“Ricatto” di James Ellroy

Los Angeles anni ’50
«Sono stato un agente del dipartimento di polizia di Los Angeles per quasi dieci anni. Conosco ogni singolo poliziotto corrotto di questa città. In cambio di una tariffa modesta i miei contatti riveleranno informazioni su tutti i membri dell’alta società, le celebrità, i comunisti, i bianchi scopatori di negri, i farabutti interessanti che conoscono».
Questa è la storia di Fred Otash, 1922-1992: investigatore privato, ex poliziotto non modello, informatore della rivista scandalistica Confidential. Questo è il patinato mondo di Hollywood degli anni ’50. Prima di internet e dei blog. Poliziotti corrotti, puttane, finocchi, assassini, file segreti, riviste scandalistiche e attori depravati. Anni che rivivono nel nuovo libro di James Ellroy, Ricatto (Einaudi, 2013, pp. 75, € 10,00).
Non si fa scrupoli Freddy perché «la vita è una Grande Estorsione, non puoi perdere questa chance». E lui non se lo lascia ripetere due volte. In fondo nessuno è così immacolato e «più cose sai sulle persone, meno riescono a commuoverti». Nonostante tutto anche Otash ha, a suo modo, una morale: «Lavoro per chiunque tranne i comunisti. Faccio di tutto tranne un omicidio».

Purgatorio 2012
Freddy è morto da vent’anni. E ha trascorso tutto questo tempo in purgatorio, perché ha scoperto che è tutto vero. Sì, quelle scemenze religiose alle quali non credeva da ragazzo si sono confermate reali: esiste il paradiso per la brava gente, l’inferno per i bastardi e il purgatorio per quelli come lui. Ha convissuto per lungo tempo con i suoi peccati e i suoi guardiani adesso vogliono fare un patto: «Scrivi il tuo percorso perverso e potrai anche finire in paradiso con tutti gli onori. Insomma, è arrivato il momento di CONFESSARE». E il purgatorio certo non è un bel posto. Anche perché le sue vittime terrene lo vengono spesso a trovare in cella per vendicarsi in modo brutale. La settimana scorsa è passata Ava Gardner. L’attrice « […] era una nefasta ninfomane, con una delirante devozione per il salame nero. Le procurai un incontro con un mandingo dotato come un cavallo, e sul più bello i miei ragazzi sfondarono la porta e scattarono la foto. Il numero di “Confidential” di aprile 1954 titolava, insidioso: “Ava Gardner e l’asta africana!”». Sì, è giunto proprio il momento di andarsene da questo posto. I guardiani lo hanno anche messo in contatto telepatico con uno scrittore al quale raccontare la sua storia, un tale James Ellroy …

Romanzo breve (un po’ troppo forse) nato prima come soggetto per un serial sulla Fox (mai realizzato), poi uscito negli Stati Uniti lo scorso anno ma solamente in formato ebook con il titolo Shakedown, Ricatto viene adesso pubblicato in Italia anche in formato cartaceo da Einaudi Stile libero (una novità, essendo i più celebri romanzi di Ellroy editi da Mondadori e alcune opere minori da Bompiani). Dopo la “trilogia americana” (American Tabloid, Sei pezzi da mille e Il sangue è randagio) lo scrittore californiano torna dunque nei luoghi della sua città natale, che già era stata teatro di alcuni suoi grandi successi – la cosiddetta “tetralogia di Los Angeles”: Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential, e White Jazz). Inconfondibile, come sempre il suo stile. Sardonico, asciutto, sconcio. In una parola reale. E non importa se i fatti narrati siano tutti veri o no (come in molti romanzi di Ellroy la cronaca e la storia si mischiano con la fantasia, personaggi realmente esistiti come Otash incontrano figure letterarie), l’importante è che siano verosimili.

Una volta, in un’intervista a una tv francese, sul finire degli anni ’80, Ellroy si definì una persona ossessionata dalla violenza, dal sesso, dalla gelosia e dall’ambizione sfrenata, salvata dalla scrittura dopo anni di piccoli crimini minori e di abuso di alcool e droga. In fondo non assomiglia un po’ a Freddy?


(James Ellroy, Ricatto, trad. di Alfredo Colitto, Einaudi, 2013, pp. 88, euro 10)

“Carte false”: a tu per tu con Valeria Luiselli

Roma, quartiere Flaminio, un pomeriggio di fine giugno. Fa caldo e diventa difficile capire il senso dei numeri civici di viale Pinturicchio, soprattutto quando si è in ritardo. Ho un appuntamento in una caffetteria di zona per intervistare Valeria Luiselli, giovane scrittrice messicana, in Italia per presentare Carte false (La Nuova Frontiera, 2013), suo libro d’esordio, secondo da noi, dopo Volti nella folla (La Nuova Frontiera, 2012). La riconosco subito, nonostante gli occhiali scuri attraverso cui, come mi dirà in confidenza, quasi a volersi scusare, cerca scampo dai postumi del jet lag. La sua gentilezza nei modi mi tranquillizza e decidiamo di iniziare l’intervista senza interpreti: io faccio le domande in italiano, lei mi risponde in spagnolo. E funziona – confesso di aver avuto più difficoltà con alcuni scrittori nostrani.


Valeria, per prima cosa vorrei chiederti: come nasce il titolo Carte false e qual è il senso del libro?

Come per tutti i miei libri ho sempre valutato un grande numero di titoli possibili, e per Carte false il titolo definitivo è arrivato proprio alla fine. I significati sono molteplici, ma devo dire che il libro è concepito quasi come fosse una serie di carte geografiche, oppure come una serie di documenti falsi, delle carte d’identità false. Ho iniziato a scriverlo quando sono arrivata a Città del Messico, dove sono nata ma dove non ho mai vissuto, e sentivo il bisogno di descrivere e raccontare gli spazi di quella città per provare a renderli miei. Da qui l’idea del testo come un passaporto, una carta d’identità per sentirmi parte di un determinato luogo. Inoltre il libro stesso mi ha portato a viaggiare, in particolare il penultimo viaggio che ho fatto è stato a Venezia, dove, come racconto, mi sono ammalata e dove, per curarmi, ho vissuto una curiosa peripezia burocratica.


Dunque hai concepito fin dall’inizio Carte false come un testo unico che raccogliesse testi eterogenei…

Sì, ho sempre avuto in mente di raccogliere tutto in un volume unico, anche se ovviamente durante i quattro anni di gestazione del libro l’idea originaria si è andata modificando. I saggi in esso contenuti nascono in momenti diversi ma conservano spesso collegamenti con il testo precedente o successivo.


Parlami invece della brevità dei testi raccolti. Ho notato che se da un lato quasi ti neghi la possibilità della divagazione esplicativa, dall’altro raggiungi una maggiore puntualità dell’intuizione…

Credo sia il riflesso del mio modo di pensare. Prima di scrivere prendo molti appunti, faccio disegni, scatto fotografie, poi quando decido di stendere il mio pensiero gli dedico momenti brevi, ma ripetuti, di grande concentrazione; non ho la scrittura torrenziale di altri scrittori, né passo il tempo a rileggere e correggere ciò che ho già scritto.


Uno dei capitoli che mi ha colpito di più è quello sui relingos. In particolare alla fine del capitolo fai delle bellissime descrizioni in cui paragoni ogni scrittore a uno spazio che tu immagini e concludi dicendo: «E tutto quello che non abbiamo letto, un relingo, il vuoto nel cuore della città». Potresti spiegare il parallelismo fra i relingos fisici della città e quelli della letteratura?

Per me i relingos sono degli spazi cittadini in relativo abbandono utilizzati dalle persone per vari scopi, e che guadagnano così nuova vita – ma non mi riferisco per esempio a edifici occupati, che normalmente ritornano a un uso ben definito. Allo stesso modo la lettura diventa per me uno spazio vuoto che posso utilizzare per giocare con i significati, spazi vuoti in cui respirare un po’. Un relingo è uno spazio non definito di infiniti usi possibili, e allo stesso modo un libro non letto è anch’esso uno spazio futuro che raccoglie possibilità, definizioni e significati molteplici.


Nonostante Città del Messico sia la città in cui sei nata non è la tua vera patria, dal momento che fin da piccola hai viaggiato molto; di contro nel libro ci sono molte citazioni di autori: si può dire scherzando che la letteratura è un po’ la tua vera patria?

Effettivamente mi piace giocare con quest’idea, perché è una bella metafora, anche se spesso rimane solamente un’idea affascinante, poco concreta. Devo dire però che l’attività dello scrivere per me è stata sempre un momento in cui mi sono sentita a casa, qualunque fosse il luogo in cui mi trovavo. Ti racconto questo aneddoto biografico: la prima volta che ho provato a scrivere un libro, che poi effettivamente non era un libro, avevo sei anni e vivevo in Corea del Sud; a scuola iniziai a scrivere questa storia un po’ surreale con le parole d’inglese che stavo imparando; le associavo in maniera casuale e inventavo delle storie. Lo scrivere quindi è sempre stato per me un modo di sentirmi a casa.


Ho letto che hai mosso delle critiche alla narrativa sul narcotraffico, tipica di una parte degli autori messicani contemporanei, in particolare hai sottolineato il suo essere un po’ di maniera.

In effetti mi sono pubblicamente pronunciata contro una certa letteratura sul tema. Non di tutta, perché penso che i giornalisti come Diego Osorno abbiano svolto un lavoro importantissimo in Messico in questi anni denunciando e svelando i disastri del narcotraffico. Quello che non mi piace è il proliferare di un certo tipo di romanzi un po’ frivoli incentrati sul narcotraffico, mi sembra un attaccamento parassitario a una situazione grave del mio paese, il cui risultato è quello di perpetuarne un’immagine esagerata e commerciale. È un modo facile di farsi pubblicità e guadagnare.


Di contro, ti si potrebbe accusare di dedicarti a una scrittura non impegnata – anche se a mio parere le analisi che fai sono profondamente segnate da un taglio sociale. Qual è quindi in breve la tua concezione di scrittura?

Beh, è una domanda difficile, potremmo parlarne tutta la sera, ma se dovessi riassumere in poche parole, rischiando di risultare un po’ banale, direi che il valore fondamentale della scrittura è l’onestà. Non voglio dire che uno non possa scrivere romanzi o inventare storie, ma di base ci deve sempre essere onestà. La risposta è corta e sembra frivola, bisognerebbe parlarne a lungo!


Per concludere, ci puoi dire quali sono i tuoi progetti futuri? Stai lavorando a un altro libro?

Sto rivedendo e sistemando un romanzo breve che scrissi qualche tempo fa a puntate. Ogni settimana inviavo un piccolo capitolo a una fabbrica di succhi di frutta in Messico. Una fondazione si preoccupava di stamparlo in varie copie e consegnarlo agli operai della fabbrica, che lo leggevano e in gruppo lo commentavano e lo criticavano. Le registrazioni audio di queste riunioni mi venivano inviate a New York, dove le ascoltavo e sulla base delle riflessioni nate scrivevo il capitolo successivo. Sono stati dei mesi molto divertenti e ora sto trasformando tutto questo in un libricino. Inoltre, già da qualche anno, sto scrivendo un romanzo sul Sudafrica, ma è un progetto che mi occuperà ancora qualche tempo.


Fuori dalla caffetteria Roma ha preso ormai il colorito tipico delle sue sere d’estate. Il caldo se n’è andato portando con sé la pesantezza del giorno e anche viale Pinturicchio appare ora meno ostile. La presentazione inizierà di lì a breve. Ho ancora qualche minuto per fare tardi, un’altra volta.
 


(Valeria Luiselli, Carte false, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, 2013, pp. 114, euro 15)


Si ringrazia Giacomo Sauro per la traduzione scritta dell’intervista.

“Lui è tornato” di Timur Vermes

«In ogni caso, lei non mi sembra una persona violenta».

La bellezza di un libro sta anche nelle domande che suscita. Non solo nelle risposte o nelle sicurezze, ma anche negli spunti di riflessione. Dico questo perché Lui è tornato di Timur Vermes (Bompiani, 2013) di spunti ne offre parecchi. Il primo: chi è tornato? Risposta: Adolf Hitler.

Cosa si può aggiungere ancora sulla figura del Führer? Fino a che punto può spingersi un narratore che usa tale personaggio come protagonista del proprio romanzo? E soprattutto, domanda che lo stesso autore si pone : «Ma si può ridere con e su Hitler?»

Dopo la storiografia, anche l’arte tedesca sta iniziando a fare i conti con Hitler e l’abisso storico e umano connesso. Prendiamo il cinema: da La caduta, fino alla commedia Mein Führer, in cui Goebbels fa uscire da un lager il suo vecchio maestro di recitazione ebreo per supportare un depresso e impacciato Hitler. Lui è tornato è l’ennesimo passo avanti. La successiva seduta di terapia post-trauma. L’arma con cui affrontarla: ancora una volta l’ironia. Lucida, implacabile, spietata e genuina. E ce ne vuole tanta per rispondere all’ennesima domanda: cosa accadrebbe se Adolf Hitler ritornasse in vita ai giorni nostri?

Sia chiaro, Timur Vermes non tratta il tema in maniera scanzonata o dissacrante. Garantisce il valore del libro con una preparazione storica massiccia ed enciclopedica, supportata anche da un apparato di note a fine romanzo. Non si cede mai a fanatismi o estremismi. Per parlare dell’ex capo del NSDAP occorre conoscerlo a fondo. Resuscitarlo. Vermes ha una trovata geniale: far parlare Hitler in prima persona. Non stiamo leggendo il narratore intento a descrivere lo spiazzante ritorno. Con Lui è tornato viviamo il flusso di pensieri del diretto interessato: il mondo secondo gli occhi e i pensieri di Hitler. Proprio come nel Mein Kampf.

La trama: ai giorni nostri, in un anonimo parco di periferia, Adolf Hitler si risveglia. L’ultimo ricordo è quello del bunker, di Eva, dell’arrivo dei russi. Ospitato da un benevolo edicolante (leggendo i giornali si accorgerà del salto temporale), cercherà lui stesso in primis di realizzare come sia stato possibile. Tale spunto narrativo permette un’infinità di riuscitissimi momenti comici. Pensate a Hitler che, fedele alla sua logica e al suo metodo, fa i conti con la Germania attuale: la Merkel, gli immigrati, la televisione, Internet, i cellulari e Starbuck. Il Führer tra i giovani alla moda e YouTube. L’edicolante ospitale lo scambia per un attore comico: gli troverà un ingaggio in tv: «Mi pareva di essere tornato agli inizi degli anni Venti. Con la sola differenza che allora mi ero accaparrato un partito. Questa volta era una trasmissione televisiva».

Sperando d’aver dato tutti gli spunti necessari per invogliare il lettore, diciamo che il pregio maggiore di Lui è tornato è quello di suscitare contemporaneamente la risata e la riflessione. Ogni gag è finalizzata a far riflettere per un attimo su alcuni aspetti drammatici della vicenda Hitler. Vermes riesce con maestria ad analizzare in maniera spietata e cinica la società attuale usando il personaggio più impensabile. Accostando due periodi storici distanti, ma forse non così diversi: ne viene fuori un libro così divertante e riuscito, da risultare tragico. E questa forse è la prima risposta da cui partire.


(Timur Vermes, Lui è tornato, trad. di Francesca Gabelli, Bompiani, 2013, pp. 448, euro 18,50) 

“Betty Page. La vita segreta della regina delle pin-up” di Lorenza Fruci

Betty Page. La vita segreta della regina delle pin-up (Giulio Perrone Editore, 2013) fa il suo ingresso in libreria, sotto il segno della penna di Lorenza Fruci, a novant’anni dalla nascita dell’icona americana.

Dando forma alla prima biografia italiana sull’argomento, la Fruci ripercorre la vita della pin-up più popolare dell’America puritana degli anni Cinquanta. Lo fa con un testo leggero ma non approssimativo, ricco di fonti e riferimenti cui attingere nel caso venisse voglia di approfondire l’argomento. L’esistenza di questa icona ci scorre davanti, dall’infanzia fino alla morte, attraverso un racconto lineare e pulito, scorrevole, che finisce per appassionare – a tradimento – anche chi non nutre interesse per l’argomento. Perché in fondo è la vita di una donna, la storia di un’infanzia, di un’ambizione, poi di un declino: il lettore incontra prima la donna e poi il personaggio, così che le due figure finiscono per confondersi e influenzarsi a vicenda mano a mano che la popolarità cresce e poi scema.

Sicuramente a questa figura va attribuito il merito di avere affrontato con ironia e disinvoltura temi che, nel suo contesto storico e culturale, erano tabù, lasciando al futuro migliaia di scatti che rappresentavano non solo una bellezza formosa, ma anche universi sessuali fortemente stigmatizzati, come il sadomaso ed il bondage. E senz’altro alla Fruci va riconosciuto il merito di avere messo insieme tutti i pezzi, dando uniformità a una Betty Page a tutto tondo, pregi e difetti, solidarietà e convenienze, fama e arresto per pornografia, senza privilegiare determinati aspetti a sfavore di altri.

Su Betty Page è stato detto moltissimo: che fosse una pin-up, che rappresentasse le comunità di sesso estremo, che facesse burlesque. La scrittrice non sposa nessuna di queste visioni, comprendendo che una personalità intera non può essere relegata a una sola categoria predeterminata. Piuttosto, ne narra l’esistenza da un punto di vista soggettivo, umano, che incontra una visione di costume, senza dare giudizi. L’appendice fotografica, ricca e curiosa, pare riflettere la scelta, ospitando immagini eterogenee che vedono affiancarsi sorrisi puliti, nudi, frustini, giovinezza e atti giudiziali.

Del resto, rifletteva bene Jesús Marchamalo nell’affermare che nelle librerie di chiunque ci sono sempre, inspiegabilmente, alcuni testi impensabili, di cui talvolta ci si vergogna, così che fra i vari Proust, Tolstoj, Joyce fa capolino all’improvviso un manuale di giardinaggio o un libro su Sex and The City. In fondo, un vero lettore non si priverebbe mai del piacere della lettura, condannandosi a un unico genere, a un’unica qualità: ci sono fiabe che valgono i più grandi capolavori russi.


(Lorenza Fruci, Betty Page. La vita segreta della regina delle pin-up, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 290, euro 16)

[IlLive] Baustelle @ Auditorium Parco della Musica, 27 luglio 2013

Chiunque si sia seduto almeno una volta nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma sa che ogni live ha un suo volto, un suo ritmo e anche una sua aneddotica. Quest’ultima edizione di Luglio suona bene lo ha ribadito attraverso chi, come i Baustelle, ha fatto vibrare strumenti e riempito di suoni l’aria concava della Cavea.

Portando in giro per l’Italia Fantasma, il sesto disco pensato e scritto dal trio senese, l’obbiettivo era parlare del tempo come un fantasma, o di quel fantasma spaventoso che è il tempo, come succede in Edgar Allan Poe o in Montale. E come anche al primo ascolto del disco, il tempo è leitmotiv insieme alla portata orchestrale a rappresentare la costante del live; un muro sonoro che dalle spalle dei tre raggiunge ogni persona venuta a sfidare l’aria calda e immobile del 27 luglio. Ma quello dei Baustelle è stato per lo più un live stracolmo di volti da osservare più che di suoni e strumenti da seguire e, canzoni a parte, povero di aneddoti.

Il valore corale di un progetto come quello che parte con Fantasma, per quanto si possa discutere, è certamente una questione di estetica, se vogliamo soggettiva, com’è l’idea che ogni ascoltatore può farsi della musica che ascolta. Ma se una performance è ancora qualcosa che dal divino è ispirata – fosse pure un divino rien, quello di Mallarmé – allora o si parla di assenza di ispirazione o di mestiere del musicista (e sciopero sindacale delle emozioni). Poco c’è da dire su ciò che è estensione vocale o sul concetto di brivido che trasmette una voce come quella di Rachele Bastreghi, poiché rappresenta bene ciò che è musica. Ma, pezzi di bravura a parte, come quelli di chi scrive i testi, chi li suona, chi li dirige (con Enrico Gabrielli a guidare la foltissima Ensemble Symphony Orchestra), che dire del concetto di noia? Si parlava del tempo, dicevamo; quello passato e quello futuro; di come lo si attraversa e di come lo si pensa, senza rendersi conto però che quello presente è altrettanto importante e racchiuso nel gesto con cui si accompagna un accordo di chitarra o in una parola pronunciata/cantata al microfono. Questo decide la noia: non degli spettatori, gentili e affezionati applauditori, ma del fantasma di un orchestrale immobile (uno dei tanti) e la storia triste del suo strumento, liberato dalla sua schiavitù silenziosa solo per accennare un rumore che magari nessuno coglierà, poiché c’è comunque Bianconi, una sedia e una chitarra, il tono baritonale, con parole che non vanno oltre la giustificazione del perché quella sera siamo tutti lì – ma quello è il minimo sindacale.

Forse, per chi arrivava nel salotto dei Baustelle per la prima volta, l’emozione verginale ha saputo colmare un gesto non compiuto o una nota non suonata, quando di note se ne potevano fare anche di più. Forse avrebbero invaso troppo il tema portante e le parole che lo hanno accompagnato, ma tra il lalalalala di apertura di“Fantasma (Titoli di testa)”, le ipotesi di “Il futuro”, il manifesto personale che è “Nessuno” e “Andarsene così” che chiude il tutto, più che lo spazio del ricordo per l’arrangiamento slow di “Charlie fa surf” o per l’omaggio a quell’altro cantore del tempo che fu Leo Ferré di “Col Tempo”, resta la fotografia che ritrae chi era la sera prima a una festa: la faccia assente, gli strumenti mezzi addormentati; lasciando tra i vari pensieri e discussioni anche l’idea che forse la domanda che qualcuno di quelli che era lì sul palco si è fatto prima di salire fosse: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?…»

Dalla buona penna alla buona voce di Bianconi, con la scenografia minima data dalla copertina di Fantasma, a Rachele a cui basta la voce, un pianoforte e tacchi alti per convincere, gli Ensemble, la band, la chitarra di Claudio Brasini, resta da dire che ventidue sono stati i pezzi che hanno dato forma al setlist di una serata che, a ogni modo, è stata applaudita ma soprattutto cantata. Forse è questo che mette in discussione anche il più evidente accenno di noia o di silenzio.

“Canada” di Richard Ford

Può capitare, leggendo Canada (Feltrinelli, 2013) di Richard Ford, di chiedersi per quale motivo l’autore impieghi circa cento pagine per raccontare ogni avvenimento chiave della storia – la rapina, l’arresto, la fuga, gli omicidi – quando poteva benissimo cavarsela con una buona metà.

Un’osservazione forse un po’ superficiale, ma assolutamente lecita.

Supponiamo poi che il passo successivo per risolvere il dilemma preveda la ricerca e la lettura delle recensioni uscite riguardo al libro, perché Richard Ford in fondo è un mostro sacro e ci deve essere una ragione per tutto ciò che fa. Il lettore troverà allora piena soddisfazione nelle parole di Lorrie Moore: «Ci sono romanzi che sono come gabbie, trappole, o carta moschicida, concepiti per catturare le cose e stringerle insieme. Canada è il contrario: è trascinato dal flusso mentale di un figlio e di un fratello che hanno centinaia di domande e pochissime risposte».

Canada di Richard Ford è esattamene questo: un flusso torrentizio di pensieri che avvolge il lettore e lo trascina con sé, sollevandolo da terra, sbatacchiandolo al suolo, per poi abbandonarlo sulla riva turbato e scosso. Un flusso fatto di ripetizioni, di precisazioni, di interrogativi ricorrenti, che travolgerebbe quasi sicuramente chiunque si trovasse ad aver vissuto una vita come quella di Dell Parsons e fosse riuscito a sopravviverle.

Anni Sessanta del Novecento, Great Falls, Montana. Dell e la sorella Berner hanno solo quindici anni quando i genitori, due normalissimi genitori, decidono di compiere una rapina, con l’illusione di poter dare a se stessi e ai propri figli un futuro migliore, di potersi liberare dalla mediocrità statica, tipica della provincia americana. Ma si sa, solo dei folli o degli ingenui improvviserebbero una rapina, certi di farla franca. I genitori di Dell vengono arrestati dopo qualche giorno, davanti agli occhi stupiti dei propri figli. Ha inizio allora la fuga dei ragazzi, per scampare a un destino di orfanotrofi e servizi sociali. Separatosi dalla sorella, più sveglia e ribelle di lui, Dell finisce in uno sperduto paese del Saskatchewan, la più anonima tra le province del Canada, persa nel nulla della prateria, tra la prospera Alberta e il sonnecchiante Manitoba. Qui incontrerà Arthur Remlinger, figura ambigua e impenetrabile, un enigma vivente, capace di uccidere chiunque pur di salvare la pelle. Nonostante le avversità – alla rapina seguiranno degli omicidi – Dell riuscirà a mantenere la purezza che lo ha sempre contraddistinto, pur rimanendo prigioniero perenne dei molti interrogativi circa il legame di causa-effetto che hanno condizionato la sua esistenza.

Sarà l’incontro finale con la sorella Berner a permettere a Dell di dare un senso ulteriore al passato, in parte comune, in parte individuale, che ha marchiato le loro vite. Così come diventa ancora più evidente nel finale quel legame profondo tra i ricordi di Dell quindicenne e quelli di Dell ormai adulto, così perfettamente innescato nella dinamicità del flusso di pensieri, attraverso cui Ford collega le vicende.

Canada spalanca una miriade di finestre sul senso dell’esistenza, delle decisioni e delle azioni proprie e altrui, delle conseguenze che queste portano con sé. Al lettore spetta la scelta se affacciarsi o no per guardare cosa c’è oltre la siepe.


(Richard Ford, Canada, trad. di Vicenzo Mantovani, Feltrinelli, 2013, pp. 424, euro 19)

“Storie in modo quasi classico” di Harold Brodkey

«Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Chi non ricorda il più volte citato e famosissimo incipit di Anna Karenina?

Da Tolstoj a Flaubert, da Franzen a Eugenides, da sempre la letteratura racconta quel grumo sentimentale irrisolto e irrisolvibile che sono i rapporti di amore e odio, ubbidienza e disubbidienza fra genitori e figli. La famiglia e la sua versione allargata è divenuta negli ultimi tempi sempre più covo di risentimenti piuttosto che nido, focolaio di incomprensioni e frizioni più che focolare.

Storie in modo quasi classico (Fandango, 2012) di Harold Brodkey è una raccolta di racconti, pubblicata originariamente nel 1988, che quel grumo intende non già disciogliere ma indagare attraverso lo sguardo critico e il sentire visceralmente coinvolto di un bambino adottato dai cugini del padre alla morte della mamma quando lui aveva solo due anni.

L’autobiografia infatti è ben dissimulata fra le pagine di questi racconti in cui sono ripercorse le dinamiche della famiglia in cui Weill Silenowicz, questo il nome del protagonista di quasi tutte le diciassette storie, crebbe in un’atmosfera tutt’altro che ovattata: «Spesso, molto spesso avevo degli accessi di rabbia omicida nei confronti dei miei genitori adottivi; li sentivo interiormente, soltanto interiormente: una sensazione ustionante di dolore e di odio al tempo stesso».

Soprattutto la figura materna ne è al centro e ritorna in modo ossessivo in quest’antologia che di fatto costituisce un antipasto di quello che sarà il romanzo più impegnativo di Brodkey, cui l’autore lavorò per trent’anni, Runaway Soul, anch’esso in via di pubblicazione secondo quella meritoria opera di riscoperta che Fandango si è proposta di portare a compimento tributando il giusto omaggio anche da parte del nostro paese a quello che può essere considerato a buon diritto uno dei maggiori scrittori americani del Novecento.

Il racconto eponimo è il più sorprendente e sconvolgente. È il racconto in cui il genio letterario di Brodkey raggiunge forse il suo apice.

Protagonista è un ragazzino adolescente che si affaccia alla maturità di nome Harold Brodkey. È proprio lui, lo scrittore, che in questa storia prova a mettersi letteralmente nei panni della madre adottiva, come lei stessa più volte lo esorta a fare, ovvero di una donna di mezza età malata di cancro, piena di risentimento e odio, avvertendone anche fisicamente le sofferenze. Sono pagine dolorose e faticose anche per il lettore più freddo e distaccato. I due si scontrano, si graffiano ma nonostante tutto rivelano la loro forte interdipendenza: «Dopo la sua morte, ebbi un crollo nervoso. Non riuscivo a credere che mi mancasse tanto. L’avevo amata alla fine, l’avevo amata di nuovo, l’avevo amata e ammirata, l’avevo amata enormemente; naturalmente, a quel punto lei non chiedeva più che il mio amore si esprimesse in una forma di sacrificio per lei. L’amai, mentre mi godevo una crescente libertà da lei, ma avevo ancora bisogno di lei, e, come ho detto, ebbi un crollo nervoso quando morì».

A proposito di questo racconto, in un’intervista del 1991 rilasciata alla traduttrice italiana Delfina Vezzoli, posta a conclusione del libro, Brodkey affermava: «Ecco […] questa è “quasi” la mia storia preferita, e in un certo qual modo contiene la chiave della mia scrittura: il tentativo, che rincorro, di risalire alle radici dell’esperienza e raccontare, con un linguaggio non convenzionale, non stereotipato, in che cosa consiste un’emozione, come si presenta alla coscienza, e quali reazioni scatena».

Le storie di quello che Harold Bloom definì il «Proust americano» raccontano la vita senza cercare di interpretarla o di indagare le psicologie dei suoi attori, ci narrano il dolore senza cercare di lenirlo, la sofferenza senza rinunciare a volte a una dose di humour tipicamente ebraico.


(Harold Brodkey, Storie in modo quasi classico, trad. di Delfina Vezzoli, Fandango, 2012, pp. 862, euro 29,50)

“Piuttosto che morire m’ammazzo” di Guido Catalano

«Si può fare i poeti senza essere poeti? Si può non fare i poeti ed esserlo? Cosa significa essere poeta? […] Ecco, questa è solo una piccola percentuale delle domande che mi pongo prima di andare a letto o mentre faccio la pipì nei bagni dei bar che frequento». Arrivato al sesto libro di poesie, Piuttosto che morire m’ammazzo (Miraggi, 2013), che raccoglie quelle che Guido Catalano ha scritto nel corso dell’ultimo anno, è giusto porsi simili domande? Leggendolo, non si capisce bene quanto Catalano sia interessato a trovare le risposte, resta però che questo non è che un modo possibile per rispondere a quelle altre domande, quelle a cui soprattutto l’ultimo decennio ci ha abituato: la poesia è morta? La poesia è viva? La poesia, dov’è? Chi la fa?

Non che Catalano abbia deciso di impegnarsi in uno studio del profilo del poeta degli anni post-00, ma quello che piace vedere è quest’ovvia problematicità del soggetto poeta messa al centro, e, insieme, il nostro bisogno di ripensarlo. Allora, oggi, chi dice «poeta» dice qualcosa che la letteratura stessa prova a ritrovare, forse dietro un neologismo o nel bel mezzo del liquido, realistico panorama di quello che era ed è l’inchiostro.

Allora, forse per questo suo attacco interrogativo, forse per il suo modo di usare la parola, Piuttosto che morire m’ammazzo sembra quasi scriversi per rinuncia e per necessità, come se il suo autore pensasse «piuttosto che fare il poeta scrivo poesie», quando fare il poeta, appunto, risulta qualcosa di indefinito.

Quella di questa raccolta però vuole essere poesia, e innanzitutto poesia dello spaesamento («io i punti cardinali non li so»), parlando di una condizione propria del singolare, inteso come entità numerica che mira nel proprio panorama un plurale che è di fronte e tutto intorno, ma senza prendere la china «da melodramma dei miei coglioni».

Sessantanove componimenti, tra poesie e qualche dialoghetto; un’ambizione che più che prosimetrale possiamo definire cabarettistica, performativa, come la modalità di fruizione che più le si addice per far emergere quella che è la sua prima caratteristica: la musica. Al centro si pone dunque il sentimento, ma anche tante cianfrusaglie e cose comuni, che rappresentano poi l’oggettistica sincera di quel sentimento.

È una raccolta fatta di creature piccole: cani, gatti e minuscoli compagni d’arredamento disseminati nei versi come le uniche lettere che Catalano impiega, forse perché parla a quel gigante, maiuscolo, che è l’assenza, condizione che è vera, sì, ma più per sfiga che per impossibilità: «se tu fossi qui / probabilmente / io sarei lì / tu lo sapresti / e verresti lì / ma io sarei già su un tram / per tornare qui / e ti vedrei dal finestrino / che cammini a passo veloce / verso lì».

«E poi come sempre – e forse più che in passato – dalle pagine di questa raccolta tracima una quantità d’amore che non si capisce come sia possibile tutto questo amore per un uomo solo», fatto sta che questo abbonda e dà il tempo alla poesia, fino al punto da togliere qualsiasi ingresso al pensiero civile. Resta tutto ciò che è performance, in una maniera che Catalano intende bene e che è coerente con il “farsi” della sua poesia.

Poeta, Catalano, forse non vuole esserlo. Soltanto il reduce di uno scontro con le parole in attesa di capire come stanno / veramente / le cose:

[…]
poeti che abbaiano è pieno
di meno
cani che scrivono poesie oneste
con una buona pistola comunque li abbatti entrambi facile
e se ti avanza un colpo
sparatelo nel piede
[…]
 


(Guido Catalano, Piuttosto che morire m’ammazzo, Miraggi, 2013, pp. 154, euro 14)

“Onora la madre”: a tu per tu con Angela Iantosca

C’è ancora, nel nostro vituperato e decadente paese più volte offeso dai suoi cittadini prima ancora che dalla sua classe politica, un manipolo di uomini e donne di buona volontà che si ostina a raccontare storie, persone, culture, alienazioni, per fermarle nel tempo così da fotografarne i particolari, per identificarne i contorni.

Abbiamo incontrato la giornalista Angela Iantosca, al suo primo libro con Onora la madre – Storie di ’ndrangheta al femminile (Rubbettino, 2013). Il volume è un ricco compendio sul fenomeno della ’ndrangheta, mafia tra le più nebulose, e sul ruolo delle donne, sempre più protagoniste anche in questi settori criminali.

«La mafia calabrese è silenziosa, non è eclatante, clamorosa come quella siciliana, come la camorra in Campania», spiega a Flanerí la giovane reporter di Latina, «ma si distingue per i meriti acquisiti sul campo».

Il fatturato della ’ndrangheta, secondo le ultime stime pubblicate da Il Sole 24 Ore a metà luglio è di 52,6 miliardi l’anno. Numeri impressionanti per un giro d’affari da multinazionale se non da piccolo stato, con una stima pari al 3,4% del Pil italiano.

«Questo della ’ndrangheta è un piccolo capolavoro diabolico. Lo Stato, le Istituzioni, la Magistratura per decenni hanno sottovalutato la criminalità organizzata calabrese, ritenendola arcaica, primitiva. Invece è venuto fuori che oggi la ’ndrangheta detta le regole del traffico internazionale di droga, stringe alleanze politiche, economiche, massoniche, senza complessi di inferiorità perché ha un potere militare ed economico smisurato. Inoltre sono pochissimi i pentiti che ce la svelano, perché è un’organizzazione chiusa, blindata dal suo interno».


Angela, il tuo libro vanta la prefazione del professor Enzo Ciconte, considerato uno dei massimi studiosi del fenomeno ’ndrangheta oggi: come ti spieghi l’ascesa esponenziale di questa criminalità?

L’impenetrabilità è stata fondamentale per la sua crescita. Questa è dovuta principalmente a due fattori/espedienti geniali nella loro perversità. Un rapporto parentale pressoché totale tra i vari componenti delle cosche e famiglie, e poi l’utilizzo di un dialetto strettissimo tra gli affiliati. Addirittura il gergo della borgata di appartenenza! Quest’ultimo elemento rende molto complicate, se non impossibili, le intercettazioni di forze dell’ordine e magistratura.


Onora la madre è incentrato sul ruolo delle donne dentro il fenomeno mafioso calabrese. Perché questa scelta? È così importante?

È una sorta di sillogismo aristotelico: la famiglia è l’elemento fondante della ’ndrangheta, la donna è un elemento fondante della famiglia, la donna è, dunque, l’elemento fondante della ’ndrangheta. Molto semplice. Eppure complicatissimo. Ma nella mafia calabrese questo è tanto strategico e cardine nei suoi meccanismi, quanto, volutamente, è tenuto in sordina. Quello che muove le donne, nel bene e nel male, oltre al potere e al denaro, è il vincolo dei figli. Per preservare i figli la donna di ’ndrangheta protegge, minaccia, ordina omicidi, ma può anche, in rari casi ancora, diventare una preziosa collaboratrice di giustizia come Giuseppina Pesce che, dopo il suo arresto, decide di rompere con la famiglia mafiosa per salvare i propri figli e diventare collaboratrice. Il prezzo per queste decisioni è altissimo, a volte la vita stessa. I figli, punto di forza e di debolezza. Le donne rischiano la vita, pur di far condurre ai figli un’esistenza diversa dalla loro. Il web ha avuto un ruolo chiave per fare uscire queste donne dalla gabbia del paese/clan che le voleva solo figlie-mogli-madri. Social network come Facebook le hanno messe in contatto col mondo esterno, tant’è che alcune hanno deciso di raccontare le loro storie ai magistrati, dopo aver incontrato in rete dei ragazzi, degli uomini, che le hanno viste come persone e non oggetti.


Nel volume racconti storie di donne-boss come Maria Serraino definita «Mamma eroina» quando era a capo della ’ndrangheta milanese dopo gli anni ’60. E poi racconti di donne coraggiose come Teresa Concetta Malagò, prima collaboratrice di giustizia di ’ndrangheta, e Lea Garofalo l’ex testimone di giustizia uccisa per aver testimoniato contro il marito Carlo Cosco e aver difeso la figlia Denise. Tu stessa, Angela, sei andata a raccogliere queste storie e testimonianze direttamente in Calabria. Che tipo di ambiente ti sei trovata di fronte?

Ho trovato una Calabria ospitale, accogliente, disponibile a parlare. Ho avuto modo di confrontarmi, di girare da Praia a Mare fino alla Locride. Ho avuto la fortuna di poter incontrare Marisa Garofalo e di ascoltare da lei il racconto di una sorella “inedita”, testarda sin dai primi anni di vita. Ho incontrato la Calabria dimenticata, quella fatta di riti, di fede, di tradizioni. Ma soprattutto, grazie a questo viaggio ho conosciuto la Calabria che non si può non amare, quella fatta dagli uomini e dalle donne che, nonostante tutto, hanno deciso di rimanere nella loro terra che si può cambiare solo se si impara a usare la parola «NO».


Grazie per la testimonianza, a presto Angela.


(Angela Iantosca, Onora la madre – Storie di ’ndrangheta al femminile, Rubbettino, 2013, pp. 240, euro 12)

“Apnea”: a tu per tu con Lorenzo Amurri

Apnea (Fandango, 2013) è il romanzo d’esordio di Lorenzo Amurri: una storia dolorosamente autobiografica, un percorso di disperazione e rinascita, e in ultimo un caso letterario, selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega di quest’anno.

Lo scorso 25 giugno abbiamo incontrato l’autore presso la libreria Arion di Testaccio, in occasione della presentazione del romanzo, avendo così l’opportunità di farci raccontare la genesi di Apnea, e non solo.

Apnea non è soltanto un romanzo ma è la storia della tua vita, dolorosa ed emozionante. Perché scriverne in modo da rendere pubblico tutto questo dolore? Perché volerlo condividere con gli altri?

Probabilmente era un’urgenza che avevo inconscia. Avevo scritto in realtà dei racconti e molti erano su questo tema e una mia amica scrittrice, alla quale mandavo questi racconti, mi ha ordinato di metterli in un romanzo perché era un materiale bellissimo e non potevo sprecarlo in dei racconti. Quindi in realtà all’inizio sono stato spinto, ma poi quando ho cominciato mi sono reso conto che avevo proprio bisogno di raccontare tutto, non solo per me, ma anche per stimolare gli altri su quello che succede. Nessuno sa bene quello che prova una persona che ha avuto un incidente, che si ritrova paralizzato e quello che c’è dietro alla carrozzina. La carrozzina diventa il premio che tu ricevi per continuare a vivere. Volevo un po’ raccontare tutto questo e volevo rivolgermi all’altra protagonista del libro che è la mia fidanzata di quel tempo che è stata molto coraggiosa, mi è stata vicino. Molte cose rimangono per aria e non si dicono per tanti anni, e quindi forse era anche venuto il momento di dirle determinate cose rimaste non dette.

Ciò che più colpisce nel tuo racconto è la schiettezza. Tutto raccontato senza nessuna finzione. Sembra di toccare con mano tutto quel dolore e soprattutto i sentimenti che subentrano in situazioni simili. Non è un romanzo, è un racconto di una parte molto importante e dolorosa della tua vita. Quanto è stato difficile rimanere ancorati alla pura verità senza dover trovare fronzoli da aggiungere?

È stato terapeutico da una parte, perché evidentemente avevo bisogno di tirare fuori queste cose, e dall’altra è stato molto difficile, perché è doloroso mettere nero su bianco dei ricordi che per tanto tempo erano rimasti nella mia testa. Mi dovevo fermare di capitolo in capitolo per metabolizzare quello che avevo scritto per poi continuare. La scelta di voler raccontare i particolari crudi della verità è stata una cosa che non ho avuto difficoltà a fare. Un po’ perché non ho alcun senso del pudore, quindi non mi interessa nascondere nulla e poi perché era giusto farlo. Quello non è stato difficile, è stato abbastanza naturale. È scritto in un modo che volutamente vuol fare entrare subito in contatto la persona che legge con ciò che succede. La vera conquista è stata far sentire al lettore ciò che si prova sulla propria pelle.

La morte. Si capisce presto che tutta questa sofferenza è troppo pesanteda sopportare. Resta solo da immaginare di farla finita sebbene, date le circostanze, anche questo risulti complesso,  alla fine un modo lo trovi. Perché però si torna indietro? Era importante semplicemente scoprire di poterlo fare da solo?

Esattamente. Qual era l’urgenza? Il fatto di dover essere aiutato per il 90% delle cose di tutti i giorni mi dava molto fastidio a quel tempo. Se davvero avessi voluto chiudere e non continuare a vivere, l’avrei voluto fare in completa autonomia, cosa che per un paraplegico non è facile. In una clinica in Svizzera ho provato a chiedere aiuto a un infermiere, ma ovviamente lui non sta lì per ammazzarti e anzi, giocava molto su questa cosa del suicidio.
L’aver trovato infine il modo di farlo mi ha dato la possibilità di capire che in realtà non avevo per niente voglia di morire, anzi, forse mi ha aperto gli occhi su ciò di positivo ancora esisteva. Probabilmente è stato il momento di svolta.


L’amore. Al tuo fianco c’è stata una donna molto forte che ha capitoquando rimanere ma che è stata coraggiosa ad andare via quando era necessario. Quanto devi a lei?

Le devo moltissimo. Anche se sei tu che decidi, a un certo punto, quando è arrivato il momento di risvegliarsi e di continuare a vivere, è vero che hai tante persone intorno che provano ad aiutarti. Nessuno può entrare nel tuo dolore finché tu non decidi di farlo entrare, possono fare quello che vogliono, ma è impossibile che ci riescano. Il primo ad aprire la porta sei tu, poi puoi ricevere l’aiuto che vuoi.
Lei, nonostante questo, mi è rimasta sempre accanto, ha fatto di tutto per aiutarmi. Apnea è scritto anche per lei e per tutto quello che ha fatto.

La famiglia. Non si è mai pronti ad affrontare una situazione come quellache è capitata a te. La tua famiglia ha provato, sbagliando e facendo bene, a supportarti. Li hai descritti con molta umanità, con limiti e pregi. Cosa hanno detto dopo aver letto il tuo racconto?

Mia sorella mi ha detto che avrei potuto essere un po’ più buono, ma in realtà sono stati contenti perché ho espresso il mio punto di vista aprendogli un mondo, perché loro sicuramente non avevano capito niente di quello che io stavo provando in quei momenti. Non li ho descritti così male in realtà, forse giusto con mia madre sono stato un po’ cattivo, ma li ho descritti come li vedevo in quel momento. E la verità vince sempre.

Quali sono i tuoi riferimenti letterari?

Tanti, il mio scrittore preferito è John Fante. Sono molto legato a una certa letteratura americana che è quella di Carver, Lethem, Foster Wallace, ma anche tutta la Beat Generation, o Calvino e Kafka. Kafka mi ha stimolato molto perché sapeva entrare subito nel particolare più crudo e cinico. Poi Andrew Davidson con Gargoyle, che ho letto poco prima di iniziare a scrivere il mio romanzo: il protagonista ha un incidente stradale, la macchina prende fuoco e lui si ustiona. Viene raccontato nei minimi particolari il corpo ustionato dentro la macchina, che entra in contatto con la plastica che si scioglie, in un modo che senti anche tu le bruciature sul corpo. Prima di vedere la sua foto pensavo che l’autore fosse un ustionato, invece no. Era tutto immaginato. Evidentemente, deve aver studiato l’argomento ed ha scritto un romanzo in un modo tale che veramente il lettore riesce a sentire ciò che legge. Mi sono detto che anche io dovevo riuscire a fare quello che aveva fatto lui.

Che fossi un artista era chiaro dalla tua musica, ma cosa hai provatoriscoprendoti portatore di un’altra arte? Quali sono adesso i tuoi progetti futuri?

Ho scoperto un nuovo modo per comunicare e per esprimermi che mi calza a pennello perché non devo essere aiutato da nessuno a farlo ed è molto vicino a quello che facevo prima, tra l’altro. Mi mancherà sempre poter suonare uno strumento, quella era la mia vera passione. Però è chiaro che la scrittura adesso è diventata la cosa principale e ora che riuscirò ad andarmene in vacanza mi metterò di nuovo al lavoro. Mi devo ancora cimentare nella scrittura di testi musicali, devo vedere se sono capace a farlo: è un altro tipo di scrittura, che si avvicina molto di più alla poesia, è la sintesi vera, molto difficile rispetto all’ampio respiro consentito dal romanzo.

Chiudiamo con una curiosità: ho letto da qualche parte il personaggio di Lorenzo interpretato da Corrado Guzzanti è ispirato a te, è vero?

Sì, ero io in un momento della mia vita un po’ particolare, però era la verità. Era caricaturale chiaramente, ma in quel periodo era tragicamente vicino alla realtà. Vivevo a New York all’epoca, e Corrado mi telefonava e mi faceva la mia imitazione al telefono. Mi divertiva molto, Corrado e mia sorella Valentina ne avevano invece un po’ paura.

 

 

(Lorenzo Amurri, Apnea, Fandango, 2013, pp. 251, euro 16)

La collezione Netter al Palazzo Reale di Milano

Fino all’8 settembre, il Palazzo Reale di Milano ospita la mostra Modigliani. Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter, che comprende 120 opere, non solo del grande maestro livornese, ma anche di altri artisti che come lui hanno vissuto e animato la Parigi degli inizi del secolo scorso. Dopo il grande successo ottenuto alla Pinacothèque de Paris dal curatore Marc Restellini, viene esposta per la prima volta in Italia la collezione di Jonas Netter, conoscitore, scopritore di talenti e grande amatore dell’opera di Modigliani, tanto da ottenere nel 1920 l’esclusiva sulla sua produzione artistica.

Fin dalla prima sala, l’allestimento appare moderno e lineare, con dei pannelli informativi abbastanza esaurienti, stampati come fossero sul retro di una tela. L’attenzione viene subito calamitata verso una delle più importanti opere presenti in mostra: “Le grandi bagnanti” di André Derain del 1908.

L’opera è stata realizzata contemporaneamente a “Les demoiselles d’Avignon” di Picasso e, insieme a quest’ultima, diventa un manifesto per la cultura artistica dell’epoca. Le figure imponenti, scolpite con colori materici, sono evidenti riferimenti a un’arte primitiva e il paesaggio sullo sfondo vibra di moderne forme geometriche.
 


Il percorso comincia analizzando i paesaggi di Utrillo, altro pittore dalla tragica storia personale segnata dall’alcolismo, che faceva parte del fermento creativo di Montparnasse, e continua con la madre Suzanne Valadon, modella di Degas e di Renoir, pittrice e amante di molti artisti come Erik Satie – Toulose-Lautrec la paragonava alla Susanna biblica concupita da due vecchioni –, con i suoi dipinti sorprendenti.

La “Veduta di Corte (Corsica)”, del 1913, è un prezioso sguardo su un piccolo paese perso tra i monti e fermo nel tempo, un rifugio dalla frenetica capitale francese.

Nella sala dedicata ad Amedeo Modigliani viene analizzato meglio il rapporto che ebbe con il collezionista Netter, introducendo la figura del mercante Zborowski, primo vero ammiratore del maestro italiano. Sono esposti alcuni tra i suoi importanti ritratti come la “Bambina in abito azzurro” del 1918 e la “Giovane donna seduta con camicia bianca” del 1919, a sottolineare l’importanza che ha avuto per Modigliani questo genere – celebre è la frase che disse a Diego Rivera dinnanzi a un attentissimo Picasso: «Paesaggi! Ma non farmi ridere, il paesaggio non vive!»
 


Fu lo stesso Modigliani a presentare Soutine a Netter, passandogli il testimone poco prima di morire – «Non prendertela, io me ne vado, ma ti lascio Soutine». L’ultima sala nella quale vale la pena soffermarsi è proprio quella dedicata a questo eccentrico artista di origine russa dallo stile crudo e immediato. L’opera che più rimane impressa è “Il bue” del 1920, un omaggio al “Bue squartato” di Rembrandt, sia per il soggetto e per i colori vibranti, che per la storia che c’è dietro: per ottenere un miglior risultato Soutine si portò una vera carcassa a casa come modello per il suo dipinto, ma dopo qualche giorno i vicini si lamentarono per il cattivo odore, quindi fu costretto a imbalsamarla con la formaldeide, ma per rendere comunque vivida la carne ogni giorno la cospargeva con litri di sangue.
 


La mostra è da ritenersi valida nonostante il titolo fuorviante che induce il visitatore a pensare che Modigliani ne sia l’assoluto protagonista. La collezione Netter, sconosciuta ai più, è un chiaro paradigma di quello che succedeva nella Ville Lumière nei primi anni del Novecento. Modigliani. Soutine e gli artisti maledetti costituisce dunque una buona occasione per ammirarla, dal momento che è stata inaccessibile per venti anni.

 

Modigliani. Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter
Palazzo Reale, Piazza del Duomo 12, Milano
21 febbraio – 8 settembre 2013

Ulteriori informazioni qui.
 

[IlLive] Asaf Avidan @Auditorium Parco della Musica, 16 Luglio 2013

Forse, se non fosse stato per il celeberrimo remix di “Recknoning Song” non ci saremmo goduti Asaf Avidan all’Auditorium Parco della Musica, nell’ambito della rassegna Luglio Suona Bene. Visto il talento pauroso, molto probabilmente il trentenne israeliano sarebbe arrivato alla ribalta comunque, abbandonando lo status d’autore di culto per pochi ascoltatori eletti. Fatto sta che dopo il successo di “One Day / Reckoning Song” e la fortunata apparizione sanremese, Avidan ha iniziato a farsi conoscere in maniera sempre più impetuosa. A supportarlo l’ultimo disco, Different Pulses, davvero notevole. L’album è il primo da solista per Avidan, dopo i tre composti con la band The Mojos.

Parlare di Asaf Avidan vuol dire anche parlare della sua voce. Tra Janis Joplin e un bluesman furioso. È stato soprannominato “l’angelo rauco”: quel timbro vocale sinuoso, a tratti isterico a tratti dolce, sicuramente unico e impressionante. Capace di riecheggiare nel cielo sereno della capitale ammaliando i presenti nella Cavea. Incentrato suDifferent Pulses, il concerto è un tripudio di sonorità elettro-pop, in cui si staglia marcatamente il tratto etnico, mediterraneo e multiculturale di Avidan.

Bastano pochi attimi dall’inizio, per capire che il cantante è di buon umore: parla e scherza con il pubblico. Si confessa e dialoga. Scherza con la band. Fedele al suo stile fatto di canotta bianca e bretelle, distilla perla di saggezza, accennando alla musica come filosofia e al palco di un concerto come un piccolo microcosmo umano. Intanto il talento impressionante – figlio dell’underground e di una formazione musicale pari a pochi – lascia intuire una cosa a tutti quanti: sarà un concerto magnifico.

Una dopo l’altra, ecco le perle di Different Pulses: “Setting Scalpels Free”, “Cyclamen”, “613”, l’omonimo brano del disco, “Love It or Leave It”.

Se ogni canzone vive nella sua natura live di energia e impatto, è merito anche della band strepitosa: specialmente per la pianista e cantante Liron Meshulam, il cui assolo vocale ha ammutolito l’intera Cavea.

Struggente l’esecuzione delle celeberrima “Reckoning Song”, il cui monologo introduttivo è senza dubbio il momento più toccante del concerto.

E alla fine, Avidan si toglie anche la soddisfazione di far saltare tutta la Cavea dell’Auditorium, chiudendo sulle note di uno sfrenato blues.

Insomma, il concerto dell’Auditorium ha permesso al pubblico romano di vedere dal vivo uno dei talenti più cristallini del panorama mondiale. Un songwriter eclettico e appassionato, originale ed emozionante. E poi, con quella voce, tutto è più facile…