Il “secondo” Montale: “Satura”

«L’uso ha voluto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza né della poesia, né del suo linguaggio, e modo di esprimere le cose»
Giacomo Leopardi, Zibaldone

 

La poesia è il riflesso della vita di un poeta: seguire i versi di Eugenio Montale significa soprattutto interpretare, ricomporre e decifrare gli indizi lasciati dal poeta stesso nella scacchiera della sua opera. Le composizioni del poeta ligure camminano sempre in parallelo con l’esistenza. La critica per inquadrare il periodo in questione – da Satura in poi – accosta al nome dell’autore gli aggettivi “secondo” eo “ultimo”: termini usati per mostrare un netto divario tra due stili molto diversi o per una scansione cronologica. Ma non per una classificazione qualitativa.

Satura è la massima cesura nella produzione poetica e umana di Montale. La raccolta al centro del nostro articolo, uscita nel 1971, colpì per i notevoli e vistosi tratti di novità. Non un fu uno choc, ma ci andiamo vicino. La potenza della rima lasciava spazio a un andamento più prosastico e colloquiale. Una serie di sequenze quotidiane, intime e private – ma non per questo meno magnifiche – prendeva il sopravvento. “Nel fumo”, tratta da Satura I, ne è un esempio altissimo:

Nel fumo

Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando, comprando giornali innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una
sottrazione. Scrutavo le carriole
dei facchini se mai ci fosse stato
dentro il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo.
Poi apparivi, ultima. È un ricordo
tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita.


Immaginatela meraviglia nel vedere come il poeta italiano per eccellenza, in quel periodo insignito delle più alte e importanti cariche civili e culturali, dall’alto dei suoi 75 anni, potesse estrarre dall’infinito bagaglio della sua parola una raccolta poetica così vitale e contemporanea. L’impatto fu proporzionale alla grandezza della figura che l’aveva generato. Il critico Romano Luperini scrisse che con Satura non solo cambiava l’immagine del poeta, ma anche il nostro canone letterario.

L’onnipresenza montaliana non deve sorprendere: caratteristica unica dell’autore è sempre stata la volontà di specchiarsi con il suo tempo, riflettendolo e filtrandolo nella poesia. Il colpo fu potente, ma non così inaspettato. Bastava vedere gli indizi…

1966, terza puntata della trasmissione radiofonica Montale parla di Montale. Il diretto interessato accenna a un filo romanzesco e autobiografico che lega le sue opere, paragonando in seguito le prime tre raccolte ai tre libri della Commedia dantesca. Nel 1977 dirà: «Nella mia vita ho scritto un libro solo». I versi parlano ancora più chiaramente, poiché il vero tratto distintivo dell’ultimo Montale è uno solo: negli Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro – nonostante la consapevolezza del dramma umano – era riposta nella Poesia una speranza e una fiducia nella dignità e nella purezza del ruolo letterario. Adesso, con Satura, questa speranza non c’è più.

«Dopo La bufera io non ho scritto poesia per anni. Ho scritto soltanto articoli. Così quando sono tornato alla poesia, mi è sembrato normale abbassare il tono dei versi, renderlo più prosastico».

Sempre Luperini – in Storia di Montale – intitola il capitolo su Satura in maniera emblematica: “Dalla poesia dell’assenza, all’assenza della poesia”. Poche chiarissime parole, capaci di riassumere il giro di boa. La Storia ha tolto ogni speranza e i numerosi riconoscimenti per l’attività letteraria non hanno fatto altro che imprigionare Montale in un contesto estraneo e nocivo.

I bambini

I bambini non si chiedono
se esista un’altra Esistenza.
E hanno ragione. Quel nocciolo
duro non è semenza.
 

Ma Satura è anche la massima espressione del pessimismo montaliano. Tutte le figure, fisiche e materiali, in cui era riposto un minimo di speranza e di investitura ideale sono evaporate sotto il sole di una realtà accecante. Dialettiche della salvezza-dannazione incarnate da figure passate come Clizia (Le occasioni) sono irrecuperabili. Idem la religione, Dio: «Tutte le religioni del Dio unico / sono una sola: variano i cuochi e le cotture» (“La Morte di Dio”)

Per Giorgio Zampa l’impossibilità di dare alla poesia ragioni vitali è conseguenza del fatto che la vita stessa si sia ridotta a un niente. Esiste solo questo presente e l’imperativo è viverlo. L’oscillare tra accettazione e rifiuto però non porta ancora – mi permetto di dire fortunatamente – al pessimismo assoluto. Certo, il vivere e sentire così profondamente il quotidiano ha svalutato la possibilità di una coscienza metafisica e allegorica, ma uno spiraglio tra queste impenetrabili tenebre c’è. Ed è fatto d’amore. È la Mosca, minuta figura aggrappata alla vita grazie all’ironica arte della sopravvivenza, a cui Montale dedica le due celebri sezioni di Satura, Xenia I eII.

Dicono che la mia…

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma se era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.


La commistione tra assenza e ironia crea uno scarto fondamentale. In Le occasioni e in La bufera la mancanza del valore si tramutava nella valorizzazione della poesia in quanto tale. Ora, nel “trionfo la spazzatura”, la fine del linguaggio poetico rischia di ridicolizzare la figura del poeta, che nella speranza di una nuova vita rinnova se stesso.

Al tono sublime si sceglie il prosastico e il taglio giornalistico. Alla lirica, l’ironia. Ecco la grandezza di Eugenio Montale: il rifiuto, la crisi, la depressione, l’accettazione mista a rifiuto di un certo stile di vita non hanno portato al vuoto e al nulla. Affatto. C’è stato un giustificabile periodo di sconforto e silenzio, ma alla fine la risposta è arrivata. Un grande poeta non può rinunciare alla sua arma. In Montale la negazione di una determinata poesia non porta alla cancellazione di tale arte. Porta solo alla costruzione di un’altra poetica, affatto inferiore alle raccolte precedenti.

Da ciò viene fuori Satura, il libro poetico di Montale più rigorosamente calcolato e pianificato, dove la strutturazione retorica è un indistruttibile scheletro d’acciaio e le forme metriche e foniche sono studiate e applicate con lucida e precisa considerazione. Per quanto riguarda la rima, qui Montale impiega tutta la somma padronanza del mezzo per giocare alla strategia dell’occultamento: «Mi abituerò a sentirti o a decifrarti / nel ticchettio della telescrivente».

Si era troppo affezionati al primo Montale per accorgersi all’istante di tutto ciò?

C’è un gioco di contrari capace di contraddistinguere ogni livello della nuova opera; tutto ciò che viene dal basso si innalza a discapito del sublime, indifferentemente incarnato da Dio, dalla Scienza, dalla Filosofia. Basilare la partizione del libro in quattro parti, esattamente come i primi due libri dell’autore, ma con qualche interessante aspetto di innovazione. Le prime due serie di Xenia sono seguite simmetricamente dalle due parti di Satura, seguendo l’ordine cronologico della composizione. Sempre le due sezioni di Xenia combaciano in maniera ancora più netta perché contengono il medesimo numero di testi; quattordici. La struttura a un primo sguardo sembrerebbe quindi impeccabile e lineare visto che sulla retta del tempo vengono inanellate una per una le liriche scritte. Quasi un diario, ma non è ancora tempo per il Diario di Montale.

Nei suoi studi, Scrivano nota che Satura è sì pianificato al suo interno quasi più dei predecessori, ma è anche da questo stesso interno minato. È un libro a corso non obbligato. Bisogna leggerlo sincronicamente e non diacronicamente.

La rottura con il passato è netta. Le tematiche delle liriche precedenti non vengono rinnegate o diluite, ma radicalizzate in senso negativo. Se negli Ossi un miracolo poteva arrivare, adesso la perdita dei valori porta la realtà a estendersi monotona su un unico piano. Nonostante i molti voti (xenion) presentati agli Dei, i miracoli sono finiti. Linguisticamente si prefigura un contrasto dove al lessico ricercato e letterario si contrappone il gergo di tutti i giorni amalgamato alla perfezione dai media. Satura è il libro del plurilinguismo e del pluristilismo. I dati presentati da Riccardo Castellana parlano chiaro: nella raccolta il lessico comprende 1058 parole contro i 732 lemmi degli Ossi e 589 di Le occasioni. Tra questi termini abbiamo: latinismi, forestierismi, gergo quotidiano ed espressioni recenti. Formalmente prevale la composizione breve: è l’epigramma la forma con cui la satira si esprime. Ma non solo: la parodia, l’allegoria di “Botta e risposta I”, il pastiche di “L’angelo nero”, la preghiera di “Primo gennaio” e il genere gnomico-riflessivo abitano in molte parti dell’opera.

L’aspetto retorico è dominato dall’ossimoro, affinché si possano cogliere ed esaltare le antitesi e le contraddizioni del quotidiano, della vita e la loro convivenza. Luperini scrive che l’ossimoro diventa figura della realtà, dell’accettazione definitiva della verità della vita.

Insomma, vista la bellezze e la complessità di Satura, forse, più che parlare del “secondo” o “ultimo” Montale, converrebbe parlare del “Nuovo Primo Montale”.

“Rush” di Ron Howard

La storica rivalità tra i piloti Niki Lauda e James Hunt rivive in Rush, nuovo film del regista premio Oscar Ron Howard.

Un antagonismo nato molti anni prima, nei circuiti di Formula 3 dove i due si incontrarono poco più che ragazzini la prima volta e capirono subito di essersi antipatici in una maniera irresistibile. Un’antipatia che col tempo è diventata anche stimolo, slancio e forza per fare meglio dell’altro nel corso delle loro carriere, un’energia che li portò a contendersi il titolo mondiale di Formula 1 nel 1976, l’anno del drammatico incidente che vide Lauda rischiare la vita avvolto in una coperta di fiamme nel circuito tedesco del Nürburing.

Diversi come poche persone possono essere, eppure legati da un’astiosa stima che arricchiva i loro duelli. Hunt estroverso, spaccone, aggressivo in pista come nella vita, arrogante nel nascondere le sue insicurezze, sprezzante del pericolo e della morte; Lauda freddo, riflessivo, calcolatore e metodico, la vita consacrata ai motori solo perché era la cosa che gli riusciva meglio e che quindi gli avrebbe garantito maggiori guadagni, pronto ad accettare un venti per cento di possibilità di morire ogni volta che saliva in macchina, mai un punto in più. Diversi nella vita, diversi nell’ostinazione nell’opporsi alla morte. Dopo meno di quaranta giorni dall’incidente, Lauda era di nuovo al volante e arrivava quarto nel Gran Premio d’Italia. Dopo aver strappato all’avversario la vittoria in quel campionato mondiale, Hunt non seppe mantenersi ad alti livelli e si ritirò a soli trentun anni. Oggi Lauda lavora ancora in Formula 1. James Hunt è morto, nel 1993, per un infarto a quarantacinque anni, il corpo che non reggeva più una vita di eccessi.

C’è un senso di morte che si percepisce costantemente vedendo Rush, il senso di una sfida alla vita e all’istinto di sopravvivenza, di spinta oltre il limite. Attingendo a un’epoca e a un’epica sportiva ormai tramontata (dalla morte di Ayrton Senna nel 1994 non ci sono più stati incidenti mortali in Formula 1, nei soli anni settanta morirono otto piloti nel corso di gare ufficiali e qualificazioni), Ron Howard recupera due temi forti del suo cinema migliore: la sfida dell’uomo con se stesso di fronte alla morte, già al centro di Fuoco assassino e Apollo 13, e la rivalità tra modi e mondi opposti attraverso personaggi diversi ma legati dal destino. Più che assomigliare a Jim Braddock e Max Bauer, i due pugili che si contesero la cintura dei pesi massimi nel 1935 raccontati in Cinderella Man, Hunt e Lauda sembrano riproporre la contesa costante di Frost/Nixon, tesa ricostruzione della storica intervista del 1977 all’ex presidente degli Stati Uniti. È la scrittura di Peter Morgan a unire i due film, l’attenzione alle sfumature psicologiche, ai dettagli che si nascondono dietro la grande storia.

È stato Morgan a sottoporre l’idea del film a Ron Howard che si è lasciato conquistare dall’idea della rivalità senza conoscere nulla dei personaggi reali e del mondo della Formula 1, investendo nel progetto in prima persona con la sua casa di produzione Imagine Entertainment.

Il risultato è un’opera di perfetto equilibrio in tutte le sue parti. La ricostruzione storica è dettagliata e ineccepibile, con l’uso di auto d’epoca e puntigliose ricostruzioni delle tute dei piloti e dei loro caschi illuminati dalla fotografia digitale di Anthony Dod Mantle.

Il copione di Morgan vive grazie alle notevoli prove di Chris Hemsworth, fragile e muscolare James Hunt percorso da un nervosismo perenne che dall’accendino passa alle gambe senza riposo, e Daniel Brühl, algido Lauda che impara il valore della rinuncia attraverso l’amore. La contrapposizione tra due visioni antitetiche dell’idea di sport si manifesta attraverso i loro corpi costretti nelle monoposto e si spinge fuori, lontano dai circuiti veloci, per mostrare due modi diversi di vivere la vita e di confrontarsi con la sua, inevitabile, conclusione.

Cammeo finale del vero Niki Lauda. Pierfrancesco Favino interpreta il pilota svizzero Clay Regazzoni.

 

(Rush, di Ron Howard, 2013, sportivo, 123’)

 

[IlLive] David Byrne & St. Vincent @Auditorium Parco della Musica, 11 settembre 2013

Dopo lo sfizioso antipasto estivo rappresentato dall’EP Brass Tactis (4AD, 2013), il veterano David Byrne e l’astro nascente Annie Clark, in arte St. Vincent, portano in tour il loro Love This Giant (4AD, 2012), uscito esattamente un anno fa, con una sfolgorante e colorata esibizione dal vivo accompagnati dall’immancabile fanfara di ben otto fiati, con batterista e tastierista a completare il gruppo. Due sono gli elementi, tra loro complementari, che devono essere tenuti in considerazione: un primo prettamente musicale e un secondo costituito invece dal fattore scenico-performativo.

Musicalmente parlando è il suono degli ottoni che si ritaglia un ruolo centrale, con maggiore efficacia rispetto alla registrazione su disco. La tuba, i tromboni, i sassofoni, il corno francese, la tromba; sono loro la vera spina dorsale dello spettacolo. Sono loro che, magistralmente guidati dai due leader, fanno vivere, respirare e vibrare il gruppo di una sonorità che riporta la mente alla New Orleans delle brass band degli anni Venti. Una New Orleans che viene però aggiornata ai tempi delle metropoli caotiche e confusionarie: le calme e placide acque del Mississippi sembrano infatti sostituite dalle strade newyorchesi, disordinate giostre di nevrosi.

Sugli splendidi arrangiamenti di questi roboanti ottoni prendono vita le acrobazie circensi di David Byrne e di Annie Clark, una innocua coppia di freak, riunitasi quasi per caso, che mette in campo tutta la raffinatezza compositiva raggiunta nel disco dello scorso anno. Quello presentato sul palco dell’Auditorium è un circo festoso e multicolore, spensierato. Una musica all’interno della quale convivono con facilità orecchiabili melodie pop e innesti rock, ritmi funky e arrangiamenti disneyani. La scaletta è quasi interamente presa da Love This Giant: si parte con i fiati sugli scudi in “Who”, primo singolo estratto dal disco, per proseguire poi con la batteria elettronica di “Weekend in the Dust” e la dolce e futuribile ballata “Outside of Space & Time”. A impreziosire la serata ci pensano poi i brani pescati dalle carriere soliste dei due. Byrne risulta qui il protagonista assoluto e regala al pubblico, nostalgicamente avido e insaziabile di successi del passato, la sognante “Strange Overtones”, presa dall’ultimo disco in collaborazione con Brian Eno, Everything That Happens Will Happen Today (Todo Mundo, 2008), e alcune memorabili pietre miliari del periodo Talking Heads, come “Road to Nowhere”, la cui vena country viene evidenziata in questa versione tutta fiati, “This Must Be the Place”, dedicata a Paolo Sorrentino, e infine “Burning Down the House”, sulle note della quale non c’è sala concerti che riesca a incollare il pubblico ai propri posti. Anche la Clark si ritaglia il suo spazio, proponendo alcuni brani dei suoi lavori più apprezzati. Su tutti spicca il brano “Marrow”, tratto dal disco Actor (4AD, 2009), trasformato in uno schizzato delirio d’ottoni, chitarra distorta e voce sensuale.

 

 

Ma parlare esclusivamente della resa musicale sarebbe come aver guardato il concerto a occhi chiusi. Il vero spettacolo, infatti, è in tutto ciò che ruota intorno alla musica e del quale la musica stessa finisce per nutrirsi. Uno spettacolo totale, di sapore wagneriano, che mira a una sintesi delle arti dove la musica è circondata, sostenuta, esaltata da un insieme di gestualità, di coreografie, di corpi che, tra movimenti geometrici, stasi e balletti, creano un tutto artistico che è aristotelicamente superiore rispetto alla semplice somma delle sue parti. La mano di Byrne c’è e si vede ovunque. Tutti sembrano marionette gestite dal gran maestro, che con le sue doti di prestigiatore dirige silenzioso questo magico teatro musicale danzante, dando il meglio di sé in scattosi balletti cerebrali al limite tra danza, mimo e teatro.

Tuttavia, è Annie Clark la vera sorpresa della serata. Elegante, sinuosa, raffinata ma allo stesso tempo leggerissima e ironica. In un vestitino a là P.J. Harvey e con i capelli biondi ossigenati, in stridente contrasto con il sobrio pallore d’età vittoriana del volto, Annie Clark risulta essere molto più che una semplice vestale. Il suo canto camaleontico, graffio e carezza al tempo stesso, si unisce a uno stile chitarristico che varia da un rumorismo docile e educato, appreso forse anni fa alla corte delle cento chitarre di Glenn Branca, a un ermetismo punk-funk tipicamente anni Ottanta. Il tutto viene reso in uno stile performativo unico e originale che, con robotiche movenze da bambola meccanica – quasi una tanz-bambolina di cameriniana memoria –, sembra farla muovere su e giù per il palco guidata da fili invisibili.

Ciò che emerge chiaramente dal vivo è una totale assenza di ruoli predeterminati da presunte gerarchie artistiche o meriti musicali passati. Tutte le interazioni tra cantanti e musicisti si svolgono in maniera naturale, senza alcuna forzatura. Le nevrosi senili di un divertito e divertente Byrne, sempre più centro gravitazionale della musica d’oggi, hanno trovato in Annie Clark più che una semplice spalla o una bella e sensuale comparsa; hanno trovato una complice che collabora attivamente alla riuscita del colpo. Una complice intelligente, curiosa e spregiudicata al punto giusto. È chiaro, quindi, che il gigante da amare non è più, solamente, David Byrne.

“Carta carbone” di Julio Cortázar

SUR ha pubblicato le lettere ad amici scrittori di Julio Cortázar: ne è venuto uno splendido volume intitolato Carta carbone, dall’abitudine del mitico autore di Rayuela di produrre una copia privata delle lettere che compongono il suo epistolario. Per l’edizione italiana di questo materiale eterogeneo e vastissimo – l’edizione originale è pubblicata da Alfaguara e conta cinque volumi – si è scelto un taglio tematico che, dopo le lettere ad amici e colleghi, riunirà in due future uscite quelle inerenti i rapporti editoriali dell’autore e infine alle sue convinzioni e al suo impegno politico, offrendo un esauriente quadro dell’uomo e dello scrittore, avviato anche da noi a diventare un vero e proprio oggetto di culto.

Il libro, corredato da un’introduzione della curatrice e traduttrice Giulia Zavagna, e da apparati su autori e opere citate che facilitano la fruizione dei testi, raccoglie lettere scritte tra il 1951 e il dicembre del 1983, pochi mesi prima della scomparsa dell’autore. Tra i destinatari si annovera la quasi totalità dei nomi di primissimo piano della letteratura latinoamericana del Novecento. A partire dal nume tutelare Jorge Luis Borges, cui è destinata la prima deferente nota, ci si troverà leggere lettere indirizzate a José Lezama Lima, Victoria Ocampo, Octavio Paz, Virgilio Piñera, Gabriel García Márquez, Osvaldo Soriano, Mario Vargas Llosa e molti altri tra scrittori, poeti, giornalisti e critici di ogni parte dell’America Latina.

Valido come introduzione all’opera o come focus sul laboratorio dell’autore di Bestiario e Ottaedro, Carta carbone offre una lettura confidenziale che non può deludere chi ama visitare clandestinamente le stanze altrui. Entrare nella casa di Julio Cortázar e aggirarsi in religioso silenzio fra lo scricchiolio della libreria e il ticchettare della macchina da scrivere rende il lettore di questa corrispondenza una presenze invisibile e inquietante, come quelle che affollano gli incredibili racconti di questo maestro del non detto. Cortázar si lascerà spiare bonariamente, fingendo di non captare la nostra presenza postuma.

A parte la bellissima e un po’ perversa complicità che queste carte regalano, riecheggiata dalla curatrice nella sua prefazione, quello che nel corso di trent’anni di lettere ci si presenta è l’altissimo profilo di un professionista impegnato quotidianamente e con serietà esemplare nel suo lavoro, insieme all’uomo che ama giocare con i destinatari delle sue missive, fare disegnini e abbandonare ogni volontà compositiva per seguire il piacere istintivo e spontaneo della parola. Da leggersi in tutte le occasioni e in tutti i modi (a macchia di leopardo, all’inverso, per corrispondente o di anno in anno) Carta carbone è un ottimo incontro per chi non conoscesse Julio Cortázar, e una bella dimostrazione d’affetto oltretempo per chi già ne sia innamorato.


(Julio Cortázar, Carta carbone, traduzione e cura di Giulia Zavagna, SUR,  2013, pp. 280, euro 16)  

“Garrincha” di Ugo Riccarelli

Prima di lasciarci il 21 luglio scorso, Ugo Riccarelli – di recente proclamato vincitore del Premio Campiello 2013 con L’amore graffia il mondo – ha fatto un ultimo regalo al suo pubblico di lettori: un testo dal genere non ben definito tra teatro e narrativa, breve ma intenso come fu la vita del personaggio che dà il titolo al libro, Manuel Francisco dos Santos, detto Garrincha, ossia passerotto, per via di quelle gambette storte dalla poliomielite.

«Aveva due gambette storte e magre come le zampe dei passerotti. Due stecchini che non avrebbero mai potuto farlo correre. Eppure sorrideva. Seguiva con gli occhi i bambini giocare, mentre se ne stava seduto. Sorrideva e sembrava felice».

Garrincha (Perrone, 2013) è una storia di povertà come ce ne sono tante nelle favelas brasiliane.

È la storia di un ragazzo nato povero e malato e morto solo e alcolizzato. Ma è anche una storia di riscatto.

Un’operazione riuscita a metà e la tenace riluttanza del padre ad arrendersi a quella condizione del figlio riusciranno a fare di Garrincha una delle più forti ali destre della storia della nazionale verdeoro. Mané, diminutivo di Manuel, conquistò infatti ben due mondiali (Svezia 1950 e Cile 1962), stordendo gli avversari con la sua finta, sempre la stessa ma così efficace che tutti ci cascavano e rimanevano guardare il vuoto mentre quel piccoletto storpio andava via palla al piede: «Le gambe di Pelé sono perfette, hanno la pelle lucida e tesa, i muscoli ben marcati e armoniosi. Le ha disegnate Michelangelo […], le gambe di Mané invece erano due legni di vite, ritorte come la vita dei disgraziati. Lo scherzo di un pazzo che si prende gioco del destino. Erano le stesse dei poveracci delle favelas e per questo loro lo hanno amato così tanto. Quelle brutte gambe ingannavano ogni avversario e correvano felici verso la vittoria».

Introdotto da un testo dal taglio poetico e nostalgico, debitore a mio avviso del suo maestro Tabucchi, l’opera vera e propria vede l’inscenarsi di un dialogo fra fratello e sorella.

Così ne parla Riccarelli in un’intervista: «Il testo teatrale Garricha […] nasce dall’incontro che ebbi negli anni Novanta con il regista Claudio Neri il quale, affascinato dalla cultura brasiliana, volle metterne in scena alcuni temi tipici: povertà, riscatto, senso del destino. La vicenda è ambientata in una stanza, è chiusa e asfittica come chiuso e asfittico è l’orizzonte dei due poveri protagonisti, fratello e sorella, che pensano di poterlo allargare ma vengono ricacciati costantemente indietro, nel loro ambiente, anche perché hanno pensato di uscirne attraverso la furbizia e la delinquenza».

Ugo Riccarelli si rivedeva in Garrincha, nel suo corpo provato dalla malattia, ma soprattutto nella sua capacità di inventarsi un’altra vita: Mané diventando quel funambolico folletto sbilenco osannato dai tifosi, tutto estro e fantasia che rispondeva con l’allegria agli impervi ostacoli dell’esistenza; Riccarelli allo stesso modo con la letteratura, l’arte come sola dimensione in grado di aprire alla totalità del vivere.


(Ugo Riccarelli, Garricha, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 78, euro 10)

“Fine impero” di Giuseppe Genna

«Prima della fine si festeggia sempre», esorta zio Bubba che, come Caronte, afferra il protagonista disorientato dell’ultimo romanzo di Giuseppe Genna, Fine impero (minimum fax, 2013), e con lui ci trascina nelle cronache decadenti contemporanee.

L’occhio del narratore, all’inizio, sembra sonnolente, si apre e si chiude, e si fonde con quello del protagonista, alle prese con la morte – quella più dura, innaturale – del proprio figlio. Genna si sofferma da subito sugli attimi, bloccandoli, in sospeso, per descriverne ogni aspetto, e congelarne così sensazioni, stonature e incongruenze. Intorno, Milano e la sua provincia, la Brianza, con gli scheletri di un passato florido e recente, e quel che resta di una città “da bere” e di un paese intero, alla fine del suo impero, o presunto tale.

Lo scrittore fallito, quarantenne, trasformatosi in gossipparo, quasi per spirito avventuristico, si lascia trasportare dall’onda travolgente dello show biz, senza opporsi, come a voler andare fino in fondo, per cercare così un punto d’arrivo, magari il più profondo e sporco possibile.

Ogni avvenimento ci riporta così alla storia recente italiana, raccontata quasi esclusivamente dalla stampa scandalistica, in cui i protagonisti hanno volti e movenze sgargianti di agenti tuttofare di improvvisate star televisive, di nani e ballerine; inevitabile, inoltre, l’incontro del suddetto circo con il mondo del potere e quindi della politica.

Le notti così si susseguono, abbagliate, allucinate, fatte di alcol, droga e sesso. E tuttavia, nonostante il continuo stato d’ebbrezza che pervade lo scenario nebbioso, il nostro uomo dimostra di non abbandonare mai la reale percezione della vita vera, essendo così allo stesso tempo protagonista e spettatore critico di un’aberrata realtà parallela; vede la falsità, osserva attonito la decadenza, e come un reporter di frontiera fornisce il resoconto delle sue giornate.

Nonostante tutto, sembra voler andare a ritroso, risalire alle origini di quello che ha classificato come fine impero. E allora, mentre gli ultimi fuochi vengono esplosi, c’è tempo per tornare alle radici, attraverso flash continui e nitidi, e analizzare cos’è che ha generato tutto ciò. E allora ecco che ritornano alla mente gli albori delle tv private, con la nuova offerta dilagante di lustrini e paillettes, gambe scosciate e seni in bella mostra, iconografia dei rampanti anni Ottanta; e il conseguente sogno diffuso di poter toccare con mano, a tutti i costi anche se solo per poco, l’apice di un successo veloce.

Infine, l’incontro con una donna, narrato attraverso brevi e ripetute aperture d’occhi che ci riconducono al prologo, alla più innaturale e inconcepibile delle morti, quasi per prendere coscienza di ciò che è accaduto e della sua irreversibilità.

Lo scrittore procede per immagini, con stile e ricercatezza, mentre la sintassi è formata spesso da più strati, che però mai si sovrappongono, dando vita a pagine potenti e poetiche. E tutto ciò può bastare, a dispetto di una trama ridotta all’osso, e di una parte centrale priva di eventi dinamici e ricca di fermi immagine.

Giuseppe Genna è parte del coro che unisce i migliori narratori dell’ultimo decennio, e di una certa ritrovata, giovane e inascoltata coscienza sociale, che ci sta dicendo di smetterla di far finta che intorno a noi non ci siano macerie.

(Giuseppe Genna, Fine impero, minimum fax, 2013, pp. 237, euro 15)

Nuova stagione televisiva alle porte, i pronostici di Flanerí

Puntuale come il campionato di calcio in Italia, dopo l’estate l’America abbraccia la nuova stagione televisiva. Per molti appassionati la lunga attesa logorante iniziata con le vacanze giunge finalmente al termine. Adesso è il momento di scoprire cosa hanno in serbo per noi tutti i maggiori network al di là dell’oceano.

Mentre tutti i maggiori canali si danno appuntamento tra settembre e ottobre per iniziare la loro sfida annuale, c’è chi ha affrontato il suo personalissimo preliminare. AMC ha infatti lanciato nella mischia due delle sue bandiere come Heel on Wheels e soprattutto gli ultimi episodi di Breaking Bad a inizio agosto, in contropiede rispetto a molti altri. La lunga schiera di fuoriclasse a cui si uniscono Mad Men e The Walking Dead ha portato però a poche novità degne di nota, almeno sulla carta. Resta la speranza di pescare qualche coniglio dal cilindro.

I colossi non sono rimasti a guardare, alla ricerca soprattutto di un riscatto dopo la delusione della scorsa stagione. E allora dopo le decine di cancellazioni NBC torna all’attacco schierando J.J. Abrams nelle vesti di produttore e Kyle MacLachan, l’indimenticato agente Cooper di Twin Peaks, in Believe, da tenere d’occhio per il futuro visto l’esordio previsto per il 2014. Non abbiate paura, a tempo debito approfondiremo il discorso sugli show in programma dall’inverno in poi. Nell’immediato futuro della NBC ci sono The Blacklist, interessante progetto su un ricercato internazionale pronto a collaborare con l’FBI per catturare pericolosi criminali (attenzione al pericolo di un nuovo The Following, tanto promettente e poi un po’ perso per strada) e soprattutto Dracula. Facile ipotizzare il protagonista, in viaggio verso Londra per cercare vendetta su chi lo ha tradito in passato. Il vero favorito per me rimane Crossbones, il grande assente dello scorso anno di cui vi avevamo già accennato, pronto però a prendersi gloria e onori nel prossimo inverno. Basta unire “Barbanera” e “John Malkovich” per dare alla creatura di Neil Cross un posto tra i favoriti di questo anno.

 

 

Le altre due big rimaste scottate dall’anno appena passato schierano un paio di nomi interessanti da tenere d’occhio. La FOX, orfana di Fringe giunto a fine carriera, prova a sorprendere tutti con Sleepy Hollow. Cosa accadrebbe a Ichabod Crane se dovesse risvegliarsi nel 2013?

ABC dal canto suo – dopo l’imbarazzante tracollo appena subito con le cancellazioni di 666 Park Avenue, Zero Hour, Last Resort e Red Widow di cui vi avevamo parlato qui – ha preferito puntare sul sicuro presentando gli Agents of S.H.I.E.L.D. di Joss Whedon. Niente di più facile che cavalcare l’onda del successo dei supereroi in questo periodo, improbabile ipotizzare un flop anche in questo caso.

Prima di passare alla risposta dei canali via cavo manca all’appello The Tomorrow People, il gioiellino su cui ha deciso di puntare CW. Remake dell’omonima serie british degli anni Settanta, potrebbe essere una sorta di erede spirituale di Heroes, augurandogli un destino migliore.

Come ogni anno però le più grandi sorprese possono arrivare dagli outsiders via cavo, a cominciare da Showtime con Penny Dreadful. L’idea di unire in un solo show le origini di alcuni dei più grandi personaggi della letteratura horror come il dottor Frankenstein, Dorian Gray o il conte Dracula stuzzicherà la fantasia di molti. Soprattutto se arriva da chi negli ultimi anni ci ha regalato Dexter, Homeland o Californication. La scommessa di HBO si chiama invece The Leftovers, questa volta adattamento televisivo dell’omonimo libro di Tom Perrotta creatore del progetto assieme a Damon Lindelof. Mentre milioni di persone scompaiono dalla faccia della Terra senza apparente motivo l’attenzione si sposta su un piccolo paese intento ad affrontare la sparizione di diversi abitanti. Obbligatorio dargli almeno una chance.

Le ultime curiosità, perlopiù avvolte nel mistero, riguardano la serie tv di Scream in cantiere per MTV e il progetto ancora oscuro dei fratello Wachowski per Netflix di cui sappiamo solo il nome, Sense8. C’è ancora spazio per Starz, pronta a prendere il largo dopo Da Vinci’s Demons con Marco Polo (sì, avete letto bene) e Black Sails. Tante le trasposizioni televisive di questa stagione, quest’ultima proveniente da L’isola del tesoro di Stevenson. Il primo episodio delle avventure del capitano Flynt sarà diretto oltretutto da Michael Bay, motivo in più per destare un po’ di curiosità.

All’appello mancano i campioni esteri, ancora un po’ riservati o poco pubblicizzati. Si è fatto avanti solo Les Revenants pronto a sfidare tutti da fine settembre. Restiamo in attesa di sapere quali saranno le mosse degli inglesi.

In ogni caso c’è da scommetterci, sarà un’altra lunga ed emozionante stagione. Per qualunque serie facciate il tifo ci sarà da divertirsi.

“L’ultima vacanza. A memoir” di Gil Scott-Heron

Non so voi ma io, quando leggo, metto sempre su della musica, la cui scelta è spesso casuale o dettata dai pensieri del momento. Tuttavia, ci sono alcuni libri che nascono già con una colonna sonora, come L’ultima vacanza. A memoir di Gil Scott-Heron (LiberAria, 2013): una colonna sonora che in questo caso è stata scritta, composta, percorsa dall’autore stesso. Percorsa, anche. Perché questo libro altro non è che un percorso, più che una comune autobiografia. È una raccolta di memorie autobiografiche fuori dal comune, una sequenza di tracce cronologicamente disordinate.

Prendete il brano “The Revolution Will Be Not Televised” (Pieces of a Man, 1971)e schiacciate play. Inizia la storia. La storia di uno scrittore, di un musicista, ma anche di un militante per i diritti civili, la storia di un nero di umili origini che con il suo talento e la sua determinazione ha dato forma a un’esistenza fatta di sfide, impegno, delusioni, successi. Una strada che dal Tennessee arriva a New York, dove a questo ragazzo di talento viene data la possibilità di avere un’istruzione pari a quella di ogni suo coetaneo bianco della città. Ecco che inizia a formarsi lo scrittore oggi conosciuto per la sua spoken word. Un uomo la cui attitudine letteraria è spesso passata in secondo piano rispetto alla sua musica, ma anche, e si inizierà a vederlo in questi anni, un attivista: siamo nell’America degli anni Ottanta, e il suo impegno per i diritti civili degli afroamericani è sempre più forte.

Ed è proprio nel 1980 che Scott-Heron accompagna Stevie Wonder nel tour che diventa una delle principali tappe di questo memoir, un tour che ha avuto un ruolo fondamentale nell’istituzione del Martin Luther King Day, per la celebrazione di uno degli uomini che più di tutti hanno contribuito alla difesa dei diritti civili. Figura carismatica e sopra le righe, Stevie Wonder è uno dei cardini sui quali ruota la storia del protagonista, uno dei suoi principali punti di riferimento: «Era un uomo la cui umanità e compassione erano reali, visibili e certe come le lacrime che filtravano da sotto gli occhiali neri e gli scorrevano libere sul viso e sui vestiti. Lacrime che non si curò mai di asciugare. Le parole di Stevie erano come un assolo di jazz, spontanee e immediate, un’espressione tanto onesta da essere quasi imbarazzante».

La vita di Gil Scott-Heron è costellata di eventi che hanno segnato l’America della sua generazione: dall’assassinio di Kennedy a quello di Martin Luther King, e qualche anno più in là quello di John Lennon. Questa sua opera è un personalissimo autoritratto che fa dunque parte di un disegno più ampio, il quale raffigura una storia che appartiene a molti, raccontata da chi la rivoluzione ha contribuito a farla, per davvero:

 

«The revolution will not be televised,

The revolution will be no re-run brothers;

The revolution will be live».

(Gil Scott-Heron, L’ultima vacanza. A memoir, trad. di Daniela Liucci, LiberAria, 2013, pp. 264, euro 18)

“Resistere non serve a niente” di Walter Siti

Walter Siti ha scelto un orsacchiotto. Scucito e rammendato a colpi di bisturi. Un lenzuolo imbottito di pelle e cerniere. È lui la genesi del romanzo Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012), vincitore del Premio Strega di quest’anno. Una genesi piombata all’improvviso, quando ancora non c’era odore di trama.

O meglio, quando gli odori cospiravano tra loro.

Quando le ipotesi narrabili covavano strette, in un’insalata di strade e finali.

E invece, dopo un corsivo e un tahoma che farfugliano inizi possibili, sventolando il sipario per fare corrente, arriva una festa di compleanno, dentro un salotto buono. Lo sfarzo annoiato di una serata tra tante. E proprio lì, tra strascichi di chiacchiere e sorrisi imbalsamati, prende fiato la storia. Perché «non si scrive ciò che si vuole, ma soltanto ciò che si può».

E Siti poteva raccontare di Tommaso. Il padrone di casa e delle pagine a seguire. Ex povero, ex obeso, cresciuto nel guano della periferia di Roma. Tommaso mangia per rotolare via, il corpo infuria come un nembo, dilaga, non collabora.  Ma per fortuna la mente è leggiadra.

Sguazza nei numeri come in un brodo primordiale, sa che quel mare biancheggia, s’ingrossa, ma non tradisce chi sa percorrerlo. La salvezza non è dove vive. È lontana da suo padre Sante, che conosce bene il carcere, da sua madre Irene, che boccheggia per resistere. Ma spesso, appunto, resistere non serve.

Bisogna andare. E Tommaso va. Studia, si qualifica, decolla. Si opera, strizza lo stomaco, asportando quel grasso che osteggerebbe il volo. Ma non tutta la fame si accascia.

A trent’anni Tommaso non è più un orsetto sbrindellato. A trent’anni nell’Oceano Indiano chiamato “finanza”, Tommaso fiuta già prede come uno squalo. Si addentra nei circuiti giusti, gioca con entità liquide e poderose.

Stock option, swap, trade, mangrovie di concetti ectoplasmatici che passeggiano sui comuni mortali senza farsi notare. Quasi. Nomi che sfaldano e ricompattano destini nel tempo di un clic, in un’azzardata succursale del Monopoli. Tommaso cavalca l’onda. Sa quando è il momento di comprare, sa quando è il momento di vendere.

I segreti sono altri. Sono altrove. L’impervio, la giungla, contano sistole e diastole.

È il cuore a incagliare la scalata. E tutto quello che gli gracchia intorno. Il mondo delle relazioni gli rattrappisce gli arti, gli rappezza i gesti come un vestito vecchio. Forse per qualcuno sarà sempre un peluche. L’incontro con Gabry, modella aspirante starlet, lo lascia sempre a rincorrere, a pagare l’amore che non si autogenera a suon di brillanti. Perché la prostituzione è una promessa di successo, non di eternità. Lei rimane imprendibile e lui rimane incompreso, non ci sono contratti né equazioni bastevoli a prevedere certi flussi. Poi si affaccia Edith, fisico sghembo che offende lo specchio, scrittrice che ricorda a Tommaso quanto la carne sia dolore e imperfezione e quanto quelle stesse ferite possano essere amate. Quanto ogni rapporto sia trapuntato di comunque.

Ma in quel caso è Tommaso a fuggire. L’unica donna giusta probabilmente è solo Irene.

Il resto è caccia al vuoto. Vuoto che avvampa tutto il suo universo. Le mastodontiche feste mondane in cui esserci è non sparire, in cui politica e spettacolo sono gemelli siamesi.

La tarantella intrallazzante dell’Italietta media, che è minuscola anche quando pensa in grande.  Il mestiere fatto di scommesse, il sesso che non riempie mai. L’appetito implacato di cose che non bastano, i complementi d’arredo del nulla.

Siti ce lo racconta come un dossier, con una scrittura scabra, sprezzante e sontuosa.  La lama sapiente capace di cogliere lo sporco e il viscoso degli Anni Zero. Di scivolarci dentro e di guardarli dall’esterno.

Lo scopo di un gioco conosciuto come “scrivere”.

(Walter Siti, Resistere non serve a niente, Rizzoli, 2012, pp. 316, euro 17)

“Il re non ha sonno” di Cécile Coulon

Il re non ha sonno di Cécile Coulon (Keller, 2013) è la storia di Thomas Hogan, «il figlio maledetto»: «Aveva avuto tutto quello che un bambino, tutto quello che un uomo può sognare per cominciare la vita col piede giusto».

Cécile Coulon è l’autrice di un romanzo spietato, i cui personaggi segnati da un ineluttabile destino sembrano non avere scampo e sono condannati all’infelicità e alla disperazione dal momento in cui entrano in scena. La scrittrice francese è al suo terzo romanzo, il primo pubblicato in Italia, e dà prova di una forte personalità e una profonda conoscenza dell’animo umano. Dalla scrittura essenziale e dallo stile deciso traspare la lucida analisi di personaggi tormentati, misteriosi, oscuri che restano impenetrabili fino al calar del sipario.

Al centro della narrazione troviamo Thomas bambino, adolescente e infine uomo, protagonista di un Bildungsroman in cui passa attraverso varie esperienze fondanti: la morte violenta del padre, il rapporto simbiotico con la madre, l’amicizia con Paul, suo compagno di scuola e successivamente rivale in amore. È un romanzo di formazione al contrario, nel senso che ogni ostacolo incontrato conduce a un’involuzione progressiva di Thomas. Egli infatti, confrontandosi con la realtà, invece di imparare a vivere, rinuncia a poco a poco alla vita stessa. «Thomas restava seduto sulle scale, all’ombra. I capelli di gommina gli davano l’aria triste di un clown a fine carriera […] il suo modo di restare in disparte, il suo sguardo, il minimo suono, in lui c’era qualcosa di suo padre, un cattivo sangue che gli scorreva nelle vene: la schiuma prima di un temporale».

Tutto scaturisce da un rapporto padre-figlio non vissuto, una specie di groviglio che non riesce a sciogliersi e che emergerà come un intrico a ogni difficoltà incontrata.

Il romanzo è ambientato nella provincia americana, in un villaggio chiamato Haven, i cui abitanti sono proprietari terrieri. Di Hogan padre «si diceva aveva più soldi di quanti un operaio qualsiasi avrebbe potuto guadagnare in una vita». Proprio questo luogo incantato, omofono della parola heaven, richiama il dolce suono del paradiso decantato agli occhi del lettore: «davanti a lui si stendeva un paradiso in terra». Nella tenuta degli Hogan vive ogni specie animale: gli uccelli fanno il nido, le volpi preparano la tana, le cerve si abbeverano nello stagno (e pensiamo al richiamo biblico della cerva nel Cantico dei Cantici), i girini danzano sul pelo dell’acqua.

Alcuni personaggi sono addirittura paragonati agli angeli, angeli veri caduti dal cielo come Donna, o quelli ribelli, che nascondono «un’anima più scura di un sacco di carbone fresco».

In realtà a uno sguardo attento non può sfuggire che su quella stessa terra edenica Hogan padre, uomo rude e infaticabile lavoratore, si consuma, la moglie Mary passa «la maggior parte del tempo a spezzarsi la schiena: spianava, piantava, strappava, tagliava, puliva ogni appezzamento di terreno».

Il re non ha sonnoè un dramma, una vera tragedia greca che comincia dalla cornice con le voci del villaggio che riecheggiano nel ruolo dell’antico coro greco: «Non c’era alcuna ragione perché questa storia finisse così». Al villaggio, tutti conoscono la storia di Thomas, eroe tragico, responsabile di un crimine. Thomas è un mistero, un racconto da condividere e sul quale confrontarsi, fare supposizioni. Thomas è un enigma insoluto e il suo silenzio contrasta con la curiosità morbosa di conoscere ogni particolare più raccapricciante della storia. La vera colpa di Thomas è non saper distinguere il bene dal male. Le scelte che compie non sembrano dettate da alcun principio: ha davvero la capacità di scegliere? Il suo agire sembra guidato da un determinismo per il quale lo stesso temperamento del padre pesa sul suo animo come una tara.

(Cécile Coulon, Il re non ha sonno, trad. di Tatiana Moroni, Keller, 2013, pp. 155, euro 14)

[SongList] Estate

Sì, sembra proprio che l’estate sia finita. Forse qualcuno cerca ancora di godersi gli ultimi giorni di sole, ma quell’atmosfera vacanziera e spensierata si sta poco a poco affievolendo. E così, per congedare degnamente la fine della stagione estiva e in contemporanea iniziare al meglio il ritorno on-line, abbiamo pensato di proporvi questa SongList. Una via di mezzo tra il malinconico e il celebrativo, con cui rendere omaggio all’estate. Abbiamo chiamato in causa la linea indie che tanto apprezziamo e altrettanti mostri sacri imprescindibili. Bentornati dunque e buon ascolto.

 

Bruce Springsteen, “Girls in Their Summer Clothes”

Interpol, Summer Well

John Coltrane, Summertime

Mogwai, Summer

Wilco, Summer Teeth

The Decemberists, Summer Song

Tom Waits, The Last Rose of Summer

A Toys Orchestra, Summer

“Inferno” di Dan Brown

Risulta sempre difficile recensire romanzi come Inferno di Dan Brown (Mondadori, 2013) per almeno tre motivi: problema di genere (narrativa come intrattenimento e non come letteratura), di analisi (per natura la fiction pura racchiude tutto il significato nella superficie, nella maggior parte dei casi quindi nella trama), di snobismo (personale e della critica, soprattutto italiana, in generale).

Sul fenomeno Il codice da Vinci si è detto molto, troppo e di più, eppure lo abbiamo letto più o meno tutti con l’avarizia fisica con cui vediamo certa cinematografia oltre-oceanica. Abbiamo partecipato pure al gioco (giogo?) della cercata (e ottenuta) catarsi culturale collettiva in cui su diversi piani sapienziali siamo stati ora i fautori del «lo sai che?», ora i mistificatori del «non è vero niente» o del «non ha inventato nulla», infine i detrattori del «è carta straccia».

Come se un romanzo, che per gli americani è pura fiction, finzione, e quindi intrattenimento dovesse portare in sé i germi della canoscenza;dovesse condurci, per mano, a scoprire i segreti dell’arte e persino della religione in una società, quella occidentale, che ha messo in standby il conflitto tra fede e ragione e che non può ricercare la veritas nel gusto, tutto contemporaneo, del sensazionalismo pirotecnico.

I più o i meno scafati (a seconda dei punti di vista) hanno letto anche Angeli e demoni, romanzo successivo per edizione italiana ma precedente in quella americana, e libro meno discusso, meno volutamente eclatante ma forse congegnato (nella narrazione almeno) meglio del più famoso Il codice Da Vinci.

Ora ci troviamo di fronte un’opera che ci dimostra quanto l’Italia (e quella nostrameravigliosa stagione che da Federico II ci conduce al Rinascimento) piaccia a Dan Brown e indirettamenteal professore di Harvard Robert Langdon (che per noi che non abbiamo resistito alla tentazione di bissare la lettura con la riproduzione cinematografica, ha il volto e le sembianze di Tom Hanks), il quale si ritrova di nuovo protagonista di un racconto che ha sullo sfondo la nostra storia e la nostra tradizione culturale.

Dopo Leonardo è scomodato Dante, il sommo poeta, e la Commedia, l’opera che più di altre racchiude il nostro essere italiani.

Quello che ne esce fuori è un thriller più debole degli altri, forse il peggiore (tenendo comunque saldo il principio sacro dell’intrattenimento) che attinge a piene mani dagli altri senza neanche tentare di dissimularlo. Brown gioca ancora con lo strumento che conosce meglio, quello della simbologia e dei chiaroscuri della storia: la solita di aneddotica vera, presunta e di totale invenzione.

Il protagonista è in Italia per fare alcune ricerche sul libro dei libri e si ritrova immischiato in una vicenda dai risvolti misteriosi e oscuri. C’è un enigma da risolvere per arrivare alla verità e i soliti avversari in piena chiave complottistica. Sullo sfondo, la bellezza italica (quella delle armonie classiche e non del disordine mediterraneo), paesaggi toscani, continui misteri e rimandi (storici o pseudotali), la modernità tecnologica (in pieno gusto di confine presente-futuro) e un raccordo capace di unire e mescolare tutto in un gran calderone.

Anche il protagonista è più debole: non è capace di parlare tra le righe, e dimostra, nelle sue vicissitudini, una struttura che appare meno attenta e ragionata.

Diciamoci la verità, in determinati momenti in Dan Brown abbiamo apprezzato la scorrevolezza e il suo andare avanti quasi fregandosene di inesattezze volontarie o involontarie, il suo sapersi far leggere “sulla spiaggia”: in Inferno un po’ ci manca quell’andamento scanzonato e ritroviamo (ritrovo?) una certa confusione che rallenta la lettura senza però offrirci un’alternativa valida.

 

(Dan Brown, Inferno, trad. di Nicoletta Lamberti, Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli, Mondadori, 2013, pp. 522, euro 25)