“Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” di D.T. Max

«Quando la moglie uscì di casa, Wallace andò in garage e accese le luci. Le scrisse una lettera d’addio di due pagine. Dopo di ché attraversò la casa e arrivato al patio salì su una sedia e s’impiccò. In Infinite Jest, quando uno dei personaggi muore, si ritrova “catapultato verso casa oltre […] le palizzate di vetro della Convessità a una velocità disperata, sale verso nord e grida un richiamo alle armi chiaro e cristallino e quasi matericamente allarmato in tutte le lingue conosciute al mondo”».

La sensazione strisciante e silenziosa – e presuntuosa – che Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, di D.T. Max (Einaudi, 2013) parli non sempre esclusivamente della vita di uno dei più – se non il più – importanti scrittori degli ultimi trent’anni, di una sorgente infinita e strabiliante di idee, bensì di quella triste di un caro amico brillante di cui non abbiamo avuto molte notizie negli ultimi anni, ma che abbiamo sempre tenuto orgogliosi da qualche parte dentro di noi, sorprendendoci così in intime esclamazioni di sorpresa familiare, è molto più che una semplice sensazione. 

Gran parte del merito, ovviamente, va al protagonista di queste cinquecento pagine, all’opera monumentale che ci ha lasciato, alla sua strabiliante capacità di dissezionare la realtà in minuscole parti e di ricomporla a proprio piacimento, sempre e comunque.

Tuttavia, lo sforzo riuscito di D.T. Max di trovare l’esatto contenitore per gestire qualcosa di così eccessivamente sofisticato, di così drammaticamente profondo, che sembra appartenere a un etere dietro l’etere; l’esser riuscito ad arginare l’idea strabordante fatta di una sostanza ancora sconosciuta che l’autore di Infinite Jest si porta appresso, a condensare qualcosa apparentemente non-condensabile, è degno senz’altro di una riconoscenza particolare: riuscire a lasciare spazio all’enorme voce dello scrittore americano senza disperdere tracce di patetici tentativi nel provare a far svettare la propria, di voce, in esperimenti goffi di emulazione, e riuscire in questo modo a sottrarsi da una situazione potenzialmente ingestibile, risultando molto più incisivo e presente di quanto altrimenti non sarebbe stato. Un narratore, quasi un fratello più grande, premuroso e distaccato nel modo e nei tempi giusti.

Servendosi di un enorme carteggio – anche Don DeLillo ha messo a disposizione la sua corrispondenza con l’autore – D.T. Max si spinge in fondo a un vortice nebuloso, lisergico, razionale, chiassoso, logico, isterico: il denso vortice che è stata la vita di David Foster Wallace.

Dal rapporto con i genitori agli anni del college; i voti eccellenti, la passione per la filosofia, in particolar modo per Wittgenstein, fondamentale per la stesura di La scopa del sistema. Il suo modo arrogante di far colpo sugli altri: «Puoi definirti uno scrittore se non conosci bene l’opera di Pynchon?» («Ero un cazzone», ammetterà più avanti), ma anche la sua capacità di essere, quando voleva, alla mano.

La dipendenza, forse l’altra grande protagonista del racconto. La dipendenza da tutto, la dipendenza che svanisce e che subito cambia forma e si tramuta in qualcos’altro: erba, alcol, sesso; la dipendenza dalla tv – in alcuni periodi Wallace ci passava davanti dalle sei alle otto ore al giorno –, snodo fondamentale nella sua Opera; le crisi, la depressione, le paure. L’angoscia di capire quale spazio occupare nel mondo. Le partite giocate a tennis e le sbronze con Jay McInerney durante il soggiorno alla comunità di artisti di Yaddo, l’amicizia con Jonathan Franzen, fino all’elettroshock, fino al suicidio.

Un’opera struggente che probabilmente indica quale tipo di pezzo di puzzle usare per avere un po’ più chiara la testa di uno scrittore ancora troppo complesso. Un’opera che non sarebbe potuta essere diversa da quello che è. Parafrasando lo stesso Wallace: un’opera triste ma meravigliosa, come la luce vista attraverso il ghiaccio.


(D.T. Max, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, trad. di Alessandro Mari, Einaudi, 2013, pp. 512, euro 19,50)

“IoRicreo – Manuale di riciclo creativo” di Francesco Di Biaso

Si chiama, con un espressione entrata ormai nel lessico comune, riuso e riciclo, o, se preferite, upcycle, tanto per usare un linguaggio più globalizzato. Comunque lo si voglia chiamare, stiamo parlando propriamente di quell’«insieme di strategie che favoriscono il recupero di materiali decontestualizzando un oggetto da quello che è stato il suo uso principale, e valorizzandone invece le proprietà materiche». Risultato: annullamento di un nuovo, invasivo e di certo impattante trattamento per produrre una cosa nuova. Questo l’oggetto del volume IoRicreo – Manuale di riciclo creativo (Terre di Mezzo, 2013) di Francesco Di Biaso con (importanti) illustrazioni di Maddalena Gerli.

Come la gran parte degli atteggiamenti o costumi della nostra odierna società globale, anche l’upcycle è diventata una moda: si contano a centinaia le iniziative a tal proposito, gli stand nelle fiere, i blog, i siti, gli articoli. Così, gongolanti per essere stati stupefatti, possiamo affermare con un pizzico di retorica che una volta tanto la tendenza ha colto nel segno, un segno non solo giusto ma soprattutto sostenibile.

Sì, perché forse non tutti sanno che maglie lise o asciugamani che hanno visto ormai troppi lustri oggi non necessariamente devono essere destinati alla spazzatura, ma, come per magia, potranno, tra le nostre mani, diventare magari un utile gomitolo di cotone o un morbido e colorato tappetino. Come? Sfogliate IoRicreo e vedrete: in appena quattro semplici mosse diventerete anche voi capacissimi designer del riuso creativo.

Che dire poi degli antipatici volantini tra i tergicristalli delle nostre autovetture che diventano fashionissime collane; della trappola per zanzare affamate fatta riutilizzando bottiglie di plastica; del latte andato a male che si trasforma in colla; dei porta sorprese della Kinder che diventano originali porta spezie; dei flaconi di detersivi e saponi che si tramutano in mille utili nuovi oggetti: sono solo alcune delle tante idee riportate in questo pratico e divertente manuale del riciclo creativo.

Come ci dice l’autore stesso, che ha iniziato questa attività spinto dalla necessità, la parte più difficile è cominciare, per il resto basta riscoprire in noi due capacità innate nell’uomo (i nostri nonni le avevano eccome!): saper vedere negli oggetti che utilizziamo quotidianamente potenziali risorse, e rispolverare quella «manualità dormiente che si è assuefatta al nostro attuale stile di vita».

Dall’abilità di Francesco Di Biaso nel ricavare con fantasia da oggetti strappati alla differenziata originali articoli per la casa, è nato anni fa un sito apposito di idee di upcycle, nell’ottica di poter agilmente consultare ma anche condividere questo nuovo eco-sapere.

Obiettivo di questa guida verso il riciclo e riuso creativo infatti è proprio la condivisione di una nuova cultura che pian piano sta prendendo piede e che aiuterà l’ambiente, il portafoglio ma anche noi stessi, in quel malato rapporto “usa e getta” che abbiamo oramai instaurato con le cose che ci circondano: chissà allora che non ci faccia bene, che non ci aiuti davvero questo auspicato ritorno a scommettere sulla nostra peculiare e grande capacità di immaginare altre realtà oltre quelle che abbiamo sotto gli occhi, sul nostro vasto potenziale e infinito potere di creare e ri-creare con le nostre mani a partire da materia pre-esistente. Buona lettura ma soprattutto buon divertimento a tutti!


(Francesco Di Biaso/Maddalena Gerli, IoRicreo – Manuale di riciclo creativo, Terre di Mezzo, 2013, pp. 128, euro 12)

“Fratto X” di Antonio Rezza e Flavia Mastrella

Luci spente e una macchinina giocattolo telecomandata con una struttura di cartone verticale attaccata e un palloncino bianco in cima fa il suo ingresso sul palcoscenico. Comincia a girare a vuoto al centro della scena facendo ampi circoli nel silenzio più totale. Due lunghi minuti. A un tratto entra lui, Antonio Rezza, magro e mezzo nudo che con uno spillo fa scoppiare il palloncino commentando lapidario: «Perché la spensieratezza va stroncata alla nascita». Risate.

Descrivere uno spettacolo di Antonio Rezza a chi non lo ha mai visto è come raccontare una discesa col parapendio a chi non si è mai mosso dal divano di casa. È come descrivere il sapore del vino a un astemio o il gusto della nutella a un eschimese che nella sua vita a mangiato solo aringhe. Può piacere o no, ma uno spettacolo del performer di origini piemontesi è sicuramente unico perché nessuno fa quello che fa lui nel modo in cui lui lo rappresenta. In scena sul palco dell’edizione 2013 del Frammenti Festival di Frascati, Rezza recita Fratto X, il suo ultimo spettacolo. Una perfomance che definire “fisica” è senz’altro riduttivo. Perché il suo corpo magrissimo non si ferma un attimo e ogni suo muscolo e ogni suo nervo sono protagonisti quanto lui, così come i suoi capelli ricci, il suo volto scavato, i suoi occhi fuori dalle orbite e la sua voce ora stridula, subito dopo baritonale.

Una messinscena minimale quella di Flavia Mastrella, artista, scultrice, scenografa nonché partner e coautrice storica di Rezza. Sfondo nero, un paio di teli bianchi che servono a Rezza da vestito, copricapo, sipario, benda, sudario, tunica e pareo.

La voce recita un copione brillante, nonsense, surreale, testi cinici, sferzanti a tratti blasfemi. Gli spettacoli di Rezza appartengono al comico che, inteso nell’accezione di Carmelo Bene, è «cattiveria pura: il ghigno del cadavere».Rezza è sprezzante con il suo pubblico. Un bambino piange? Lui: «E non sa ancora che futuro l’aspetta». Uno spettatore in prima fila guarda nel punto sbagliato una scena: «Dove cazzo guardi?». In scena Rezza si pone in una dimensione narcisistica di onnipotenza bambina e si comporta di conseguenza. Narciso così come quando, intervistato sullo spettacolo da un giornalista che lo definisce semplicemente “attore”, lui risponde flemmatico e serio: «Io non sono un attore io sono il migliore performer vivente».

«Forse le piaccio perché sono all’antica e la penso come si pensava una volta e non riesco a pensarla come dovrei pensarla stavolta perché sono impegnato a pensarla come quella volta», dice il personaggio maschile della stralunata coppia Mario e Rita interpretati entrambi dalla voce di Rezza che doppia il corpo maschile di Rita interpretato “surrealmente” da Ivan Bellavista.

Il teatro di Rezza ormai da anni raccoglie i pareri più controversi e le ovazioni di critica e pubblico. Un pubblico che per assistere a uno spettacolo come questo non può essere pigro né timido, perché Rezza non perdona.

Un pubblico pronto a essere fustigato, “cazziato”, reso partecipe con specchi e luci, che improvvisamente illuminano i volti, e quindi “minacciato” di essere immaginato nudo come un verme dal resto degli spettatori. Perché come dice Rezza: «L’immaginazione non la puoi contenere, censurare né fermare».

 

Fratto X
di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
con Antonio Rezza e Ivan Bellavista

Spettacolo andato in scena venerdì 6 settembre all’interno del Frammenti Festival 2013 di Frascati.

“Il racconto dell’anello” di Frank Stiffel

Il racconto dell’anello (e/o, 2013) è la storia vera di Frank Stiffel, nato in Polonia nel 1915, internato nel campo di Treblinka dal 4 al 9 settembre 1941, e poi, dopo la fuga, ad Auschwitz, e che, alla fine delle ostilità, incontra in Italia la donna della sua vita.

La prima cosa importante da dire di questo libro è che non importa che sia l’autore a parlarci di sé perché quello che si percepisce immediatamente è un distacco sottile ma assoluto tra la voce narrante e le vicende narrate. Il lettore legge un racconto, non una biografia. Un racconto ancorato a terra da cavi d’acciaio fatti da date, nomi di persone e nomi di luoghi geografici, ma sempre sospeso a un metro da terra, leggero su uno strato di sentimenti e fantasie.

Per commentare una storia come questa ci si potrebbe poi soffermare sullo stile gradevole, a tratti ironico, limpido; sulla capacità dell’autore di descrivere le situazioni più tragiche con occhio umano e pietoso; sui personaggi tratteggiati con pochi elementi essenziali e caratterizzanti; ma poi si finirebbe per fermarsi lì, o almeno è lì che si ferma chi scrive, perché ogni libro, ogni racconto, ogni commemorazione della Shoah finisce per portare il lettore/spettatore a incappare in un’unica domanda: com’è stato possibile che l’uomo si sia impegnato nello sterminio sistematico dei propri simili?

Le vicende relative allo sterminio perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale sono una ferita aperta nel ventre dell’Europa e lo saranno ancora per molti anni a venire. Frank Stiffel contribuisce alla creazione della grande risposta collettiva che, dalla fine delle ostilità, la civiltà sta cercando di elaborare e rispetta la promessa fatta a se stesso durante l’internamento: far sì che il mondo sappia, o meglio, che il mondo non possa distogliere lo sguardo.

Il racconto dell’anello, sottotitolato Un Kiddash, come scopriamo dalle note della traduttrice (un valore aggiunto il fatto che Maria Grazia Cappugi sia la nipote di Stiffel), è un mattoncino nel muro della memoria e, involontariamente, un libro di istruzioni per come sopravvivere a quello a cui non si può sopravvivere. Ciò che fa grande il protagonista del racconto è, infatti, il senso di umanità e pietà profonda che conserva nel corso della prigionia grazie al rispetto delle poche regole costituenti il proprio codice morale: «1) non cercare mai di sopravvivere a spese di un altro essere umano; 2) mantenere a ogni costo la propria dignità; 3) resistere all’abbrutimento di una vita in condizioni disumane coltivando dentro di sé la fiducia, la speranza e l’amore».


(Frank Stiffel, Il racconto dell’anello, trad. di Maria Grazia Cappugi, Edizioni e/o, 2013, pp. 461, euro 20)

“Il topo che amava i gatti e altre stranezze dell’evoluzione” di Michel Raymond

È ancora utile, nel 2013, pubblicare un libro che spieghi la teoria dell’evoluzione della specie di Charles Darwin? Tutti pronti a dire di no, che in fondo tutti conosciamo la selezione naturale, sappiamo come opera e che è responsabile della varietà delle specie presenti sulla Terra (a meno che non si parli di creazionisti, ma questo è un altro problema). Eppure, quando nel 2009, in occasione dell’anno darwiniano (200 anni dalla nascita e 150 dalla prima uscita del suo L’origine delle specie), Michel Raymond è andato in giro per convegni e conferenze, ha pensato che qualcosa ancora non fosse chiaro, e che, non di rado, non si fosse proprio capito nulla!

Nasce così Il topo che amava i gatti (Bollati Boringhieri, 2013), un libro di divulgazione, scritto niente poco di meno che da un direttore di ricerca del CNRS (l’ente nazionale di ricerca francese), che in un centinaio di pagine spiega come l’evoluzione abbia operato, spesso con soluzioni davvero fantasiose, spesso con errori anche grossolani. Leggere questo libro è come guardare un documentario: tante piccole curiosità che presentano al lettore una varietà di situazioni in cui la selezione naturale ha guidato l’evoluzione e come le diverse specie si siano pian piano adattate all’ambiente in cui si sono ritrovate a vivere.

E l’uomo? C’è chi dice che si sia emancipato dal meccanismo della selezione tanti anni fa, che per la specie umana le regole dell’evoluzione non spieghino più nulla, che siamo ormai fuori da questo infinito processo di adattamento. Eppure Raymond vuole dimostrare che non è proprio così. E una volta che il lettore ha preso familiarità coi meccanismi della selezione, nell’ultimo lungo capitolo mostra come questa operi ancora nella specie umana, e che se anche ci riteniamo tanto evoluti e al di sopra di tutto, molte cose rimangono uguali, e anzi, prenderle in considerazione sarebbe un grosso beneficio non solo per le scienze e la medicina, superando così l’idea che siamo tutti uguali, quando invece la selezione ci ha resi tutti diversi perché diversi erano gli ambienti in cui ci troviamo ad abitare, ma anche per lo studio delle scienze umanistiche, perché la “selezione culturale” è strettamente collegata a quella naturale, e solo attraverso la loro intersezione si può spiegare l’evoluzione culturale dell’uomo.

Pochi libri aprono la mente e mostrano un punto di vista nuovo su cui riflettere. Il topo che amava i gatti appartiene sicuramente a questa categoria, perché far rientrare l’uomo contemporaneo nella selezione naturale non solo non è scontato, ma è anche complicato: parlare della diversità nella specie umana è difficile e pericoloso, farlo in termini scientifici ancora di più. Raymond ci riesce senza alcuna difficoltà, supera l’impasse e, con estrema naturalezza, mostra le prospettive di un approccio libero da pregiudizi culturali.


(Michel Raymond, Il topo che amava i gatti e altre stranezze dell’evoluzione, trad. di Federica Turriziani Colonna, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 175, euro 13,50)

“La traduttrice” di Rabih Alameddine

Dire quasi la stessa cosa, secondo Umberto Eco. Riportare e nel frattanto perdere. Infarinarsi di altri suoni. Sforzarsi di raggiungere un posto da cui comunque si resta lontani. E mentre si parla, assumersi il carico di quello scarto. Sentire sulle spalle che non si potrà abbastanza. Provare sollievo e poi sconforto.

In altre parole, perché le parole sono sempre altre, tradurre. Chi lo fa, per mestiere o vocazione, sa cosa significa. Sa che il significato è un po’ qui e un po’ altrove. Sulla bocca di foglio da cui si parte, sulla terra che si aggancia quando ormai si è sbilanciati e laddove quei sensi non hanno mai attecchito.

Camminare sulle punte, speronando il vento.

Basterebbe già questo a riassumere il gusto del nuovo romanzo di Rabih Alameddine La traduttrice (Bompiani, 2013). La storia è una e anche infinite. Ma fanno tutte capo ad Aaliya, bambina di Beirut. Bambina e poi ragazza e poi adulta in tempi inospitali e in confini pieni di spigoli. È nata donna, quindi quasi un fantasma. È nata da figlia incolore, con una madre immolata solo ai maschi fuoriusciti dalla pancia.

È cresciuta alta e magra eppure non bella, è diventata moglie di un uomo impotente, che l’ha rianimata non respirando più e la sola finestra da cui prendere aria sono stati i libri.

Aaliya ha lavorato in mezzo a loro per una vita intera, in una libreria in cui il suo ruolo era invisibile. Una libreria in cui non è entrato quasi nessuno, tranne gli autori di ogni romanzo. E con loro le passioni, gli stordimenti, le frattaglie e i sottoboschi di ogni avventura che Aaliya ha deciso di tradurre. In arabo.

Mai da scrittori di lingua inglese, né di lingua francese, ideando un sistema solo suo. E senza pubblicare.

Quasi fosse un segreto, perché ciò che si ama si protegge, si conserva nelle scatole, come si fa con le coperte per gli inverni lunghi. Perché ciò che si ama s’impara e non si grida.

E alla luce di ciò che ha letto e poi riscritto, la protagonista si racconta al lettore, passeggiando a ritroso addosso ai suoi anni. Ne ha settantadue, i capelli piovuti da una tinta sbagliata di blu e la solita vestaglia con cui non vuole farsi avvistare dal trittico molesto delle sue vicine.

I ricordi zampillano, come una mano che sanguina passati remoti: l’infanzia sempre all’ombra, la guerra civile, la città bella, calda e abusata. I palazzi più sventrati dei sogni. Le paure di Aaliya, i sonni, il sudore, i soprusi bevuti come fossero acqua, s’intrecciano con quelli di Schulz, di Proust, di Matisse, col mondo di mondi intuiti costeggiando ogni libro. È solo lì che lei esiste davvero. A bordo di ogni vicenda, noleggiando pagine e nomi sulla zattera di altri finali. Quelli che non competono a una zitella infeltrita, che sono diventati i suoi unici amici. «Aaliya la suprema» è anziana, povera, sola. Conosce e assaggia solo uomini di carta. I contatti di carne la intimidiscono, non sono più una sua abitudine.

La soluzione è stare in disparte. Leggere. Leggere e sparire. Tradurre e salvare. Tradurre e lasciare.

Con uno stile asciutto ed elegante, con la lentezza di un corpo che fatica anche a condividersi, Alameddine ci regala uno spaccato complesso e polimorfo. Lo sguardo scomposto di un prisma, un labirinto di creature che può abitare ogni lettore se riesce a offrire un varco. Un capolavoro è ciò che semina nel cuore, i mattoni di silenzi e di evasioni che rafforzano le ossa. E Aaliya lo sa, lo vive, lo trasmette.

Il suo è un metabolismo di parole e personaggi, e anche se questo non è un episodio capitale della letteratura, all’altezza di quelli intorno a cui orbita, resta comunque un viaggio in buona compagnia. La testimonianza che la letteratura, come tutta l’arte, è una risposta possibile. Spesso l’unica. La nostra occasione per essere chiunque, con indosso le battute migliori. Un ponte tra ciò che siamo e ciò che vorremmo in cui il punto d’arrivo è solo un’altra partenza.

 

(Rabih Alameddine, La traduttrice, trad. di Lucia Vighi, Bompiani, 2013, pp.312, euro 18)

“Triviale. Dietro le cattive intenzioni” di G. Galanti, A.O. Meloni e M. Modula

È notte. Un uomo dall’aspetto criminale attende che un altro esca dal proprio negozio e quando questo si abbassa a chiuderne la serranda lo attacca alle spalle puntandogli una pistola alla testa: un’aggressione, un nuovo sopruso che già si intuisce commesso dalla mafia. Ma mentre tutto questo accade, in alto a destra del disegno si nota una piccola figura nera, appostata sulla terrazza di un edificio. Improvvisamente una freccia viene scagliata nell’oscurità, colpisce il malavitoso spaccandogli la testa e mentre il poveruomo aggredito, incredulo, guarda in alto pensando all’intervento di un angelo, nel tondo della luna piena si staglia una misteriosa silhouette: «E fu così che nella nostra città nacque la leggenda dell’angelo. Benvenuti a Triviale».

Il nuovo graphic novel Triviale. Dietro le cattive intenzioni(Verbavolant, 2013), è la storia della lotta contro una società malata e corrotta, quella della Sicilia infestata dalla mafia. Il paese vive nell’omertà, i criminali spadroneggiano e impongono le loro regole, tutto procede come è stato già. Ma in questo clima di rassegnazione e accettazione imposta, un vendicatore, un killer, un angelo, appunto, decide di farsi avanti, di agire e di tentare una svolta. Incomincia, proprio come un super eroe, a eliminare tutti i cattivi, in un conto alla rovescia che scandisce il ritmo della narrazione: meno quattro, meno tre, meno due, meno uno.

Il racconto si sviluppa secondo i canoni del noir, di quello che è stato definito una sorta di spaghetti-gangster e che non risparmia scene di morte cruenta, quelle in cui le frecce squarciano i capi, trapassando crani e aprendo teste.

Tuttavia, la storia è una storia di denuncia, che non vuole indulgere su particolari sanguinosi, bensì sulla comprensione di una realtà sbagliata, corrotta, che deve essere cambiata.

I testi di Gabriele Galanti e Angelo Orlando Meloni insistono sui dialoghi tra mafiosi e sul confronto tra chi vuole fare qualcosa e si lamenta del silenzio e chi lo accetta. I balloonssono essenziali, non abbondano certo, ma sono esattamente quelli necessari al procedere del racconto.

In molti casi sono i disegni in bianco e nero di Massimo Modula a dire tante cose, nelle espressioni e nei volti contorti e adombrati dei criminali. La sua opera grafica risulta coerente alla storia, le tante sfumature e i chiaroscuri presenti, soprattutto sui volti, definiscono bene le atmosfere e gli stati d’animo dei personaggi. In alcune tavole le facce dei mafiosi sembrano delle maschere deformate che creano una dimensione grottesca-infernale, mentre tutto assume un tono più sospeso nei disegni dedicati a scene notturne, tra le più belle, dal punto di vista grafico, dell’intero romanzo.

Questo fumetto è ambientato non solo in Sicilia, ma più ampiamente in un’Italia di cui si vuole sottolineare il lato in rovina, non per demolirla ancora di più, ma per spingere alla consapevolezza e all’azione, proprio come secondo l’esempio dell’angelo vendicatore protagonista del racconto. In conclusione della storia appare l’immagine di chi egli sia, ma a seconda che il lettore rimanga più o meno soddisfatto della sua identità, non può non essere colpito da quella figura che si impone nell’ultima pagina e che si sa avere un valore simbolico potente. Un eroe che combatte per Triviale, per la Sicilia e per noi che abbiamo bisogno di vedere che le cose possono cambiare.

 

(Gabriele Galanti, Angelo Orlando Meloni e Massimo Modula, Triviale. Dietro le cattive intenzioni, Verbavolant, 2013, pp. 144, euro 15)

“Sunnyside” di Glen David Gold

Sunnyside di Glen David Gold è un voluminoso romanzo che non lascia alternative: o lo si ama, o lo si odia. Corposo, denso, cerca di focalizzarsi sulla figura di Charlie Chaplin e sul suo genio, ma non riesce del tutto nel suo intento. Tutto inizia quando, nel 1916, Chaplin viene avvistato in oltre ottocento posti contemporaneamente in tutto il mondo. Tra questi, il faro dove vive Leland Wheeler, che lo scorge su una barca in preda a una tempesta appena qualche istante prima che il natante si schianti sugli scogli, colando a picco. Il capitolo successivo ci narra di una scena di isteria di massa: Chaplin è atteso in molteplici località di tutti gli Stati Uniti e il suo mancato arrivo crea notevoli tumulti, rivoluzioni di piazza degne dei migliori colpi di stato. Durante uno di questi, l’ingegnere Hugo Black viene colpito da un pugno e tramortito. Proseguendo nella lettura, ecco la storia della madre di Leland, quindi quella del padre, Wild Duncan Cody, uno scadente imitatore di Buffalo Bill. Ed ecco poi apparire la famiglia imperiale tedesca, il Kaiser Guglielmo e tutti i suoi figli, che si recano allo spettacolo di Wild Duncan. In tutto questo, la vita di Chaplin, la prima guerra mondiale, annotazioni sulla convenienza dell’interventismo, piccoli e grandi eccessi del genio dell’attore, piccoli e grandi screzi con la sua rivale di sempre, Mary Pickford, ci intrattengono durante la lettura.

La presenza di un incredibile numero di personaggi secondari, di descrizioni a tratti eccessive, di approfondimenti non necessari che sembrano piuttosto un esercizio di stile e l’apparente incapacità dell’autore di trattenersi dall’aggiungere nuovi aspetti e nuove circostanze a un romanzo di cui, stringi stringi, è difficile riuscire a tracciare con sicurezza la trama fanno sì che il lettore si trovi davanti due possibili scenari: 648 pagine insormontabili, difficili da buttare giù, una sorta di matassa di cui risulta complicato, se non impossibile, trovare il bandolo, o un grandioso romanzo che ricrea quell’America della prima metà del secolo scorso che oggi ha un forte richiamo sul pubblico e che è talmente ricca di avvenimenti da riuscire a non lasciare mai spazio alla noia.

La sensazione che prevale leggendo le pagine di Gold, comunque, è la curiosità: curiosità di proseguire nella lettura e vedere dove l’autore ha intenzione di portarci. Ciò che però dobbiamo lasciare da parte, riporre accuratamente in un cassetto, è l’aspettativa: non abbiamo senz’altro davanti un romanzo “tradizionale”, ma un tomo che con il suo essere sopra le righe può anche deluderci. Non è certo un libro da lettori medi, né un libro adatto a chi cerca un break dalle attività quotidiane per rifugiarsi tra delle pagine “amiche” – se è questo quello che state cercando, lasciate perdere, va decisamente oltre le vostre necessità.

 

(Glen David Gold, Sunnyside, trad. di Daniela Liucci, LiberAria, 2013, pp. 648, euro 22)

“Il regno di Op” di Paola Natalicchio

Titolo: Il regno di Op. Personaggi principali: Angelo (figlio); Paola (madre); Marco (padre); il drago (se stesso). Altri interpreti: Michela, Martina, Astrid, Bernardo e altri abitanti del Regno.

La favola di Paola Natalicchio inizia come tutte le altre. Irripetibile e identica, appesa al soffitto dei progetti importanti, da far asciugare col sole che ammicca. Un bimbo che nasce, che sparge pianti e pannolini, circondato da un corteo di carezze e ninne nanne. Un bimbo da allattare di sogni solubili, da misurare sul muro quasi ogni giorno. Perché ogni centimetro aspetta il suo rito.

Finché appunto non arriva il drago. Che stavolta non si vede, perché ha scelto di nascondersi.Si è accovacciato nella pancia del piccolo, che ancora non sa di essere un eroe. La vicenda si complica e come in tutte le favole degne di un finale e di un lettore che lo sfiori, serve un viaggio salvifico, un’avventura per soffiare contro il male. Bisogna partire, armarsi di trapunte, giocattoli e pazienza. E imbrattarsi le gambe, conoscere davvero il regno di Op.

Lo fa Angelo, che a due mesi deve già combattere. Lo fa con suo padre Marco e con sua madre, Paola Natalicchio, giornalista che da un momento all’altro viene sbalzata dalla sua macchina in corsa. Dalla sua vita normale, di lavoro e vacanze, di scadenze e lavatrici, di poppate e pentolini. Il Regno la risucchia, spalanca quegli odori che non vorrebbe mai raccogliere. Maper i mesi a venire sarà la forma più prossima a una casa.

Il nome completo del Regno graffia gli occhi e sgonfia il cuore: oncologia pediatrica. Quel perimetro sterile dove si disinfettano anche i sorrisi, dove scivolano altri bambini che non chiedevano altro se non di essere tali. Ma il copione aveva in mente altre battute per loro. Scenari che non fossero asili, palestre o lavagne sberciate. Questo plotone di cuccioli si ritrova ammantato di lenzuola canforate, risonanze, termometri, foreste di flebo e betadine, pianeti sospesi a un metro dal mondo dove i silenzi non sono mai convinti, dove qualche allarme può spuntare da un istante all’altro, a rammentare che dentro al Regno bisogna stare sempre attenti, non adagiarsi mai.

Poi certo, ci sono anche i buoni, perché la missione richiede alleati. Carovane di medici e infermieri che riempiono di dolci le calze accanto ai letti quando la Befana è troppo impegnata a trafficare tra i comignoli di tutte le altre infanzie. Personale medico che diluisce i pomeriggi con camomilla e biscotti, che non si scorda di giocare perché essere bambini è più importante che essere malati ed è il solo davanzale su cui spira un po’ di vento. E allora, se dopo la chemio il palato è una lastra di marmo, se anche il gusto si è avvizzito, allora vanno bene le patatine fritte, gli hamburger o i pan di stelle, qualunque freccia riesca a perforare tutto quel ghiaccio che dorme.

C’è chi dal Regno esce vittorioso: come Astrid che torna a camminare. Come Angelo che ricomincia a crescere senza un mostro nello stomaco. E c’è chi come Bernardo salirà più in alto per sorvegliare gli altri.

La morale più forte, quella che essicca tutte le lacrime, è che il 70% dei piccoli pazienti oncologici riesce a guarire. E che il 90% delle leucemie è attualmente curabile. Che quel limbo igienizzato spessoè un bosco di passaggio che confina col futuro.

Diario intenso e dolente, essenziale e necessario, scritto col desiderio di documentare un’esperienza non solo intima, ma anche collettiva. Il dramma di famiglie sul filo di un assegno, costrette a trasferte ingombranti, ad agonie al quadrato senza il minimo sostegno.

Vegetazioni in penombra di una vita che vogliamo sotterrare, tra palate di iPhone e finto benessere. Che però indossa la nostra stessa taglia. Leggerlo non servirà a incenerire il drago. Ma chi dovrà affrontarlo non dovrà sentirsi solo.


(Paola Natalicchio, Il regno di Op, Einaudi, 2013, pp. 158, euro 15)

“Camus nel narghilè” di Hamid Grine

Un divertente esercizio di immaginazione è indubbiamente quello del «se fossi». Hamid Grine in Camus nel narghilè (E/O, 2013) utilizza questo stratagemma per descrivere, con amore appassionato, l’Algeria indipendente che si confronta con uno dei suoi giganti, Albert Camus.

Nabil è un protagonista senza niente di speciale. Cresciuto nella venerazione di una madre-santa, incapace di ribellarsi al padre padrone, circondato da una famiglia sgradevole e adottato da una moglie generale, Warda, ci viene descritto con un uomo che è stato capace di prendere un’unica decisione nella vita: vivere onestamente e mantenersi fedele alla missione di allevare le nuove generazioni algerine. Un giorno, però, il padre di Nabil muore e suo zio Messaoud gli offre una verità da troppo tempo nascosta: Nabil non sarebbe figlio del suo freddo e illetterato padre, bensì di Albert Camus, il premio Nobel per la letteratura autore di Lo straniero.

Che si tratti di una falsità è palese fin dall’inizio. Warda, la solida e logica Warda, ci disillude immediatamente osservando che la prevedibile e meschina intenzione di Messaoud altra non è che quella di far leva sull’onestà del nipote per spingerlo a rinunciare spontaneamente alla propria parte di eredità. E pure, affascinato dalle infinite possibilità del «se fossi», Nabil si mette alla ricerca delle proprie radici, indaga sull’origine dei propri occhi azzurri, uguali a quelli di Camus, e si immerge in un’Algeria mitica, dove tutto risuona delle parole del filosofo, finanche la fascinazione per Sarah, la bella collega che lo porta fino a Tipasa, che nelle parole di Camus è «abitata dagli dei, e gli dei parlano nel sole e nell’odore dell’assenzio, nel mare corazzato d’argento, nel cielo d’un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce fra i mucchi di pietre». Alla fine però, come un palloncino, Nabil ritrova il filo che lo riconduce a terra dalla moglie, un po’ più sporco, forse, a dimostrazione che la formazione spirituale dell’individuo non si ferma solo perché l’età della maturità anagrafica è stata raggiunta e superata da decenni.

Questo romanzo, nella sua semplicità linguistica e stilistica, contieneuna storia d’amore, una ricerca della figura paterna, un accenno di biografia e, non meno importante, un’indagine critica e problematizzante sull’atteggiamento degli intellettuali algerini e francesi durante la guerra di liberazione. A tal proposito, rileva la considerazione che, nonostante il luogo di nascita, il filosofo di Dréan fosse e sia considerato francese. È su tale considerazione che Grine ancora l’impianto critico in merito alla scelta durante la guerra d’Algeria di non sostenere l’indipendenza del paese, al contrario di quanto invece, tra gli altri, facesse Jean-Paul Sartre.

Camus nel narghilè è un libro piacevole e interessante che ha il merito di incuriosire sulla vasta produzione di Hamid Grine, ma soprattutto di spingere il lettore verso l’approfondimento della conoscenza di una delle vicende più importanti del periodo della decolonizzazione offrendogli l’immagine calda e vibrante di un Albert Camus innamorato e capace di far innamorare della propria terra.


(Hamid Grine, Camus nel narghilè, trad. di Alberto Bacci Testa, Edizioni E/O, 2013, pp. 189, euro 17,50)

“Undici sogni neri” di Manuela Draeger (Antoine Volodine)

Nel futuro, un futuro distopico in cui il tempo appare sospeso, come si usa nelle trame del mito, e simultaneo, come si usa nella narrativa di certi psicotici, un gruppo di adolescenti orfani partecipa in ottobre alla sfilata dell’Orgoglio Bolscevico, il BolscioPride, celebrazione (ogni celebrazione è anche intimamente sfogo) insensata, testarda e bizzarra di un mondo gotico e grottesco popolato da umili e sfruttati, un mondo umbratile e denso di polveri pesanti, in cui l’afflato internazionalista dei primordi, quello della rivoluzione permanente, delle incantevoli speranze e delle nobili cause egualitariste, gioca ormai costantemente al ribasso dopo aver fatto definitivamente i conti (chissà quando) con l’animo dell’uomo nella sua più tetra possibilità di mutamento: da ciascuno secondo le proprie disgrazie, a ciascuno secondo le proprie angosce.

È in questo scenario, incubo apparentemente fuoriuscito dalle latebre più oscure delle notti messicane di un esule Trotsky, che Antoine Volodine, principale pseudonimo di un oscuro autore franco-russo nato tra il 1949 e il 1950, forte di innumerevoli personalità letterarie e di una sconfinata bibliografia, ambienta il suo recente romanzo Undici sogni neri (Edizioni Clichy, 2013), stavolta firmandolo come Manuela Draeger.

La dimensione immanente di una minaccia ininterrotta spadroneggia indiscussa nelle pagine del libro, un’esperienza di stato di assedio che pervade come una coltre densa di fuliggine l’intera narrazione, il vivere dei personaggi e l’incedere delle trame nell’attesa che qualcosa, appartenente a quelle illusioni belle del mondo antico, possa di nuovo emergere al cospetto degli oppressi. Qualcosa che possa definitivamente sconfiggere un nemico che non si fa mai vedere: il capitalismo, forse, o magari un’impalpabile e acefala Amministrazione totalitaria di gusto dürrenmattiano. Ma nulla di tutto ciò emerge, e le celebrazioni del BolscioPride, che in questo caso finiscono in tragedia, letteralmente in fumo e cenere, vedranno l’attesa dell’egualitarismo coronarsi soltanto nella dimensione fantastica di un gigantesco ed ecumenico incendio, di un disastro bellico più che termonucleare fatto di ordigni molli e inesorabili, in cui ogni sfruttato, ogni umile, ogni orfano nella fattispecie, si troverà protagonista del grande rogo: nell’esperienza momentanea come nella rimembranza del ricordo. E nel rogo ognuno sarà fuso agli altri, confluendo in un’unica paradossale personalità contemporanea che risponde a numerosi nomi propri (come lo stesso Volodine con i suoi pseudonimi?) e che è fatta di accenti di materia e di sfumature di colore irriconoscibili a noi lettori che popoliamo quest’altro mondo, quello che disgraziatamenteci è dato in sorte.

La fine di tutte le cose trascende in questo modo le regole comuni del tempo, sicché la memoria (ossia le memorie unite in postrema comunione) possa fondersi in un’attualità diffusa che bazzica i territori del sogno, che solca i sentieri del fantastico e che di conseguenza costeggia i lidi delle cose perenni: luoghi che difficilmente possono essere raccontanti soltanto con le nostre parole.

In Undici sogni neri Volodine gioca così con l’angoscia e con l’attesa (come d’altronde aveva già fatto in Scrittori, l’altro suo romanzo pubblicato in Italia, ancora da Clichy, ancora nel 2013), proseguendo il suo cammino in un mondo inquieto, un orbe strutturato come fosse un’onnipervasiva istituzione totale in cui la vita sembra essere essa stessa pena, condanna quotidiana per chi ha avuto la sventura di nascere sotto forma di carne, nervi e patimento tra i suoi simili; sventura che, fortunatamente, in un modo o nell’altro dovrà pur finire.


[Manuela Draeger (Antoine Volodine), Undici sogni neri, trad. di Federica Di Lella, Edizioni Clichy, 2013, pp. 208, euro15]

“Nello specchio di Cagliostro” di Vittorio Giacopini

Sullo sfondo di una Roma trasformatasi in un dedalo di intricati misteri alle soglie della rivoluzione francese si sviluppano le vicende del complesso e coinvolgente romanzo di Vittorio Giacopini, Nello specchio di Cagliostro. Un sogno a Roma (ilSaggiatore, 2013).

«Ma lui è – o appare – soltanto un prigioniero. Ergo sum qui sum, ripete, ancora e ancora: il motto e l’insegna del conte di Cagliostro. L’uomo che ha stregato e avvinto l’intera Europa adesso costretto ai ferri, chiuso in galera». Eccolo, Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, una figura oscura, nascosta sotto uno strato di fitti arcani e affascinanti vicissitudini. «Di natura dileguante, paraspettrale, e mai succube del tempo, di uno spazio: il grande mago Cagliostro, l’arcitaliano».

È un alchimista, un avventuriero, un mago. È una di quelle storie che meritano un approfondimento, la sua. E le pagine di Giacopini diventano un tramite verso un’opera fatta di una densa trama che mescola leggenda, storia, lingua. Sì, anche lingua, una lingua d’impatto, avvolgente, lontana dalle più comuni forme espressive di molti romanzi storici contemporanei, una lingua che oscilla continuamente tra l’aulico e il triviale e che ci trascina senza scampo fra le strade, le persone, le voci che si mescolano in questo romanzo.

Figura contrapposta a Cagliostro è il cardinale Francesco Saverio de Zelada, a lui legato da un tacito patto, da lui ossessionato in quanto presagio dell’incombente rivoluzione: «L’eminentissimo cardinal Zelada. I titoli altisonanti, le prebende, i già ambitissimi incarichi, le molte arcane masioni, le incombenze, (tutte gravi, delicate, imprescindibili) […]. L’anima nera che aveva stroncato ed estinto i gesuiti; il nemico dei massoni, l’antagonista feroce di… Cagliostro».

L’ardito veggente, uomo dalle molteplici identità, e il devoto inquisitore che trascorre la sua esistenza tra le mura del suo palazzo si sfidano, si contrappongono nelle loro vite parallele, ci conducono senza preavviso fra le strade di una Roma che diventa la vera protagonista del romanzo. Una Roma fitta di oscuri misteri, di vicoli da borgo sperduto, una città quasi visionaria, una realtà parallela rispetto alla capitale che tutti conosciamo.

Grazie alle pagine di Giacopini assistiamo a una fedele ricostruzione di un’epoca, frutto di scrupolose ricerche storiche, compensata a tratti da lampi di pura invenzione, da riflessioni che portano a indagare sui complicati meccanismi della mente umana. Un libro che è come un incantesimo del quale è difficile liberarsi, un inconsueto sguardo su un cruciale pezzo di storia.


(Vittorio Giacopini, Nello specchio di Cagliostro. Un sogno a Roma, ilSaggiatore, 2013, pp. 592, euro 16)