“Paura e desiderio” di Stanley Kubrick

Grazie alla collaborazione fra QMI e Minerva Pictures il 29, 30 e 31 luglio sarà possibile vedere al cinema Paura e desiderio, film d’esordio di Stanley Kubrick del 1953, ovviamente in bianco e nero, primo lungometraggio, dopo tre documentari, del regista che non ne ebbe, per primo, grande considerazione. La storia del cinema lo registra agli atti come un’introduzione non perfettamente riuscita all’universo tematico del grande cineasta, che se lo finanziò da solo e riuscì qualche tempo dopo a farlo sparire dalla circolazione considerandolo alla stregua di un esercizio di apprendistato evidentemente non convincente. Ma il cinema, diceva Kubrick, s’impara facendolo. E qui per la prima volta si mette alla prova in un’opera che è totalmente ascrivibile al suo nome (cosa che nel cinema è molto più l’eccezione che la norma) perché a parte il soggetto curato da Howard O. Sackler, il resto porta la sua firma: sceneggiatura, fotografia, montaggio.

Girato sulle San Gabriel Mountains della California, il tema di fondo di Paura e desiderio è uno di quelli classici del cinema di Kubrick: la guerra. Quattro soldati dispersi, due almeno dei quali ne hanno anche tutta l’aria, agli ordini del loro stupido tenente. La guerra a cui partecipano non è storica, non ha un nome e non ce l’ha il luogo in cui si svolge, perché propriamente “luogo” non è, essendo una foresta archetipica come i fatti che vi si svolgono: la guerra vi appare come manifestazione perenne e nefasta della vita umana: nel mondo di Kubrick l’uomo la fa a se stesso, in primo grado; essa è un male insensato che si autoinfligge prima di combattere il nemico – “ognuno è solo…” con quel che segue. Paura e desiderio è un film bellico solo se lo intendiamo come sfibrato o elusivo corpo a corpo di quattro malnati con se stessi, una condizione che declina la vita umana come una caduta nell’errore – che è solo una delle due facce possibili.

Ora, se la didascalia della voce fuori campo rischia di sconfinare nell’astrattezza del discorso, va da sé antimilitarista, e certo moralismo schematico s’insidia nei dialoghi, la scrittura propriamente detta della macchina da presa si muove ardita fra i volti e i corpi illividiti nella foresta (là dove la sfida di “restare civili” sembra persa da subito). Nella stupida abiezione compare anche l’altro archetipo della donna, vittima sacrificale insieme accidentale e inevitabile della caduta, ossessione non secondaria nel cinema di Kubrick, per il quale «l’uomo ha un difetto connaturato, un lato malvagio». La follia della guerra, che poi racconterà in almeno un paio di film giganteschi, è il luogo per eccellenza delle sue manifestazioni. Ed è già tutta qui, in un apprendistato d’autore.

Insieme all’uscita nelle sale, il film sarà disponibile in DVD per la Minerva Pictures in un’edizione restaurata che contiene anche i corti Day of the Fight e The Seafarers realizzati nei primi anni cinquanta (la storia di un incontro di boxe del pugile Walter Cartier e un documentario sulla vita dei marinai).

(Paura e desiderio, di Stanley Kubrick, 1953, guerra, 68’)
 

“La macelleria degli amanti” di Gaetaño Bolán

Sei in caduta libera e sei solo un peso morto. Tre secondi e sarà tutto finito. Un grido afono e le parole si vengono a perdere, a mischiarsi con l’aria circostante. Solo il rombo del motore dell’aereo che si allontana, una divisa militare di un regime, quello cileno, ormai niente più che un punto nero lontano. Utilizziamo le parole per non dimenticare e Gaetaño Bolán lo fa magistralmente in un piccolo e breve romanzo, dalla illimitata potenzialità. Con La macelleria degli amanti (Edizioni E/O, 2013), ci immergiamo in un’apnea silenziosa e passionale, con parole che ci stringono e ci avvolgono.

Questo è il racconto di Tom, un bambino vivace e sereno come tanti altri. L’innocenza di un bambino che sa sognare e sa scrutare. Peccato che sia cieco sin dalla nascita. È entusiasta della vita come pochi a questo mondo. Tom è il figlio di Juan, il macellaio del villaggio. Poi ci sono Chico, il barbiere e Dolores, l’istitutrice. Tom è fiero del suo villaggio, ma custodisce un segreto.

Bolán ha una dote invidiabile: poche pennellate, appena tratteggiate, e riesce ad alzare la tensione in chi legge. La storia la fa da padrona. Un racconto tenero e crudele, il dolore delle spine che ti si vengono a conficcare nei polpastrelli.

La paura inizia a serpeggiare rapidamente tra i vicoli bui a sera, la lettura si fa intensa e sempre più penetrante. Al villaggio sono arrivati nuovi uomini a bordo delle loro macchine. Le persone iniziano a scomparire. La perdita di gioia, la violenza che viene a deturpare il quotidiano sono solo la maschera più evidente dell’orrore.

È un testo delicato, ponderato, sudato. Un piccolo spartito musicale che ha il suono della giustizia. I personaggi paiono vivi, quelli della porta accanto, dipinti fin nei più intimi particolari, nel loro attaccamento alla vita. Da questo romanzo breve, Bolán lascia sprigionare una speranza d’amore, di vita, nonostante la fine tragica e l’ombra omertosa lasciata da un regime opprimente. Quella di Bolán è una scrittura minimalista, essenziale, pungente, che non ha niente di lirico. Frasi corte e capitoli di quattro pagine al massimo che vedono un concatenarsi di scene il cui contenuto viene a fondersi tra poesia e realismo.

È nella semplicità che troviamo la grandezza di questo brevissimo romanzo. La storia di una nazione vista con gli occhi di un bambino. Occhi che hanno il sapore della notte. È il Cile dittatoriale di Pinochet la sconvolgente sceneggiatura di questa tragedia greca. Guai a dimenticare.  Dietro alla normalità e alla poesia, c’è il dramma. Una volta richiuso il libro, il cuore e i pensieri si stringono in una riflessione pungente, fredda e lancinante.

(Gaetaño Bolán, La macelleria degli amanti, trad. di Sylvie Huet, Edizioni E/O, 2013, pp.120, euro 12,50)

“Le leggi della frontiera” di Javier Cercas

Javier Cercas parte da subito con ciò che gli è più congeniale, ovvero intervistando due dei protagonisti della storia che racconta, da abile giornalista e narratore distaccato della recente storia spagnola quale è. Il suo ultimo romanzo, Le leggi della frontiera (Guanda, 2013), unisce infatti capacità investigative e romanzesche, senza che l’una prenda il sopravvento sull’altra, in una perfetta alchimia che lo scrittore trova con metodo e creatività.

A Gerona, nella Spagna post franchista, tutto ciò che era stato nascosto dalla dittatura e reso invisibile agli occhi della popolazione ritorna con prepotenza, e le differenze sociali e generazionali, appiattite e soffocate per anni in nome di un ideale totalitarista, danno vita a un malessere generale che trova facile sfogo nella delinquenza giovanile.

Tutto viene improvvisamente classificato, e le distinzioni culturali sembrano avviarsi verso derive opposte.

Ignacio Cañas, detto Gafitas, è un ragazzo della media borghesia, silenzioso, bersaglio preferito di fastidiosi bulli di scuola.

La storia comincia quando decide di varcare la linea che divide la città in due parti, oltre il fiume, laddove non ci sono case ma solo baracche e randagi. L’incontro fatidico avviene con un certo Zarco, all’anagrafe Antonio Gamallo, piccolo delinquente di strada ma già con idee chiare e aspirazioni da capo. Al suo fianco i membri della sua gang, ragazzi disagiati, abbandonati a se stessi da istituzioni e famiglia, tra i quali spicca la figura di Tere, ragazza perduta, misteriosa e affascinante, complice e amica particolare di Zarco. La ragazza diverrà ben presto amante di Gafitas, dando da subito inizio a un triangolo amoroso indefinito, in cui nessuno dei tre sembra voler prevaricare sull’altro.

Tra i due ragazzi s’instaurano così le basi di un’amicizia virile, che nel corso degli anni vive di alti e bassi, di diffidenza, ma anche di profonda complicità mai del tutto dichiarata. Per Gafitas cominciano così le «cattive compagnie», quelle da cui suo padre stenta a tenerlo alla larga.

La banda comincia a farsi strada, un nome, a essere riconosciuta; e il passo che li separa dagli scippi e i furti d’auto agli assalti in banca a mano armata, è breve. Sembra inevitabile che questa fosse corsa non venga, a un certo punto, interrotta di colpo, come spesso accade: e allora ecco che arrivano gli arresti, un presunto tradimento, la morte.

Solo Gafitas riesce a scampare alla galera, mentre Zarco, nome ormai famoso in tutto il paese, icona classica del criminale bello e maledetto, accresce la sua popolarità.

La seconda parte del romanzo si apre dopo un lunghissimo salto temporale: scopriamo che Gafitas è diventato un abile avvocato, e Zarco, il criminale, l’amico fraterno da salvare da interminabili anni di prigione.

Cercas, con abilità, trasforma la storia, portandoci verso un’analisi dei fatti che diventa sempre più fitta, e dando così inizio al racconto processuale, ben orchestrato, e grazie a frequenti rivelazioni e flashback, sempre più ricco di spunti e rivelazioni. Lo scrittore ci regala un affresco che è allo stesso tempo romanzo storico e indagine sociale, il tutto esposto con grande potenza narrativa; senza arrivare a conclusioni chiare, ma lasciando il lettore disorientato dinnanzi a una verità impalpabile.


(Javier Cercas, Le leggi della frontiera, trad. di Marcella Uberti-Bona, Guanda, 2013, pp. 394, euro 18)

“E quel poco d’amore che c’è” di Emmanuele Bianco

E quel poco d’amore che c’è di Emmanuele Bianco (Fandango 2013) è un romanzo sentimentale incentrato sulle vicende di una famiglia in disfacimento.

Dall’incomunicabilità generazionale al tema della separazione, i personaggi di questo libro annaspano tra i rancori e le violenze verbali del tipico dramma all’italiana.

Veniero è la voce narrante, il figlio che porta sulle spalle il peso del dolore materno e della repressione paterna. Santo infatti è un padre padrone, burbero e scostante con Veniero, irruento e despota con Maria nel ruolo di angelo del focolare. Dopo la separazione, padre e figlio interrompono i rapporti, Veniero lascia l’Italia e Santo si trasferisce al Nord, abbandonando la moglie nella sua vecchia dimora. Ma la donna si ammala, è ormai in fin di vita e ha un desiderio: rivedere Veniero e il marito per l’ultima volta. I due allora sono costretti a incontrarsi per affrontare insieme un lungo viaggio, che poi è la sostanza del libro, dove un susseguirsi di recriminazioni, silenzi, pianti e scatti di ira sciolgono lentamente i nodi di questo rapporto conflittuale.

Il testo è articolato secondo lo schema: Madre in fin di vita + Figlio&Padrepadrone + Viaggio insieme per raggiungere la donna= x, che non risolvo per non rovinare la trama. Fatto sta che questa equazione corrisponde in termini logici a una reggente da cui dipende tutto il testo, un meccanismo messo in moto per celare alcuni vuoti narrativi denunciati apertamente dalle numerose frasi a effetto. Infatti con uno stile didascalico e una costruzione dei personaggi stereotipata, i numerosi intermezzi riflessivi si rivelano un limite anziché un valore aggiunto.

Più che da modelli letterari, il libro sembra condizionato dal cinema italiano degli ultimi tempi, penso ad Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart, a buona parte dei film di Muccino, passando per i conflitti familiari di Mio fratello è figlio unico: tutti film in cui la ricerca del contenuto prevarica la forma.

Va detto inoltre che Emmanuele Bianco proviene dalla scuola di Baricco proprio come Paolo Giordano e non so se sia una coincidenza, ma leggendo questo libro sembra di imbattersi in un lavoro che di creativo ha ben poco, sempre che non si consideri la scrittura creativa come un genere (cioè un intrattenimento intriso di rimandi esistenzialistici) e allora in tal caso sarebbe un lavoro più che riuscito.

«Le cose passano, come la luce di un’alba» e «La notte è di un certo tipo di persone: pepite d’oro che non brillano».

Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.


(Emmanuele Bianco, E quel poco d’amore che c’è, Fandango Libri, 2013, pp. 218, euro 15) 

“Estasi di libertà” di Stefan Zweig

Robert Musil scriveva in un suo saggio che mentre la Francia aveva i francesi, la Svizzera gli svizzeri, l’America gli americani, l’Austria esisteva senza avere gli austriaci. La tragedia dello sgretolamento della cosiddetta Austria felix, intensamente sentito dagli scrittori mitteleuropei, aveva radici così profonde nel passato che l’ora fatale dell’Austria-Ungheria, scoccata con la fine della Grande Guerra, non fu altro che l’inevitabile collasso d’un organismo che aveva vissuto senza mai conoscere veramente se stesso, e che in articulo mortis compì l’ultimo, quasi necessario atto: un’agnizione della propria inconsistenza, frutto di secoli trascorsi nelle pieghe d’un inganno.

È dunque il dramma d’un’identità fragile e fittizia, tenuta in vita solo in quei simulacri della realtà che sono le carte geografiche, la burocrazia e i libri di storia (si pensi all’episodio dell’eroe di Solferino nel più bel romanzo di Joseph Roth).

Nei libri di Stefan Zweig, forse uno degli autori che più intensamente sentì la fine d’un mondo a cui egli legò il suo destino (legame superbamente narrato nel celebre libro Il mondo di ieri) si ritrova ancora oggi, intatto, il lento consumarsi di quegli uomini che non poterono sopravvivere all’estinzione di un’identità che, proprio perché fittizia, forniva il necessario ammanto per mascherare il dramma d’un profondo sradicamento.

Estasi di libertà (Clichy, 2013) è un romanzo rimasto inedito per molto tempo, e oggi riproposto in una bella traduzione di Luciana Rotter. Vi si narra la storia di Christine Hoflehner, giovane impiegata in un ufficio postale d’un piccolo borgo austriaco (uno di quei luoghi che sembrano replicarsi identici per la vasta provincia dell’Impero), la cui vita sembra destinata a spendersi nella triste ripetitività dei suoi doveri, sospesa nel limbo di chi riesce a tenersi lontano dalla miseria solo quel poco che permetta di sopravvivere senza però riuscire a non sentirne il tanfo. Un telegramma inaspettato sembra darle una speranza per una via d’uscita: due ricchi zii la invitano a trascorrere le vacanze di Natale in un lussuoso hotel in Svizzera. Christine accetta, e viene introdotta d’un tratto in un giro di ricchi uomini e donne provenienti da tutta l’Europa. L’incanto d’una società mai toccata dalla guerra è come un bagno purificatore per Christine, la quale si libera finalmente del fango della sua esistenza precedente. Ma è solo una breve illusione. Meschinità e invidia, annidate come serpi in quel luogo apparentemente paradisiaco, faranno in modo che Christine (che nel frattempo ha cambiato nome e cognome) venga riconosciuta per la piccola e miserabile postina austriaca a cui è capitata una gran fortuna, e venga cacciata malamente come un elemento estraneo e ostile a quel luogo.

Per Christine inizia il peggiore dei supplizi: dover ricominciare la vita di tutti i giorni come se niente fosse mai successo. Il veleno di cui è intrisa la piaga dell’umiliazione sembra ora agire a un livello diverso e più pericoloso, trasformandosi in odio e ripugnanza per quella meschina vita di provincia, sepoltura per vivi. Durante un viaggio a Vienna, che ha più il sapore d’una fuga, Christine conoscerà Ferdinand, un reduce che per una serie di sfortunate coincidenze ha passato molti anni in Siberia come prigioniero di guerra.

Tra i due nasce un legame che, invece di fondarsi sull’amore e sull’affetto, sembra quasi un reciproco soccorso contro la ferocia con cui la vita s’è avventata su di loro. Un comune progetto di suicidio (e qui ritorna una costante dei romanzi di Zweig, una tragica mise en abyme destinata a uscire dalla letteratura e trovare poi compimento con il suicidio dell’autore) sarà commutato in ultimo in un progetto di rapina e di fuga, quasi un estremo tentativo di scampare all’abisso compiendo un atto di rivolta contro il maggiore responsabile di tutti i dolori: quell’Impero, ormai morto, che aveva lentamente distrutto se stesso e che aveva trascinato con sé, come in una danza macabra, i suoi sudditi.


(Stefan Zweig, Estasi di libertà, trad. di Luciana Rotter, Edizioni Clichy, 2013, pp. 465, euro 10)

La scuola della serie è finita: i promossi secondo Flanerí

Come vi avevamo promesso la scorsa settimana, prima della pausa estiva oltre ai nostri saluti vi lasciamo anche la lista degli show più appassionanti ed emozionanti di questa stagione. Preparatevi a prendere appunti e approfittate dell’estate per recuperare quanto avete perso.

Anche in un anno relativamente deludente, in cui soprattutto gli USA non hanno tirato fuori nuovi conigli dal cilindro, c’è chi ci ha fatto sobbalzare dalle sedie e ci ha tenuto attaccati allo schermo. Salta all’occhio comunque la supremazia inglese con tre serie su cinque tra le nostre scelte (nonostante l’assenza di un colosso come Breaking Bad, fuori concorso in attesa degli ultimissimi episodi).

Rimane solo da ricordare l’appuntamento a settembre per il grande ritorno autunnale. E adesso la parola alle serie:

Black Mirror

Il capolavoro di Charlie Brooker. Un fulmine a ciel sereno la prima stagione, una gustosa conferma la seconda. A tratti sconvolgente “White Bear”, vicino a noi italiani fino a diventare inquietante “Vota Waldo”. Un episodio più emozionante dell’altro per ricordarci le possibilità ma anche i limiti e rischi della tecnologia e della sfrenata corsa al progresso. Siamo sicuri che nessuno sia perfetto?

Sherlock

Poteva l’eroe di Conan Doyle dire qualcosa di nuovo alle soglie del Terzo Millennio?
La risposta è si, e la serie ce lo dimostra calando il personaggio nella più torva e complessa contemporaneità, attualizzando mirabilmente gli aspetti del consulente aiutante della polizia. Se la prima stagione ha attirato anche i più scettici – con un target dal taglio complesso ed elevato – la seconda è un trionfo di emotività e pathos. Lo sconcertante e indimenticabile finale di stagione vale la promozione. Con voti altissimi.

Perception

Con Perception si fa la conoscenza di un nuovo eroe del piccolo schermo: Daniel Pierce, stimato e innovativo professore universitario, affetto però da schizofrenia paranoide. Insomma, metà genio e metà pazzo, interpretato mirabilmente da Eric McCormack di Will & Grace. La prima stagione mescolano conta dieci puntate in cui si mescolano gradevolmente poliziesco, dramma e commedia. Ma sono il carisma e la complessità del protagonista a fare la differenza. E tanto basta per metterla tranquillamente tra i promossi.

Utopia

La più grande novità del 2013. Un capolavoro inatteso figlio di una realizzazione a regola d’arte, di un’idea di base particolarmente efficace e di una gamma di personaggi impossibili da dimenticare. Un colpo di scena dietro l’altro segna tutti i sei episodi tra cittadini qualunque trasformati in improbabili protagonisti, un graphic novel portatore di rivelazioni scioccanti, complotti e organizzazioni segrete. Dissacrante, violenta e politically uncorrect vince a mani basse il premio come migliore serie esordiente.

Les Revenants

L’outsider arriva dalla Francia. L’unica serie non anglofona meritevole di un posto nell’Olimpo di questa stagione è la novità di Fabrice Gobert. Osannata in patria, ancora non si è presentata al resto d’Europa. Azzardati paragoni con un mostro sacro come Twin Peaks, misteriose resurrezioni in un paesino quasi isolato dal mondo, un occhiolino strizzato agli zombie e uno ai fantasmi. Nelle orecchie ancora la splendida colonna sonora dei Mogwai. Una bacchettata sulle mani, leggera lo promettiamo, per un finale poco incisivo che chiede risposte nella seconda stagione. Errori di gioventù.

Articolo scritto in collaborazione con Alessio Belli.

[IlLive] Bruce Springsteen and the E Street Band @Rock in Roma, 11 luglio 2013

Tra i giornalisti della stampa generalista, cameraman e tecnici vari che seguono per lavoro i concerti di questa fantastica estate rock, spesso e volentieri non si è fan e lo spettacolo live diventa routine che si frequenta con il distacco professionale di chi ne è avvezzo. Nessuna emozione. Si fa il proprio lavoro, si osserva tecnicamente l’evento. Se ne porta a casa la cronaca/recensione. Punto.

Tutto questo decade improvvisamente però – e per tutti – solo in un’occasione. I live di Bruce Springsteen.

Anche chi tra gli addetti ai lavori ha gusti pop del tutto differenti, infatti, davanti alla carica live incendiaria del Boss si ritrova dentro a un ciclone rock e ne diventa improvvisamente fan. Parole?

Lo scorso 11 luglio all’Ippodromo delle Capannelle di Roma all’interno della ricca rassegna Rock in Roma, il rocker del New Jersey ha ripetuto per l’ennesima volta quel suo ormai quarantennale rito che fa affermare ai suoi fan che il miglior concerto del Boss sarà sempre il prossimo.

Quasi tre ore e mezzo di ininterrotto show, oltre duecento minuti di rock’n’roll verace, con ampie parentesi soul e blues, per ventinove brani e diciassette musicisti sul palco. Bruce compreso.

Alle 20.50, con il sole ancora non tramontato del tutto, Springsteen sale sul palco sulle note di “Spirit in the Night”, brano del 1973 tratto dal suo album d’esordio Greetings from Asbury Park, N.J  e una delle canzoni  più amate dai fan. Si festeggia il quarantennale dell’esordio discografico e il contatto tra il Boss e il suo pubblico è immediato. Bruce scende dal palco, stringe mani mentre corre e canta. Fioccano le richieste con i cartelli mostrati al palco. Come sua abitudine – unico in questo – Springsteen costruisce la scaletta del concerto sul momento, sceglie la canzone da fare e la sua band la esegue. «Finora abbiamo fatto ben duecento brani diversi in questo tour», ha dichiarato il fido chitarrista Little Steven a fine performance. Dopo “Badlands”, le sonorità celtiche di “Death To My Hometown”tratta dall’ultimo album Wrecking Ball, e “Roulette”, pubblicata solo su Tracks (a nostra memoria inedita dal vivo), arriva un terzetto di brani a tutto rock’n’roll suggeriti dal pubblico: “Summertimes Blues”, classico di Eddie Cochran ricantato anche dai Beach Boys, la divertente “Stand on It”e “Working on the Highway”da Born in the USA.

Le note morbide di “Candy’s Room” frenano per qualche minuto le danze del pubblico e l’adrenalina della band, prima di piccole perle a sorpresa, canzoni rarissime dal vivo come “Kitty’s Back” e “Rosalita (Come Out Tonight)” tratte dal secondo album del Boss, The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle. Così come dello stesso disco, anno 1975, faceva parte “New York City Serenade”che con i suoi undici minuti rappresenta l’apice dell’intero concerto. Strepitosa l’intro con piano solo di Roy Bittan e, a sorpresa, la sezione d’archi dell’orchestra Roma Sinfonietta diretta da Leandro Piccioni, che rende ancor più magico un brano tra i più suggestivi nel repertorio del rocker americano.

“Shackled and Drawn”, dall’ultimo disco, è l’occasione per esaltare il coro di voci nere dell’E Street Choir composto da Curtis King, Cindy Mizelle, Michelle Moore ed Everett Bradley. «Dopo la scomparsa del grande Clarence Clemons nel 2011 Bruce si è convertito al soul per sentirsi più vicino a lui», ha affermato Little Steven in un’intervista rilasciata la mattina seguente il concerto dai microfoni della romana Radio Città Futura. A completare l’effetto soul, la E Street Horns, la sezione fiati, capeggiata dall’esperto Eddie Manion e da Jake Clemons, nipote di “Big Man” che non sfigura davvero al confronto di cotanto zio.

«The legendary, heart-stopping, pants-dropping, hard-rocking, booty-shaking, love-making, E Street Band!», grida Springsteen per presentare la sua strepitosa banda di musicisti. Veri e propri jukebox umani e preparati a tutto, insieme a lui sin dal lontano 1973. Oltre ai già citati Little Steven Van Zandt alla chitarra e cori e Roy Bittan al pianoforte, ci sono Nils Lofgren alla chitarra, Garry Tallent al basso elettrico, la poderosa batteria di Max Weinberg alla batteria e la stessa moglie di Springsteen, Patti Scialfa, ai cori e chitarra acustica con Soozie Tyrell al violino, cori e chitarra acustica e Charlie Giordano all'organo e pianoforte.

Nei lunghissimi bis (quasi un’ora!) arrivano tra le altre “Born in the USA”, “Born to Run” e “Dancing in the Dark” sulle cui note Bruce “officia” letteralmente al rito della consegna di un anello di matrimonio di due fan sul palco. In chiusura si balla con le beatlesiane “Twist and Shout” e “Shout” (in realtà degli Isley Brothers).

Gran finale acustico con Springsteen da solo al centro del palco con armonica e chitarra per l’emozionante “Thunder Road”. Bruce ringrazia stremato e sorridente, le luci si spengono sul palco e le note di “C’era una volta il West” di Ennio Morricone accompagnano il pubblico verso l’uscita mentre una decina di uomini improvvisamente scende da cavi d’acciaio dal tetto del palco e la poderosa macchina da tour del Boss of the Boss (l’unico che conta davvero) smonta il circo rock di Bruce Springsteen. Appuntamento al prossimo concerto. Che sarà certamente, ancora una volta, il migliore della sua carriera.
 

Il perimetro: in vespa alla ricerca dell’Italia che verrà

Che l’Italia sia un paese per vecchi è una verità forse data troppo per scontato. Che la soluzione migliore sia andarsene via, finché si è giovani, idem. Che, infine, con una laurea in studi umanistici ci si possa fare ben poco «in questo benedetto assurdo bel paese» è un’altra facile convinzione.

Eleonora Cugini e Gianluca Bernardo – una laurea in filosofia lei, in storia contemporanea lui – evidentemente non l’hanno mai pensata così, neppure per un attimo. Anzi. Dopo numerosi viaggi in vespa lungo le strade italiane – e non solo – hanno deciso di dare una risposta concreta al facile disfattismo di questi tempi.

Nasce così Il perimetro, un progetto ambizioso attraverso cui ripercorrere un’Italia data prematuramente per “bollita”: «Sfiorando gli 8000 km totali, il viaggio si svilupperà lungo i confini naturali percorribili dell’Italia. Questi confini coincidono principalmente con la costa, Sicilia e Sardegna incluse, mentre nel Nord […] l’arco delle pendici prealpine».

Il perché di questa idea? «Forse l’alternativa al fuggire dall’Italia è proprio quella di fuggire nell’Italia. La risposta a tante domande, la soluzione a tanti problemi sarebbe sotto i nostri stessi occhi, rappresentata dallo sconfinato patrimonio culturale, storico e paesaggistico che ci appartiene».

Il viaggio si svolgerà durante i mesi di settembre e ottobre 2013 e Flanerí seguirà l’iniziativa con grande attenzione. In attesa della partenza abbiamo intervistato Eleonora e Gianluca per fare il punto su questo affascinante progetto.
 


Come è nata questa idea di percorrere in lungo e in largo il nostro paese sfruttando solo le strade statali a bordo di Vespe vintage? Da dove viene la vostra passione per questo mezzo di trasporto simbolo di un’Italia che non c’è più, un modello di stile ammirato in tutto il mondo?

L’accoppiata tra viaggi e vespa è nata tanti anni fa, dopo aver letto il libro di Giorgio Bettinelli e del suo leggendario In vespa. Da Roma a Saigon (Feltrinelli, 2003). Abbiamo già fatto parecchi giri così, soprattutto in Europa, scoprendo una modalità di viaggio meravigliosa, che permette un coinvolgimento molto intenso con la terra e le persone che si incontrano. A essere sinceri, per noi, il fatto che la vespa sia vintage o rappresenti in qualche modo il nostro paese è un fatto abbastanza secondario. Usiamo la vespa perché abbiamo quella da tanti anni e le vogliamo bene, è di ferro, consuma poco e tendenzialmente non si rompe. Poi ti garantisce quella lentezza necessaria a non essere superficiali. Certo… bella è bella!


In base a quali criteri avete scelto i posti da visitare e di cui parlare durante il vostro viaggio foto-racconto? In che modo e tramite quali mezzi di comunicazione renderete noti ai vostri follower le impressioni e i ricordi di questa iniziativa?

Sicuramente ci ha guidato l’idea di fondo che dà anche il nome al progetto: ossia quella di ridisegnare con il viaggio il perimetro del paese. Quindi tutta la costa e un po’ di prealpi al Nord. Su questo tracciato stiamo lavorando assieme a Viaggiemiraggi – rete del turismo responsabile – per raccogliere e incontrare quelle realtà che si battono per un rapporto leale con la terra. Realtà che dimostrano di avere un’idea di futuro che superi lo sfruttamento turistico e ambientale e doni una prospettiva felice e sostenibile a uno dei posti più belli e carichi di cultura del mondo.

Il nostro racconto e foto-racconto si svilupperà in buona parte direttamente on the road. La sera, alla fine di ogni tappa, pubblicheremo foto e appunti raccolti durante la giornata. Essendo sviluppatori web di professione abbiamo potuto costruirci gli strumenti di cui necessitavamo: un sito aggiornabile con un telefono, ben collegato ai canali sociali. 


Avete previsto degli eventi on the road per sottolineare e lasciare un segno del vostro passaggio?

Ci lasceremo guidare dalle realtà che ci accoglieranno e ci ospiteranno. In questo modo potremo partecipare e osservare la loro quotidianità. Tendenzialmente, quindi, l’evento è tutto il viaggio, anche se in alcuni posti, ci hanno detto, stanno già preparando calorose accoglienze.


In che modo i vostri fan e partner possono sostenervi e incoraggiarvi lungo il tragitto? Chi si è già impegnato con voi?

Per un progetto divulgativo il miglior auspicio che si possa avere è la divulgazione! Per fortuna gli strumenti oggi ci sono e sono a portata di tutti, per cui quello che speriamo è che la gente sfogli il nostro fotoracconto, ci segua giorno dopo giorno e condivida i nostri contenuti. È stato molto importante anche il contributo di partner e sponsor che ci stanno aiutando ed equipaggiando in tutti i modi, partecipando a quella che si sta trasformando nel disegno che avevamo sognato: una sfida collettiva!


Avete infine un motto, un portafortuna, qualcosa insomma che vi darà coraggio lungo questo “perimetro”?

Ci abbiamo riflettuto un po’, senza grandi risultati, e alla fine abbiamo pensato che l’idea verrà da sé mentre saremo in viaggio!

 

 

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“Fisica della malinconia” di Georgi Gospodinov

«…ed ecco entro nei campi e negli ampi spazi della memoria, dove si trovano i tesori di innumerevoli immagini» (S. Agostino, Le confessioni).

Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov, edito da Voland a distanza di anni dal suo Romanzo naturale, si apre con questa e molte altre epigrafi.

La natura del libro ci è svelata proprio in apertura, in conclusione del prologo, quando ci troviamo di fronte a una spiazzante affermazione: «io siamo». Si tratta, dunque, di un viaggio nella memoria condivisa o, sarebbe meglio dire, nelle memorie che percepite e vissute da un’unica persona diventano le sensazioni di tante vite riesperite dall’animo di uno solo.

«Empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica»: la diagnosi è questa. Il protagonista del romanzo è un tutt’uno con gli altri, con i loro pensieri e ricordi. Soffre di quest’empatia che gli permette di scivolare nelle memorie altrui e di sentirne le vibrazioni emotive e sensoriali. Una delle prime immagini evocate nel romanzo è proprio quella del labirinto, di un percorso tortuoso e misterioso da affrontare. Rivivere le emozioni, le riflessioni e gli stati d’animo altrui non può che rivelarsi come un dedalo intriso di malinconia.

Nel sentire addosso i vissuti di altri non si può far nulla: si percepiscono le sensazioni passate o future e si prova compassione. Viene alla mente un passo di Milan Kundera e del suo L’insostenibile leggerezza dell’essere, in cui l’autore parla appunto della compassione come co-sentimento, nel senso di vivere insieme a qualcuno, condividere qualsiasi tipo di impulso, passione, emozione: «nella gerarchia dei sentimenti è il sentimento supremo», scrive.

Supremo e sublime è il momento del racconto in cui il protagonista rivive i ricordi del nonno: vede un Minotauro, non minaccioso e pericoloso, bensì triste e addolorato. La mitologia si confonde con la realtà e quella del Minotauro diventa la figura portante della narrazione, perché in quella creatura è racchiuso il senso dell’abbandono, il bisogno d’amore. La sensibilità estrema dello scrittore individua un lato mai esplorato nella letteratura: quello della sofferenza del mostro taurino, lasciato nel labirinto a soffrire di una solitudine e di un’incomprensione immeritate.

Facendo nostri i sentimenti altrui, da quelli dei genitori del ragazzo, dei suoi nonni e di conoscenti, si arriva all’identificazione con tutto, che si tratti di animali, piante o rocce. Tuttavia, con la fine dell’infanzia arriva un’altra condizione: non più l’empatia, ma una ricerca costante e una raccolta di informazioni e storie. È questa una parte del romanzo caratterizzata da squarci più divertenti, che riportano a galla componenti sociali e politiche: si legge a un certo punto di un mondo futuro in cui ha vinto il comunismo. In questa seconda parte vi è poi un passo fondamentale, che si ricongiunge all’immagine portante del libro: è quello in cui il narratore scopre di dover diventare padre e vede in quel futuro bambino il Teseo venuto a eliminarlo, lui Minotauro, come tanti prima, dopo e insieme a lui.

Fisica della malinconia è un libro raffinato, è una mano che ti accompagna fin giù nell’interiorità delle persone.

L’epilogo del romanzo, secondo un’elegantissima ed efficace chiusura a chiasmo, riporta le parole «io fummo». Uno e altri allo stesso tempo, storia individuale che si compenetra con il mondo, fondando una connessione e un legame che fanno anche pensare a come persone diverse possano provare le stesse sofferenze o gioie: si è più vicini e simili di quanto si pensi e immaginare così la collettività potrebbe essere forse un modo per uscire, noi Minotauri, dal labirinto.

(Georgi Gospodinov, Fisica della Malinconia, a cura di Giuseppe Dell’Agata, Voland, pp. 335, euro 15)

“In caso di spontaneità” di Mauro Zucconi

In caso di spontaneità di Mauro Zucconi (E/O, 2013) è composto da undici racconti legati dallo stesso filo di fallimenti, nevrosi, confusione e debolezze. Tutti i protagonisti sono infatti accomunati dall’essere costantemente alla ricerca di un modo per interagire con gli altri senza mai riuscirci. Ciò nonostante non si arrendono.

Seppure tutte le storie siano avvincenti e piene di suspense, è opportuno soffermarsi in modo particolare su alcune, che si sono rivelate delle scoperte estremamente piacevoli.

Di forte impatto “A proposito di Angelica Mistry”, che si apre sulla figura di una scrittrice di romanzi gialli, Angelica Mistry appunto. Angelica collabora con la polizia di una piccola città di provincia per risolvere i tanti omicidi che inspiegabilmente accadono con cadenza regolare. Nel racconto, Angelica scopre di essere l’attrice inconsapevole di un telefilm e la sua reazione è sconcertante, tanto da lasciare attoniti, non solo tutti i componenti della troupe, ma anche, e soprattutto, il lettore.

Ne “I Romanelli” il protagonista ha una particolare fissazione per il silenzio, tanto da non riuscire a sopportare il più piccolo rumore proveniente dalla strada o dagli altri condomini. La sua vita subisce un vero e proprio trauma quando una nuova famiglia, i Romanelli che danno nome al racconto, trasloca nell’appartamento sopra il suo. Partendo dai tipici rumori attribuibili a ogni trasloco, il protagonista si troverà davanti a sempre maggiori sconvolgimenti nella sua quotidianità fino ad un imprevedibile colpo di scena finale.

Molto coinvolgente ancheChe la situazione permanga”, in cui incontriamo un uomo senza opinioni, senza legami, né interessi. Un uomo senza amici che vive da solo nello stesso palazzo dei genitori e decide di crearsi delle opinioni personali costruendo schemi meticolosi basati su articoli di vari giornali. In questo modo tenta disperatamente di intrattenere conversazioni con l’unica persona che deve necessariamente frequentare, il suo collega di lavoro Emilio, riscoprendosi una persona incredibilmente interessante, seppure ogni sua frase sia frutto di costruzioni fatte a tavolino.

Infine, il protagonista diC.R.E.D.I.C.I.” decide di partecipare a un corso per diventare una persona determinata e prendere in mano la propria vita. Fra una serie di vicissitudini e fraintendimenti che non gli permettono di iniziare il corso, il protagonista si accorge di avere in sé tutta la determinazione e la forza di volontà che cercava: arriva a questa conclusione in modo senza dubbio sproporzionato e maniacale, ma che sicuramente porta i suoi frutti, lasciandolo fiero di se stesso.

Uno dei particolari che colpisce maggiormente in questa lettura è che il filo conduttore di tutte le storie sia la solitudine. Nessuno dei personaggi descritti riesce a intessere alcun tipo di relazione con le persone che ha intorno. Sono tutti chiusi nelle loro case, e anche quando riescono ad avere delle frequentazioni, queste restano sempre a un livello superficiale, senza instaurare una reale connessione. L’altro sentimento che lega i personaggi di questi racconti è la paura: sono tutti accomunati dal terrore di dire o fare la cosa sbagliata, di non essere divertenti, interessanti e accettati dalle persone che hanno intorno.

In definitiva, la cosa più importante che manca ai personaggi di queste storie è proprio la spontaneità citata nel titolo, la volontà di presentarsi al mondo per quello che si è, sperando di essere accettati. Seppure nessuno di loro alla solitudine e tentino di tutto, anche gesti efferati, pur di raggiungere i propri scopi, i risultati che ottengono sono infatti sempre offuscati dall’artificiosità, dall’inganno e dalle debolezze che i protagonisti si portano dietro. Proprio per questo il messaggio del libro sembra essere l’unica soluzione: arrendetevi.

(Mauro Zucconi, In caso di spontaneità, E/O, 2013, pp. 187, euro 16)

Arxiu Bolaño

Al contrario di come si può pensare, le cose sono andate così.
È bastato un rettangolo di carta, una porzione di pixel su un Mac, un link. È bastato prendere un aereo in due città diverse, all’alba dello stesso giorno, con la stessa destinazione.
Sapevamo molte cose, o credevamo di sapere molte cose. Forse adesso, mentre scrivo dei giorni passati a Barcellona, mi rendo conto che non sapevamo poi molto, io e Serena, e che anche se abbiamo camminato e letto e chiesto e creduto di trovare, non sappiamo niente di più di prima della partenza.
Siamo partiti perché eravamo pronti a farlo. Dire questo è dire tutto.
Quello che non posso dire è invece il fantasma che non è né qui (scrivo da una cucina di una casa nel centro di Roma), né dove lo abbiamo cercato, né dentro questo breve resoconto. È per lui che mettiamo in fila i fatti, i pezzi di carta e gli appunti, le foto sull’iPhone, le registrazioni delle voci da una lingua che appena intuiamo, le facce torbide, le molte birre calde, le storie che ascoltavamo, le nostre distrazioni.
Le riportiamo in questo resoconto nell’ordine in cui ci è sembrato che siano avvenute.


ARRIVO


Cappotto rosso, sciarpa gialla senape scovata a Qayrawān. Barcellona, Barça, mi accoglie con sole e vento. Scendo dall’autobus che collega l’aeroporto col centro della città, so di essere sulla pista giusta quando alzo gli occhi e vedo il cartello della mostra. La strada dell’ostello è introvabile, Arxiu Bolaño no. La mia valigia in pelle di capra, nuova e maleodorante, pesa, Plaça de Catalunya è luminosa e brulicante, io sorrido e gli uomini mi guardano, è tutto un vorticare di sguardi, e capisco proprio di non essere a Milano. Anche gli occhi di Bolaño stanno guardando me, dietro lenti tonde e un filo di fumo. Io sono arrivata per cercare lui, lui si appoggia all’angolo di una strada e non mi stacca gli occhi di dosso.
Guardo l’orologio che non ho, guardo il cielo, aspetto un uomo che arriva da Roma, di lui so solo che abbiamo una ricerca in comune, ma so anche che in due si è più forti, in due le avventure vengono meglio, Huckleberry Finn e Tom Sawyer, Arturo Belano e Ulises Lima. Una signora si avvicina, chiede spiccioli. Un viaggiatore che ho amato mi ha insegnato che i poveri sono spiriti della strada, che vanno onorati, che devono essere rispettati con monete sonanti per non incorrere in sventure indicibili. Filippo scende dall’autobus con la faccia di chi non dorme da giorni.


Serena mi aspetta a piazza di Catalunya. Sul pullman che collega l’aeroporto con il centro di Barcellona rileggo qualche pagina di Anversa. L’ho comprato a Milano, la settimana prima della partenza, alla libreria Gogol al Giambellino, un sabato mattina che camminavo e che mi ero lasciato alle spalle, dentro una camera d’albergo, una ragazza magra e bianchissima e piena di lividi, che voleva scopare senza preservativo e con la quale ero stato a un concerto.
Ci ero andato apposta a Milano per vederla. Avevo perso tempo.
Anversa è l’unico libro di Bolaño che mi sono portato dietro, l’ultimo che ho comprato. Il primo che l’autore cileno ha scritto e l’ultimo che gli è stato pubblicato. Anversa è per me un collasso spazio temporale.
Eppure questo non ha niente a che vedere con Barcellona e con il fatto che il pullman va verso piazza di Catalunya e che guardare fuori è impossibile perché i vetri sono oscurati per il sole.
Serena mi aspetta al capolinea. Scendo e c’è una luce intensa e l’aria è pungente. Serena ha un cappotto rosso e un cappello bianco e nero con una tesa piccola. Ha il naso etrusco sopra un sorriso che sa di “bischerata”. La descrivo perché ho bisogno di ricordarmela visto che la nostra amicizia è recente e ci siamo più scritti che visti. Ha il naso etrusco, dicevo, come anche un suo amico, storico dell’arte, le conferma per messaggio, un naso italico, anche se lei insiste nel dire che ha i tratti orientali.
Nessuno dei due, neppure Serena che è arrivata prima di me da Milano, crede di essere a Barcellona. Ce lo confermiamo a vicenda. Compriamo un quotidiano che non leggiamo neppure, nessuno di noi due conosce il catalano né lo spagnolo, e ci infiliamo subito in un caffè.


LA MOSTRA


Un caffè a testa, un panino a testa, una spremuta d’arancia a saldare un patto. In libreria, prima, con tutte le sue opere esposte e vorrei comprarle in massa, riempire valigia, aereo, letto, lavatrice, forno e vasca da bagno con le edizioni Anagrama. Poi il corridoio, lungo, scandisce le date delle sue opere. Chiare quelle inedite, nere le altre. Poggio la mano aperta sui nomi come dediche dell’uomo che mi ha amata e se ne è andato. Filippo è oltre, Filippo legge, cerca, io assorbo. Filippo è un bambino davanti a una radio transistor smontata.
Suoni, distorti, il buio della sala e la luce del video. Proietta immagini circolari, spirali, scale a chiocciola o almeno io le ricordo così, una voluta che assorbe i pensieri e restituisce la musica di parole in una lingua che non comprendo. Una poesia del ’75 dietro una teca, mai letta, mi colpisce che due giorni dopo tornerò ancora per trascriverla sul mio taccuino. È la prima opera che apre la mostra, è la prima e vorrei mangiarmela. I passi, io e Filippo ci perdiamo. Io apro cassetti e metto in tasca appunti e gioielli. Intravedo Filippo chino su una pagina di Amberes. Le lettere di Parra, le foto di Roberto con un cardigan bianco, occhiali tondi, al mare. Sembra autunno. Forse quelle foto gliele ho scattate io quando trent’anni fa ci siamo incontrati a Barcellona, prima dei due figli, prima della sua malattia, prima del successo. Sabbia e vento e camminare e camminare. Mi sveglio dal sogno di questa mostra, il filo razionale lo tiene Filippo, la realtà riemerge nelle parole che scambiamo, esaltati dagli appunti di Bolaño, delle due colonne: su quella di sinistra i nomi dei personaggi dei Detectives salvajes, su quella di destra gli amici; parole scritte a mano, incolonnate con attenzione viscerale, nessuna linea a cancellare, lo dirà Porta, la sera al convegno, lo dirà Heralde il giorno dopo: Bolaño teneva tutto in testa, ordinava i pezzi del puzzle nella sua mente, li montava. Se ne mancava uno, chiamava l’editore nel cuore della notte e lo cercavano assieme. Foto, scatti, macchine da scrivere, computer arcaici. La mostra è un continuum con il convegno, con la nostra stanchezza, con l’esaltazione mia e di Filippo. Abbiamo la febbre e sappiamo di avere trovato qualcosa.


Siamo a Barcellona per la mostra dell’archivio Bolaño e per il festival Kosmopolis, una tre giorni di incontri letterari e editoriali con una sezione speciale dedicata proprio all’autore dei Detective selvaggi e 2666.
Dopo aver guardato per un tempo lunghissimo le evoluzioni dei ragazzi con gli skate di fronte al MACBA, puntellati dai tonfi delle loro cadute, dallo stridio delle ruote e delle tavole sul marmo e sul cemento, decidiamo di andare alla mostra. Sappiamo già che non ci basterà vederla una sola volta.
All’ingresso ci sono grandi pannelli cartonati con la cronologia delle opere. La mostra è divisa in tre sezioni a seconda dei luoghi in cui Bolaño ha vissuto e scritto in Catalogna: Barcellona, Gerona e Blanes.
Non mancano le foto di Mario Santiago o forse dovremmo dire Ulises Lima, e degli anni trascorsi in Cile.
C’è il Manifesto infrarealista e ci sono le poesie giovanili. C’è il dattiloscritto di Sensini, uno dei miei racconti preferiti e forse dei suoi più belli. Ci sono le tre linee (dritta, curva, spezzata) di mare di Anversa poi riprese nei Detective selvaggi.
È solo carta, fogli scritti a mano o a macchina. Ho letto tutte queste parole tradotte nelle edizioni Sellerio e Adelphi, conosco a memoria alcune parti, riconosco i punti e gli incipit. La grafia di Bolaño è di una pulizia e precisione impressionante. Gli schemi delle opere, gli appunti, i segni, sono ordinatissimi al limite del maniacale. È un narratore paziente, un architetto meticoloso, o meglio pittore di affreschi che prima traccia il disegno complessivo e poi con il suo ritmo, la sua sintassi, la poesia mai davvero abbandonata, mette sulla pagina i personaggi e le storie. Ci sono poche correzioni, pochi tagli. Si avverte la naturalezza espressiva ma anche la riflessione costante, il lavorio a cercare la parola, a far girare le frase e l’intero periodo che esce quasi perfetto dalla testa e si trasferisce alla pagina.
Alla mostra io e Serena ci dispediamo. Ognuno ha il suo Bolaño. Il suo personalissimo Bolaño e del resto è giusto che sia così. Solo all’uscita, quando ci vediamo all’armadietto nel quale abbiamo lasciato gli zaini e i cappotti, ci scambiamo qualche parola. Mi rendo conto di essere stato tutto il tempo chino sulle teche non per il mal di schiena ma perché Serena, senza che me ne accorgessi, mi ha scattato una foto. Me la mostra sullo smartphone: si vede una massa di capelli riversa su una vetrina con dentro un dattiloscritto. Lei mi dice, mi sono commossa. Penso sia la letteratura: guardare meglio, guardare nel fondo, essere generosi con se stessi e con gli altri, ma questo non glielo dico.
Lo ha già detto la mostra e Bolaño.
A dieci anni dalla sua morte si è formato il mito. Reading, mise en espace, incontri, dibattiti sulla sua opera e sulla sua vita. Giovani e giovanissimi li affollano per ascoltare i ricordi degli amici scrittori come Antonio G. Porta, dei critici, degli editori che l’hanno conosciuto e seguito come il mitico Herralde di Anagrama.
La sera siamo stanchi per quanto abbiamo camminato. Stanchi sì, ma non così tanto da non bere qualche birra e mangiare patatas bravas prima di crollare in ostello.


BARCELLONETA


Piove. Il mio cappotto rosso e le foto scattate con la testa per aria. Filippo è nella sua musica, non lascia l’iPod, come a rincorrere un fantasma. Piove piano, ci rifugiamo nel Caffè Venus. Americano per me, americano per lui. Io scatto, lui scrive. Io adoro, una a una, tutte le persone in quella sala: la mamma bionda finlandese che accarezza la bimba piccola che mi guarda, il padre giovane e distratto; l’uomo seduto sullo sgabello senza capelli e con gli occhiali che aspetta un altro uomo che entra dalla porta e leggono assieme la guida; la coppia di ventenni che gioca con le bustine di zucchero come fosse un Tetris, come se fosse arte. Filippo scrive, chiuso su di sé. Filippo fa la bolla, forse per tenere stretto tutto quello che ha trovato a Barcellona e tutto quello che si porta da Roma. Io ho lo zaino leggero, sono tutta fuori, e rincorro sguardi, e rincorro sorrisi. Sto cercando.
Mi infilo in un negozio e trascino Filippo, ci caliamo nel gioco dei ruoli. Esco con un vestito nero con cerchi rossi e arancioni che sono buchi dove resta scoperta la pelle. Filippo sorride e il suo sorriso approva. Poi, per strada, adesso abbiamo voglia di birra. Abbiamo sempre voglia di birra. È l’ultimo pranzo, è domenica. Va da sé che dobbiamo festeggiare e si vuole festeggiare a paella, a Barcelloneta. Girano le vie e si incrociano a nostra insaputa. Le indicazioni chieste servono a sentire il suono, ancora, delle parole, ma le direzioni ce le inventiamo. Sbuchiamo davanti a Jai-Ca, e Jai-Ca è perfetto: affollato, rumoroso, fritto, birra, patate brave, polipo, niente paella ma le mie e le sue parole, i miei sogni e i suoi, io lì non piango, lo farò dopo in ostello davanti a un’ecografia di un’amica mandata per mail. Parliamo di passione, di ricerca. Io e Filippo siamo legati. È un incastro. Opposti e testardi, tenaci e passionali. Siamo capaci di partire inseguendo un’ombra, di parlare ore camminando, di litigare, urlarci addosso e di scambiarci attenzioni da fratelli. Lui che vuole la torta al cioccolato di notte, io che gli consegno a mano la cartolina, alle 2.28 del mattino, con l’addio al nostro viaggio onirico e bellissimo.


Dopo due giorni di sole, domenica piove. La pioggia placa il vento che ha sferzato la città nei giorni precedenti. È una pioggia lieve e malinconica forse perché si vede il mare. La luce è intensa mentre cerchiamo un ristorante a Barcelloneta, consigliato da alcuni amici.
Un uomo che porta a spasso un cane ci dà alcune indicazioni in inglese. Le seguiamo ma il ristorante non c’è. Forse è chiuso. Ripieghiamo su un bar molto affollato. È il tipico locale di quartiere. Sembrano conoscersi tutti, soprattutto i ragazzi che arrivano alla spicciolata e si stringono ai tavoli o al bancone.
Mangiamo il polpo e il baccalà e ci facciamo qualche birra. Il cibo è più saporito, la birra più fresca che negli altri posti in cui siamo stati. I ragazzi che ci servono più cordiali.
La sensazione che il nostro viaggio sia al termine, che di lì a poche ore, al mattino presto, dovremo riprendere l’aereo è palpabile. Ridiamo e torniamo in centro camminando su linee curve e morbide come gli ubriachi.
La domenica a Barcellona i musei sono gratuiti. Torniamo a vedere la mostra dell’archivio Bolaño, per masochismo, immagino. Io ci entro appena, ma non ce la faccio e quasi subito esco. Aspetto Serena seduto nella hall del museo. Ha trascritto delle poesie che in Italia non sono pubblicate.
Poi come se non avessimo fatto altro per tre giorni ce ne andiamo per le stradine del centro, a cercare un bar, a bere ancora e parlare di letteratura, e di persone care e di quello che ci aspetta una volta tornati a casa.

“2666”: Bolaño nell’abisso

Quando in un’intervista la scrittrice Carmen Boullosa gli domandò come avrebbe voluto essere ricordato, Bolaño rispose: «È una battaglia futura». Che siamo critici spocchiosi convinti di poter spiegare la sua opera agli altri, vedove risentite e senza scrupoli che vendono i diritti dei suoi libri al migliore offerente (che, come scrisse lui stesso, «molte volte è anche il peggiore») o ancora agenti letterari spietati che trattano i libri come fossero patate al mercato, possiamo stare certi che Bolaño sta ridendo a crepapelle proprio di tutti noi dalle acque del mare di Blanes dove riposano le sue ceneri.

Quello che ci ha lasciato lo scrittore cileno è un testamento irriverente e che getta sale sulla ferita aperta delle nostre vite, solo in apparenza perfette e senza macchia. Per ricordarlo oggi, a dieci anni dalla sua prematura scomparsa, non possiamo che rimarcare l’estrema irriverenza e lo spirito polemico e iconoclasta che caratterizzano tutte le sue opere. Scegliamo quindi di parlare 2666, pubblicato postumo nel 2004 e edito in Italia da Adelphi, proprio perché questo libro sembra essere il punto più alto del suo percorso di ricerca in letteratura, il luogo dove confluiscono le linee spazio-temporali di una vita dedicata ai libri e alla scrittura, all’amore e alla sconfitta.

Ciudad Juárez è una città dello stato di Chihuahua, nel nord del Messico. Situata al confine con gli Stati Uniti, forma un unico agglomerato urbano con El Paso, Texas. A unire le due città ci sono dei ponti che attraversano il fiume Rio Grande, confine naturale fra gli Stati Uniti d’America e il Messico. Per la sua posizione geografica, Ciudad Juárez ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni un’incredibile crescita. Grazie ai piani di sviluppo varati agli inizi degli anni Sessanta del Novecento e all’accordo di libero scambio tra il governo federale messicano, gli Stati Uniti e il Canada entrato in vigore il 1 gennaio 1994 (Nafta – North American Free Trade Agreement), molte aziende statunitensi hanno stabilito impianti industriali (denominati maquiladoras) oltre il confine, allettate dalla possibilità che veniva loro offerta di sfruttare la manodopera a basso costo del Messico e di importare nel paese latinoamericano macchinari e materiali praticamente esentasse. Da quel momento i pezzi per l’assemblaggio di frigoriferi, televisori, forni, telefoni cellulari, ecc. hanno cominciato a varcare la frontiera per finire tra le mani di messicani (in maggioranza donne) che li lavorano per circa 4 euro al giorno, turni di 45 ore a settimana. I prodotti finiti vengono poi caricati di nuovo sui camion che attraversano la frontiera sulla rotta Sud-Nord per essere poi immessi sui mercati occidentali.

È la globalizzazione. Lo stallone dell’economia lanciato di gran carriera sulla strada della ricchezza, senza regole e senza controlli. Una ricchezza che pare offrire opportunità proprio a tutti. E così Ciudad Juárez è diventata una delle città più popolose del Messico in tempo record. Ha attirato centinaia di migliaia di persone (in maggioranza donne) dalle regioni più sottosviluppati del Messico meridionale e dell’America Centrale che, in attesa di varcare il confine per entrare negli Stati Uniti, trovano impiego presso le maquiladoras e si arrangiano a vivere in baracche (tanto sarà per poco) senza acqua potabile e talvolta senza elettricità per andare a popolare le periferie della città ingrossatesi ormai fino a invadere le zone desertiche da cui è circondata. Tuttavia, la frontiera fra il primo e il terzo mondo è sempre più difficile da varcare in direzione nord, e così accade spesso che queste donne si ritrovino a vivere a Ciudad Juárez a tempo indeterminato, almeno finché non finiscono violentate e uccise in un’area abbandonata di periferia, con i vestiti strappati e le ossa lasciate a marcire sotto il sole. Perché nel periodo 1993-2004 circa 600 donne sono sparite e circa 475 sono state ritrovate morte dopo essere state violentate, la maggior parte era di età compresa fra i quattordici e i venticinque anni. Il 60% delle vittime era impiegato presso una maquiladora, tutte quante appartenevano a famiglie estremamente povere, oppure si trovavano a Ciudad Juárez da sole, senza alcun parente che potesse poi denunciarne la scomparsa.

Ma Ciudad Juárez non è solo il «laboratorio del nostro futuro», come la definì Charles Bowden. Paradiso della deregolamentazione in materia economica, non è solo l’avamposto delle orde barbariche di poveri che pressano alle porte del primo mondo in attesa di poter usufruire delle belle cose che essi stessi hanno contribuito a creare. Ciudad Juárez è anche la sede di uno dei più potenti cartelli della droga dell’America Latina affermatosi a metà degli anni Novanta, e per cui il Nafta è stato sicuramente vantaggioso. I narcos messicani hanno fatto fortuna come intermediari grazie alla posizione geografica del loro paese. Trasportano la cocaina e l’eroina dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Perù verso il più grande mercato degli stupefacenti del mondo: gli Stati Uniti d’America.  La presenza dei narcotrafficanti fa di Ciudad Juárez uno dei territori più pericolosi sulla faccia della Terra, la città che dal 2009 si aggiudica ogni anno il triste primato del più alto tasso di omicidi al mondo. E nella città di frontiera, nel periodo 1995-2000, il 44% delle vittime di omicidi volontari era di sesso femminile, se si considera che in tutto il Messico le donne vittime di omicidi volontari sono appena il 10% del totale si capisce perché si parli di un’agghiacciante anomalia che non può essere derubricata a naturale conseguenza di un generale clima di violenza.
 


Quel pezzo di frontiera fra Stati Uniti e Messico è stato definito «zona grigia» dal criminologo statunitense Robert K. Ressler, il territorio senza regole e leggi dove decine, forse centinaia, di serial killer possono riversarsi anche dalla vicina El Paso per commettere impunemente i loro efferati delitti. L’abisso, il buco nero – potremmo dire, per cominciare a introdurre il discorso su 2666 – il luogo dove le perversioni degli uomini sono lasciate libere di sbizzarrirsi, senza regole e senza controlli (proprio come con l’economia di mercato).
 

«Sa cosa voglio che faccia? Disse la deputata. Voglio che scriva su questa storia, che continui a scrivere su questa storia. Ho letto i suoi articoli. Sono buoni ma spesso spara a vuoto. Io voglio che spari a colpo sicuro, sulla carne umana, sulla carne impune e non su ombre. Voglio che vada a Santa Teresa e la fiuti bene. Voglio che la morda».


La persona a cui si rivolge la deputata è l’equivalente letterario di Sergio González Rodríguez, giornalista messicano esperto dei femminicidi di Ciudad Juárez che Roberto Bolaño volle incontrare nel periodo in cui stava scrivendo 2666. Alcuni amici comuni li misero in contatto, anche se in realtà le pressioni più forti furono fatte dallo stesso Bolaño che aveva preso ad appassionarsi sempre di più alla storia delle donne morte al confine fra Messico e Usa. I due si scrivevano spesso, e il cileno non nasconde la sua ammirazione per il lavoro del giornalista messicano che lo aiutò anche con suggerimenti di carattere tecnico a stendere parte della sua mastodontica opera-mondo pubblicata postuma. 2666 è un libro diviso in cinque parti (Bolaño stesso specificò che l’ordine in cui si possono leggere è del tutto libero) e una delle più corpose si intitola «La parte dei delitti»:un blocco di trecento pagine in cui vengono narrati i ritrovamenti di centinaia di corpi di donne violentate e mutilate. La città dove avvengono questi ritrovamenti si chiama Santa Teresa ed è il corrispondente letterario di Ciudad Juárez.

Santa Teresa è il punto verso cui convergono (o da cui partono?) tutti gli innumerevoli rivoli narrativi che scorrono tra le mille pagine di 2666, il buco nero che divora le luci del misterioso scrittore Benno Von Arcimboldi (nome d’arte di Hans Reiter) e degli altri personaggi che popolano questo libro. Bolaño guarda quelle cose e quelle persone che nessuno di noi vorrebbe vedere, e ci restituisce i ritratti di sconfitti (vittime del successo di altri) che pure non cedono mai all’autocommiserazione, ma che portano con orgoglio la loro etichetta di outsider stampata sulla fronte.

Sono i coraggiosi, quelli che non hanno paura della morte, quelli che ogni giorno la sconfiggono, così lontani da noi che vorremmo tenerci alla larga dall’abisso mentre viviamo nell’ossessione della paura di fallire. I personaggi di Bolaño hanno successo solo nell’arte di essere sconfitti: quello che sembra essere il personaggio più importante del libro, appunto lo scrittore Benno Von Arcimboldi, addirittura fugge dal successo. I lettori che amano i suoi libri darebbero oro per vedere anche solo una sua fotografia, ma lui si rinchiude in un isolamento quasi totale ed erge barriere insormontabili contro la notorietà. Ed è interessante, da questo punto di vista, capire dove vanno a perdersi le tracce di tale personaggio: non nella città di Santa Teresa, distesa di cemento e sabbia che aveva già fagocitato le storie (o le vite?) dei personaggi comparsi nelle altre quattro parti del libro, ma in Messico. L’ultima frase di 2666 recita così: «Poco dopo uscì dal parco e la mattina dopo partì per il Messico». Il luogo della perdizione non è più una città, ma una nazione intera dell’America Latina, il buco nero si è allargato, il Messico tutto si è trasformato in frontiera.

Nell’epoca del villaggio globale, dei grandi flussi migratori che partono dai paesi sottosviluppati in direzione delle porte del primo mondo, nell’epoca in cui viaggiare è diventato facilissimo e praticamente alla portata di tutti – «Esisteva solo il movimento, che è la maschera di molte cose, compresa la serenità» –, diventa ancora più difficile ignorare i segnali d’allarme che giungono dal fronte. Più appropriato sarebbe stato scrivere «frontiera» ma la sensazione è che i conflitti sociali nella nostra epoca siano sempre più forti. In ambito economico ad esempio, abbiamo il presentimento che nemmeno le retrovie siano più al riparo da certe trasformazioni che fino a poco fa riguardavano soltanto le zone periferiche del mondo.

2666 è il libro del Male della nostra epoca. Le vicende narrate, infatti, attraversano tutto il Novecento, dal primo dopoguerra (Hans Reiter nasce nel 1920) alla fine degli anni Novanta. Nel buco nero si annulla anche il tempo. Si parte dalla seconda guerra mondiale (a cui Reiter prende parte come soldato) e dall’Olocausto per finire con i femminicidi di Ciudad Juárez. Le vittime ultime di un tempo malato, abitato da uomini malati, su una terra dove non esistono più retrovie sicure, ma solo fronti, terreni di scontro, frontiere da difendere. Ma anche se la crisi in cui è sprofondato il nostro sistema di sviluppo economico negli ultimi anni ci autorizzerebbe a estendere il discorso al mondo intero, per esigenze di spazio restringiamo il campo, e ci limitiamo a parlare della frontierizzazione della sola America Latina, un continente che nel secolo scorso ha conosciuto i più efferati atti di violenza politica e di sopraffazione mai perpetrati da parte di potenze straniere interessate ad appropriarsi di ricchezze naturali altrui.
 

«In qualche misura tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano e quel molto che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo […]. Tutta l’America Latina è disseminata delle ossa di questi giovani dimenticati».


Giovani che sono caduti nell’abisso della storia del Novecento, nei garage segreti di Buenos Aires sotto la giunta militare di Videla, nelle fosse comuni del Guatemala degli anni Ottanta, in Colombia, in El Salvador e in Perù, a Tlatelolco in Messico, all’Estadio Nacional de Chile nel 1973. Bolaño non è mai stato uno scrittore molto attivo politicamente. La sua esperienza di militanza politica si limita a un breve periodo trascorso in carcere a seguito del colpo di stato di Pinochet in Cile dove si era recato dal Messico in seguito all’entusiasmo che aveva provocato in lui l’elezione del presidente Salvador Allende. Uscì di galera grazie alla complicità di due guardie che lo riconobbero in quanto loro vecchio compagno di classe ai tempi delle elementari. Tornò in Cile soltanto venticinque anni dopo per un brevissimo soggiorno e, con l’eccezione di alcuni saggi in cui critica i nuovi populismi latinoamericani contenuti in Il gaucho insostenibile, mostrò poco interesse per le sorti politiche del suo paese o dell’America Latina intera. Il passo citato sopra è tratto dal discorso che scrisse per la cerimonia di consegna del premio Rómulo Gallegos del 1999 e ci fa capire che Bolaño era in realtà molto lontano dall’immagine di scrittore chiuso nella torre d’avorio che il suo silenzio poteva suggerire. Come scrive Ignacio Echevarría, Bolaño è diventato «il bardo dell’America Latina, di una generazione di giovani poeti latinoamericani che persero la vita nell’abisso di un continente perduto nel quale l’esilio è la figura epica della desolazione e della vastità».
 

«I gusti di quel giovane farmacista colto […] erano indicativi di una preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore a scapito dell’opera maggiore. Sceglieva La metamorfosi invece del Processo. Sceglieva Bartleby invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o del Circolo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore».


Bolaño dedicò gli ultimi anni della sua vita alla scrittura di 2666, da quando capì che i suoi giorni erano praticamente contati (a causa di una malattia epatica che poi di fatto lo portò alla morte nel luglio del 2003) si cimentò senza posa nella costruzione di un libro che gli succhiò via le ultime energie vitali. Una corsa estenuante contro il tempo («Non ho molto tempo, sto morendo», dice uno degli scrittori apocrifi verso la fine del romanzo) che ovviamente non gli permise di mettere gli ultimi tasselli a posto. Ma in fondo è anche giusto che sia andata così. Impavido a cimentarsi in questa impresa, è ancora più bello per noi constatare che sia stato sconfitto. Certo, si dirà, l’esito è scontato quando l’avversario è la morte, che pure concede a Bolaño la magra soddisfazione di farsi catturare e mettere su (o sarebbe meglio dire «sotto»?) carta in questo libro.
 


2666 è come un emblema del capolavoro mancato, dell’occasione persa. È la letteratura in potenza, la massa di una supernova mentre collassa sotto il proprio peso, fotografia di quelle cose di cui solitamente possiamo soltanto parlare ma che in questo caso riusciamo anche a vedere, perché hanno un corpo (più di mille pagine) e un’anima espressi in prosa. 2666 è per la letteratura quello che il buco nero è per la fisica. Gli strumenti critici che abbiamo a disposizione possono aiutarci a descriverlo, ma definirlo richiederebbe dei nuovi modelli di riferimento.
 

«Allora, che cosa è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: essere in grado di cacciare la testa nel buio, essere capaci di saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è essenzialmente un mestiere pericoloso. Come correre sull’orlo del precipizio: da una parte l’abisso senza fondo e dall’altra i volti amati, volti amati che sorridono, e i libri e gli amici, e la tavola».


Indagare sui femminicidi di Ciudad Juárez per uno scrittore significa calarsi nell’abisso per dare al lettore la possibilità di guardarlo con i suoi occhi. È proprio la nostra condizione di lettori a offrirci la possibilità di guardare l’abisso, e se siamo abbastanza cauti non verremo trascinati a fondo.

L’abisso è la frontiera, il luogo dove vengono alla luce le contraddizioni di un villaggio globale che crea violenza e scontro nel tentativo di uniformare popoli e culture inconciliabili.

L’abisso è l’America Latina, continente sopraffatto dalla storia mondiale, attore non protagonista, spazio della prevaricazione del normale sul diverso, del ricco sul povero, del perdente sul vincente. Roberto Bolaño ha scelto di mettere al centro delle sue opere le vittime, gli esclusi, quelli che hanno creduto in un sogno di benessere rivelatosi poi irraggiungibile per loro, i milioni di persone sulle cui spalle è costruito il modello di sviluppo e la ricchezza dei paesi occidentali. I cadaveri di donna lasciati a marcire nel deserto del Sonora rappresentano solo alcuni dei danni collaterali del nostro stile di vita, lo sporco da nascondere sotto il tappeto, i mostri da ricacciare nell’abisso.

(Roberto Bolaño, 2666, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2009, pp. 963, euro 24)

[Una versione più ampia di questo articolo, con il titolo: «I femminicidi di Ciudad Juárez in Ossa nel deserto e 2666», è stata pubblicata nel giugno 2012 sulla rivista Pagine inattuali.]