso.

Ennesima deviazione: mi risveglio in quella che ha tutta l’aria di essere una stanza di ospedale. Non ci vedo bene da un occhio. Sono venuti i miei genitori (cazzo…), mia madre mi sorride triste, mio padre non è nella stanza ma riconosco il profumo della sua colonia.
Quanto tempo è passato? E dov’è Greta? Vorrei urlarlo, ma mi mancano la voce e il coraggio. Comincio ad agitarmi, provo a muovere le gambe ma non le sento. Mamma chiama un’infermiera che si mette ad armeggiare intorno al mio braccio, e dopo nemmeno un minuto mi sento di nuovo tranquillo.
Eravamo di dietro, io stavo nel mezzo tra le ragazze, seduto in quello che goliardicamente si chiama il “posto del morto”. Dell’incidente non conservo nessun fotogramma, probabilmente mi ero addormentato, e forse si è appisolato anche Lorenzo.
«Gr…»
Sono ridotto così male? La lingua resta incollata al palato e non riesco ad articolare. Mamma mi accarezza la fronte e fa segno di non muovermi. «Stai tranquillo, hanno detto che non hai niente di grave, ma non devi sforzarti».
Sta mentendo. Parlano gli occhi, parla la smorfia di terrore che tenta goffamente di celare.
«Gr…», ripeto, «Grœü».
«Greta? Amore, sì, stai calmo! Neanche un graffio… Greta neanche un graffio, è scesa un momento con papà a sgranchirsi le gambe. Gli altri ragazzi stanno abbastanza bene, anche loro ricoverati ma tutti salvi».
Sprofondo nel materasso e tiro un sospiro che mi fa colare il naso. Mentre mamma mi pulisce, giro gli occhi verso il comodino. Riconosco il portafogli e la mia tessera sanitaria appoggiata accanto.
Il portafogli, la tessera sanitaria. Chi l’ha estratta ha dovuto cercarla scartabellando la carta d’identità, la patente, la carta di credito, il badge della biblioteca, la mia collezione di tessere rubate.
A un rumore di passi mia madre si volta: «Ehi, si è svegliato… Però fate piano, facciamo piano».
Entrano mio padre e Greta; si avvicinano al capezzale con il rispetto che si deve a un morto, le dita intrecciate all’altezza del pube. Papà balbetta qualche frase protocollare per tranquillizzarmi, prima che mamma gli chieda di accompagnarla alle macchinette del caffè.
«Græ…»
«Ehi, ehi… Devi stare calmo. E non muovere il collo, ok?»
Giro gli occhi verso il comodino: due volte, tre, quattro. Spero che lei dica qualcosa, qualsiasi cosa purché mi liberi da questa angoscia.
«Cosa guardi? Le tessere? Le ho viste. Ci ho ritrovato la mia…» Si alza e la prende, strizza gli occhi per mettere a fuoco qualcosa: «GM 270281», dice, «le mie iniziali e il numero di matricola. Potevi almeno cancellare, no? Ma che razza di ladro sei? Devi essere uno di quei ladri un po’ nevrotici che, in fondo, vogliono solo essere scoperti e puniti».
Se il mio apparato fonatorio si degnasse di funzionare tenterei una difesa disperata, la butterei sul romantico, direi che sono un ladro da strapazzo, sì, ma almeno il mio furto è servito a stare insieme. Adesso voglio solo che resti qui.
«Sai cos’è che mi inteneriva di te? Che eri dolce e un po’ patetico. Mi ricordavi me stessa, forse: patetica anch’io. Una volta, avrò avuto tredici anni, ho rubato una sigaretta dalla borsa di mia madre e lei se ne è accorta subito. Mi ha presa da parte in camera sua e mi ha chiesto di giurare sulla sua testa che non ero stata io. Quando ho giurato mi ha dato uno schiaffo… Ciao, Tiziano. Adesso scusa, ma non sei più tenero e nemmeno dolce. Sei patetico e basta».
Riesco solo a gorgogliare, la lingua del tutto intorpidita. Non posso credere che abbia il coraggio di andarsene così, lasciandomi fuori pericolo ma pur sempre su un letto di ospedale. Con che razza di mostro sono stato? Mi agito un po’ e Greta guarda verso il corridoio. Dalla sacca estrae il borsello (lo conosco bene, ormai), fruga negli scomparti a fisarmonica e prende una banconota da duecento euro: gialla, cangiante, intonsa. Si avvicina al mio capezzale e infila i soldi nel mio portafogli.
«Tieni, sono riuscita a prelevare dal bancomat, alla fine. Questi te li regalo io. Ciao».
Il cuore mi bussa in gola, ricomincio ad agitarmi. «Grøða…», riesco a dire. Quando esce, la sento parlare con l’infermiera, che entra trafelata, si china un’altra volta sul braccio e apre il rubinetto dell’oblio. Détour. Almeno questo è gratis.

 

Claudio Lagomarsini insegna Filologia romanza all’Università di Siena. Oltre a diverse pubblicazioni accademiche, suoi articoli di approfondimento sono usciti per Il Post, minima&moralia, Le parole e le cose. Come narratore, ha pubblicato diversi racconti per Nuovi Argomenti, Colla e retabloid, vincendo un contest organizzato dal Premio Calvino nel 2019. Nel 2020 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Ai sopravvissuti spareremo ancora (Fazi Editore).

 

Editing del racconto a cura di Daria De Pascale

Fonte immagine: Samuele Schirò su Pixabay

Copertina di Cara pace di Ginzburg

La primavera di due sorelle

Candidato al Premio Strega 2021, Cara pace (Ponte alle Grazie, 2020) è uscito quando l’umanità era tutta ripiegata nel silenzio del guscio domestico, al riparo dal pericolo invisibile del virus. Lisa Ginzburg ci parla attraverso la voce narrante di una giovane donna e il libro ha tre protagoniste: Maddalena, sua sorella e Roma. Nel presente Maddalena vive a Parigi, con il marito Pierre e i figli adolescenti, ma è attorno al destino della sorella minore Nina – che da New York minaccia di separarsi dal fidanzato Brian (forse il suo ultimo barlume di solidità) – che gravitano i suoi pensieri: verso di lei e verso Roma, la città dove le due bambine, nate ai Castelli Romani, avevano vissuto dal momento della separazione dei genitori. La madre Gloria e il padre Seba avevano saputo lavorare con la bellezza – lei per la moda, lui fotografo – ma, dopo una breve passione, avevano prodotto una desolazione capace di avvolgere anche le figlie. Per alleggerire il peso che le due bambine si sarebbero portate sulle spalle non era bastato l’affetto dei genitori, che pure avevano fatto quello che potevano: sono cresciute sane, aveva sentenziato il giudice tutelare, nonostante il caos.

I racconti della storia di famiglia si sviluppano in una serie di quadri, dove le figure delle due ragazze restano pervicaci nei ruoli e nel loro intreccio affettivo. Nel tentativo comune di creare un nido laddove c’è solo confusione, «Maddadura», seppure fragile di salute, è la roccia tra le due, mentre «Ninamolle» si permette di sperimentare fallimenti, azzardi e capricci. Così il lettore viene cullato dentro un’intimità domestica fatta di questi due opposti, declinata in piccoli dettagli, legami, cattive abitudini, proposizioni e aspettative, che si compiono o si disattendono in archi temporali lunghissimi. Si può sostare volentieri in questo sentire sospeso, aiutati dalle circostanze attuali.

Per Maddalena, guardare al passato dalla cara pace costruita in Francia produce prima un attrito innescato da Nina, con la quale si paragona da sempre, poi un contrasto tutto interno, scaturito dal centro della sua vita ovattata. Il sospetto covato nei confronti di Nina è una bomba a orologeria che difficilmente può disinnescarsi: alla fine scoppierà. Sarà una liberazione o una strage? L’apparente immunità della sorella maggiore rassicura ma non convince. I segni zodiacali e le confidenze con le amiche, infatti, non le sono bastati per codificare le ragioni di tanta sofferenza e per riparare i frammenti dello spazio-tempo dell’infanzia, reso prossimo dai continui messaggi di Nina. Si tratta della sua giovinezza o della loro giovinezza? Il lettore attraversa altri ricordi.

Dopo la separazione di Seba e Gloria, averle depositate nel cuore di Roma, vicino al Gianicolo, era stato come averle messe insieme in una prigione, che aveva accolto qualche riflesso dorato solo grazie alla mitezza della città nei loro confronti e alla presenza di un’istitutrice, Mylène. Le visite alternate dei genitori portavano continuamente squilibrio nella vita disciplinata alla quale la ragazza alla pari francese le stava addestrando, temprandole con lo studio e la musica e soprattutto portandole ad allenarsi dietro casa, a Villa Pamphili. Nina è sempre stata più veloce e aggraziata, anche nella corsa, ma Maddalena ha imparato meglio l’arte di costruirsi un carapace protettivo, nel quale accoglie, anche da adulta, la sorella minore. Sapersi occupare solo delle cose essenziali, non volgere lo sguardo più in là, essere miope all’occorrenza: tutte strategie rassicuranti, che vacillano dentro la nostalgia per gli alberi e il sole tiepido di Roma.

Salirà su quel volo Parigi-Roma? Per Maddalena oggi non c’è motivo per tornare a Villa Pamphili, se non il desiderio di riprendersi una primavera mai vissuta, solo apparentemente sepolta.

 

(Lisa Ginzburg, Cara pace, Ponte alle Grazie, 2020, 256 pp., euro 16, articolo di Martina Pietropaoli)
Il sonno Dali particolare

Quando i surrealisti spodestarono Anatole France

Nell’ottobre 1924, le più alte cariche istituzionali dello Stato francese si raccolgono attorno al feretro di Anatole France. Solo due anni prima, la Francia perdeva Marcel Proust. La tradizione si impoverisce gravemente, quasi si esaurisce con la morte dell’intellettuale che in vita era stato elevato allo status di somma autorità morale e letteraria. Tuttavia, non si preannuncia alcun passaggio di consegne. Sulla scorta dell’esperienza dadaista, una folta ciurma di ribelli prepara il golpe artistico. Poche settimane più tardi, André Breton pubblica il primo manifesto surrealista, presentando il movimento nella forma di «una metafisica della poesia, un mezzo di liberazione totale dallo spirito e da tutto ciò che gli rassomiglia».

La nuova coscienza collettiva si propone di mandare tutto in frantumi, pretende la frattura con il passato, progetta l’emancipazione generazionale dall’arte conservatrice e reazionaria. Per questa ragione, la morte di Anatole France viene celebrata dai surrealisti come la liberazione da un totem letterario. Contestualmente alla pubblicazione del manifesto, viene prontamente pubblicato e diffuso il pamphlet Un cadavre, un’azione corale condotta dai surrealisti intenzionati a presentare la nuova dottrina artistica, a seguito della quale la reputazione di Anatole France viene spodestata e gettata nel fango. Gli autori sono André Breton, Louis Aragon, Philippe Soupault, Paul Éluard, Joseph Delteil, Pierre Drieu La Rochelle. Ciascuno concepisce la propria invettiva contro France, Aragon la presenta sotto il titolo di Avez-vous deja gifle un mort? (“Avete mai preso a schiaffi un morto?”). Da simulacro dell’élite intellettuale francese, France subisce una metamorfosi che lo rende esso stesso un manifesto dei surrealisti. L’esito della metamorfosi è ovvero un bersaglio esanime esposto alla ferocia di Breton e dei suoi pari. La frattura è insanabile.

L’ispirazione surrealista persegue la follia e il sogno, lì dove si compie l’inibizione della coscienza. Ai valori tradizionali dell’arte, Breton preferisce l’automatismo psichico, inteso come il venir meno del controllo razionale quale condizione necessaria per il «funzionamento reale del pensiero». Muovendo dalla trascrizione dei sogni e dalla provocazione dell’inquietudine, l’automatismo psichico è la condizione ricercata dagli artisti che obbedendo a una rinnovata vocazione rinnegano il contenuto dell’arte. Circa un decennio dopo la pubblicazione del primo manifesto, Salvador Dalí lavora a Il mito tragico dell’Angelus di Millet, un trattato fondamentale della dottrina surrealista contenente le esperienze visive angosciose sofferte da Dalí e da questi elaborate tramite il metodo paranoico-critico, «capace di oggettivare anche le associazioni del caso oggettivo determinato dalle associazioni interiori». Dalí descrive «tutta una serie di visioni che cerco sperimentalmente e frequentemente di provocare in me, e che si producono anche in pieno giorno, nei momenti che sembrano più banali, inattesi, ma di fatto più particolarmente nelle circostanze in cui la mia attività è mobilitata da occupazioni meccaniche». Associazioni deliranti, stati di shock, immagini paranoiche si manifestano alla sensibilità dell’artista che di ogni altra forma d’arte tradizionale non ha più alcuna considerazione.

Il fluire di immagini generate ai confini della coscienza, provoca nella produzione letteraria di Breton l’effetto inconsapevolmente ricercato dello humor, che è possibile rintracciare anche nel cinema, dove la tecnologia messa al servizio dell’inventiva di Picabia e René Clair ha permesso la realizzazione del film Entr’acte, realizzato nel 1924 con il solo proposito di far ridere liberando lo spettatore dallo sforzo di elaborare razionalmente l’espediente ironico. A proposito della sceneggiatura di Picabia, René Clair osservò che il suo contributo aveva permesso la liberazione dell’immagine allo stesso modo in cui era già stata liberata la parola: «qui l’immagine, distolta dal suo compito di significare, acquista un’esistenza completa. Nulla mi sembra più rispettoso dell’avvenire del cinema di questi balbettamenti visivi» (v. “Caravanserraglio di Francis Picabia” di Antonio D’Ambrosio). Tra gli interpreti di Entr’acte figurano Marcel Duchamp, Man Ray ed Erik Satie. L’esperienza fotografica di Man Ray è insolita, sconcertante e ironica, proprio come la colonna sonora composta da Satie per l’occasione. Il surrealismo prevede che artisti diversi si avvalgano dell’automatismo psichico ricevendo immagini, suoni e movimenti possibili solo alla libertà spirituale ostinatamente ricercata. L’equilibrio tra reale e irreale che era già stato spezzato da Jonathan Swift, e prima ancora con l’ironica avventura di Astolfo alla ricerca del senno perduto di Orlando sulla Luna, viene nuovamente infranto. Si apre una voragine nella sensibilità degli artisti che uomini come Anatole France non possono capire. Di questa opinione era sicuramente Delteil, che in Un cadavre scrive: «quest’uomo mediocre è riuscito a estendere i limiti del mediocre. Questo scrittore di talento ha spinto il suo talento fino alla porta del genio, se non fosse che è rimasto alla porta».

Tuttavia, i surrealisti non ignorano le questioni delle quali si è fatta carico la tradizione artistica e letteraria. Piuttosto, giudicano sterile il contributo dato dalla generazione di intellettuali raccolti attorno ad Anatole France. La libertà resta la questione prioritaria, ma una volta posta sotto una seconda lente questa mostra la sua duplice natura: individuale e sociale. Quest’ultima da realizzarsi affinché si renda possibile la liberazione dello spirito. L’arte che rappresenta l’arte non può più essere ammessa, la sola forma artistica è l’azione liberatrice ispirata agli ideali rivoluzionari. «La letteratura è un’idiozia» scrive Rimbaud, richiamando l’attenzione verso i due riferimenti teorici inerenti la libertà sociale e individuale: Marx e Freud. Illuminando la surrealtà delle cose, e consentendo la liberazione dai tabù, l’automatismo psichico permette al surrealista di partecipare alla trasformazione del mondo.

L’irruzione degli autori de Un cadavre all’indomani della solenne cerimonia funebre di Anatole France, prevede il vilipendio dell’ideologia in cui si riconoscono gli intellettuali che patrocinano il defunto. Il loro interesse per il mondo viene considerato privo di autorevolezza, poiché pretendono di fornire l’interpretazione dei fenomeni socio-politici di un mondo che si rifiutano di frequentare. Scrive Delteil: «davvero non ci interessa. È indifferenza assoluta. Non aveva alcun ruolo nella nostra vita, nella nostra ricerca, nella nostra lotta. Viveva solitario, ermeticamente chiuso. In lui non c’è traccia di curiosità per l’ardente giovinezza, non un grido, non un gesto. Sì, ci interessiamo così poco di lui così come lui si è interessato così poco di tutti noi. Non è forse un nostro diritto?». E ancora: «ci dicono che sia stato il nostro Voltaire. Ma non è di Voltaire che abbiamo bisogno, ma di Rousseau, Bonaparte e Robespierre». Il nucleo della memoria collettiva francese è composto dall’esperienza rivoluzionaria, rievocata anche dai surrealisti per rivoltarla contro l’élite intellettuale giudicata sterile e impotente. I surrealisti celebrano fatti, proteste, condanne, neppure il suo credo socialista può assolvere Anatole France dalle loro invettive: «E che non ci parlino del suo titolo di comunista! Dove mancano i fatti, la parola è sterilità. Blanqui ha trascorso quarant’anni in prigione. Ammettiamo i comunisti solo in prigione». A chi riconosceva in lui l’ineguagliabile genio letterario di cui la Francia aveva bisogno, France rispondeva di ritenersi un civilizzato piuttosto che un genio. Su questo aneddoto torna Delteil, chiosando come la Francia non avesse bisogno di civilizzati: «noi abbiamo bisogno di barbari! Noi che abbiamo sete e fame, Anatole France è il regime degli antipasti».

Il conflitto mondiale che aveva traumatizzato la generazione perduta, aveva al contempo preparato il terreno per la rivolta culturale ispirata dal diffuso sentimento di sconcerto per la contemporaneità. Arte, religione, famiglia, patria, tutti i riferimenti ideologici e culturali erano stati messi alla berlina già dai dadaisti, ottenendo l’approvazione di chi voleva sottrarre l’arte agli artisti, svuotandola del contenuto sterile e riempendola del dolore che aveva scosso la sensibilità di chi era sopravvissuto per raccontare. Quando Delteil scrive come Anatole France non fosse in grado «di prendere l’uomo per le viscere», che «tutto è vuoto intorno a lui, i suoi libri scorrono tra le dita come sabbia», ricorda tanto le parole di Céline quando riteneva che gran parte della tradizione letteraria «puzzasse di gratuito», perché concepita da uomini che non avevano avuto il coraggio di mettere in gioco la pelle.

Parrebbe probabilmente una forzatura ogni tentativo di rintracciare un nesso tra il viaggio onirico intrapreso dai surrealisti e i voyage raccontati da Céline, specialmente quello di Guignol’s band, dove il lettore viene circondato da personalità surreali come quella del miasmatico fantasma Mille-pattes. Eppure, quella produzione letteraria era riuscita nel prodigioso tentativo di rintracciare il buco nero della nuova poetica francese, ambientando al suo interno le vicende umane, i suoi drammi, le sue pretese. Su “La Révolution Surréaliste” del 1° dicembre 1924 si legge: «sia la conoscenza che la razionalità non hanno più rilevanza, solamente il sogno lascia all’uomo il diritto alla libertà. Grazie al sogno, la morte perde il suo senso oscuro, e il senso della vita appare indifferente».

Copertina di Azzurri

Calcio e identità italiana

Io non mi sento italiano è notoriamente l’ultimo album di Giorgio Gaber, che nell’omonima canzone arriva all’impudenza di dire che non sente alcuna appartenenza. Uscì nel 2003, poco dopo la sua morte, nell’epoca in cui il presidente della Repubblica Ciampi dedicava grandi energie al rafforzamento del senso di orgoglio nazionale e al recupero dei simboli dell’italianità, nei confronti dei quali il cantautore milanese non lesinava un ironico e rispettoso scetticismo. Come mille altre volte, alcune sere fa davanti alla tv mi è capitato di domandarmi: Chissà cosa direbbe Gaber se fosse ancora vivo! In prima serata su Rai Uno la Notte azzurra, condotta da Amadeus e dedicata alla nazionale italiana di calcio in vista degli Europei, si era trascinata tra sketch comici, canti e balli improbabili, momenti trash, buoni sentimenti e dichiarazioni in favore dell’ambiente e del riscatto postpandemico che riportavano alla memoria le care e vecchie interviste alle concorrenti di Miss Italia.

Poi, il gran finale: calciatori, allenatore e staff tecnico davano la buonanotte agli italiani sgolandosi in una versione impetuosa e tripudiante dell’Inno di Mameli, quello di cui G.G. un po’ si vergognava. «In quanto ai calciatori / non voglio giudicare / i nostri non lo sanno / o hanno più pudore», rimava a proposito del Canto degli italiani, che i nostri giocatori non si erano mai sognati di intonare fino agli anni Novanta, tanto meno in una notte di gala e trash in diretta tv.
Impossibile, forse, immaginare davvero cosa avrebbe detto Gaber dinanzi a una simile esibizione (altro che pudore!), tante cose sono accadute negli ultimi 18 anni in questo paese bizzarro e stanco. Certo, pensando all’attuale ascesa di un partito di estrema destra che nel nome richiama apertamente l’inno nazionale ho avuto la tentazione di proseguire il ragionamento con la strofa successiva: «Mi scusi presidente / ma ho in mente il fanatismo / delle camicie nere / al tempo del fascismo». Le cose, però, sono “un po’ più complesse”.

Anzi, «quando si ha a che fare con il senso d’identità degli italiani, le cose sono sempre un po’ più complicate». Troviamo queste parole in Azzurri. Storie della nazionale e identità italiana (UTET, 2021), appena pubblicato dagli storici Paolo Colombo e Gioachino Lanotte. Un libro che raggiunge felicemente l’obiettivo di raccontare gli incroci fra nazionale di calcio e identità italiana in modo non banale e di offrire uno sguardo storico a tutto tondo attraverso le lenti dello sport più amato nel nostro paese (e in cui troviamo ampie riflessioni proprio sul ruolo dell’Inno di Mameli nelle vicende italiane, sia politiche che calcistiche).

L’italianità, per Colombo e Lanotte, assume i contorni che conosciamo – o ci illudiamo di conoscere – «nell’intreccio fra persistenti sentimenti campanilistici ed effimero amor di patria, nella granitica volontà di perseguire gli interessi personali invece che il bene pubblico, nell’esaltazione della fantasia creativa associata a un’apparente irrinunciabile pigrizia, nel pendolo che oscilla fra slanci entusiastici e passivo fatalismo, nella propensione a una stizzita autodifesa priva di orgoglio radicato», tutti temi che risaltano di una luce particolare e assai emblematica nella storia più che secolare della maglia azzurra.

Se ne traggono conferme in ogni epoca, dal fascismo alla democrazia, dalla Prima alla Seconda Repubblica, dal miracolo economico a Tangentopoli, dal Sessantotto agli anni di piombo, al riflusso degli anni Ottanta; dai due mondiali di mister Vittorio Pozzo negli anni Trenta al disastro con la Corea del Nord, dalle polemiche di Rivera all’urlo di Tardelli, da Gigi Riva a Roberto Baggio passando per Paolo Rossi, da Zoff a Buffon, da un’Italia-Germania gloriosa a un’altra. Visti in quest’ottica e con gli occhi di chi è storico di professione, gli elementi tipici del “carattere italiano” e della sua costruzione emergono nella loro spesso contradditoria essenza, depurati da quella patina di luoghi comuni e aforismi ammiccanti che ormai da decenni si portano dietro le riflessioni sul tema. È forse uno dei meriti più grandi degli autori, ma certo non l’unico.

Perché Azzurri è soprattutto un mosaico variegato di episodi e riflessioni, di tendenze e discontinuità storico-calcistiche: non un’opera esaustiva e sistematica ma una lettura che arricchisce e appassiona, un punto di riferimento destinato a durare. Nel capitolo sull’epoca fascista, per esempio, il racconto del rinnovamento delle strutture sportive e l’edificazione di nuovi stadi, che culminerà con la Coppa del mondo “italiana” del ’34, diviene punto di osservazione ideale sull’uso propagandistico dello sport da parte del regime.

Nonostante gli innegabili sforzi in termini di strutture e i trionfi della nazionale guidata da Vittorio Pozzo in panchina e Meazza, Piola e Ferrari in campo, il tentativo fascista di nazionalizzare il mondo pallone finì per scatenare una paradossale reviviscenza delle identità calcistiche locali, una sorta di resistenza culturale sottotraccia. Allo stesso modo, in un altro capitolo le notti magiche di un nuovo Mondiale italiano, ovviamente nel ’90, divengono una sorta di canto del cigno della Prima repubblica, in cui lo spirito edonistico degli anni Ottanta e le “truppe d’appalto” tipiche del nostro modello di «sviluppo non governato» (Crainz) celebrano l’ultimo trionfo, tanto effimero e illusorio quanto il destino di stadi realizzati per l’occasione quali il San Nicola di Bari e il Delle Alpi di Torino.

Protagonista dei capitoli centrali, dal taglio maggiormente “verticale”, è invece il rapporto tra calcio e cultura popolare. Il pallone ha toccato, e molto spesso segnato, l’evoluzione e l’impatto sulla società di radio, tv, giornalismo, letteratura, cinema, musica, contribuendo a rielaborare, se non l’identità, almeno la mentalità (e la lingua) italiana– come dimostra la sorprendente e ricchissima rassegna proposta nelle pagine di Azzurri.

La terza parte si concentra più direttamente sul senso dell’italianità, in particolare attraverso il filtro di tre opposizioni dialettiche: patriottismo-campanilismo, italiani-stranieri, vittoria-sconfitta. Davvero fulminanti alcune delle intuizioni sulla scorta di quest’ultimo doppio binario: se Silvio Berlusconi diviene perfetto rappresentante degli «atteggiamenti italiani in caso di débacle: autocentrato, autocommiserante, tutt’altro che consolatorio ma pur sempre saldo nell’assimilare tra loro Paese reale, immagine ideale e nazionale calcistica», il «Paolo Rossi capocannoniere dell’Italia vittoriosa nel 1982 è un perfetto emblema della nostra identità nella vittoria»: mingherlino, reduce del calcioscommesse e quindi mal visto da molti, «deperito, sciupato, bersagliato dalla stampa specialistica e inseguito da maldicenze di ogni tipo… E poi, il trionfo. Non crediamo ci sarà mai un simbolo tanto denso e potente della nostra capacità di perenne rinascita dalla miseria».

Immersi nell’opera di Colombo e Lanotte sembrerebbe quasi di poter leggere nei dualismi il vero motore della storia italiana – calcistica e tout-court , come la staffetta Rivera-Mazzola nell’indimenticabile spedizione azzurra a Messico ’70 mette in scena in maniera paradigmatica. Ma allora in cosa consiste l’italianità? Riflettendo sulla tesi degli autori secondo cui riusciamo a essere «intimamente, veracemente, originalmente italiani» nelle grandi vittorie e nelle grandi sconfitte, ma non «nel pareggio, cioè nella normalità, nella ricorrenza più scontata della quotidianità» vien da pensare che l’identità italiana sia davvero una media di Trilussa fra autodenigrazione e retorica a buon mercato. Un popolo senza vie di mezzo, per fortuna o purtroppo. Vinceremo dunque gli Europei, oppure faremo schifo?

 

(Paolo Colombo e Gioachino Lanotte, Azzurri. Storia della nazionale e identità italiana, UTET, Milano 2020, 336 pp. + 16 a colori, euro 19. Articolo di Paolo Ortelli)

 

Copertina di Chi se non noi di Urbani

La geografia emotiva di Germana Urbani

Il Delta del Po accoglie tutte le diramazioni fluviali pronte a sfociare nell’Adriatico settentrionale e occupa una buona parte del territorio che prende il nome di Polesine: nella provincia veneta, dove la vita è scandita da necessità e tradizioni longeve, Maria, la protagonista del romanzo Chi se non noi, di Germana Urbani (nottetempo, 2021), procede sospinta dai movimenti dei sogni che da bambina ha iniziato a fabbricare per il proprio futuro: catturare la bellezza della realtà, trasformarla in meglio, diventare architetto.

Al momento della narrazione, Maria si divide tra Ferrara (dove vive), Bologna (dove lavora all’interno di un importante studio di architetti), e il Delta del Po (dove torna ogni fine settimana da Luca, storico fidanzato). Nel ritmo ormai consolidato di impegni lavorativi e tragitti in auto per tornare a casa, una frizione ostacola quell’andamento frenetico ma tutto sommato lineare.

La relazione con Luca è meno solida di quanto si potrebbe supporre tra due persone che condividono la vita da un decennio e procede infatti a singhiozzi: non, come ci si aspetterebbe, per i problemi tipici di una relazione amorosa, ma per ragioni più profonde e oscure. Maria è da sempre la più slanciata, la più propositiva, la più generosa; Luca il più cauto, il più conservatore, il più doppio. Questa divergenza di carattere, che li ha condotti al punto dove sono, è il sintomo di un meccanismo poco oliato ma, in qualche modo, rodato, come quando si è abituati ad aspettare dieci minuti ogni mattina prima che l’automobile si decida a partire.

Questa forma di compensazione si traduce nel costante tentativo di Maria di mediare tra le loro diversità: lei deve spingersi laddove Luca nemmeno guarda, deve offrirgli un’opportunità a cui lui non ha neanche pensato. Deve, quindi, prevedere tutte le variabili e pianificare le mosse future. Offrirgli il suo stesso lavoro, ad esempio, per permettere a Luca di abbandonare l’idea di continuare a vivere nella provincia ed emanciparsi da quell’esistenza; rinunciare quindi al suo sogno; optare per soluzioni di serie B per sé stessa in modo che bisogni e richieste trovino il proprio equilibrio.

Come in ogni viaggio dell’eroe che si rispetti, Maria si trova suo malgrado costretta a varcare la prima soglia, che coincide con la decisione di Luca – piombatale addosso senza alcun preavviso – di interrompere la relazione. Sebbene non ci sia alcuna straordinarietà nella messa in scena di situazioni come questa, già ampiamente sviscerate da scrittori e scrittrici, è nella gestione di un evento che assume fattezze quasi luttuose che si scorge la voce decisa dell’esordiente Germana Urbani.

Urbani disegna una mappa emotiva nella quale le coordinate sono fornite dai sentimenti che, oramai parte integrante del paesaggio e da questo quasi fagocitati, evolvono e straripano come le acque di un fiume. Per spiegare quella natura tumultuosa si serve di una memoria episodica e visiva, che si muove sollecitata da stimoli esterni: il ricordo di uno scatto rabbioso di Luca, una rivelazione sul passato della famiglia sono resi sulla pagina attraverso la sovrapposizione di interiore ed esteriore. Il personaggio di Maria si adatta allo spazio che abita e lo fa proprio, rendendolo paludoso, torbido, scostante.

Nella ricostruzione dei fatti, però, la continua intromissione del passato nel presente narrativo detta il ritmo di lettura rischiando di ostacolarne il flusso. Alcuni salti temporali sono troppo sviluppati a discapito della storia primaria, che perde di efficacia. Il racconto della vita di Maria è già abbastanza solido senza la necessità di introdurre sottotrame, come quella relativa alla figura di sua madre: in un episodio particolarmente riuscito, alla protagonista vengono svelate le origini della donna, ma l’ampio spazio a esso dedicato appare slegato dal resto, poco efficace nel disegno generale del romanzo.

Chi se non noi è rivelatore e trascinante. In un climax di follia e dolore che assume contorni sempre più pericolosi, è convincente nell’esplorare una femminilità autentica, pregna di vergogna, di vendetta, di sofferenza, di morbosità.

«È questo il punto? Davvero? Solo questo? Farfalle nello stomaco, endorfine a mille e sei fuori? Ma come è possibile? Come può essere così?
Singhiozzi. Le spinte muovono lo stomaco. Devo andare in bagno. Mi tiro su. Dio, quanto mi fanno male le gambe, mi alzo in piedi e una scossa mi percorre dalla nuca all’ano. Puttana!
Apro la porta del bagno. Mi investe un tanfo acre come di pomodori neri di muffa. Schiudo la finestrella e getto l’occhio accanto al water. Assorbenti. Ho dimenticato di buttare la spazzatura. Non ricordo quando passa, devo guardare il calendario della differenziata.
Faccio pipì, mi brucia. Ho le mutande gialle e puzzano di urina. Dovrei lavarmi. Mi piego in avanti in attesa di decidere. I gomiti sulle ginocchia, le mani sulle tempie. Voglio solo dormire, dormire per tutta la vita. Guardo il lavandino. In bocca ho il pantano. Evito lo specchio, esco».

 

(Germana Urbani, Chi se non noi, nottetempo, 2021, 216 pp., euro 14, articolo di Giovanna Nappi)
Copertina di Contro l'impegno di Walter Siti

«La letteratura può dare cittadinanza a Satana»

Impossibile parlare dell’ultimo libro di Walter Siti – il pamphlet Contro l’impegno (Rizzoli, 2021) – senza partire dal penultimo, uscito nella primavera del 2020. O meglio: impossibile no, ma forse meno interessante.

All’inizio di La natura è innocente (Rizzoli), Siti scriveva infatti: «[…] raccontando soltanto la verità mi sento in gabbia […]. Saranno sufficienti i pensieri indimostrabili, le licenze poetiche, le prevaricazioni sui defunti? Le allusioni ambigue, le immersioni palombare, le inferenze per pura vischiosità narrativa, insomma, lo (parola ormai impronunciabile) stile?».

Dalla forma romanzo alla forma pamphlet, la preoccupazione teoretica di Siti non cambia e in questa seconda ondata del suo “sconforto militante” si appoggia alla forma del saggio breve (anche se, a ben vedere, tutta la sua produzione autofinzionale è sempre impregnata di lacerti metaletterari). Contro l’impegno è infatti la raccolta di saggi diversi, scritti in vari momenti degli ultimi anni e apparsi dapprima come long form e editoriali su riviste e quotidiani, tutti foggiati dalla volontà di salvaguardare la letteratura e la letterarietà dei testi. Perché, come recita il fulminante inizio di uno dei capitoli, «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti».

Ci si chiederà, forse, chi si stia adoperando per questo crimine, chi sono cioè quegli scrittori e quelle scrittrici, quelle figure intellettuali che oggi «si comportano con la letteratura come molti maschi si sono sempre comportati con le donne: la esaltano pur di non prenderla sul serio».

Se in La natura è innocente si poteva indovinare un nemico astratto e trasversale nella produzione letteraria che di continuo stringe un patto diabolico con il linguaggio denotativo e semplificato che intende la scrittura come monocorde trascrizione, in questo pamphlet i contorni sono più nitidi, il referente polemico è più empirico, e le questioni da dirimere si dispongono per cerchi concentrici.

La ricognizione dell’esistente estetico è dispiegata su più fronti e si farebbe un torto a pensare che cultura alta e cultura bassa vengano divise, nell’analisi di Siti, da un crinale informato di snobismo: da Roberto Saviano a Michela Murgia, passando per l’autrice bestseller Valérie Perrin, alle stereotipanti narrazioni sui migranti, fino al modello di letteratura empatica e accogliente di autori come Gianrico Carofiglio e la poesia social di Franco Arminio, per arrivare al Weinstein di Emma Cline raffigurato in Harvey, è il caso di dire, con un’espressione popolare, che ce n’è per tutti e tutte. Non da ultimi: i talk politici, Non è la D’Urso e il Grande Fratello, il ruolo giocato dalle piattaforme nel processo di narrativizzazione delle vite di tutti («Facebook è adesso il grande libro della storia umana»).

Walter Siti opera come mirabile punto d’intersezione tra il pop e il colto: con una serietà adamantina, passa agilmente dalla Commedia dantesca alla disamina di un rotocalco Mediaset, accordando gli strumenti del mestiere di critico sulle frequenze del prodotto di volta in volta vivisezionato.

In questo senso, Siti è una “bestia rara” nel panorama culturale nazionale: ex normalista e professore universitario, è dall’inizio della sua produzione che il rigore analitico viene equamente distribuito nello spettro che va dalla sua ossessione per i corpi dei bodybuilder alla curatela del corpus pasoliniano.

Il suo vitalismo è radicale nel prendersi la briga della complessità dell’umano, così come la sua produzione letteraria non scarta di lato quando la lingua interiore chiama a far esistere nero su bianco possibilità esistenziali per molti irricevibili, come sono i temi dell’incesto, delle fantasie pedofile, della prostituzione d’alto borgo, del desiderio incontenibile.

Inoltre, nel suo mestiere di critico Siti fa quello per cui i critici dovrebbero esistere e prosperare: guarda ai testi al di là della loro ideologia di riferimento, della public persona autoriale («Le opere letterarie si devono valutare per ciò che sono o per ciò che i loro autori sono diventati?»), e delle ricadute politiche.

La sua militanza letteraria antiumanistica obbedisce a concetti come quelli di espressione formale, qualità, credibilità ed effetto di realismo del testo letterario: questioni che, ad oggi, sembrerebbero essere un po’ demodé.

È una militanza, quella di Siti, che si scaglia contro pericoli tanto formali quanto contenutistici che si possono schematizzare grosso modo così: la questione dello stile e il dibattito sul ruolo sociale della letteratura.

E tuttavia, dal momento che «In generale in tutta la storia della letteratura è sempre stato chiesto a quest’ultima di essere morale ma la complessità non veniva scoraggiata», tra questi Scilla e Cariddi – “dover rappresentare il bene” e “dover semplificare la forma” – Siti mostra più sospetto rispetto alla questione dello stile «ormai gravato da uno stigma morale», e in generale rispetto al fatto che molti autori e molte autrici oggi preferiscono «il clamore dell’impegno pubblico alla privata vergogna dello stile».

Il minimo comune denominatore della renaissance della non-fiction narrativa, incarnata appieno da Saviano (ovvero la letteratura che si “giornalistizza”), sembra essere la volontà di scrivere in modo oggettivo, di esprimere una scrittura non soggiogata da pulsioni, ossessioni, idiosincrasie, come se a monte ci fosse l’idea che la soggettività depauperi e non arricchisca.

Questi due campi epistemologici – giornalismo e letteratura – andrebbero salvaguardati nelle loro specificità, perché «Ciò che il giornalismo militante fa contro la repressione, la letteratura lo fa contro la rimozione inconscia»: la letteratura, lungi dal doversi rendere oggettivo-giornalistica, si nutre di una epistemologia “libera”, adogmatica e che prospera nello smarrimento, e va da sé che chi legge, di volta in volta, possa provare sconforto, disagio, disgusto: «il lettore deve essere manipolato e se questo non lo aiuta a vivere, tanto peggio per il lettore».

La concezione moralista – e non morale – di chi è convinto che la letteratura debba essere edificante e avere uno statuto netto, stando “dalla parte giusta”, viene fermamente messa alla berlina da Siti: «[…] io penso che la letteratura possa spingerci all’odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità; che serva a mettere ordine nel caos, ma anche caos nell’ordine. Politicamente la letteratura è sempre inaffidabile».

Forse “politicamente” la letteratura è davvero inaffidabile e non impugnabile, eppure mi domando: esiste qualcosa di più politico che sovvertire abituali e preconfezionati schemi di pensiero per avvicinarsi alle sfumature dell’Altro diverso da sé? Un Altro che può essere colpevole, abietto, deprecabile: lo si vede bene nel capitolo che Siti dedica alle narrazioni italiane degli ultimi anni sui migranti, i quali sono spesso ritratti nella loro dimensione di vittime, buoni e vulnerabili, e molto meno spesso presi sul serio come soggetti reali capaci di provare una gamma infinita di emozioni. Citando Insegnare al principe di Danimarca di Carla Melazzini: «Non è corretto ridurre i poveri al ruolo di vittime… esentandosi dal peso della rabbia e dell’odio che allo status di vittime si accompagna».

Pensare, tuttavia, che il testo conduca verso un vicolo cieco di nichilismo sarebbe sbagliato: la letteratura ha la facoltà di sostenere cause etiche e/o politiche senza mortificare le proprie potenzialità conoscitive.

Così come in Vite che non sono la mia di Emanuel Carrère abita «l’assoluta onestà intellettuale ed emotiva, la naturale incapacità di aderire agli stereotipi», anche «stratificare il testo stesso come una struttura dialettica perennemente aperta al dubbio» nonché «accogliere una Parola che non conosciamo ancora» – non ingabbiando il testo nella lingua standard, la “lingua-per-letteratura” – sono il viatico proposto da Siti.

Per me la cattiva notizia è che non sembra affatto facile. Quella buona è che diagonalizzare lo sguardo e non lasciarsi andare alla compiacenza a tutti i costi è l’unico modo per difendere la letteratura.

 

 

(Walter Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli, Milano 2021, pp. 272, euro 14. Articolo di Silvia Gola)

La prima volta di Vasco Brondi

La storia di Le luci della centrale elettrica è ufficialmente finita. In parte lo era già, da Costellazioni. In maniera ufficiosa. I compromessi raggiunti con il terzo album e la mediocrità di un lavoro come Terra erano sintomo che qualcosa si era spezzato, che qualcosa stava già cambiando. Via Le luci della centrale elettrica, ecco Vasco Brondi e Paesaggio dopo la battaglia.

I primi due album (Canzoni da spiaggia deturpata e Per ora noi la chiameremo felicità) sono stati delle folgorazioni nella musica italiana, due  pietre angolari all’interno di un sistema che stava mutando e che sarebbe cambiato radicalmente in pochissimo tempo. Ultimo afflato di un mondo che stava scomparendo.

Che lo si odi o lo si ami, è impossibile non riconoscere in Brondi un posto fondamentale musica italiana, la sua scomposizione della realtà, del suo lessico, la capacità di rimodellare, di elasticizzare il modo di raccontare la vita e le sue esperienze, la politica mischiata con le miserie delle esistenze individuali, l’incomunicabilità, le metafore e le immagini che descrivevano il tutto in una iper dimensione; una chitarra che non sembrava solo una chitarra e un’architettura musicale secca, quasi austera, cupa.  Colonna sonora di una distopia che sembrava imminente. Non c’era e non c’è nessuno che sia riuscito a fare quello che ha fatto Le Luci della centrale elettrica nel modo in cui l’ha fatto Le Luci della centrale elettrica.

Vasco Brondi non potrà più avere quel peso specifico che ha avuto con i suoi primi due lavori: un passato è cristallizzato e messo nei libri di storia. In quel momento era riuscito a raccontare e a raccontarsi con dei codici nuovi,  captando un tempo e uno spazio che ancora non c’erano, e che ancora non ci sono,  figlio di una tradizione musicale che si metteva di traverso nei confronti di quello che era il qui e l’ora.

Poi è arrivata una stabilizzazione, una normalizzazione, il compromesso palese con il mercato: Costellazioni con dei momenti simil Coldplay post X&Y, che cozzavano con quello che Le luci erano e rappresentavano, per poi precipitare in Terra. Lo si vedeva anche dai suoi live: dalla postura con la chitarra prima, alle corse alla Chris Martin poi. Vasco Brondi non era più Le luci della centrale elettrica e Le Luci della centrale elettrica non poteva più esistere.

Non fare un discorso di continuità tra Le luci e Vasco Brondi è, comunque, impossibile. Paesaggio dopo la battaglia non arriva a caso, non è scisso da quello che è stato, è figlio di tutta la sua esperienza, ed è un racconto dove sono state bilanciate in maniera funzionale le due fasi. Non è più evidente quel fuoco degli esordi, ma non sembra vagare senza sapere il dove e il come, appigliandosi quasi unicamente a input che arrivano dall’esterno – vedi mercato.

Ci abbracciamo” è l’esempio più evidente di una nuova capacità di scrivere un pezzo che possa avere delle componenti più immediate senza essere smaccatamente venduto. Tutto l’album oscilla in un mood malinconico in cui  possiamo riconoscere la materia primordiale di Brondi, dove solo raramente emergono delle dissonanze di cui non si sente la necessità  (il coro da stadio che caratterizza “Mezza Nuda“).

Ci sono momenti alla De Gregori (“Paesaggio dopo la battaglia“). Singoli esperimenti dove certe pulsioni degli esordi tornano prepotenti (“2600 giorni” e soprattutto “Chitarra nera“, brano migliore di tutto l’album), per poi accontentarsi di alcune soluzioni  (“Due animali in una stanza“, che ha un certo andare che ricorda Dimartino, o “Luna crescente“), o momenti addirittura corali come il walzer “Adriatico“.

Paesaggio dopo la battaglia è un album che ci restituisce Vasco Brondi su buoni livelli e che ci ricorda perché rimane uno dei personaggi fondamentali della musica italiana. Questo cambio di muta è un passaggio fondamentale su cui ricostruire una carriera che stava prendendo una strana direzione.

Copertina di Nuovissimo testamento di Cavalli

La responsabilità delle emozioni

In un reparto dell’ospedale dello stato di DF – il più celato e spaventoso, quello dedicato ai Disturbi affettivi – sono ricoverati alcuni pazienti. Manlio Cuzzocrea, che ha pianto per nove giorni di seguito, senza dormire né mangiare, consiglia a Fausto Albini, l’ultimo arrivato, di imparare in fretta il senso della misura, e cioè cosa gli conviene fare e cosa non fare: se vuole uscire da quel posto orribile, infatti, è bene che si comporti a modo fin da subito. Fausto è svenuto dopo aver disegnato un cerchio sulla sabbia, gesto che gli ha riportato in mente qualcosa, forse l’abbozzo di un’emozione e quindi di una colpa.

In reparto ci sono anche Andrea e Angelo, responsabili rispettivamente di aver letto dei libri e sognato la propria madre. In ognuno di loro qualche meccanismo deve essersi inceppato: il vaccino iniettato agli abitanti di DF alla nascita, che cancella sentimenti, emozioni ed empatia – e che quindi garantisce una società più ordinata, felice e produttiva –, non ha funzionato bene. Rinchiuderli, curarli, e in casi estremi condannarli, è l’unico modo per evitare uno scoppio di emotività incontrollata. È proprio tra le mura dell’ospedale, però, che si diffonderà il germe di una rivolta; rivolta che esiste ma che all’inizio i protagonisti non riusciranno a capire cosa rappresenti, se voglia di vivere, rabbia, oppure disperazione.

L’ultimo romanzo di Giulio Cavalli, Nuovissimo testamento (Fandango Libri, 2021), è una distopia atipica. Già il titolo, con il suo esplicito richiamo alla seconda – e discordante rispetto alla prima – parte della Bibbia, rivela come il cuore del libro sia la rottura, la violenza – e la speranza – insita nel cambio di paradigma, nell’annuncio di qualcosa di totalmente nuovo. Anzi, nuovissimo: il monito del superlativo mostra che ogni rivoluzione – o rivelazione – ha bisogno ciclicamente di essere riaggiornata, o meglio ricordata, ribadita.

A DF tutto è studiato nei minimi particolari per evitare l’emergere spontaneo di emozioni: matrimoni e amicizie sono stabilite dall’alto e ruotano periodicamente, mentre i bambini vengono separati alla nascita dai genitori; le inclinazioni lavorative sono decretate dagli algoritmi del governo; la società è divisa in livelli, e avanzare di classe sembra l’unico – per quanto imposto – desiderio presente nei cittadini. Letteratura, musica, arte ovviamente sono bandite. Perfino i palazzi hanno una tonalità grigia e triste, pensata anch’essa a mo’ di anestetizzante. La prosa di Cavalli, ossessiva e a tratti volutamente meccanica, racconta con un realismo paradossale questo universo da incubo:

«Le abitazioni degli abitanti in classe cinque di DF erano tutte a due piani, tutte dipinte all’esterno di grigio quattrocentoventotto, così come i muri interni. La casa era composta da un ingresso stretto e lungo, a destra una mensola grigia quattrocentoventidue, per svuotare le tasche, a sinistra un attaccapanni per giacche e cappelli grigio quattrocentoventidue, poi un salone centrale arredato con un divano angolare nero settecentoventisette, un tavolinetto basso in plastica nero settecentoventisette, una televisione che per gli abitanti di classe cinque era di quarantanove pollici e un vaso di fiori finti con gambo verde trecentodue e petali verdi trecentosedici, colori utili al rilassamento defatigante […]».

L’utilizzo martellante delle ripetizioni, la sintassi ipotattica e la punteggiatura fluida e spesso mancante esibiscono linguisticamente la fallacia principale del progetto politico alla base di DF: una società priva di emozioni, infatti, è la più ossessiva e morbosa che si possa immaginare. La freddezza inscenata allo scopo di annullare ogni malattia possibile è in realtà una malattia essa stessa. Il merito maggiore della prosa di Cavalli è quello di agire direttamente sul contenuto, svelandolo e perfino modificandolo; la sua scrittura è debitrice di Bolaño e soprattutto di Saramago: come nei romanzi dello scrittore portoghese (si pensi in particolare a Cecità o Le intermittenze della morte), in Nuovissimo testamento a dominare è il racconto corale. La scelta di alternare costantemente personaggi e punti di vista, di raccontare la storia attraverso una sorta di voce molteplice, che si spezza però in mille direzioni, è vincente, perché amplifica e al contempo contrasta l’ossessività della lingua e della vicenda.

Nuovissimo testamento, d’altronde, è un romanzo tutto costruito sui paradossi: ogni immagine, ideologia, emozione, possiede per Cavalli un volto segreto, una possibile lettura antitetica. Quando le Brigate Sentimentali – questo il nome del gruppo rivoltoso che, partito da quell’orribile reparto di ospedale, decide di risvegliare con ogni mezzo l’empatia negli abitanti di DF – compiono un “attentato” sparando a tutto volume in metropolitana la Sinfonia 5 di Beethoven, il risultato è sconcertante: la gente, scioccata da quell’inaspettato turbinio di emozioni, quasi impazzisce; uno si cava gli occhi, altri finiscono schiacciati da un treno – c’è anche chi, però, rimane paralizzato in balia dell’estasi.

Un personaggio pieno di contraddizioni è viceversa il presidente di DF, Andrea Bussoli, inquietante rappresentazione del potere: mentre infatti il popolo conduce la sua esistenza sedato, non è così per la classe governante, che, trincerata in una cittadella, non ha affatto rinunciato alle emozioni. Eppure, nei momenti di crisi che seguono ai “focolai di empatia”, il presidente sembra ripetutamente non reggere l’ansia e la paura che sono la controparte del suo stato di privilegiato; è Bussoli stesso, in fondo, a desiderare che gli venga somministrato il vaccino, che anche lui possa smettere di “sentire”.

Dopo Carnaio, con cui era stato finalista al Premio Campiello e aveva già raccontato violenze e disumanità del presente, in Nuovissimo testamento Cavalli continua la sua straniante esplorazione narrativa dei mali della contemporaneità: in una società come la nostra, basata sulla ricerca dell’emozione a tutti i costi, la scelta dello scrittore di dipingere un mondo privo di empatia è più coraggiosa, e originale, di quanto si possa credere. Cavalli mostra infatti che il possesso della libertà comporta una grande dose di fatica, e conduce a varie contraddizioni: per essere liberi bisogna assumersi delle responsabilità, accettare anche delle brutture. Sentire, insomma, fa malissimo, ma è necessario. Il sentimentalismo spicciolo però, le emozioni usa e getta da cui siamo circondati – o meglio imprigionati, asfissiati non meno degli abitanti di DF –, non hanno niente a che spartire con le sensazioni contrastanti e complesse che assalgono i personaggi di Nuovissimo testamento una volta liberi dal giogo del vaccino. L’apatia di DF assomiglia a quella della nostra società, in superficie colma di emozioni (false e in fin dei conti sedative), ma nel profondo mostruosamente ipocrita.

Giulio Cavalli ha insomma ripreso alcuni topos della letteratura fantascientifica e distopica per poi complicarli, evitando ogni soluzione facile: la visione del mondo di Nuovissimo testamento è inquietante, a tratti spietata. Sul finale d’altronde il libro sprofonda in un pessimismo disarmante e per questo realistico; quello dello scrittore non è un semplice monito, quanto un fedele ritratto del presente. Una cronaca dei meccanismi profondi piuttosto che una mera previsione. Proprio per questo la speranza – che nel romanzo assume vari nomi: lotta, rivolta, empatia – si coglie costantemente tra una riga e l’altra; e non potrebbe essere altrimenti, perché Nuovissimo testamento è un libro politico nel senso che è vivo, che smuove il lettore, lo stimola all’azione.

 

(Giulio Cavalli, Nuovissimo testamento, Fandango Libri, 2021, pp. 288, euro 19, articolo di Claudio Bello)