[IlLive] The Kilowatt Hour @Auditorium Parco della Musica, 22 settembre 2013

E al sessantesimo minuto il flusso sonoro cessa, si spengono gli schermi e resta il silenzio. Qualche secondo di esitazione e arriva l’applauso, quasi di circostanza, si accendono le luci, i tre protagonisti sul palco ringraziano e vanno via. Niente bis come di prassi nei concerti. D’altronde, quello cui abbiamo assistito non è stato un show musicale, ma l’esposizione di una videoinstallazione sonora lunga un’ora. La platea della sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma era piena, anche se il teatro più grande della struttura ideata da Renzo Piano non era certamente soldout.

Gli appassionati capitolini del rock più sofisticato sono accorsi al nome di David Sylvian, l’ex leader dei Japan, l’autore di memorabili dischi come Brilliant Trees, Gone to Earth, Secrets of the Beehive, campione del glam rock e ricercato sperimentatore sonoro con progetti solisti di rock ambient, come le celebri collaborazioni al fianco diRobert Fripp e Ryuichi Sakamoto.

Niente di tutto questo nel progetto The Kilowatt Hour andato in scena domenica 22 settembre a Roma, che ha visto invece Sylvian accompagnato dal polistrumentista austriaco Christian Fennesz  e dal guru dell’elettronica sperimentale Stephan Mathieu.
 


Sylvian ci ha abituato nel corso della sua quasi quarantennale carriera a percorsi sonori sperimentali, inusuali, in cui la musicalità viene tradotta in flussi di note che evocano immagini e tragitti anche molto intimisti. Ma la musica, intesa come sequenza di note e ritmica, e la sua splendida voce piena e soave allo stesso tempo, sottolineavano le immagini che la mente creava e richiamava. Sul palco del progetto Kilowatt Hour ci sono tre grandi tavoli da dj, con quattro Macbook Pro, dei mixer, una chitarra elettrica, un paio di campionatori e un pianoforte a coda.

Sullo sfondo tre grandi maxischermi che proiettano immagini digitali, onde colorate, giochi elettronici di onde e flussi. Non foto, nè immagini nette. A parte una luna che affiora in dissolvenza a un certo punto e un evocato simil-campo di grano formato in realtà da onde luminose che diventano spighe.

Ci si aspettava che la voce dell’ex Japan non dico cantasse, ma almeno sottolineasse o “firmasse” qualche momento dello spettacolo. E invece arriva sì una voce, ma bassa, gutturale, quasi rauca e trasandata che trascina le parole, e che – in un inglese molto biascicato – legge, racconta storie di un viaggio, parla di redenzione, di morte, di malattia. È la voce, registrata, dello scrittore Franz Wright che recita poemi in prosa dal suo Kindertotenwald. Nel getto ininterrotto di suoni c’è spazio anche per il refrain di “Only the Lonely” di Frank Sinatra.

Dopo appena un’ora di questo onirico e depressivo supplizio sonoro in attesa che succedesse qualcosa, dico un suono, un acuto, un sussulto della musicalità che fu di Sylvian, lo show termina e tutti a casa. Carlo Verdone, grande appassionato di rock, si alza e si guarda intorno interdetto dalla sua prima fila. Non abbiamo avuto il coraggio di chiederglielo, ma l’opinione sul concerto era abbastanza intellegibile dal suo volto serio e spiazzato come mai lo abbiamo visto sul grande schermo. E dire che a noi la sperimentazione piace. Questa videoinstallazione però, pardon, questo concerto, a noi è parso un lungo, pervasivo, virulento e noiosamente spocchioso esercizio di stile.

“Z. La guerra dei narcos” di Diego Enrique Osorno

«Dopo aver iniziato a leggere l’articolo ti rendi conto che è uguale a quello che hai letto qualche giorno fa, e anche a quello che hai letto qualche settimana fa, e a quello dell’anno scorso e allora girerai pagina per conoscere altre novità. Massacri di ragazzini, crimini contro bambini, sindaci assassinati e giornalisti scomparsi […] sono talmente tante che il giorno dopo ce ne siamo già dimenticati». Le parole di Diego Enrique Osorno, tratte dal suo Z. La guerra dei narcos (La nuova frontiera, 2013), se da un lato tratteggiano lo stato d’emergenza che sta investendo il Messico negli ultimi anni, dall’altro fanno capire il motivo dell’allontanamento dell’autore da un giornalismo attraverso il quale «si alimenta nel lettore la sensazione – ingannevole e consolatoria – che il mondo giri troppo in fretta e che non ci sia il tempo materiale per fermarsi a fare ciò che una storia ben raccontata ti obbliga a fare: pensare». È con questa consapevolezza che Osorno ha intrapreso, anche con questo libro, la strada del giornalismo narrativo, prendendo le distanze dall’«attitudine statistica, da commentatori sportivi» con cui la maggior parte dei cronisti messicani affronta il tema della violenza legata al narcotraffico.

Ecco allora che il giornalista accompagna il lettore attraverso i territori nordorientali del Paese, negli stati del Nuevo León e del Tamaulipas. Un viaggio fatto di incontri e ritratti che fanno luce da una parte sull’isolamento delle amministrazioni locali, abbandonate da uno Stato troppo debole per intervenire; dall’altra sui rapporti che le legano ai cartelli del narcotraffico. Rapporti confusi che fanno sorgere il sospetto di legami tra amministrazioni locali, forze dell’ordine e narcos. Emblematico è il caso del sindaco di Santiago, in Nuevo León, ucciso dagli appartenenti a uno dei cartelli più potenti del Messico, gli Zetas, che sono di fatto il focus di questo libro. Un omicidio che alcuni interpretano come la punizione per l’ipotizzata collusione che legava il primo cittadino alla fazione opposta agli Zetas, il Cartello del Golfo, responsabile di una caccia agli uomini della polizia municipale, «collusi a tal punto con la criminalità organizzata (in questo caso gli Zetas, ndr) che non solo facevano finta di non vedere, ma  addirittura lavoravano per la criminalità compiendo arresti e portando le persone fermate in alcuni ranchos di loro proprietà».

La drammatica situazione che sconvolge il Paese e i suoi cittadini prende forma anche attraverso la narrazione della vicenda di un padre, un paramedico, che, girando di obitorio in obitorio, va alla ricerca dei corpi dei suoi due figli. «Cercare un figlio scomparso nello stato del Tamaulipas è come scendere agli inferi», scrive Osorno. «Quando il paramedico conobbe il presidente della Commissione statale per i diritti umani del Tamaulipas quest’ultimo gli chiese perché non aveva con sé almeno una pistola; la prima volta che andò a parlare con la segretaria del procuratore del Tamaulipas questa gli disse di lasciar perdere che non c’era niente da fare perché il Paese era in uno stato d’emergenza e che avrebbe fatto meglio a non mettere più piede da quelle parti. A San Fernando un altro funzionario della Procura gli confessò che nonostante arrivassero centinaia di denunce di scomparsa, non veniva istituita nessuna indagine. Che ognuno, a suo rischio e pericolo, doveva indagare da solo perché non c’era infrastruttura né il personale e, soprattutto, non arrivavano disposizioni superiori per aprire le indagini, nonostante il quartier generale dei gruppi in guerra fossero perfettamente individuabili».

Capitolo dopo capitolo Osorno tratteggia, inoltre, l’evoluzione del sistema dei narcos a partire dagli anni Settanta, mostrandone gli sviluppi fino agli ultimi tre anni (2010-2012), insanguinati dalla guerra tra la fazione guidata dal Cartello del Golfo e gli Zetas. Un viaggio nella storia che porta alla luce «la caratteristica fondamentale della criminalità organizzata in Messico», nata e sviluppatasi «grazie alle strutture dello stato, in particolar modo proprio grazie a quelle che in teoria esistono per combattere, appunto, la criminalità. Le gigantesche disparità di reddito e potere, insieme a fattori come lo scarso sviluppo della società civile, hanno favorito lo sviluppo delle condizioni che hanno portato il nordest del Paese a questa situazione». Dal reportage emerge l’affresco di uno Stato debole e colluso, che condanna all’isolamento le amministrazioni locali e che resta inerte di fronte ai problemi sociali del Paese. Questi, assieme alla crisi economica, sono il terreno fertile per lo sviluppo della criminalità in una società, che, priva di valori e assalita dalla paura, invoca soluzioni che scavalchino la legge.

(Diego Enrique Osorno, Z. La guerra dei narcos, trad. di Francesca Bianchi, La nuova frontiera, 2013, pp. 377, euro 15)

“La fattoria degli animali” di George Orwell

«Non doveva essere pubblicato», aveva duramente commentato parte di una certa intellighenzia all’uscita de La fattoria degli animali, titolo originale Animal Farm, di George Orwell, pseudonimo dello scrittore inglese Eric Blair.

Scritto a cavallo fra il 1943 e il 1944, il racconto cela la denuncia lucida e la satira poco velata del socialismo sovietico del tempo, ragion per cui fu respinto da quattro editori – la Russia era alleata dell’Inghilterra – e pubblicato solamente alla fine della seconda guerra mondiale.

Per una maggiore comprensione del substrato teorico, si rinvia alla prefazione al libro intitolata La libertà di stampa, in cui l’autore invita a sviluppare lo spirito critico, indispensabile, poiché «cambiare una ortodossia per un’altra non è necessariamente un progresso. Il nemico è la mente del grammofono, si sia d’accordo o meno con il disco che suona in quel momento».

Questa favola di esopiana memoria, ironica ma dal retrogusto amaro, è singolarmente attuale: proietta nel mondo animale dinamiche sociali e fantasmi comuni a ogni epoca, estendendosi all’analisi dei meccanismi del potere.

Il vento della rivoluzione agita la Fattoria Padronale, ribattezzata Fattoria degli animali dopo la cacciata del padrone-signor Jones da parte degli animali, stanchi di soprusi e angherie oltre ogni limite. In tutta la contea si diffonde rapidamente la prodigiosa notizia di una fattoria autogestita.

Ispirati dai principi egualitari dell’Animalismo sintetizzabili nella massima «Quattro gambe, buono; due gambe, cattivo», ormai affrancati e non più schiavi dell’uomo parassita e infingardo, i ribelli sognano la Repubblica («tornerà l’età dell’oro!», recitava il loro inno), un’utopia che si frantumerà presto nella dittatura armata dei maiali, i quali avevano inizialmente assunto la direzione della comunità per la loro intelligenza di tipo superiore.

Dopo un breve idillio, pertanto, il lavoro torna a essere faticoso, le razioni di cibo ridotte, vengono meno gli agognati diritti, anzi, nuovi privilegi – di pochi – si profilano all’orizzonte, ma nessuno o quasi sembra accorgersi dei mutamenti. La voce del verro Clarinetto – personificazione della propaganda di partito – fugherà ogni dubbio, in nome del bene comune.

Fra le righe, personaggi storici come Marx, Lenin, Stalin, Trotzkij, il capitalismo, le lotte della classe operaia, la degenerazione delle ideologie.

Il punto di vista di Orwell è espresso dal saggio asino Benjamin, tra i pochi protagonisti della storia a comprendere quanto stia accadendo, pur senza evitare l’irreparabile. Si tratta della «bestia più vecchia della fattoria e la più bisbetica. Parlava raramente e quando apriva bocca era per fare ciniche osservazioni […], non rideva mai».

Nel corso della narrazione, episodi comici – tra sermoni e orazioni, riunioni clandestine nel granaio, battaglie epiche e scaramucce… l’avventura dell’alfabetizzazione e la cieca speranza nei «campi eterni di trifoglio» del misterioso Monte Zuccherocandito, situato «oltre le nuvole»– si alternano a immagini grottesche o addirittura inquietanti, come quella di un membro della casta dominante che inizia a camminare sulle zampe posteriori, fino al surreale epilogo in cui alcuni animali, spiando da una finestra, restano atterriti di fronte alla scena che si materializza all’interno della casa colonica: «Era come se il mondo si fosse capovolto».

(George Orwell, La fattoria degli animali, trad. di Guido Bulla, Mondadori)

“Il ragazzo selvatico” di Paolo Cognetti

Dopo il chiacchierato Sofia si veste sempre di nero (minimum fax, 2012), Paolo Cognetti torna in libreria con Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo, 2013), in cui decide di abbandonare il racconto della storia di personaggi inventati per concentrarsi su una narrazione di tipo più personale. Il ragazzo selvatico infatti è l’autore stesso alle prese con una delle sue più grandi passioni: la montagna.

Quando la vita in città inizia a diventare insopportabile, quando la metropoli stessa, con le sue luci intermittenti e i suoi rumori, diventa ingombrante per un animo sensibile e assorto come quello di uno scrittore, Paolo decide di rifugiarsi in una baita alpina a duemila metri d’altezza. Qui, assaporando una vita senza ornamenti e senza artifici, entrando in contatto con i bisogni umani più puri ed essenziali, l’autore spera di ritrovare una smarrita serenità interiore e gli stimoli giusti per una scrittura più intensa e coinvolgente.

Ciò che ne risulta è, come si evince anche dal sottotitolo del libro, Quaderno di montagna, una sorta di diario di bordo di un’esperienza ad alta quota in cui l’io narrante annota scrupolosamente gli avvenimenti accaduti e li mette in relazione con il proprio stato d’animo. Nessuno dei fatti raccontati è di per sé un evento eclatante: l’incontro con una lepre, un temporale, una notte sotto le stelle, l’organizzazione di un orto. A rendere questi avvenimenti salienti è il confronto con la natura, con una forza tanto grande ma proporzionata alle potenzialità fisiche e mentali dell’essere umano, il quale spesso avverte la necessità di metterle alla prova e comprenderle per ottenere maggior consapevolezza di sé.

E nonostante lo sfondo del racconto sia dipinto del colore della solitudine, non mancano alcuni incontri con persone di sorprendente intensità, per lo più pastori che con la natura collaborano e dialogano ogni giorno: persone che per motivi diversi sono state portate a non avvertire l’eccezionalità di una vita scabra ed essenziale rispetto alla vita artificiale a cui ormai il cittadino moderno si è addomesticato.

L’altro colore dominante della narrazione è quello dello stupore che brilla a ogni passo su un sentiero sconosciuto, a ogni cambiamento climatico, a ogni incontro e a ogni emozione primordiale scaturita dal più apparentemente insignificante accadimento. Paolo si trasforma in un ragazzo selvatico per rigenerare il suo bagaglio emozionale, comprendendo che tale entità è l’essenza originaria che dimora dentro ognuno di noi, che ci permette di affrontare la vita stupendoci della bellezza e superando il dolore.

L’essenzialità sperimentata dell’autore durante questa avventura in montagna è ricalcata fedelmente da uno stile narrativo al limite della semplicità: il linguaggio è disadorno e la successione degli eventi lineare come in un diario a cui manca solo l’indicazione della data. Inoltre, Cognetti inserisce ingenti citazioni da altri scrittori piuttosto che complicare la sua prosa, come se volesse preservare anche la sua scrittura da qualsiasi virgola artificiale e preferisse quindi rimanere il più distante possibile da una pretesa letteraria: piuttosto che un libro destinato alla pubblicazione, sembra infatti di leggere, di sbirciare quasi, le intime confidenze del diario personale dell’autore.

(Paolo Cognetti, Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna, Terre di mezzo, 2013, pp. 104, euro 12)

Emmy Awards 2013, il canto del cigno di “Breaking Bad”

Cinque lunghi anni di attesa, prima di regalare alla legione di fan l’ultimo grande slancio di entusiasmo. Tanto è durato il digiuno di Breaking Bad prima di poter (finalmente aggiungiamo in molti) indossare la corona di migliore serie drammatica americana.

Dal 2009 al 2012, prima Mad Men e poi Homeland avevano messo le ruote davanti alla creatura di Vince Gilligan. Il 22 settembre 2013, a una settimana precisa dal  “series finale”, è arrivato quel meritatissimo riconoscimento agli Emmy Awards che in molti attendevano forse da troppo tempo. Quel primo, e purtroppo ultimo, premio per una serie con un eco spaventoso, capace di appassionare milioni di americani e di telespettatori oltreoceano come poche altre in precedenza.

Doveroso dedicare l’apertura al colosso AMC. Una menzione di merito è obbligatoria anche per Bryan Cranston e Aaron Paul, gli indimenticabili Walter White e Jesse Pinkman dello show. I mancati premi come migliore attore protagonista e non (andati rispettivamente a Jeff Daniels di The Newsroom e Bobby Cannavale di Boardwalk Empire) non intaccano la brillante interpretazione delle due colonne di Breaking Bad. A tenere ancora più alto l’onore ci ha pensato però Anna Gunn, che nei panni di Skyler, la moglie di Walter, ha ricevuto il premio come migliore attrice non protagonista.

L’altro sbalorditivo trionfatore di questa edizione è stato senza ombra di dubbio Behind the Candelabra, il film di Steven Soderbergh sulla vita del pianista americano Liberace interpretato da Michael Douglas, vincitore del premio come migliore attore per la categoria Miniserie/Film per la tv. Undici i premi vinti, tra cui quello come miglior serie della sua categoria e quello per la regia. I numeri danno la giusta dimensione al successo dell’opera di HBO, dato che Boardwalk Empire – la seconda serie più premiata dell’edizione 2013 – è rimasto inchiodato a quota cinque statuette.

Occhi puntati soprattutto per il futuro anche su House of Cards, la serie di intrighi politici del canale Netflix già vincitrice tre volte questa edizione e chissà, forse pronta per prendersi più onori dal 2014 in poi. La prima nomination tra i migliori show è sicuramente un primo passo verso il possibile successo. La presenza di Kevin Spacey nel cast non può che alzare le aspettative, e la direzione di David Fincher (già regista ad esempio di Fight Club) nei primi due episodi è valsa anche il premio per la migliore regia. Appuntamento da non perdere per gli appassionati italiani che potranno seguirla interamente doppiata sui canali Mediaset questo autunno.

Come lo scorso anno, a fronte di un paio di premi vinti in tutto è comunque American Horror Story a competere in più categorie di chiunque altro con le sue 17 nomination. La terza serie, Coven, è ai blocchi di partenza ed esordirà il 9 ottobre.

 

 

In ultimo, ma non ultimo, rimane il tributo regalato a James Gandolfini, l’indimenticato Tony Soprano dell’omonima serie, stroncato questa estate da un attacco di cuore a neanche cinquantadue anni. Il suo ricordo è stato portato sul palco da Edith Falco, che con James ha diviso anni e anni sul set nel ruolo di Carmela, moglie di Tony. Forse è meglio chiudere cosi, per lasciare un posto tra i migliori a chi questa stagione ci ha lasciato.

“Dieci giorni da Beatle” di Sergio Algozzino

Può un sogno diventare un incubo? Può il desiderio più bello tramutarsi in tenebra? Basta vedere cosa è successo a Jimmy Nicol per avere la risposta affermativa. Cosa? Non sapete chi sia? Ma come: era uno dei Beatles! O meglio: lo è stato solo per dieci giorni. Poi il sogno – o l’incubo – è finito.

Il periodo è stato però sufficiente per permettere a Sergio Algozzino di disegnare la bellissima graphic novel Dieci giorni da Beatle. Algozzino, qui disegnatore ma anche autore del soggetto e della sceneggiatura, ha più volte regalato il suo tratto a vicende riguardanti il mondo della musica: da Ballata per Fabrizio De Andrè (Becco Giallo, 2008), all’episodio su Ozzy Osbourne nel recente Hellzarockin’, sempre per Tunué.

Difficile quindi che un amante del rock non si conceda almeno una volta alla band per eccellenza e allo sterminato bacino di storie –  e leggende – che la riguardano. Agozzino – con la dedizione del fan e la precisione del narratore – ne sceglie una tra le più sconosciute, ma non per questo meno intriganti. Ovvero quella che ruota attorno a Jimmy Nicol, rispettato batterista session-man di alcune band degli anni Sessanta, che dopo aver suonato nel disco Beatlemania, viene scelto da George Martin per sostituire il malato Ringo Starr per alcune date del tour dei Beatles del 1964. Sì, lo so: sembra incredibile, ma se andata a cercare su internet, troverete tutte le prove fotografiche.

 

 

Una vicende del genere permettere all’autore di sfogare tutto il suo eclettismo stilistico. Il tratto è sempre finalizzato a rendere al massimo l’espressività dei protagonisti, riuscendo sempre a mostrare le tante e contrastanti emozioni e i pensieri di Jimmy Nicol e la complessità dei personaggi che incontrerà.

L’inizio è degno del più nostalgico e struggente degli amarcord: negli anni Ottanta due ragazzi entrano in un negozio di dischi. Uno dei due – fan sfegatato dei Fab Four – è euforico dell’acquisto: Revolver. Il fato vuole che il negoziante lo indirizzi verso quel signore in disparte con i dischi dei Beatles. Il motivo? Quello laggiù ha suonato con la band di Liverpool…

Cedendo poco alla volta alle richieste del giovane appassionato, Nicol racconterà la sua storia fatta di luci e ombre intensissime. Qui Algozzino dà il meglio di sé nell’inventarsi le soluzioni grafiche migliori e più originali, mostrando la scissione emotiva del protagonista. Analizzando in maniera cinica la giostra itinerante chiamata “Tour dei Beatles”, l’autore mostra lo spaesato batterista passare dall’euforia incontenibile dovuta alla possibilità di suonare con i suoi miti (e in contemporanea con la band più famosa della storia) e la delusione e l’amarezza nel constatare alcune realtà di quel mondo.

Il suo punto di vista sarà uno sguardo inedito sulle figure più celebrate del rock. E considerate che Nicol vive tutto sapendo anche la data di scadenza di quel sogno, che durerà fino al ritorno di Ringo. Alla fine del libro l’autore ci tiene però a spiegare che non si tratta di una biografia di Nicol. È più il suo modo di togliere dall’ombra della memoria una vicenda poco famosa che l’ha sempre affascinato. Una storia che, per quanto sempre sminuita dallo stesso Nicol, farà sempre parte di un mito più grande di lui.

(Sergio Algozzino, Dieci giorni da Beatle, Tunué, 2013, pp. 96, euro 13,70)

 

 

“Sacro GRA” di Gianfranco Rosi

Ritirando il Leone d’Oro alla 70° Mostra del Cinema di Venezia per il suo Sacro GRA (distribuzione Officine Blu, durata 93’), Gianfranco Rosi ha guardato negli occhi Bernardo Bertolucci, presidente di giuria, e ha detto: «Il documentario è cinema». È così che la vittoria di Rosi ha compiuto la rivoluzione iniziata con la partecipazione in concorso ufficiale di due documentari (l’altro era The Unknown Known) per la prima volta nella storia della kermesse lagunare. Riuscendo a imporsi su Hayao Miyazaki, Xavier Dolan e Alexandros Avranas, i veri papabili, i veri sconfitti, il docu-film di Rosi ha stupito e conquistato il pubblico (un po’ meno una critica sempre troppo esigente), italiano e internazionale.

GRA, sigla per Grande Raccordo Anulare, nonché cognome del suo ideatore, l’ingegnere Eugenio Gra: non è soltanto la più grande lingua d’asfalto che abbraccia la Capitale per più di settanta chilometri, ma è lo specchio stesso di una vita che continua a scorrere inesorabile, e sempre più nella pura indifferenza, un mondo completo e a sé rispetto alla città che delimita. Il lungometraggio di Rosi non è assolutamente il “solito” documentario su Roma.

In fondo c’è ancora un briciolo di speranza e di umanità. Pochi mesi fa, Paolo Sorrentino usciva nelle sale cinematografiche con La grande bellezza. Ci ha presentato la Roma impaurita e sperduta, che non riconosce più se stessa. «Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile», diceva Jep Gambardella. Rosi, invece, lascia parlare le immagini che si susseguono stringate. Cattura quello che è sempre stato sotto i nostri occhi, ma di cui non ci accorgiamo poiché è una realtà a parte. Lungo il GRA c’è il mondo stesso, fatto di storie, sensazioni, mortificazioni, ironia e dignità.

Pensando alle Città invisibili di Italo Calvino filtrate attraverso lo sguardo attento e sensibile di Pasolini, Gianfranco Rosi ha graffiato lo schermo adattando un genere, il documentario, troppo spesso sottovalutato. Non c’è alcuna colonna sonora se non lo stridere di freni e sirene di ambulanza. Il rumore di sottofondo è quello del traffico. La pellicola scorre e non vi è alcun commento e alcun giudizio. Solo punti di vista. Le vite qui si sfiorano e si incrociano. C’è l’anguillaro, che ricorda tanto l’Albertone nazionale, il nobile piemontese e sua figlia, il ricordo di un passato mai del tutto sopito, il barelliere e il rapporto struggente con il lavoro e con la mamma ormai sopraffatta dalla senilità. Gente normale che ogni giorno ci supera sulla terza corsia del GRA. Qui, su questa striscia senza fine, ognuno di noi ha fatto del Grande Raccordo Anulare il proprio sentiero. Per dove?

Sacro GRA è un film aspro, come lo sono i vicoli stessi, troppo spesso bui, della periferia di una metropoli come Roma. C’è del romanticismo in tanta amarezza, un romanticismo intriso di valori esistenziali e di darwinismo sociale. Si percepisce la lotta per la sopravvivenza. Il pessimismo crepuscolare cattura lo spettatore, ormai conscio che, al di fuori del proprio quartiere, della propria vita monotona, c’è un mondo, mai così reale. È un documentario vivo che lascia spazio solo a una riflessione intima, dinnanzi al lassismo della società contemporanea.

La macchina da presa non ha alcuna pretesa, nè tanto meno un obiettivo. Rosi riesce a catturare, con sguardo neutro, la vita degli individui che prosegue imperterrita sulle carreggiate di quest’asse che il regista ha percorso centinaia di volte nei circa tre anni di riprese a bordo del suo mini-van. Un ottimo film, da vedere e da provare, Sacro GRA canta con maestria la poeticità dei tempi moderni, del cemento armato. È l’incontro lucido e perfetto tra immobilismo, lentezza, decadenza, in confronto a un universo in rivoluzione costante.

 

(Sacro GRA, di Gianfranco Rosi, 2013, documentario, 93’)

 

“Il sale” di Jean-Baptiste Del Amo

Per capire l’atmosfera di Il sale di Jean-Baptiste Del Amo (Neo, 2013) basta rievocare la sensazione che solitamente ci trasmette un film drammatico francese un po’ lento, con ambientazione grigiastra e molto silenzioso. Uno di quei film di cui uno spettatore medio direbbe che non succede niente.

Il sale del titolo è quello marino della cittadina francese di Sète, la cui vita ruota intorno al porto e alla pesca, ma qui diventa anche metafora di ciò che incrosta e inaridisce le vite, i rapporti familiari, l’infanzia.

L’anziana Louise ha invitato a cena i suoi familiari, è emozionata, è contenta di sentirsi di nuovo in compagnia, ed è tesa: quell’incontro non sembra essere così consueto, i suoi tre figli hanno preso strade diverse e si sono irrimediabilmente allontanati. La prospettiva della cena mette tutti in agitazione e ogni capitolo del libro si occupa di mostrare il punto di vista di ognuno dei personaggi coinvolti, le preoccupazioni, i ricordi, i sentimenti nei confronti degli altri.

Jonas, il minore dei tre fratelli, ha avuto un’infanzia tormentata dalla brutalità del padre Armand, rude pescatore di origini italiane, che ha sempre respinto con violenza l’omosessualità del ragazzo.

Fanny è una donna depressa che non riesce a superare la perdita della figlia Léa e ha congelato ogni contatto con il marito e l’altro figlio pur continuando a condividere lo stesso tetto.

Albin è quello che porta più di tutti l’eredità pesante di Armand, cerca di essere un padre, un uomo e un marito ma tutto sembra crollare.

La morte e la sessualità sono i motori che trainano le esistenze di tutti i personaggi, sono il filo rosso che cuce i frammenti di ricordi fino a formare l’immagine di cinque individui e di una famiglia intera, con i suoi fantasmi. Temi che si sposano sotto il vessillo della malattia che aleggia direttamente o indirettamente su tutti i personaggi: l’AIDS del compagno morto di Jonas, la fetida invalidità del padre di Armand, il cancro dello stesso Armand.

Il romanzo è costituito da un interminabile susseguirsi di analessi che si irradiano da un grado zero quanto mai esile. Il tempo del racconto si inchioda però in concomitanza della narrazione di piccoli e torbidi episodi legati a una sessualità morbosa o traumatica, quasi a sottolineare una freudiana radice di tutti i mali. Tra questi episodi, la vicenda dei figli di Albin (durante un gioco di lotta, Jules si eccita e tocca il fratello cercando invano la stessa reazione) si colloca come una forzatura. E forzato risulta anche il personaggio di Nadia, la transessuale amica di Jonas.

Anche la lingua non è perfetta (almeno nella traduzione italiana) ma raggiunge un equilibrio nelle suggestive descrizioni dei luoghi.

Piacevole sorpresa, invece, in un racconto nel complesso non entusiasmante, è la narrazione del drammatico viaggio di Armand bambino che fugge insieme al padre e al fratello dall’Italia in guerra e, soffrendo la fame e la fatica, giunge in Francia. Quella traversata, infatti, appare come il germe della maledizione di tristezza, morte e insoddisfazione che condanna tutte le generazioni della famiglia, facendo di Armand il capostipite di legami familiari ruvidi come il sale marino che incrosta affetti flebili come il respiro di un moribondo.

Jean-Baptiste Del Amo è un giovane scrittore francese che con il romanzo Une éducation libertine, che gli è valso il Premio Goncourt nel 2009, è stato paragonato a scrittori del calibro di Balzac e Flaubert. Già premiato e promettente, manca forse alla sua bella scrittura il tentativo trovare una voce meno classica, che possa contribuire a dare alle nuove opere di valore anche una veste linguistica inedita e aprire la strada a un vero stile dei giorni nostri.

(Jean-Baptiste Del Amo, Il sale, trad. di Sabrina Campolongo, Neo, 2013, pp. 267, euro 16)

“Una. D’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” di AA.VV.

Pubblicato dalla casa editrice palermitana :duepunti, Una. D’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor è una riflessione a carattere nazionale «trascorso l’anno ufficiale delle celebrazioni tra rigurgiti di nostalgie risorgimentali, bizze separatiste e vuoto istituzionale». La volontà di un’ultima parola adotta come piattaforma la letteratura negli interventi di Giancarlo Alfano, Novella Bellucci, Clotilde Bertoni, Andrea Cortellessa, Davide Dalmas, Matteo Di Gesù, Stefano Jossa, Michela Sacco Messineo e Domenico Scarpa.

Nata dalle sollecitazioni di una giornata di studio presso la Società di Storia Patria di Palermo, l’occasione di questa requisitoria ad ampio raggio sui sottintesi attuali della parola “patria” coinvolge le autorità della nostra (e non solo) tradizione letteraria, alla ricerca di più chiavi di lettura per una storia in prospettiva del Risorgimento. L’Italia vista da italiani umili e illustri, da forestieri viaggiatori, prima e dopo l’Unità, al maschile e al femminile. Una ricerca ben variata ed esauriente, nonostante la vastità dell’argomento, supporta gli informatissimi interventi in nome di uno scontro ideale tra le due forze opposte che rendono immaginabile l’idea storica di nazione e come due poli opposti ne determinano l’unità, quelle due forze sono richiamate nella presentazione dell’opera e denominate con un anacronismo «retorica patriottica e antagonismo letterario».

Dati questi presupposti vengono a raccontarsi le storie dei celebri versi manzoniani a cui si fa riferimento lungo tutto il corso dell’opera come a un fil rouge, insieme a quelle più o meno note di De Roberto, Rebora, Forster, Pound, Alfieri, Leopardi, Hayez e molti altri autori e artisti legati per motivi noti o meno alla storia della nostra Nazione.

Una rappresenta in definitiva una buona occasione per raccogliere spunti di pensiero e approfondire en passant la conoscenza della storia letteraria nazionale beneficiando dell’esperienza di affermati professori e ricercatori universitari. Resta qualche dubbio sulla formula editoriale, che forse butta nel calderone troppe fascinazioni sperando che reagiscano fra loro in base a una formula non meglio specificata. Ne risulta una lettura a metà fra il divulgativo e l’accademico, il sereno e il battagliero, lo schierato e l’atono. A parte questa perdonabile impasse, vista la difficoltà del tema, un’utile raccolta di saggi in risposta a una domanda necessaria.

 

(AA.VV., Una. D’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor, :duepunti, 2013, pp. 208, euro 15)

“Max Perkins. L’editor dei geni” di Andrew Scott Berg

Com’è riuscito un editor a influenzare i modelli letterari di un’epoca?

Andrew Scott Berg ricostruisce la biografia di Max Perkins. L’editor dei geni (Elliot, 2013) presentando al grande pubblico un uomo che ha saputo forzare la natura conservatrice del suo editore, sfidare i gusti e le crisi economiche, pur rimanendo sempre nell’ombra.

Scegliendo consapevolmente una vita nelle retrovie, l’esperienza di Perkins insegna che un editor di successo sa rinunciare alla gloria personale per permettere al talento altrui di brillare: una lezione di umiltà e di empatia che si proietta nell’attuale panorama letterario come un esempio illuminante. Ed è soprattutto in questo preciso momento storico di ostentata crisi editoriale che la biografia di Perkins può entrare in contatto con lo spirito del tempo.  

L’editor americano lavorò assiduamente anche e soprattutto nel 1929 e proprio in quegli anni conobbe Thomas Wolfe, un esordiente che gli sottopose un romanzo lungo «tra le 250.000 e le 380.000 parole»e che riteneva non fosse giusto «dare per scontato che se un libro è molto lungo è un libro troppo lungo». E questa biografia di oltre 500 pagine che Elliot pubblica coraggiosamente, gli dà sicuramente ragione.

Anche Perkins, come gli editor di oggi, era parte di un’industria culturale, dove il cosiddetto Reparto Vendite ricopriva un ruolo molto importante. Tuttavia, non permise mai alla legge di mercato di imporre un diktat, piuttosto intese l’andamento dei consumi come indicatori di un gusto da mettere in discussione. Se Il grande Gatsby faticò a raggiungere la notorietà, Perkins continuò a sostenere Fitzgerald, nonostante i suoi logorii, le disavventure economiche, i problemi con l’alcool, la vita con Zelda. Perché la grandezza di un editor sta nel non perdere mai fiducia.  

Il libro offre l’opportunità di entrare in contatto con i tormenti di Fitzgerald, con il talento avventuroso e ribelle di Hemingway, con la sensibilità e la ritrosia di Thomas Wolfe. In una delle stagioni più prolifiche dell’America, questi autori illustri diventano i cooprotagonisti di una biografia avvincente e accurata.

Tra Fitzgerald che scriveva racconti di intrattenimento per guadagnarsi da vivere ed Hemingway che lo accusava di prostituzione, Perkins non si schierò mai. Divenne piuttosto il punto di riferimento di entrambi, battendosi per la pubblicazione di Di qua dal Paradiso e combattendo contro coloro che accusavano Hemingway di scurrilità, decidendo di rischiare sempre in prima persona senza temere insuccessi commerciali.

«Non accondiscenda mai al mio giudizio», scrisse Perkins a Fitzgerald. Questa particolare dedizione al talento altrui, trasformò i suoi autori nei migliori editor di se stessi. Senza mai suggerire apertamente le possibili riscritture, Perkins sapeva che la chiave del suo successo era nel feedback, nella capacità di rendere le sue parole uno specchio dove lo scrittore, riflettendosi, potesse riconoscere autonomamente i pregi e i limiti del suo lavoro: «prima che un autore distrugga le qualità naturali della sua scrittura: ecco il momento in cui un editor deve intervenire. Ma non un attimo prima».

 

(Andrew Scott Berg, Max Perkins. L’editor dei geni, trad. di Monica Capuano, Elliot, 2013, pp. 536, euro 35)

Memoracconti – Storie da ricordare: al via la seconda edizione

Dopo il successo della prima edizione, torna Memoracconti – Storie da ricordare, il concorso nazionale indetto da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí, e dedicato interamente alla narrativa in forma breve.

Racconti brevi (massimo 8000 caratteri spazi inclusi); racconti in italiano e a tema libero; racconti che sappiano intrattenere, far riflettere ed emozionare anche chi ha poco tempo per leggere.

La partecipazione è aperta a tutti, senza distinzione di nazionalità, sesso o età. Una giuria composta da scrittori, giornalisti e un librario, valuterà le brevi opere scegliendo tre finalisti.

Il premio previsto per l’autore del racconto primo classificato sarà costituito da: attestato di vincitore assoluto; pubblicazione del racconto sul sito di Flanerí; pubblicazione del racconto all’interno dell’antologia edita dalle edizioni Memori, con riferimento al vincitore all’interno del volume e nella quarta di copertina; assegno di euro 250,00 (duecentocinquanta).

Il vincitore unico sarà designato nel corso della serata di premiazione che si svolgerà alla libreria N’importe Quoi – via Beatrice Cenci 10 – Roma, venerdì 13 dicembre 2013.

L’antologia dei migliori racconti selezionati sarà presentata in anteprima presso lo stand Memori durante la fiera Più Libri Più liberi, dal 5 all’8 dicembre presso il Palazzo dei Congressi di Roma.


Come fare per partecipare? Basta scaricare e leggere attentamente bando, regolamento e liberatoria.


Il concorso scade lunedì 4 novembre 2013.


Per ulteriori informazioni e chiarimenti contattare:
info@flaneri.com
redazione@memori.it

[RockNotes] Le uscite di settembre

Brevi recensioni come fossero delle annotazioni. Nasce da questa idea [RockNotes], la nuova rubrica mensile di InMusica. Perché vista la mole delle uscite discografiche abbiamo deciso di segnalarvi tutti quei dischi che non verrebbero recensiti per questioni di programmazione, ma che meritano comunque di essere ascoltati. Si parte con le uscite di settembre.

Franz Ferdinand, Right Thoughts, Right Words, Right Action (Domino, 2013)

Come gli Oasis nel loro periodo d’oro: sapevi già quello che usciva, senza nessuna sorpresa, ma ne rimanevi soddisfatto. La band scozzese di Kapranos – giunta al quarto disco – non rinuncia alla sua formula vincente: chitarre in primo piano, ritmi avvincenti e ritornelli trascinanti. Niente di nuovo sotto al sole (a parte per qualche uscita di synth), ma è pur sempre un ispiratissimo indie-rock da mettere al massimo nelle cuffie.


Nine Inch Nails, Hesitation Marks (Columbia, 2013)

Avete mai provato a gettare un gatto nella lavatrice durante la centrifuga? Non fatelo. È stupido oltreché crudele. Il nuovo lavoro dei Nine Inch Nails assicura una stessa geometria circolare di perfide emozioni: derive anfetaminiche per cerebrali party underground. Sempre meno industrial, sempre più post senza mai essere stati nulla. Che sia questa la forza di Trent Reznor?


Marnero, Il Sopravvissuto (Dischi Bervisti / Sanguedischi / Escape From Today / Mother Ship / V4v / To Lose La Track / Fallo Dischi)

Il Sopravvissuto dei bolognesi Marnero, distribuito gratuitamente online, è la seconda parte di una trilogia dedicata al fallimento, iniziata col Naufragio Universale del 2010. Alcune tra le migliori etichette indipendenti italiane hanno collaborato alla pubblicazione del disco che segue il sopravvissuto nella ricerca di terra, sbalzato tra ondate hardcore, post rock e doom; la calma della risacca è sempre seguita dalla tempesta sonora. Ora non resta che aspettare la parte finale di un progetto tra i più interessanti nel panorama italiano contemporaneo.


Tired Pony, The Ghost of the Mountain (Fiction Records, Polydor Records)

Esistono dei rocker che non riescono a poggiare per un secondo la chitarra. Uno di questi è Peter Buck. Da sempre iperattivo con svariati progetti paralleli, dopo la fine dell’avventura R.E.M. non ha perso un secondo e ha sfoderato subito un omonimo disco solista. I Tired Pony sono un super-gruppo con lui alla chitarra e Gary Lightbody degli Snow Patrol alla voce. Intorno, gente del calibro di Jacknife Lee, Richard Colburn e Scott McCaughey. Dopo il riuscito esordio con The Place We Ran From, su The Ghost of the Mountain gravavano aspettative maggiori: e in parte vengono deluse. Non andando oltre la copia del primo disco, il risultato è gradevole, ma visti i nomi chiamati in causa, era legittimo aspettarsi qualcosa in più.


AA.VV., Fonderie Jazzcore (Impatto Sonoro, 2013)

L’umanità è piuttosto prevedibile e la storia alquanto monotona. Invece di cercare qualche scarica d’adrenalina imboccando il G.R.A. contromano – pratica urbana altamente sconsigliata –, dedicatevi all’ascolto di questa nuova miscellanea di produzioni jazzcore all’italiana. Scoprirete un universo dove il jazz si è fatto avverbio, modificatore semantico. Sarete assaliti da schegge impazzite di sassofoni taglienti che precipitano su chitarre distorte e una domanda tornerà dal passato a tormentare i vostri sogni inquieti: paura e proteine, è questo che siamo?


Arctic Mokeys, AM (Beggars Banquet, 2013)

Josh Homme lo ha definito il disco perfetto da sentire dopo la mezzanotte. Si perché gli Arctic Monkeys, giunti al quinto lavoro (e al vertice della fama), sfoderano quello che non ti aspetti. Alex Turner ormai non è più il giovane grintoso del fulminante esordio e in questo AM sfodera un lato melodico non indifferente. Chi voleva un loro disco rock duro e puro rimarrà deluso, chi invece vuole godersi la loro evoluzione musicale, si sfregherà le mani.