Per dilettare o per uccidere: la parola tra “Decameron”, “Otello” e “Old boy”

La parola come consolazione. E come distrazione mentre intorno impazza la peste, la malattia, la morte. La parola come filo di una trama tessuta per ingannare e distruggere. E ancora, la sadica vendetta per colpire chi inconsapevolmente usa la parola come un’arma. Il primo è il caso del Decameron, di Giovanni Boccaccio. Il secondo dell’Otello, di William Shakespeare. Il terzo, infine, è il caso di Old Boy, film di Park Chan-wook. L’Italia del 1300. L’Inghilterra dell’età elisabettiana. La Corea del Sud dei nostri giorni. Tre epoche diverse, tre lingue e culture differenti, tre forme d’arte – prosa, teatro, cinema – che hanno un comune denominatore: la parola come motore immobile della narrazione.

I racconti boccacciani sono introdotti da un proemio. L’autore spiega qui che il libro è rivolto soprattutto a quelle donne che soffrono per amore. Il Decameron è composto da una serie di racconti dilettevoli, il cui compito principale è appunto quello di portare consolazione. E la stessa struttura dell’opera, la cornice, rimanda continuamente al racconto inteso prima di tutto come forma d’arte orale. Dieci giovani si incontrano nella chiesa di santa Maria Novella e per sfuggire all’epidemia di peste si rifugiano in alcune ville poco fuori le mura del capoluogo toscano. Ragazzi che per passare le giornate si danno appuntamento in giardino, luogo allo stesso tempo ameno e architettonicamente realistico, dove nasce una nuova società basata sulla narrazione dilettevole, dove a turno si è narratori e ascoltatori, dove si può sperimentare ma all’interno di determinate regole. Bisogna seguire dei temi che si assegnano a ogni giornata – amori finiti in tragedia, amori a lieto fine, le beffe che le donne fanno ai mariti, ecc. – e dar vita a una narrazione che rispetti allo stesso tempo l’estetica e l’etica. 

Nel Decameron nasce una nuovo tipo di letteratura: una letteratura del piacere che si contrappone a una letteratura della penitenza molto diffusa durante e dopo la grande peste. E la parola, attraverso il racconto orale, è la base di questo cambiamento letterario.

Nell’Otello la parola è invece usata per distorcere la realtà. Per confondere, per ingannare. Altro che diletto. La lingua di Iago diventa la maggiore antagonista di Otello. Iago non agisce, parla. E attraverso le parole instilla nel Moro il germe della gelosia, facendolo muovere in un mondo che non ha più nulla di reale. E che terminerà con l’omicidio della moglie Desdemona. In questo senso non è un caso che l’ultima battuta di Iago sia: «Demand me nothing: what you know, you know: From this time forth I never will speak word» [Non domandatemi nulla: quello che sapete, sapete. Da questo momento non proferirò parola].

Ma la parola in Shakespeare può essere sì inganno, ma anche altro. Come dimostra l’ingenuo Otello che appare separato dalla realtà vivendo nel racconto delle sue gesta. Anche Otello è quindi soprattutto parola. E inizialmente parla in maniera armonica ed elegante. Iago finirà per penetrare prepotentemente anche in questo mondo: non solo distrugge la psiche dell’antagonista ma anche la bella sintassi del Moro, che andrà in frantumi, facendosi contorta e complessa.

Infine Old Boy, ovvero il film che Quentin Tarantino, presidente di giuria a Cannes 2004 dove la pellicola sudcoreana ha vinto il Grand prix, avrebbe voluto girare. E il regista di Kill Bill è evidentemente uno che di vendetta se ne intende. Oh Dae-su è un uomo normale. Ma nel 1988 viene improvvisamente rapito. Passerà quindici anni in una cella, con la televisione e gli esercizi fisici come unica compagnia. Un periodo che sfibrerà la sua mente e che irrobustirà il suo fisico. Quando improvvisamente viene liberato, cominciano a ronzargli in testa le domande e il desiderio di vendetta: perchè quei quindici anni di reclusione? Chi lo ha voluto? E per quale motivo è stato poi liberato?

Inizia così un complesso viaggio a ritroso nel tempo. Quando Oh Dae-su era ancora uno studente di liceo aveva visto per caso Woo Jin, il suo carceriere, mentre si apprestava ad avere un rapporto sessuale con la sorella. Un amore incestuoso che viene raccontato che passa di bocca in bocca. Un pettegolezzo che in poco tempo fa il giro della scuola. Come spiega Woo Jin: «La voce che hai messo in giro si è ingigantita. Dicevano che era incinta. Mia sorella si è fatta talmente travolgere che ha cominciato a crederci. Addirittura non ebbe più le mestruazioni e le si gonfiò la pancia. Strano vero?».

Circostanza che indurrà la giovane al suicidio. Ma il centro del film non va cercato nell’amore incestuoso. Ecco infatti la frase più importante della pellicola: «Per colpa della tua lingua mia sorella è rimasta incinta. Non è stato il cazzo di Woo Jin ma la lingua di Dae-su». La ragazza non è rimasta incinta durante, o comunque a causa del rapporto sessuale. Oh Kwang-rok è rimasta incinta dopo che la confidenza di Dae-su, ingenua, buttata lì senza enfasi a un amico, ha cominciato a ingigantirsi. Fino al punto di non ritorno: un’auto-suggestione talmente forte da provocare una gravidanza isterica.

La parola che ancora una volta provoca una morte. Desdemona prima. Oh Kwang-rok adesso. In Shakespeare il manipolatore Iago. Qui un inconsapevole Dae-su che non a caso cerca di espiare la propria colpa tagliandosi la lingua con un paio di forbici.  

“Il nome della rosa” di Umberto Eco

Niente è come sembra. Questa potrebbe essere una definizione fedele, seppur scarna, di Il nome della rosa di Umberto Eco. A prima vista sembra un giallo storico, ed effettivamente lo è, perché Guglielmo di Baskerville – è chiaro il riferimento a Il mastino di Baskerville di Conan Doyle, ma l’omaggio non finisce qui –, francescano inglese ed ex-inquisitore (pentito), e il suo allievo Adso, novizio benedettino di origine tedesca, indagano su una serie di omicidi nell’abbazia benedettina in cui si trovano per altri motivi (presto arriveranno le delegazioni papale e francescana per discutere, in vista di un successivo incontro ad Avignone, della difficile questione della povertà di Cristo, della Chiesa e dell’ordine dei Frati Minori). Peccato che poi la soluzione dell’enigma non porterà all’individuazione dei colpevoli, come invece accade normalmente in un giallo.

Ma Il nome della rosa non è solo un giallo storico, perché è anche un’opera di interpretazione. L’autore vuole raccontare il (suo) Medioevo, e ne descrive un periodo (non il suo “preferito”) di transizione, di tensione tra il conservatorismo che è conosciuto come più tipicamente medioevale e un pensare più “moderno”, che in realtà è ancora, come specificherà qualche anno più tardi lo stesso Eco, profondamente medioevale. E per spiegare questo suo Medioevo non sceglie una narrazione in terza persona, con cui poter facilmente giustificare le lunghe digressioni didascaliche, ma preferisce invece affidare la narrazione all’Adso ormai anziano, che tuttavia, da tedesco, si ritrova a dover spiegare la complicata, a suo dire, situazione italiana.

E grazie ad Adso quale voce narrante l’autore rende evidente la sua passione per il Medioevo: ne nasce un’opera dal gusto medioevale, frutto di un lungo studio delle cronache del periodo per cercare di imitarne lo stile, arricchita non solo di lunghi elenchi e numerose citazioni in latino, ma anche di continui riferimenti a opere del periodo, tanto che, per esempio, la scena di sesso nella cucina viene costruita con un collage di testi di mistici medioevali.

Benché la storia sia ambientata nel Medioevo, Eco non dimentica il presente, così da lasciar trasparire, tra le righe, le analogie con la situazione italiana degli anni Settanta, paragonando i moti di rivolta medioevali con il terrorismo di quegli anni. E poi si sa che tutti i problemi dell’Europa nascono nel Medioevo, così come quell’incertezza, del tutto italica, nei confini tra potere religioso e potere secolare, aspetto che certo non rimane nascosto in un romanzo ambientato nel pieno della cosiddetta “cattività avignonese”.

E infine, vexata quaestio, il film diretto da Jean-Jacques Annaud, è meglio o peggio? Nessuno dei due. È un’altra cosa. Se visto senza un diretto collegamento al libro, il film apparirà certamente ricco e interessante, anche se a volte tralascia di spiegare alcune cose. Se invece lo si prova a guardare poco dopo aver letto il libro (e lo sconsiglio vivamente), potrebbe suscitare un certo fastidio, perché si perde totalmente la ricchezza costruita nel mondo e nei personaggi di Eco, oltre a unaparte del significato dell’opera. In fondo, quindi, si tratta di due cose diverse, e non è un caso che il film sia «tratto dal palinsesto del Nome della Rosa di Umberto Eco».


(Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980)

“La piena” di Mikael Niemi

La piena di Mikael Niemi (Iperborea, 2013) è un romanzo catastrofico ambientato in Svezia, in cui si racconta l’arrivo di un’inondazione e le reazioni di una serie di personaggi, in una piovosa giornata d’autunno: atti quotidiani di nessun rilievo apparente, gesti che diventano “gesta” o “infamie” imponendosi in situazioni estreme come azioni buone o cattive, e condannando o eroicizzando per sempre coloro che le compiono. In un’ambientazione nordica, «in uno dei territori selvaggi più vasti del Nord Europa» avviene un cataclisma, una piena che travolge e spazza via case  e persone.

Un romanzo sullo scontro ancestrale tra l’uomo e la natura, sulla primordiale lotta per la sopravvivenza tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive, che ha cercato di domare, plasmare, ricostruire a sua immagine. La natura come nido, riparo, rifugio della creatura uomo si scatena contro il proprio protetto presentandosi sotto forma di energia distruttrice di un fiume, il fiume Lule.

«E così questo è il fiume. Lo stesso fiume che avevano contribuito a addomesticare. Lo avevano fatto a pezzi, squartato come un serpente, diga dopo diga, sezione dopo sezione. Avevano fissato al suo corpo lunghi fili che portavano l’elettricità, lo avevano creduto domato e sconfitto. Ma si era risvegliato. Il vecchio fiume, quello vero. Si era liberato dalle catene, impetuoso e rombante, adesso era lui a decidere».

L’acqua diventa protagonista assoluta e non è un caso se proprio nel bacino del fiume Lule, territorio bellissimo, ancora fortemente incontaminato, questa rivolta degli elementi prende la forma di un’inondazione e si fa strada a poco a poco nella narrazione.

I personaggi ingaggiano una battaglia personale per tentare di opporsi, resistere e sopravvivere alla catastrofe naturale, al mostro che si manifesta dapprima come un rumore, un fragore, un tremore:  «un po’ come se nell’aria ci fosse un temporale, un imminente acquazzone». A tratti è «una montagna rotolante si avvicina come un incubo», a tratti «una bocca ululante che si chiude e inghiottisce tutto» e torreggiante s’impone dall’alto. Ma per chi vive in quei luoghi, per chi ha familiarità con i boschi, questo scenario, paesaggio dell’infanzia, evoca sorprendentemente ricordi piacevoli e sensazioni confortanti.

Tra una miriade di personaggi sui quali l’obiettivo si sofferma più da vicino, si distinguono Vincent Laurin e Lena Sundh: personaggi positivi e coraggiosi che forniscono al lettore due punti di vista originali e un po’ insoliti. Il primo, Laurin è un elicotterista che, deluso dalla vita, vorrebbe schiantarsi con il suo velivolo. Dall’elicottero, l’altezza gli consente di avere un margine di vantaggio sulla massa d’acqua in arrivo e di intervenire tempestivamente in più di un’occasione diventando, lui «novello Icaro» candidato suicida, salvatore di vite con il suo mezzo: «un grembo materno […], una piccola bolla con un cordone ombelicale che frustava il cielo fino ad aprirvi un buco, un varco risucchiante attraverso cui si nasceva».

Lena Sundh vive invece la calamità con l’occhio privilegiato di un artista, un pittore che voglia rappresentare la realtà circostante. E il suo linguaggio è intriso di metafore che richiamano il campo pittorico, rendendo l’inondazione un’opera d’arte in fieri, quasi un tableau vivant, che si evolve sotto i nostri occhi di lettori. Il compito della mattinata per i suoi allievi è: «dipingere l’acqua con l’acqua, era come un battesimo. Un rito. Dipingeva il fiume con il fiume, il Julevädno le colava sul foglio». Riesce ad aggiungere un tocco poetico al paesaggio un attimo prima che venga spazzato via.

L’idea di fondo di un diluvio universale non ci abbandona mai, fin dall’epigrafe che lo rievoca citandone il passo della Genesi: siamo immersi in un’atmosfera apocalittica fatta di vittime e sopravvissuti, in cui l’elicottero rappresenta l’unica ancora di salvezza nel cielo e sulle acque tutto ciò che può resistere sono tronchi di legno di betulla o di pino; una vecchia baita fa le veci dell’arca di Noè agli occhi di una giovane che porta in grembo il seme della vita, e qualcuno riesce a salvarsi perché per miracolo «forse la mano del Signore era scesa dal cielo, si era posata sul letto del fiume e aveva fermato il muro d’acqua nel bel mezzo della catastrofe».
 

(Mikael Niemi, La piena, trad. di Katia De Marco, Iperborea, 2013, pp. 334, euro 16,50)

“Now You See Me - I maghi del crimine” di Louis Leterrier

Un thriller nel mondo della magia, tra illusione, spettacolo e rapine impossibili al centro di Now You See Me – I maghi del crimine di Louis Leterrier, con un cast di grandi nomi, da Jesse Eisenberg a Morgan Freeman passando per Mark Ruffalo e Michael Caine.

Quattro prestigiatori in cerca di successo, tre uomini e una donna, ricevono ognuno una carta dei tarocchi (l’innamorato, l’eremita, la morte, la papessa) con una data e un indirizzo per un misterioso appuntamento. Nessuno sa chi ci sia dietro le carte, nessuno sa chi siano gli altri, solo due di loro si conoscono già. Un anno dopo sono su un palcoscenico di Las Vegas davanti a migliaia di persone. Sono diventati famosi con una serie di spettacoli di magia come “I quattro cavalieri” e quella sera decidono di provare l’impossibile: rapinare una banca, per di più a Parigi, senza muoversi dal palco. Quando il caveau dell’istituto francese viene aperto da un’ignara cassiera al mattino i tre milioni di euro che custodiva sono spariti, volatilizzati e pronti a ricadere come pioggia sul pubblico in visibilio del Nevada. L’agente dell’FBI Dylan Hobbs cerca di capire come sia possibile insieme alla detective dell’Interpol Alma Dray, mentre un presentatore tv specializzato nello svelare i trucchi dei maghi ipotizza che quello possa essere solo il primo di una serie di colpi.

Grande attrazione quella che esercitano i prestigiatori sul cinema negli ultimi anni. Dopo l’ampia parentesi storica inaugurata dai fratelli Nolan con The Prestige nel 2006, Now You See Me porta la magia nell’oggi e nei grandi spettacoli di Las Vegas. Come nel film di Nolan, il regista Louis Leterrier e i suoi sceneggiatori parlano direttamente allo spettatore, fornendo indizi e chiavi di lettura lungo tutto il film, mettendo in scena le tre fasi della magia (preparazione, illusione, prestigio) per spiegarne poi i meccanismi e, soprattutto, le ragioni. Il trucco c’è, e si vede. Mascherarlo non importa, quello che si ricerca non è lo stupore di chi guarda ma la trama di un sipario dietro cui nascondere le vere intenzioni dei quattro cavalieri.

I maghi di Now You See Me non sono solo degli illusionisti. I loro spettacoli sono mirati a qualcosa di più. È la pretesa generale del film: parlare d’altro attraverso la magia. Perché dietro ai trucchi, alle carte e alle sparizioni si può vedere un giudizio sulla crisi del capitalismo e sulla finanza cannibale e immorale (i rimborsi negati alle vittime di Katrina a New Orleans) che fa viaggiare e sparire milioni di euro ogni giorno. Le azioni dei quattro maghi sembrano inseguire una vendetta che va oltre la trama per rifarsi su un sistema sbagliato e malato di speculazione e distacco dal mondo reale delle persone normali tenute al margine dei grandi flussi, mentre si pretende giustizia anche da una realtà, quella dello spettacolo, che non si fa scrupoli a sfruttare le persone senza farsi problema delle conseguenze.

Dopo essersi messo in mostra con varie sfumature di azione (la serie di Transporter, l’interessante Danny the Dog, l’Hulk con Edward Norton, il mitologico Scontro tra titani) il quarantenne Leterrier alza l’asticella accantonando i muscoli e puntando tutto sul carisma dei suoi quattro illusionisti. Per assurdo, sono proprio le vicende dei cavalieri quelle che appassionano di meno. Ipotizzando l’ingresso in una fantomatica società segreta di maghi, risalente addirittura al culto di Horus, come movente delle rapine, viene aggiunta una superflua sotto-trama esoterica (cui si sommano i tarocchi e il rimando all’Apocalisse dei quattro cavalieri) che confonde e disperde l’attenzione, infarcita di dialoghi approssimativi e spiegazioni grossolane e superflue. Spiega troppo, più del necessario, ribadendo l’evidente anche a discapito della verosimiglianza.

A funzionare, e bene, è l’apparente ingenuo Hobbs di Mark Ruffalo, agente scettico e disincantato che si sbatte per fermare i quattro maghi finendo costantemente vittima dei loro trucchi.

Grande successo di pubblico negli Stati Uniti.

 

(Now You See Me – I maghi del crimine, di Louis Leterrier, 2013, thriller, 115’)

 

“Il sogno di volare” di Carlo Lucarelli

Bologna la dotta. Bologna la rossa. Bologna l’isola felice. Ma anche Bologna della strage del 1980, Bologna «sazia e disperata», come la definì il cardinal Biffi nell’ormai lontano 1985. Bologna della “Uno Bianca”. Bologna che d’inverno non vedi l’ora venga estate e Bologna che già a luglio non aspetti altro che piova per rinfrescarti. Bologna un po’ accogliente ma anche un po’ stronza perché in fondo i suoi studenti li spenna. Bologna che con le sue luci e le sue ombre assurge a simbolo e metafora dell’Italia contemporanea nel nuovo romanzo di Carlo Lucarelli, Il sogno di volare (Einaudi, 2013).

Una Bologna che non è più la stessa però: «Madonna com’è sporca questa città di merda», inveisce l’ispettore Sarrina sproloquiando contro extracomunitari e punkabbestia. «Guarda questa città», prosegue ancora l’agente, «non ci ha più neanche il sindaco […]. L’avresti mai detto che Bologna, Bologna, Cristo, restava senza sindaco per una storia di donne e di soldi?». Ma in fondo «è tutta l’Italia che è così. Tutti persi, tutti incazzati». E tutti rassegnati. Ma anche rabbiosi. È in una Bologna così che d’improvviso, una notte, sotto un portico buio esplode questa rabbia, soffocando il grido di un ragazzo in un terrore muto. E poi, nei giorni seguenti, ancora. Perché le ingiustizie sono ovunque e qualcuno ha deciso di porre rimedio. A modo suo:

«Ma io mi chiedo io mi chiedo stronzi io mi chiedo come cazzo fate a vivere così stronzi maledetti teste di cazzo e figli di puttana […] servi di merda di padroni infami che sono come voi che vi vendete anche il culo per esser come loro troie […] troie […] TROIE […] che possiate morire adesso […] io mi chiedo io mi chiedo io mi chiedo c’è posto per voi in questo mondo voi che rubate la fiducia della gente […] per fottergli  la vita a pagamento […] voi che rubate il futuro anche ai vecchi che succhiate il sangue dei malati e il sudore degli schiavi […] ora è finita perché non è giustizia quel che voglio ma vendetta e vi prenderò uno per uno uno per uno stronzi maledetti VERRÒ A PRENDERVI UNO PER UNO E VI MANGERÒ IL CUORE!»

A investigare su questi orrendi omicidi viene chiamata ancora una volta l’ispettrice Grazia Negro che dopo la cattura dell’Iguana e poi del Pitbull è ormai specializzata nel dare la caccia a spietati serial killer. Già protagonista di altri romanzi di Lucarelli (fra cui Almost Blue e Un giorno dopo l’altro), nonché di Acqua in bocca, una storia scritta a quattro mani dall’autore parmense insieme a Camilleri, in cui l’ispettrice affianca nelle indagini il più noto commissario Montalbano, ritroviamo qui una Grazia alle prese con problemi personali e con pochissima voglia di avere nuovamente a che fare con qualche folle: «No, per favore, non un’altra volta». Ma bisogna fare presto, perché il killer ucciderà ancora e lo farà molto presto. E la vittima potrebbe essere chiunque. «Provate a pensare a una cosa che vi fa rabbia perché non vi sembra giusta e potrebbe essere quella che fa arrabbiare anche lui»,dice rivolto agli agenti il profiler, che poi aggiunge: «Poi provate a immaginare il primo che passa e che c’entra qualcosa, anche lontanamente».

Il romanzo dei giorni nostri.


(Carlo Lucarelli, Il sogno di volare, Einaudi, 2013, pp. 280, euro 18)

Tamburi e biciclette

Olivier, un burkinabè enorme e dalla risata rumorosa è il direttore della filiale di Dano dellaBanque International pour le Commerce, l’Industrie et l’Agriculture du Burkina. Un nome impegnativo, ma in realtà la filiale consiste in una piccola stanza dove Olivier è anche impiegato e cassiere. Insomma, c’è solo lui. Ci entro per cambiare un po’ di franchi CFA. Olivier però, vista la rarità nei paraggi didablo, i bianchi in lingua Lobi, preso dall’entusiasmo si trasforma subito in un mio fan. Mi fotografa con il cellulare. Poi decide di chiudere la banca – «Tanto siamo già aperti da più di tre ore» – e mi accompagna a visitare il villaggio. E il mercato. Poi mi porta a conoscere la famiglia. Quindi a casa di sua sorella. E alla fine a bere una birra. Così diventiamo amici e gli parlo della mia passione per l’antropologia e del mio interesse per le cerimonie del popolo Lobi. Soprattutto per le cerimonie funebri. Può sembrare un po’ macabro, ma si sa che gli antropologi hanno un’attrazione particolare per sepolture, sacrifici e simili. La mattina dopo Olivier è di fronte alla mia pensione su una scassatissima Peugeot 405 verde. Ci spostiamo pochi chilometri a sud, verso il Ghana. Un po’ di capanne, l’immancabile mercato e, soprattutto, la cerimonia che sto cercando. Un funerale Lobi si svolge in momenti diversi, che possono durare pochi giorni ma che arrivano anche ad alcuni mesi. Lo scopo è accompagnare il defunto dalla condizione di fantasma a quella di spirito e poi di antenato. Noi partecipiamo al primo momento, la sepoltura vera e propria. Anche Olivier si contiene assumendo un atteggiamento adatto alla circostanza. Cioè continua a parlare senza sosta, ma a bassa voce. Tutto si svolge all’aperto e, come sempre in Africa, è coinvolto l’intero villaggio. Il defunto, avvolto in una stuoia, è al centro. Di fronte i musicisti suonano vari strumenti tradizionali: tamburi di legno, tamburi di pelle e due enormi xilofoni. La musica cambia a seconda che il defunto sia maschio oppure femmina. Le donne emettono lunghi ululati modulati come lamento funebre, mentre i fossatori attendono per l’esumazione. Seguo il mio voluminoso accompagnatore ripetendone i gesti. Passando accanto a un mucchio di miglio ne prendiamo una manciata e ci fermiamo per qualche secondo davanti alla salma, ai musicisti e ai fossatori. A ogni tappa lasciamo in offerta del miglio e qualche moneta. Arriviamo poi a un riparo di paglia, dove i parenti del morto offrono piccole calebasse dichopolo, la birra di miglio. Assaggio curioso la mia, dal sapore amarognolo e frizzante. Olivier ne beve tre. All’improvviso si sente un gran vociare e i presenti cominciano a correre verso la strada. «Che succede?» chiedo. «Le Tour, le Tour!» risponde Olivier, facendo segno di affrettarsi. Arrivo alla strada. La gente è schierata ai due lati, rivolta a nord verso Ouagadougou. Poco dopo sfrecciano tre moto con le bandiere rosse di segnalazione. Poi le auto ammiraglie, quindi un paio di fuggitivi. Dopodiché arriva la massa dei ciclisti. Gli atleti sono stravolti dallo sforzo. Mani attanagliate al manubrio, collo tirato, viso paonazzo. Le maglie scure di polvere e sudore. Ci sono diversi bianchi, ma gli africani sono in maggioranza. I primi su biciclette supermoderne. Telai in acciaio ultraleggero, sellini in carbonio, caschi aerodinamici. Molti degli altri, invece, con vecchi caschetti in pelle e su bici ormai quasi d’epoca. Il pubblico è caldo, urla, applaude, si agita. Accanto a me, particolarmente esagitate, ci sono alcune delle donne prima impegnate nei lamenti funebri. Le riconosco dagli ululati, gli stessi del funerale anche se non più per lutto ma per incitare gli atleti. Un paio dei suonatori hanno portato i tamburi e li battono furiosamente. In un attimo la strada prima deserta si è trasformata in una bolgia. La folla forma un muro nero, uniforme, in cui il mio volto spicca come un fanale bianco. E infatti, quando mi raggiungono, i corridori sgranano gli occhi guardandomi quasi increduli, chiedendosi che diavolo ci fa lì in mezzo questo bianco sperduto nella campagna africana. Passa un ciclista e mi fissa stupito. Un altro, biondissimo, mi supera, si volta e quasi finisce fuori strada. Dalle auto delle squadre spuntano braccia pallide che fanno grandi cenni di saluto. La situazione diventa quasi comica. Estraggo la macchina fotografica, ma devo rinunciare. La linea degli spettatori, infatti, per entrare nella foto fa un passo in avanti come un plotone schierato. Così però finisce in mezzo alla strada, incurante dei ciclisti che di fronte a questa barriera umana che avanza cominciano a sbandare paurosamente. Mi raggiunge Olivier, quasi più trafelato dei corridori «Non conosci il Tour du Faso? È I-M-P-O-S-S-I-B-I-L-E!». A sentire lui è la gara a tappe più importante del mondo, alla pari del Tour de France. Questa è la ventiduesima edizione. Dieci tappe, 1.200 chilometri e arrivo nella capitale Ouagadougou. Una tirata unica di dieci giorni. Oggi si corre la seconda tappa, da Boromo a Diébougou. In Europa la definiremmo una tappa per velocisti. Poco più di tre ore per 133 chilometri di strada piatta e tre sprint. In realtà è un percorso massacrante. C’è un caldo che schiaccia a terra e un’umidità che stringe i polmoni. Gran parte della gara si corre su piste dove non piove da anni, con la polvere che intasa naso e bocca. Un ambiente spietato che fa giustizia della disparità di mezzi. Questa edizione la vincerà un belga, ma nell’albo d’oro non mancano burkinabè, marocchini ed egiziani. Certo, non è il Tour de France. Però si respira un agonismo che sembrava scomparso, fatto di ginocchia sbucciate, di facce stravolte, di fughe da incoscienti. Un ciclismo per professionisti di medio livello, che magari campionissimi non lo saranno mai. Come Rabaki Jérémie Ouédraogo, vincitore nel 2005, che in Burkina Faso è una specie di eroe nazionale. Ma nel frattempo la corsa è passata e riprende il funerale.

“Arcipelago dell’insonnia” di António Lobo Antunes

«Fra poco è mattina, e non sarà mai mattina». Con questa malinconica pennellata si chiude il nuovo lavoro di António Lobo Antunes, Arcipelago dell’insonnia, (Feltrinelli, 2013), volo a quota variabile sulle vicende di una famiglia possidente del Portogallo, dal nonno ai nipoti. Tre generazioni per descrivere con lucido lirismo la crudeltà di una vita legata agli istinti primordiali e prevaricatori, fatta di vittime e carnefici che si confondono in una danza spettrale e luminosa insieme.

L’affresco che l’autore offre va componendosi sotto gli occhi attoniti del lettore per auto germinazione, come se fossimo invitati da un ospite muto a sfogliare l’album di foto di una famiglia sconosciuta, e scorgessimo i personaggi in immagini ingiallite, presi in un paesaggio polveroso e assolato, mentre cambiano età e fisionomia sullo sfondo della vecchia tenuta di famiglia, al centro di questo microcosmo fuori dal tempo.

Non molto di più è offerto alla conoscenza del lettore, che si ritrova nella vicenda senza preamboli, coinvolto in prima persona da una narrazione incredibile fatta di sole descrizioni, frammenti di ricordo, visioni, dentro e fuori la testa di chi racconta.

Dal capostipite violento e dispotico che abusa delle serve e maltratta i contadini, al fattore omertoso e compiaciuto, alla nonna che uccide i conigli con meccanica crudeltà, fino al nipote autistico che osserva la sua famiglia dal di fuori, le storie di questo romanzo si intrecciano in un gioco di rimandi che solo la prosa di Antunes può ambire ad affrontare senza rompere la linea di una finzione onesta.

Una prosa preziosa a cui forse il lettore italiano non è del tutto preparato, fatta anche di sperimentazione con la sua serie di frasi mozze, parole troncate, discorsi a metà, a cui certo la difficilissima traduzione in italiano di Vittoria Martinetto ha dovuto necessariamente concedere più di qualcosa.

Arcipelago dell’insonnia è un libro impegnativo non adatto a tenere compagnia sotto l’ombrellone. La sua lettura piena di flash richiede l’attenzione trasognata del viaggiatore, o la silenziosa complicità, appunto, dell’insonne. Gli spazi che riempie sono sempre paradossali, o inesistenti. Per questo, nella valigia di chi si appresta a partire, questo romanzo non avrà peso.


(António Lobo Antunes, Arcipelago dell’insonnia, trad. di Vittoria Martinetto, Feltrinelli, 2013, pp. 288, euro 18)

“La ragazza che fermò il tempo” di J.M. Tohline

Ci sono personaggi che costituiscono la ragione d’essere di una narrazione, perché dotati di una fascino trascinante e compulsivo con il quale assoggettano il lettore alla loro volontà. Forse perché custodiscono una segreta armonia che si espande dal mondo fittizio al nostro senza soluzione di continuità: Lenore, la protagonista del romanzo d’esordio del giovane J.M. Tohline, La ragazza che fermò il tempo (Elliot, 2013), è una di queste creature rare.

Dopo un grave incidente aereo al quale sfugge per una fortunata distrazione, Lenore decide di fingere di essere morta, come tutti gli altri passeggieri,e studiare le reazioni della famiglia del marito, Chas Montana. Nello stesso periodo, un giovane scrittore, Richard Parkland, si riposa a Nantucket, nella villa di un amico, diventando il vicino preferito dei Montana.

Richard crede che la pace del soggiorno potrà giovare alla stesura del suo secondo romanzo, ma in breve si ritroverà fagocitato dall’incanto invincibile di Lenore, fino a scoprire, da osservatore attivo, un ciclo inesorabile di confessioni e sotterfugi sentimentali. Mentre Chas ripensa ai suoi sbagli, domandandosi se il suo tradimento non abbia offeso la natura preziosa di Lenore, Jez e Maxwell, il fratello minore di Chas, rincorrono i sogni passati. A poco a poco, in un gioco di distanze e intimità, si schiudono quesiti essenziali: Chas, troppo distratto e debole, sarà ancora uno sposo degno agli occhi di Lenore? Davvero, come spiega il nonno alla nipote orfana, con umile pragmatismo,vale più la tensione etica verso un ideale che il suo raggiungimento? Allora, non sono che miseri palliativi sia il romanticismo appena vagheggiato da Maxwell che la realtà degli incontri fra Lenore e Jez, uno dei migliori dipendenti del signor Montana? E, infine, chi sceglierà la divina Lenore, «morta due volte perché morta così fanciulla», come recita l’epitaffio di Poe dell’esergo?

A lei spetta la difficile valutazione del legame coniugale con Chas, in base alla quale potrà rescindere il dilemma fra la fuga o l’adattamento al matrimonio. La sola alternativa per non cedere al sogno tragico di Jez sarà accettare il pentimento sentito di Chas: ma questo scenario non è esente da prezzi simbolici da versare, molto attigui al dramma di Gatsby.

L’originale titolo The Great Lenore, evidenza bene la sfolgorante eco del celebre romanzo di F.S. Fitzgerald, un’eco che fluttua sinuosa nel romanzo e nelle narrazioni secondarie. Di fatti Tohline indaga una struttura già costruita, divertendosi a creare piani narrativi abilmente intrecciati che insistono sul ricordo e sul rimpianto e sulle derive affettive che disperdono i destini umani.

Brulicante di lucidi flashback narrativi, la prosa di Tohline, incalzante e luminosa,si nutre del tributo reverenziale a Il Grande Gatsby, con il quale le analogie sono marcate nell’impronta stilistica, nelle carezze ruffiane della chiusa e nell’ossessivo riemergere di dettagli mutuati da Fitzgerald, come il narratore interno al romanzo, ma non alla vicenda narrata. Nei confronti di Lenore, l’autore sottolinea nei delicati versi di E.A. Poe, i contorni ambigui di una bontà mite e fatale, un candore che uccide. Di certo a Tohline va il merito di modelli ambiziosi, tuttavia nonostante l’espressività nitida ben trasmessa dalla traduzione di Chiara Rea, si può affermare che l’opera brilli di insistente luce riflessa, con l’effetto di forzate imitazioni che nuocciono agli slanci lirici e alle scelte narrative più riuscite proprio perché autentiche.

(J.M. Tohline, La ragazza che fermò il tempo, trad. di Chiara Rea, Elliot, 2013, pp. 192, euro 18)

“La luce di Cloudy Bay” di Favel Parrett

Acqua rabbiosa e sabbia grigia, luce opaca e piatta, rocce ripide e nere, onde e maree. Una natura marina imprevedibile e selvaggia, ai confini del mondo: la prima grande protagonista del romanzo d’esordio della scrittrice australiana Favel Parrett, intitolato La luce di Cloudy Bay (Gran Vía, 2013), è amica e nemica di tre fratelli, figli di un pescatore, legati al mare per amore o per dovere. Joe e Miles sono ormai abbastanza grandi per aiutare il padre nel mestiere e imbarcarsi con lui prima di ogni alba o per dominare l’oceano con le loro tavole da surf, ma il piccolo Harry no. Lui teme l’acqua, preferisce restare a terra e collezionare gli oggetti ritrovati a riva dopo l’alta marea, in attesa che i fratelli riemergano dalle onde avvolti nelle loro mute. Una vita dura per loro, da quando hanno perso la madre in un incidente automobilistico e sono rimasti soli con un padre irascibile e violento, completamente disinteressato al loro benessere e alla loro incolumità.

Difficile vedere ancora la luce dorata di Cloudy Bay quando le ombre del passato continuano ad aleggiare su un presente crudele e impetuoso, come un oceano in tempesta.

Joe, il più grande, si rifiuta di lavorare e vivere sotto lo stesso tetto con il padre e i fratelli e decide di andarsene, di partire alla ricerca di un «luogo nuovo». Seppur legato da un profondo affetto fraterno nei confronti di Miles e Harry, Joe è determinato a conquistarsi un futuro migliore.

Miles, invece, è ancora giovane per fuggire da solo e si sente responsabile di proteggere Harry e rassicurarlo di fronte all’indifferenza e alla crudeltà del padre, un uomo aggressivo e rancoroso nei confronti dei figli, custode di un segreto all’origine della sua rabbia e legato alla perdita della loro madre.

La luce di Cloudy Bay è un romanzo drammatico, dai toni cupi e tesi, a tratti angosciante, ma altrettanto profondo e commovente. Estremamente coinvolgente, seppur all’inizio risulti un po’ dispersivo, è l’uso di una narrazione agile e dinamica poiché alternata costantemente tra più punti di vista, soprattutto quelli dei tre fratelli, in particolare di Miles e Harry. È proprio il piccolo Harry, un ragazzino sensibile e coraggioso, a raccontarci gran parte di questa storia e a lasciarci “assistere” ad alcuni degli episodi più drammatici e crudi che hanno segnato la vita dei giovani fratelli tramite i suoi occhi, ancora ingenui ma allo stesso tempo perfettamente consapevoli del terrore che incombe su di loro.

La rabbia e la compassione che proviamo di fronte all’infanzia o alla gioventù rubata dei tre protagonisti ci lasciano turbati e commossi. A farci paura è il pensiero che la luce di Cloudy Bay, con tutto ciò che rappresenta, sia a volte visibile soltanto tramite il ricordo di qualcosa o qualcuno che non c’è più o solo fuggendo lontano dal luogo a cui apparteniamo.

(Favel Parrett, La luce di Cloudy Bay, trad. di Giovanni Giri e Claudia Togni, Gran Vía, 2013, pp. 176, euro 13)

La scuola della serie è finita: i bocciati secondo Flanerí

Come sempre luglio segna il capodanno del mondo della televisione. Se questo mese e le temperature estive non richiamano le stesse sensazioni del 31 dicembre, alle porte delle vacanze estive la quasi totalità delle serie televisive si defila nell’attesa (o nella speranza) di un grande ritorno autunnale.

Nonostante qualche stacanovista abbia rinunciato alle ferie per venire incontro agli spettatori (Perception, Copper, Hell On Wheels ma soprattutto l’ultima stagione di Breaking Bad) per tutti gli altri è il momento dei temuti o agognati giudizi finali. Anche noi di Flanerí ci siamo chiesti quali siano stati i picchi più alti e più bassi raggiunti in questo lungo anno.

Prima del piacere di parlarvi degli show migliori e di darvi appuntamento a settembre c’è il dovere di soffermarci sulle serie più deludenti, le più fiacche o quelle semplicemente che avrebbero potuto fare di più ma non si sono impegnate, come a molti noi è successo ai tempi della scuola.

Revolution

Un fallimento col botto, reso ancor più grande dalla considerazione ricevuta da pubblico e network. L’idea di uno scenario post-apocalittico, in cui la popolazione ha dovuto far fronte alla scomparsa dell’elettricità a causa di un misterioso black-out mondiale, aveva attirato molti curiosi. La presenza nel cast di attori come Giancarlo Esposito aveva solo accresciuto i sentori positivi.

Una recitazione spesso non all’altezza – come quella di Tracy Spiridakos nei panni dell’irritante Charlie Matheson – unita a sviluppi poco felici delle situazioni presentate, soprattutto nella prima metà di stagione, hanno contribuito a cancellare ogni speranza. La lieve ripresa giunta con gli ultimi episodi non è bastata a rimettere in carreggiata il più grande flop dell’anno. Ovviamente rinnovato di corsa dalla NBC.

The Following

Un inizio promettente, protagonisti d’eccezione come Kevin Bacon e James Purefoy, la magnifica presenza sullo sfondo delle opere di Edgar Allan Poe. Tutte le carte sembravano in regola per regalare a The Following un posto nell’Olimpo dei migliori show di questa stagione. Sfido chiunque a rimanere indifferente di fronte all’episodio pilota.

Il grande dispiacere arriva proprio dal prosieguo della serie, sempre meno affascinante rispetto alla strepitosa partenza, trasformata in uno dei grandi rimpianti degli ultimi mesi. Il dato sugli spettatori, quasi dimezzati verso la fine, è segno eloquente di quanto già detto. Rimangono i dubbi sulla prossima stagione, divisa tra la speranza della rinascita e lo spettro di un epilogo inglorioso.

Da Vinci’s Demons

In Italia è stato un successo, almeno nei giudizi degli spettatori. Oltreoceano si è guadagnata il rinnovo per tornare nei prossimi mesi, eppure non è tutto oro quello che luccica.

Sarebbe sciocco criticare la scelta di rappresentare Leonardo Da Vinci come un giovane latin lover carismatico e pronto alla battuta. Quando si parla di finzione il limite è solo quello della propria fantasia e ispirazione. Rimane comunque una trasformazione rischiosa di una delle più grandi figure della storia dell’umanità, un personaggio con delle potenzialità che potevano essere sfruttate in modo diverso. Non è la prima volta che la storia finisce in televisione (basti pensare a I Tudors, Rome o I Borgia), ma fino ad ora non avevamo visto una trasformazione simile. Difficilmente una maggiore aderenza alla storia avrebbe reso Leonardo “noioso” o “piatto”.

Un ultimo appunto sulla grafica computerizzata piuttosto deludente figlia di un budget comunque risicato: non sono questi dettagli a cambiare i giudizi complessivi, ma difficilmente passano inosservati.

Misfits

Una delle punte di diamante della programmazione inglese di questi ultimi anni. Le tre stagioni in cui abbiamo seguito le vicende di Nathan, Kelly, Aisha, Simon e Curtis sono state ricche di emozioni e colpi di scena. L’arrivo di Joseph Gilgun nei panni di Rudy al posto di Robert Sheehan ha tenuto comunque alta l’asticella della qualità fino alla fine dell’arco narrativo durato tre stagioni.

Difficile resistere però allo stravolgimento del cast, dato che solo uno dei cinque protagonisti iniziali era presente anche nei nuovi episodi. Quasi impossibile per i nuovi arrivi rimpiazzare i loro predecessori nei cuori degli spettatori. Per molti la fine di Misfits rimarrà l’ultimo episodio della terza stagione.

ABC

Menzione di (de)merito a parte per uno dei canali più importanti degli Stati Uniti. Zero Hour, Last Resort, Red Widow, 666 Park Avenue: questi sono solo alcuni degli show cancellati malamente durante la programmazione o abbandonati dopo la prima stagione. E il dato riguarda solo l’ultimo anno. Nei mesi scorsi abbiamo già parlato a fondo di questa spiacevole situazione, e per questo motivo la ABC merita più di chiunque altro una pesante bocciatura. Speriamo che l’anno prossimo possa essere quello della redenzione. Ma per vostra sicurezza guardate sempre con attenzione la rete di provenienza di una serie tv prima di affezionarvi.

Appuntamento alla settimana prossima per scoprire chi è stato promosso.

“Ancora viva” di Carlene Thompson

Carlene Thompson torna in libreria per i tipi di marcos y marcos con Ancora viva, un thriller in cui l’autrice trasforma l’evento tragico della morte in un punto di partenza per una sottile e discreta indagine sulle tendenze comportamentali dell’essere umano.

Giunta improvvisamente la notizia della morte di sua madre Vivian, Chyna Greer rientra a Black Willow, nel West Virginia, dopo anni, e non ha la più pallida idea di quello che la aspetta. O forse sì?

La scena si apre sullo sfondo del lago Manicora dove dodici anni prima era scomparsa Zoey Simms, migliore amica di Chyna. Identico a se stesso nella forma, il luogo chiave dell’adolescenza della protagonista appare, nella sua parte più suggestiva, logorato dal tempo.

Il gazebo «squallido, trasandato, nefasto» sembratrasmettere, ora più che mai, l’ansia di un passato incombente interposto, come un’ombra, fra una superficie statica di eventi immutabili e la luce di un futuro a cui viene impedisce di manifestarsi.

Chyna era partita per il college a un anno dalla misteriosa scomparsa di Zoey di cui tutti l’avevano incolpata. La piccola Black Willow viveva, infatti, di pettegolezzi che avevano alimentato un’aura di mistero e di sospetti attorno alla sua figura. Da sempre si diceva che Chyna avesse delle percezioni extrasensoriali, dei poteri paranormali e, prescindendo dalla veridicità della cosa, questo era l’unico e inscindibile nesso col suo nome a Black Willow. Il fatto che ora studiava per diventare un medico, ad esempio, importava poco o nulla.

La sparizione di Zoey tormentava la vita di Chyna Greer da sempre ma, prima della morte di sua madre, aveva smesso di pensare a quanto potesse essere ancora radicata nei suoi concittadini la convinzione che lei fosse l’unica responsabile. Non poteva sapere che, oltre alla scomparsa di Zoey, le imputavano anche tutto il resto; anzi, Chiyna non era nemmeno a conoscenza di tutto il resto.

La trama si fonda dunque sulla misteriosa scomparsa di cinque ragazze, che attiva i meccanismi di un thriller inquietante e di un sapiente gioco di pensieri, incastrati nella provocatoria dinamica di risoluzione del mistero. I dubbi e le allusioni si insinuano fin dai primi capitoli ma la storia si anima quando la fermezza dei personaggi chiave inizia a vacillare.

A riguardo, infatti, è particolarmente significativo l’incontro d’apertura fra Chyna Greer e Scott Kendrick. Primo e forse suo unico grande amore, Scott rappresenta solo uno dei tanti interrogativi estremi del romanzo. D’altronde anche lui non è che trasposizione fisica di un passato troppo ingombrante e di un futuro troppo definito. Dagli altri.

Non si pensi di rimanere indifferenti alla trama classificandola come irreale. Non lo è affatto. Chi non si è mai trovato a dover combattere con le voci degli altri, dando loro più importanza di quanta realmente ne abbiano? Chi di noi può dirsi totalmente svincolato da un evento del passato o dal pensiero di una persona che, più di altre, permane nella nostra testa, saltando fuori nei momenti meno opportuni? Non si tratta di scheletri nell’armadio e verità nascoste, si tratta di problematiche comportamentali che non dipendono mai unicamente da una sola persona, ma dal nostro essere quotidianamente immersi nell’esperienza dell’altro, sia questo un bene o un male.

(Carlene Thompson, Ancora viva, trad. di Silvia Viganò, marcos y marcos, 2013, pp. 448, euro 14,50)

“Inclini all’amore” di Tijana M. Djerkovic

«Nel teatro cechoviano il fucile che compare nel primo atto deve necessariamente sparare nell’atto successivo. Nella vita, che pure è teatro, non succede quasi mai. E infatti l’apparizione di Dio nel primo atto dell’esistenza di Vladimir fu breve e non conobbe repliche, anche se forse il fucile-Dio sparò alla fine della sua vita, per uccidergli il figlio, confermando ancora una volta l’idea che se n’era fatto: un vecchio dispettoso, cattivo e ingiusto».

Così Tijana M. Djerkovic racconta in Inclini all’amore (Playground, 2013) la morte di Mihailo.
Mihailo muore. Mihailo figlio di Vladimir, muore. Mihailo figlio di Vladimir, figlio di Milovan, muore. Muore leggero, durante il sonno. Muore, e con lui l’intera stirpe dei Vukovic, che tramanda, di padre in figlio, l’orgoglio della terra montenegrina. Insieme a questa morte atroce e ingiusta, come sempre è ingiusta la morte di un giovane, avverrà in Arianna, primogenita di Vladimir, la dolorosa presa di coscienza di non essere lei «il prolungamento ideale» del padre, come aveva da sempre creduto; e che da quel momento il padre non ci sarebbe stato più per lei: «né per lei, né per nessuno». Perché lei, Arianna, è solo una donna.

E per le donne non c’è spazio, se non come genitrici e madri, nella stirpe dei Vukovic. Ché le donne devono tacere, e sottostare al volere dei padri prima, e dei mariti poi. Il cognome, lo portano gli uomini, e con quello la storia della famiglia, che è tutto quello che conta per un Montenegrino. E questa è la storia di una famiglia, o meglio la storia di Milovan prima, che insieme al fratello e ad altri compagni viaggiò per anni e anni in Europa e in America in cerca di lavoro, per far ritorno un giorno in patria con i soldi necessari a costruire la propria casa e arare la propria terra; e di Vladimir poi, che giovanissimo diventa partigiano, scontrandosi violentemente con tutti gli orrori della guerra, dalla perdita di un braccio alla deportazione in Africa, fino alla scarcerazione e all’inizio di una nuova vita a Belgrado. Ma è anche la storia di una terra, il Montenegro, tormentata da continue guerre fratricide, forte e arida, selvaggia e fiera, che proprio nello sguardo nobile e verde-azzurro dei Vukovic si riflette, sublimandosi.

Le donne ci sono, vivono all’ombra dei loro imponenti mariti; tacciono, ma portano dentro di sé tutta la sconcertante verità di cui quegli stessi uomini-padroni non riescono a farsi carico. Il dolore violento della perdita di uno, due cento figli: come succede a Milena, la piccola e corvina moglie di Milovan, e a Vera, la bellissima e delicata compagna di Vladimir, che non sopravviverà al dolore della perdita del figlio. E poi c’è Arianna (dietro la quale si nasconde la stessa autrice), la moderna e anticonformista figlia di Vladimir, che stenta ad accettare il suo ruolo di donna, che non si rassegna a essere soltanto una figlia come tante, e non la prediletta, e non la naturale prosecutrice dell’orgogliosa stirpe da cui proviene.

In questo rifiuto sta la volontà di riscrivere la storia della sua famiglia, quella del nonno Milovan, moderno aedo, che con le sue storie di viaggi incanta le platee di uditori che si raccolgono la sera intorno a lui; e quella del padre Vladimir, intellettuale divoratore e collezionista di libri a cui lei stessa attinge, bramosa, sin da piccola. Lei, Arianna, l’ultima dei Vukovic, una donna, diventa biografa e testimone oculare della sua famiglia: impossibilitata a tramandarne il nome attraverso la sua discendenza, non può fare altro che scriverne la storia affinché venga affidata ai posteri, affinché diventi immortale.

Inclini all’amore è il racconto per gradi di tre generazioni di uomini, quasi un romanzo epico dove si narrano le peregrinazioni di Milovan e del suo nostos in patria, ma anche delle guerre civili che sconvolsero e macchiarono la penisola balcanica del sangue di tanti e tanti fratelli, e di cui lo stesso Vladimir diventa testimone, perseguitato e mutilato fin dentro l’anima. È la storia di un dolore, profondo e sordo, soffocato dentro al petto per paura che, tirandolo fuori, diventasse troppo violento, troppo grande per essere contenuto, troppo feroce perché non pretendesse il sangue di altri fratelli. Ma è anche la storia di chi, di quel dolore, ne ha fatto humus vivificatore, nutrimento dell’anima trasformandolo in amore, puro e sincero, solare, che è amore incondizionato, per la vita.

(Tijana M. Djerkovic, Inclini all’amore, Playground, 2013, pp. 212, euro 15)