“Elliott Erwitt. Retrospettiva” al Palazzo Madama di Torino

La riflessione di Henri Bergson secondo cui «non esiste comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano», potrebbe risultare adatta per inquadrare l’opera di Elliottt Erwitt.

Riconosciuto mondialmente come il fotografo della commedia umana, Erwitt immortala nei suoi scatti momenti ad alto impatto umoristico e, seguendo la lezione di Henri Cartier-Bresson, coglie l’istante decisivo, sempre guidato da uno sguardo brillante e arguto. Lo splendido Palazzo Madama di Torino ospita fino al primo settembre 2013, nella sua Corte Medievale, una coinvolgente retrospettiva sul fotografo francese (nasce a Parigi ma si trasferisce presto in America, dove la sua carriera prende avvio e si afferma): una mostra di 136 immagini in bianco e nero, strutturata secondo un allestimento a pannelli in tre sezioni, che raccontano la visione dell’artista ed espongono i soggetti principali e più famosi del suo repertorio.

Se in apertura si è parlato di comico riferito all’umano, non è del tutto giusto circoscrivere l’opera di Erwitt a questo campo: tra i soggetti di ricerca prediletti vi sono sempre stati i cani ed è proprio con queste immagini che si apre l’esposizione. Sebbene l’autore stesso dichiari di non ricercare l’ironia ma di riprendere solo quello che vede, le situazioni ritratte risultano essere esplosive da un punto di vista comico e non possono che divertire. Se la sua è una fotografia che ferma degli istanti colti al volo, meglio non potrebbe esemplificare questa sua concezione la posa e la buffa espressione di un cane bloccato nel momento di un salto. In questo scatto il soggetto viene ripreso per intero mentre appaiono solo le gambe e le scarpe – quasi da cartone animato – del suo padrone. La scelta di questo tipo di inquadratura fa capire come il fotografo intende soffermarsi in particolare sul rapporto di paragone tra l’animale, l’uomo e l’ambiente circostante.

 

 

In merito, non si può non rimanere colpiti da una delle successive immagini, quella di un cane appoggiato in braccio al padrone: il muso dell’animale copre il volto dell’uomo così da far sembrare che quest’ultimo abbia una testa canina. All’inizio l’immagine spiazza e disturba quasi, ma la comprensione del naturale montaggio porta le mani alla bocca per coprire un’improvvisa risata.

I rapporti tra le persone, le cose e il contesto: questo stuzzica la curiosità del fotografo. Buffa risulta anche la foto in cui una bambina si mette accanto a una fila di statue egizie al Metropolitan o quella in cui gli spettatori si dispongono davanti i dipinti di Goya “La maja desnuda” e “La maja vestida” al Prado: un gruppo di uomini si accalcano dinanzi la versione svestita, mentre un'unica donna osserva da sola quella coperta.

 

 

Tra scatti arguti, di una leggerezza divertente, si arriva a quelli dedicati a personaggi famosi, come la foto di gruppo degli attori de Gli Spostati, film di John Huston del 1961: Marilyn Monroe, Clark Gable, Montgomery Clift, lì nelle loro ultime pose (è l’ultimo film girato interamente dalla diva e Gable muore d’infarto appena dopo le riprese). I fotografi dell’agenzia Magnum collaborano ai film ed Erwitt come suo membro, nonché presidente per molti anni, non si sottrae a questo interesse, anche perché il cinema diventa per lui un mestiere a partire dal 1970, una passione che lo porta a girare lungometraggi e documentari.

L’immagine in ogni sua forma, la visione del mondo, degli uomini: questo insegue, e senz’altro trova, l’artista. «Quando la fotografia accade», dice, «succede senza sforzo, come un dono che non va interrogato né analizzato». E non ci si interroga davanti a uno dei suoi scatti più famosi: quello dei due innamorati che si baciano riflessi nello specchietto dell’automobile. Non ci si interroga perché si gioisce e basta. Erwitt è leggero nel suo racconto, ma risveglia moti profondi, quelli delle emozioni che non si controllano, come il riso, la gioia, lo stupore. Le sue immagini hanno effetto su di noi, come nel momento del loro svelarsi lo ebbero sul fotografo stesso: «nei momenti più tristi e invernali della vita, quando una nube ti avvolge da settimane, improvvisamente la visione di qualcosa di meraviglioso può cambiare l’aspetto delle cose, il tuo stato d’animo. Il tipo di fotografia che piace a me, quella in cui viene colto l’istante, è molto simile a questo squarcio nelle nuvole. In un lampo, una foto meravigliosa sembra uscire fuori dal nulla».
 

Elliott Erwitt. Retrospettiva.
Torino, Palazzo Madama, Corte Medievale
17 aprile-1 settembre 2013

Per maggiori informazioni: www.palazzomadamatorino.it/mostra.php?id_evento=192

“Racconto dell’aldilà” di Matthias Politycki

A quattro anni dalla vittoria del premio LiteraTour Nord approda anche in Italia Racconto dell’aldilà (CartaCanta, 2013), di Matthias Politycki, considerato uno dei maggiori autori tedeschi contemporanei. A chi non abbia ancora letto nulla di questo scrittore si offre allora la possibilità di fare conoscenza con lui e con il suo stile pastoso e anticonvenzionale: il lettore si metta pure comodo osservando dall’esterno, da buon voyeur, quanto accade ai due protagonisti fra le quattro mura della loro casa coniugale.

Quando la moglie trova un manoscritto incompiuto del marito, risalente a svariati anni prima, decide di correggerne le bozze come ha sempre fatto, ma crede di scorgere fra quelle pagine la riscrittura di un adulterio commesso nei suoi confronti. Intravede nei nomi fittizi personaggi rigorosamente reali, individuando il coniuge e una cameriera nei veri protagonisti della storia. Apporta allora varie modifiche e commenti al testo, che vanno a formare una sorta di lettera al marito, una prova del tradimento subito: il risultato è un’amara prospettiva sulla realtà matrimoniale, consegnata all’uomo attraverso quelle righe affinché anche lui, leggendo, prenda atto dell’ipocrisia che ha sempre soffocato il loro rapporto e capisca che la scoperta fortuita del manoscritto ha cambiato per sempre le prospettive della moglie.

È assai difficile inquadrare in un'unica categoria questo piccolo romanzo onirico, che affronta con delicatezza i temi della solitudine, della morte, dell’infedeltà coniugale, della comunicazione. Attraverso una giornata della vita di un sinologo sessantacinquenne e della moglie, senza mai uscire dal loro appartamento, Politycki traccia con lucidità e ironia i sentimenti dell’uno verso l’altra. È un lavoro tutto soggettivo, in cui i due coniugi sono separati da una morte fittizia che bene rappresenta l’abisso mentale che li allontana. Apparentemente sereni, ciascuno dei due sviluppa in realtà una fitta rete interiore personale e complessa, della quale l’altro è sia protagonista che escluso. Il gioco – giogo – coniugale diventa così teatro di impressioni e sensazioni che si sovrappongono fino a sembrare verità inconfutabili, trasformando in astio e sensi di colpa tutto ciò che, nella realtà, non viene né fatto né detto.

Non c’è spazio, fra queste pagine, per la comunicazione: un dislivello temporale costante, creato ad hoc con sapiente abilità stilistica, impedisce che i due possano parlarsi, condannando entrambi a elaborare le proprie convinzioni sull’altro nella più isolata delle solitudini; la prima, quella dell’uomo, razionale e accademica; la seconda, quella della donna, fortemente spirituale. Eppure, come la condizione della morte, anche quella della solitudine si rivela essere, in ultima analisi, tristemente uguale per chiunque.

La traduzione di Giovanni Nadiani, pur se macchinosa a tratti, riesce comunque a rendere lo stile ricco e curato del romanzo, nel quale sogno e realtà, vita e morte si mischiano fra di loro con grazia sotto la penna intelligente di Politycki, creando a tradimento uno spaccato di quotidianità realistico e verosimile.

(Matthias Politycki, Racconto dell’aldilà, trad. di Giovanni Nadiani, Carta Canta, 2013, pp. 102, euro 13)

“Sparire” di Fabio Viola

Sparire. Come per incanto. Come per inganno. Il prestigio di un gioco che froda anche l’aria.

Ammutolire il tempo e non esserci più. Sparire come quando si comincia una storia e la si impasta a tal punto da mimetizzarsi, nella fauna di virgole e svolte inattese. Fino all’ultimo punto.

Sparire come quando si scrive e s’incarna la pagina in cui ci si rintana. Come quando ci si veste e il cappotto t’inghiotte. Perché ogni riga è un nascondiglio. Fabio Viola è sparito nel suo secondo romanzo. Che appunto s’intitola così. Sparire (Marsilio, 2013).

La trama vuole che Ennio, figlio dell’alta borghesia romana e di troppe giornate defenestrate senza cura, decida di partire alla volta di Osaka. Elisa, la sua ex ragazza, è lì da più di un anno a insegnare italiano.

Ma da un periodo ormai sospetto non dà alcuna notizia di sé. Sembra nebulizzata, sparita, per rimanere in tema. E allora Ennio s’invola. S’immerge nel Giappone psichedelico, nei gorghi di sopraelevate, nei giardini digitali di luci liquefatte. Dove i treni, come la solitudine, sono sempre puntuali.

Vuole ripescarla, per una nota misticanza di nostalgia e possesso, per arrivare a capo di un corpo che non lo guarda più. Affronta un colloquio per essere assunto nel suo stesso istituto, per ricucire le sue tracce come un valente commissario assoldato dal miglior giallista. Ma da quel momento prende avvio un altro viaggio. Imprevisto, tortuoso. Quello di Ennio in mezzo a un alveare. La scuola Hoshi col suo aspetto anallergico e con le sue asettiche presenze oscure; colleghi sfuggenti, donne impalpabili, scomparse irrisolte. E più cerca di ricostruire, di ricomporre i pezzi, più perde altri frammenti, porzioni di controllo che si sfaldano, sfarinandosi in vertigini sempre più imponenti.

Capisce perciò che la sola soluzione possibile è iniziare a mentire, fabbricarsi le risposte che non potrà ottenere. La realtà non lo soddisfa: i nuovi falsi amici, gli appuntamenti spenti, le chiacchiere sghembe a cui non può cavare se non altri dubbi ancora. La sua fame di sapere cresce, è forse il solo mestiere che sente di dover esercitare in una vita in cui lavorare non è mai stato un bisogno. Ma la verità si assottiglia, diventa una strada sterrata, di sensi vietati e ben poco sensati. I genitori di Elisa premono per avere informazioni, per colmare quel dirupo di chilometri con un po’ di sollievo. Ed Ennio provvede con delle versioni prêt-à-porter. Invia mail consolatorie e plausibili. Diventa Elisa, rassicurando i suoi nel modo più credibile.

E lo stesso succede con gli amici di Roma, a cui fornisce sfumature e narrazioni sempre differenti. Scampoli immaginari e verosimili in cui si inventa felice, realizzato accanto a un’altra donna e non alla sua fissazione. L’architettura delle sue menzogne si dilata di continuo. È la megalopoli assordante di tutte le sue angosce. Così grande da essere abitata, da confondersi col vero. Nella mente di Ennio che non ritrova più casa e negli occhi del lettore, che scivola nei crocevia fulminati di un’allucinazione.

In cui a sparire è anche la comprensione, il filo della ragione. In cui ogni dialogo è inverso, pronto a ribaltarsi nel suo limpido contrario. Perché non è Osaka il buco nero, l’ammasso di materia che assorbe ogni passante. La testa di Ennio mangia molto di più. Come Cronos. Elisa riappare. O forse no. Il terremoto, lo tsunami, quello geologico del 2011 che incornicia quello interiore, sono l’unica certezza. E mentre l’asfalto si squassa e l’attesa si sbriciola, Ennio continua ad avvitarsi su stesso, sui riflessi dei suoi mille sé.

Finché qualcosa arriva. Qualcosa che si chiama fine. Almeno apparente.

Il Giappone, che l’autore conosce molto bene, per averci vissuto per anni, assurge a metafora di un girone letale, caleidoscopio e labirinto, limbo e ossessione.

Tappa e traguardo di un romanzo che non sa chiudersi, che resta una bocca spalancata. Piena di non detti. Una resa incondizionata di fronte alla fiction, che prospera e divora. Un mostro onnisciente davanti a cui non si può far altro che ascoltare. E poi sparire.


(Fabio Viola, Sparire, Marsilio, 2013, pp. 288, euro 17,50)

“The Weight of Your Love” degli Editors

Arriva il peso dell'Amore e gli Editors cambiano ancora. Quattro anni dopo In This Light and on This Evening. Disco cupo, oscuro: la svolta elettronica. Fu un passo importante per i ragazzi di Birmingham. Soprattutto dopo il successo unanime del meraviglioso An End As A Start. Dopo tutto questo tempo, in molti s’aspettavano un ritorno alle radici new-wave. E invece, gli Editors stupiscono ancora. Mostrando l’ennesima faccia della loro musica. Quella più melodica ed emozionante.

Già dai primi titoli che iniziavano a circolare si poteva intuire qualcosa: The Weight of Your Love (nome dell'album) e quello del primo singolo, “A Ton of Love”. L’argomento alla base del nuovo disco era chiaro. Ma è a livello musicale che l’ascolto di The Weight of Your Love rilascia non poche sorprese.

Chi si aspettava un altro An End As A Start inizialmente rimarrà deluso. Gli Editors sono cresciuti. E non c’è parte di The Weight of Your Love che non sia intrisa di sentimento. Il nome del disco lascia intuire che l’Amore verrà trattato nella sua valenza più complessa e tormentata. E così alle chitarre tipiche del sound-Editors, subentrano gli archi e le partiture orchestrali. L’incedere rock soccombe a dolenti ballate acustiche. Unico caposaldo, la voce di Tom Smith. Che merita una menzione a parte: sempre più possente ed emozionante, è lei il filo rosso che lega tutte le dolenti tracce.

“The Weight” è il degno inizio. Il respiro iniziale amplio e solenne porta subito l’ascoltatore in una dimensione inedita. Il battito è più lento, l’incedere chitarristico controllato. Smith inaugura fin da subito una serie di performance vocali da brivido. Sul basso di “Sugar”si sviluppa un altro grande brano. Proseguendo sull’ispirata scia, ecco il citato singolo “A Ton of Love”. Qui siamo di fronte alla via di mezzo perfetta tra i vecchi e i nuovi Editors. Ritornello efficacissimo e riff incisivo, per uno dei nuovi inni del gruppo inglese. A chiudere l’inizio veramente clamoroso ci pensa il capolavoro di The Weight of Your Love, e molto probabilmente una delle canzoni d’amore più belle degli ultimi anni: “What is this Thing called Love”. Veramente superflua ogni parola sulla bellezza del brano. Notevole anche la successiva “Honesty”. Da qui The Weight of Your Love più che rallentare, si adagia. E non aggiunge niente di considerevole da annotare, tranne forse per “Formaldehyde” e “Hyne”: due tra i momenti più rock del lavoro.

The Weight of Your Love è il disco più maturo e profondo degli Editors. Il loro disco della raggiunta maturità. Da ascoltare e difendere. Anche perché il peso dell'Amore, è sopra ognuno di noi. Si spera.


(Editors, The Weight of Your Love, Pias, 2013)


 

La zanzara

L’auto del ragioniere era carica all’inverosimile, schiacciata da un arrugginito ma robustissimo portapacchi in ferro grezzo, buono per tener fermi e sollevati quei leggendari valigioni estivi di conserve, e vino di casa, e taniche d’olio d’oliva, in quantità tali da riempire un bunker nucleare, più che la piccola cucina a tre fornelli elettrici di un essenziale e asettico miniappartamento per villeggianti.

Il quartiere aveva già preso a svuotarsi da qualche giorno, e gli ultimi vacanzieri avrebbero abbandonato la città, e i suoi fiumi di asfalto rovente, entro quella mattina.

Erano le tre di notte per Ettore, che se ne stava lì, annoiato, affacciato alla finestra della sua piccola abitazione a respirare la città d’agosto. Erano le tre di mattina, invece, per la famiglia del ragioniere, alle prese con la partenza intelligente, pronti ad affrontare ore e ore di macchina, che li avrebbe condotti senza traffico alla tanto agognata meta balneare, da qualche parte verso sud.

L’auto partì nel silenzio, e quella strada non fu mai più così sgombra di macchine e generosa di posteggi. Ettore tornò dentro, dove il ventilatore acceso arrancava. Il materasso era nudo, senza lenzuola, la televisione accesa a basso volume a fargli compagnia. Come ogni estate trasmettevano vecchi film in bianco e nero, roba che d’inverno, in prima serata, nessuna emittente si sarebbe sognata di passare.

Quella notte era il momento de Il Gaucho, di Dino Risi.

Ettore si lasciò cadere sulla branda cigolante, a pancia sotto, cercando di forzare gli occhi a chiudersi, per tentare così di addormentarsi. Era dall’inizio dell’estate che viveva segregato lì, nella sua stanza, con indosso pantaloncini e canottiera. Era un tipo solitario Ettore, nessun amico, poche parole. Dal giorno del suo licenziamento, non aveva avuto più alcun impulso a uscire di casa, e nessuno mai, a parte il portiere per la consegna delle bollette, e la signora Augusta per la spesa, aveva bussato alla sua porta.

Alle quattro e trenta gli occhi erano ancora mezzi aperti, il sonno in quelle notti di fuoco faticava a venire, mentre la tv trasmetteva un episodio di una vecchia serie americana degli anni Settanta, tutta autoscontri, spari e inseguimenti. La domanda che Ettore si poneva in certi casi era chi stesse in quel momento guardando quel programma, come lui, da qualche altra parte della città o del paese. Quest’idea era la sola cosa che lo faceva sentir meno solo. Poi, verso le sei, ecco che il sonno sembrava arrivare, lento, trascinato. Niente e nessuno adesso gli avrebbe impedito di chiudere finalmente gli occhi, e di dormirsi così l’inutile mattinata di una giornata d’agosto.

Tutto, tranne il martellante e insistente ronzio di una zanzara.

Un’avanzata disordinata, intermittente, a disorientarlo, mentre Ettore scattava con le mani per schiaffeggiarsi senza alcun risultato, e l’insetto attorno, come aereo da ricognizione, veloce e invisibile, ad abbassarsi, per poi andar via, studiando dove scendere in picchiata per colpire. Aveva persino il sentore che quegli insignificanti insetti stessero strombazzando la Cavalcata delle Valchirie; maledetti.

E gli occhi rossi del ragazzo presero ben presto coscienza che non ci sarebbe stato riposo, almeno fino alla prossima notte.

La zanzara gli si posò per l’ennesima volta sull’avambraccio, Ettore la guardava in silenzio, da vicino, riuscendone a distinguere ogni parte. Era una bella zanzara, molto grossa, succosa. Aspettò il momento giusto, questa volta, per tentare di ucciderla, voleva che piantasse il pungiglione e che cominciasse a succhiare sangue, per prenderla di soppiatto, forse più vulnerabile mentre era occupata a sfamarsi. E sbam! Uno schiaffo potente ma lento, la zanzara riuscì a decollare prima che il colpo la raggiungesse. La cosa si ripeté in successione, e più volte la zanzara si posò sulle sue braccia per succhiargli sangue senza che Ettore riuscisse a spiaccicarla. Poi i raggi del sole riuscirono a nasconderla e il ragazzo smise di darle la caccia. Sulle braccia e le caviglie i segni di una battaglia persa senza appello, la zanzara quella notte lo aveva nettamente sconfitto.

La crema per le punture d’insetto era terminata, e l’unico sollievo che poteva procurarsi era quello di grattarsi; grattarsi in continuazione, con quelle unghie lunghe, irregolari e sporche a recidere il segno del morso della zanzara killer. Sapeva che il rimedio più semplice sarebbe stato quello di uscire di casa per andare a comprare un insetticida, oppure una soluzione corporea per tenere lontani i parassiti, ma non ne aveva alcuna voglia e allora smise di pensarci. Trascorse la mattinata spostandosi da un capo all’altro dell’appartamento, di giorno era la radio che prendeva il posto della tv. A pranzo la solita scatoletta di tonno con pomodori, una pesca gialla e una tazza di caffè. Nel primo pomeriggio, si dedicava invece alla visione di vecchi avvenimenti sportivi, classiche del ciclismo, partite di calcio degli anni Ottanta, la monografia su un grande campione di tennis. Il tutto con in mano un ghiacciolo al limone, l’unico vizio che si concedeva in quell’estate torrida. Aveva il congelatore pieno di quelle stecche di legno con attaccato su del ghiaccio al lontano sapore di agrume.

La controra la trascorreva sulla poltrona; si rese conto che era da ben due giorni che non dormiva e lasciò così che le palpebre si chiudessero lentamente, fino a quando, nuovamente, il ronzio di una zanzara lo riportò alla cruda realtà. Si convinse che fosse sempre la stessa, ne ricordava il colore, l’intonazione, i tempi, era persino cresciuta, aveva le dimensioni di un fagiolo. Passò famelica per un istante sulle sue orecchie, come a tenerlo sveglio per forza, per poi sparire nuovamente. Sembrava lo stesse osservando chissà da quanto, per sferrare così un nuovo attacco.

In seconda serata passavano Il Marchese del Grillo, con Alberto Sordi, era un ciclo a lui dedicato. Ettore ripeté compiaciuto e divertito le battute che conosceva a memoria, e festeggiò l’evento con un altro ghiacciolo al limone.

Alle due però il sonno tornò a bussare, e ricondusse così il suo corpo stanco ancora una volta sul letto nudo, per dare finalmente riposo a muscoli e pensieri. Sapeva che si sarebbe addormentato in pochi minuti e ne fu convinto fino a quando la zanzara non fece il suo ritorno. Gli si posò ancora sul braccio e, ingorda, diede inizio all’ennesimo banchetto, mentre tra i pensieri sempre più annebbiati e confusi gli venne in mente il conte Vlad, i vampiri, e se magari un po’ d’aglio e un crocefisso sarebbero riusciti a tenerla lontana, o forse un palo di frassino, merce assai più rara dell’oro nelle case moderne, arredate di mobili a basso costo, di truciolato e merda secca.

Senza batter ciglio, il ragazzo la lasciò fare questa volta, quasi invitandola a favorire, pensando che forse così se ne sarebbe andata via sazia e lo avrebbe lasciato in pace per tutta la notte, oppure che sarebbe scoppiata, con tutto quel sangue che stava poppando come una pompa idrovora. Rifece lo stesso pensiero sino all’alba, per tutte le volte che l’insetto gli si posò sulla sua pelle per morderla. Le braccia e le gambe erano colme di pizzichi in ogni centimetro della cute, ed Ettore, con gli occhi sgranati dalla stanchezza e dal sonno, che ormai non arrivava da giorni, se ne restava sulla sua poltrona senza aver più forza di alzarsi. Quella zanzara aveva cominciato a nutrirsi esclusivamente del suo sangue, e adesso se ne stava lì, attaccata al muro, grande come una noce, e un po’ appesantita dai banchetti luculliani che il ragazzo offriva a sue spese. Era di sicuro la più grande zanzara che avesse mai visto. Rimasero lì a fissarsi, Ettore avrebbe potuto alzarsi e prenderla a cuscinate, oppure ucciderla con una vecchia rivista, ma un senso di inerzia o compassione cominciarono a farsi largo nella sua mente. Inoltre, schiacciandola, avrebbe sicuramente imbrattato di rosso l’intera parete, così grossa e pesante era un bersaglio da colpire senza particolari sforzi.

Il ragazzo non mosse così un dito, e la zanzara restò in quella posizione per tutta la giornata.

Ore 15. Su un canale locale Viale del tramonto.

Ettore faticava a tenere gli occhi aperti, gli arti erano gonfi per via delle punture subite, sul viso la barba nera e incolta contrastava con il colorito pallido.

Fu allora che la zanzara si mosse per andare a posizionarsi sul bracciolo della sua poltrona. L’insetto guardò il ragazzo come incuriosito, con quella testa da alieno, ed Ettore non ebbe comunque voglia di cacciarla via. La zanzara con un balzo in avanti gli si posizionò sulla coscia, lo guardò nuovamente, quasi a cercare consenso, che la calma di Ettore pareva elargire. Prese così a succhiare nuovamente. La puntura fu questa volta più dolorosa del solito, l’animale iniziava a essere bello grosso e il pungiglione cominciava a sentirsi, proprio come un’iniezione.

Non ricordava bene se quella notte avesse dormito o meno, e neanche quelle precedenti; ormai Ettore non riusciva più a sentire lo scorrere del tempo, confuso, e in fase terminale.

Le persiane erano totalmente abbassate, lasciavano filtrare soltanto qualche stretto e netto raggio di sole. La zanzara, quella mattinata, la trascorse attaccata all’armadio, e anche se avesse deciso di andar via e di abbandonare quella casa, non avrebbe potuto più farlo poiché era diventata troppo grossa per qualsiasi fessura.

Smise di funzionare anche il vecchio ventilatore: la calma e il silenzio furono totali.

A ferragosto la maratona dei film di Totò.

Ettore aveva ormai gli occhi spenti, rugosi, non dormiva da giorni, e la zanzara gli aveva portato via molto sangue. L’unica domanda sensata che si pose fu quanti litri di sangue vi fossero in un corpo umano e per quanto ancora sarebbe potuta andare avanti quella situazione.

Quando cominciò persino a parlarle, e a rivolgerle domande sul come si sentisse in quelle mattine, la compassione verso la zanzara aveva ormai preso il sopravvento, diventata ormai unica e inseparabile amica di una lunga estate. Lei, che era sola come Ettore, e che avrebbe vissuto soltanto il tempo di una bella stagione, per poi morire.

L’insetto era ormai satollo del sangue del ragazzo, e grosso come un gatto, se ne stava sulla credenza del soggiorno a tenergli compagnia.

Cinque litri, poco più o poco meno, questa è la quantità di sangue presente nel corpo umano di un adulto. Se ne ricordò nell’ultima notte d’estate, mentre un vento fresco cominciò a soffiare da nord e la televisione smise di passare i bei film.

La zanzara, piena ben oltre della metà del vigore di Ettore, se ne stava ai suoi piedi, accucciata come un cane, quasi a vegliarlo, lei, causa della sua imminente morte e angelo dei suoi ultimi giorni.

Fece ritorno, arrancando, anche l’auto del ragioniere, sempre più rumorosa, di notte, così come era partita, al termine del controesodo. E ancora un soffio di vento entrò nella stanza buia, le pale del ventilatore ferme presero a fare un giro, un brivido percorse il corpo scheletrico di Ettore, che dal freddo inarcò le spalle e si abbracciò da solo come per riscaldarsi.

Con un balzo, l’enorme insetto raggiunse dapprima le sue ginocchia e, come un rapace addomesticato, poi la sua spalla.

I due si guardarono, Ettore, dal volto rassegnato e silente, lasciò scappare via un flebile sorriso e adagiando la testa su un lato della poltrona quasi invitò l’amica a favorire. Fu allora che la zanzara infilò il pungiglione nel suo collo, lentamente, quasi per non fargli del male, per tirar via così le ultime gocce di sangue che ancor lo tenevano in vita.

Gli occhi di Ettore, finalmente, si chiusero in una lenta e dolce dissolvenza, abbracciando il sonno tanto agognato.

Le notti di Cabiria di Fellini fu l’ultimo film che passarono quell’estate.

La zanzara aspettò anch’essa la morte accanto al suo amico, che non tardò ad arrivare con la prima notte di gelo.

“L’ipotesi del male”: a tu per tu con Donato Carrisi

Tutto inizia a Londra. Con una scritta su una maglietta: «Non sai cos’è la paura fino a che non senti un colpo di tosse provenire da sotto il tuo letto».

Donato Carrisi legge la frase. E nella sua mente qualcosa si muove. Abbastanza da generare il seguito dell’ormai celebre Il suggeritore: L’ipotesi del male (Longanesi, 2013).

Scambiamo quattro chiacchiere con l’autore, approfittando della sua presenza alla libreria Arion di Piazza Cavour. Tra la firma di una copia, una foto e un autografo, con Carrisi inizialmente affrontiamo il tema del ritorno della sua eroina, Mila Vasquez, l’agente specializzato nel ritrovare le persone scomparse. Nel ridarle vita l’autore ci confessa come Mila viva di vita autonoma. Di come nello scrivere venga fuori in automatico una personalità e un carattere ben definito. È una parte dello scrittore a venire fuori? Oppure sono delle informazioni immagazzinate provenienti dall’esterno? Donato Carrisi ci tiene a sottolineare: «È una domanda a cui spero di non riuscire a rispondere mai, perché è un po’ il mistero della scrittura».

Approfondiamo così la genesi de L’ipotesi del male. Una genesi precedente addirittura a Il suggeritore: «Ma mancava qualcosa: la componente emotiva. Che tipo di emozione voglio raccontare?» Da lì la folgorazione della t-shirt a Londra: «Il portare le emozioni e le paura dell’infanzia nell’età adulta».

Accenniamo velocemente alla trama: Mila Vasquez, fedele al suo Limbo (ovvero il luogo dove tiene tutte le foto e i fascicoli delle persone scomparse misteriosamente), deve fare i conti con il ritorno di alcune di esse. Tuttavia, non sono le stesse persone che sono sparite. Qualcosa le ha cambiate: il Male. Altro fattore notevole del libro, la presenza di uno spree killer. Tranquilli: se non sapete ancora bene cosa sia, ve lo spiegherà il romanzo. Al riguardo, chiedo a Carrisi della sua “ossessione”: i serial killer. Dalla laurea sul Mostro di Foligno, agli studi di criminologia, ai best seller, Carrisi ha sempre affrontato in maniera seria, preparata e appassionata il tema.

«Come spiega il fascino esercitato da un soggetto tanto ambiguo sulle persone, sul cinema, sulla letteratura, le serie tv?» «Il Male più spietato è senza senso, ed è questo ad affascinare».

Ci racconta anche un particolare molto interessante: durante la scrittura di un nuovo romanzo, chiede a un amico compositore di creare delle colonne sonore apposite per le scene che sta scrivendo. Alla domanda: c’è comunque una canzone capace di fare da soundtrack al libro, risponde: «Tutta la storia del rock!».

A proposito del successo di pubblico e critica internazionale, Carrisi non è spaventato dell’essere messo ormai sulla stessa linea dei maestri Deaver & co. «Ne sono entusiasta. Per quanto riguarda il successo, è una bella sfida. Una pressione positiva. Non volevo fare dei libri seriali: questo è il gemello de Il suggeritore, e viene quattro anni dopo. Quando scrivo, mi approccio al testo come un lettore: scrivendo storie che vorrei leggere. Credo sia il massimo rispetto che l’autore possa avere nei confronti del proprio pubblico».

Donato Carrisi con L’ipotesi del male si conferma non autore di thriller, ma bensì scrittore di “thriller d’autore”. Un gioco di parole legittimo, giustificato da un raro consenso unanime di critica e vendite. Soprattutto per un genere sempre troppo bistrattato, che ha in Carrisi una delle motivazioni più autorevoli per essere valutato come si deve.

(Donato Carrisi, L’ipotesi del male, Longanesi, 2013, pp. 432, euro 18,60)

ISBN: a tu per tu con Alice Beniero

Come ogni mese, cerchiamo di darvi un punto di vista nuovo su un particolare editore, andando a scovarne caratteristiche particolari e punti forti. Concludiamo quindi la nostra esplorazione dietro le quarte di ISBN edizioni con un’intervista ad Alice Beniero, art director della casa editrice.

Alice, partiamo dal tuo ruolo in casa editrice: da dove sei partita per diventare art director? Quali sono i compiti che svolgi e le responsabilità che hai?

Ho iniziato a lavorare per ISBN nel 2009. Non stiamo parlando di molti anni fa ma a quei tempi l’identità visiva dei libri si basava su un’idea che, con l’ampliamento del catalogo, necessitava un rinnovamento e una distinzione più evidenti. L’editore aveva bisogno di un grafico che interpretasse in una chiave visiva più articolata i titoli in uscita. Ho iniziato a collaborare disegnando alcune copertine, curando il lettering dei titoli e l’estetica dei codici a barre, sperimentando su elementi grafici che non tradissero l’immaginario consolidato nei primi anni. Lavorare insieme alla redazione è stato fondamentale per capire e interpretare i bisogni della casa editrice e definire le basi per i nuovi progetti editoriali.
Oggi mi occupo di ogni progetto grafico di ISBN (con il valido aiuto di Fabio Montagnoli), ma disegnare le copertine continua a essere l’esercizio più creativo e divertente del mio contributo.

Sfogliando il vostro catalogo, oltre a nomi importanti come Douglas Coupland e Kurt Vonnegut, ma anche Anatole France e Bianciardi, la veste grafica dei libri è senz’altro ciò che più colpisce. Nel 2011 siete inoltre stati premiati agli European Design Awards, che importanza ha avuto e continua ad avere la grafica per ISBN?

Dalla mia esperienza in casa editrice penso che definire l’aspetto di un libro sia uno dei nodi del suo ciclo di vita. Un buon progetto grafico può dare visibilità a un titolo, così. Come una buona promozione, un buon editing, una buona traduzione. A volte credere fortemente in un progetto è una scommessa, lo dimostra il caso degli Special Books, premiati agli EDA e apprezzati dai lettori. Quello che ritengo fondamentale è non tradire il senso del libro, cercare un compromesso tra l’immaginario che evoca e il peso che deve avere per essere visibile in libreria. Perché in mancanza di informazioni pregresse il primo elemento attraverso il quale entriamo in relazione è la copertina, la qualità estetica e materica del libro.

Ci racconti il progetto della collana Vinili, una delle ultime nate?

È una collana economica di titoli che appartengono a due insiemi: alcuni provengono dal catalogo storico di ISBN e sono libri ritenuti di interesse culturale per il pubblico attuale e che per qualche motivo non hanno avuto molta visibilità (romanzi sulle figure e tipologie di lavoratori precari per esempio), altri sono delle novità che vogliamo rendere accessibili al più ampio numero di lettori. Tra questi ultimi sono particolarmente interessanti i progetti che nascono da un’idea di ISBN, che commissiona un libro a scrittori e personaggi con esperienze e storie avvincenti e interessanti, a volte sono progetti che non esistono in formato testo ma hanno il potenziale per diventarlo (di prossima uscita un libro di Marco Giusti, già autore di 007 all’italiana).
Per quanto riguarda il progetto visivo, l’idea è di usare degli elementi grafici in un processo di stampa semi-controllato: la copertina è il punto di arrivo e uno dei possibili impieghi di un progetto applicato a un foglio macchina (il foglio che esce intero dalla macchina da stampa, di dimensioni 100×70 cm). Il risultato è un controllo parziale su quello che uscirà effettivamente in copertina (ma la progettazione prevede un margine di sicurezza nella presenza di tutti gli elementi fondamentali perché un libro sia riconoscibile, acquistabile e abbia un immaginario visivo comprensibile), che permetta di avere una varietà consistente di copertine per lo stesso titolo. È un’operazione di customizzazione: il lettore può scegliere di acquistare la copia  che preferisce tra quelle disponibili.

La vostra collana di narrativa si identifica con il colore bianco: come si è evoluta la veste grafica di questi libri, dalla classica copertina bianca con codice a barre alle recenti copertine più elaborate? Penso, per esempio, a La ragazza dei cocktail di James M. Cain o a Qui non crescono i fiori di Luca Giordano.

Per rispondere a questa domanda faccio riferimento alla prima: le esigenze di partenza erano le stesse perché all’epoca esistevano solo delle categorie di colore che differenziavano i libri e il progetto grafico era uguale per tutti i titoli. Dalla necessità di differenziare i generi e gli autori abbiamo sperimentato parecchio, a volte con delle variazioni sul tema più o meno efficaci, altre scegliendo degli elementi grafici e uno stile per definire delle sottocategorie specifiche. È il caso della narrativa americana, collana che raccoglie autori come Brautigan e Vonnegut.
Nella narrativa classica ISBN abbiamo introdotto da qualche anno l’uso della fascetta come elemento visivo costante, un’immagine che ha un legame con la grafica di copertina e che allude all’immaginario di titolo e testo. Ha una funzione puramente narrativa, che spesso coincide con l’assenza di testo.

Puoi indicarci due titoli a te cari e dirci perché?

Skippy muore di Paul Murray (trad. di Beniamino R. Ambrosi): è il titolo su cui ho realizzato la collana Special Books. Ho eseguito dei test su altri titoli in una fase successiva, ma sono particolarmente legata ai passaggi evolutivi del progetto di copertina di questo romanzo.

L’invasione degli Space Invaders di Martin Amis (trad. di Federica Aceto): oltre a essere un bellissimo reportage d’autore su un’epoca e una realtà che ho in qualche modo vissuto (poco prima di cedere il passo a nuove tecnologie e tendenze), è un libro ricco di immagini uniche, dettagli grafici e fotografie rarissime. È un progetto in cui tutta ISBN ha creduto, ci abbiamo lavorato tutti molto. Un bel libro con una storia alle spalle che vede la luce per la prima volta dopo tanti anni.

[IlLive] The National @Auditorium Parco della Musica, 30 giugno 2013

Avendo già accennato alla quasi impossibilità d’essere obiettivo e imparziale nei confronti dei National, confesso che all’inizio un po’ di paura c’era. Un lieve timore. Da fan, al primo concerto della band preferita. Paura, timore e anche un pizzico di gelosia. Mi spiego: i National non sono tipi da mettere tra i tanti nella playlist dell’iPhone o di Spotify. Non sono nemmeno il sottofondo mentre fai altre cose. I National li devi ascoltare. E basta. Più di una volta. Per fruire della meraviglia degli album, delle emozioni dai testi. Ciò comporta che diventino la band con cui crei un rapporto personale, unico. Essendo l’emblema dell’indie-rock, un fan – un po’ egoisticamente – non li deve condividere nemmeno con troppe persone. Solo che poi arrivi al concerto con le sensazioni dette all’inizio.

Ora la band americana non canta più solo per te, ma per altre 3.000 persone. Quelle presenti il 30 giugno alla meravigliosa Cavea dell’Auditorium Parco della Musica. Una serata più primaverile che estiva. Tutto esaurito. Gli spettatori rimangono seduti per poco. Non si resiste composti. E realizzi che non sei l’unico ad avere quel legame con i National. La paura e il timore che un sound tanto confidenziale ed emotivo possa rendere poco dal vivo crolla subito. Matt Berninger – lontanissimo dagli stereotipi del performer classico – sa come smuovere gli animi. Per esempio, aprendo il concerto con il classico di Boxer “Squalor Victoria”. Le sue urla scuotono. Di seguito arrivano dei pezzi forti dell’ultimo album – già classico – Trouble will find me: “I Should Live in Salt” e “Don’t Swallow the Cap”. Ormai sono tutti in piedi. Accalcati sotto il palco, a sfiorare la band: soprattutto il leader e i chitarristi, i fratelli gemelli Dessner, che quando non suonano, incitano il pubblico a tenere il tempo con il battito delle mani.

Anche la gelosia è svanita: è bello vedere tanti amanti del rock scegliere una band così “complessa”. Nel frattempo la magnificenza di “Bloodbuzz Ohio” e “Mistaken for Strangers” riecheggia per la Cavea. Il pubblico è in estasi. Tra “Demons” e “Sea of Love”, Matt Berninger rimane fedele alla fama di etilista e continua a stappare bottiglie di vino. Scherza con i ragazzi del fan club, che lo hanno omaggiato con uno striscione. Tutti i membri del gruppo sorridono nel ricordare una lontana tappa romana: «Era nel 2003, 2004. C’erano trenta persone, in un locale chiamato Zoobar».

Ora le cose sono cambiate. La scaletta è perfetta. I brani dell’ultimo disco, con i pezzi più amati: “Conversation 16”, “I Need My Girl”, “Abel”, “Slow Show”, “Pink Rabbits” e “Graceless”. Come si fa ad amarli così tanto? La risposta è in queste canzoni. Da brividi ancora una volta l’esecuzione di “About Today”, il brano preferito di Berninger. La sua catarsi. E immaginatevi il boato quando il piano inizia “Fake Empire”.

Ma il meglio arriva nei bis. In “Mr. November”, Matt impazzisce e decide di scendere tra il pubblico. Attraversandolo fisicamente, non solo con la musica. Arrivando a sfiorare anche chi è nei posti in alto. Indimenticabile. Come il gran finale. I National abbandonano i posti vicino agli strumenti per mettersi ai limiti del palco. Matt gira il microfono verso il pubblico. Totalmente in acustico, parte “Vanderlyle Crybaby Geeks”, cantata solamente dai presenti. La degna conclusione di un concerto immenso e indimenticabile. Chi ha assistito conoscendo il gruppo, terrà stretto per sempre il ricordo. Chi li ha conosciuti per la prima volta, non potrà fare a meno di ammetterne la grandezza. Per chi ancora non li conosce, be’, è tempo di spegnere la radio e la tv, e di recuperare il prima possibile. Anche perché qualcuno inizia a vociferare che i National sono pronti per i grandi stadi…

E anche se fosse, la prossima volta, assisteremo senza paure.

“Una buona ragione per uccidersi” di Philippe Besson

Finalmente qualcuno che torna a descrivere le relazioni umane per come sono: semplici, vive, private. Quel pizzicotto che ci fa male, che ci dice che siamo presenti a questo mondo, siamo sempre esseri umani. Questa è la preziosa penna del francese Philippe Besson, una scrittura fresca e felicemente macchiata di inchiostro che non ha assolutamente nulla da invidiare ai ben più commerciali Marc Levy e Anna Gavalda di turno.

Cosa c’è di così vero e attraente nella sua scrittura? La facile percezione dei sentimenti e la capacità intrinseca con cui Besson riesce a cogliere la sensibilità dell’uomo, riproducendo in pochi tratti i legami relazionali che caratterizzano la nostra vita contemporanea. Il tutto con grande pudore. Sentimenti e passioni sono colti nella freschezza della loro innocenza, dipinti con delicatezza e armonia. Qui, si rispetta la dignità dell’uomo.

Una buona ragione per uccidersi (Edizioni Clichy, 2013) è una buona storia di vita, personaggi che nell’insensatezza di un mondo di per sé egoista e deleterio, affrontano l’inesorabile scorrere delle lancette. Ed è proprio qui che una grande storia, forse oggi un sogno, quello americano per la precisione, si viene a fondere con il particolare, con quei destini di cui, anche noi lettori, siamo parte. Quello che al di fuori vediamo come una sottile patina, spesso polverosa, una plastica trasparente e ovattata, che definiamo come “superficiale”. In fin dei conti per noi cosa è l’altro?

Due vite che si vengono a incontrare, forse scontrare, schiacciate da colpe e pesi di cui non si è mai del tutto artefici. Laura è una donna sconvolta. Divorziata, da un giorno all’altro non ha più nulla. La fine della serenità di un’immigrata messicana che, fiera, poteva dire di avercela fatta. Ora, come unica via di uscita, le resta il suicidio. Samuel, invece, è un pittore. In cucina non è mai stato un granché, meno che mai nelle relazioni. Una sola cosa lo rendeva importante: il figlio Paul, suicida all’età di diciassette anni. E poi c’è Barack. Sì, l’Obama che tutti noi oggi conosciamo. C’è quella voglia degli americani, e del globo intero, di cambiare (ci si potrebbe chiedere, oggi, come si sia trasformato il celebre «yes we can»). Siamo alla vigilia delle elezioni statunitensi, quelle che cambieranno la storia. L’attesa è palpabile, la fiducia serpeggia nella multietnica Los Angeles, per tutti sarà un giorno memorabile, di speranza. Forse, non per tutti.

Un soggetto ostico, alquanto scomodo, difficile da affrontare, facile preda di pathos e glassate conclusioni dal sapore di morale preconfezionata. Ma Philippe Besson non è un novello romanziere. Trovando il giusto mezzo e imparando ad attenersi ai semplici fatti e pensieri, senza alcuna conclusione, riesce a farci assaporare la semplicità di cosa vuol dire essere al mondo. Sì, è un resoconto spesso triste, ma dignitoso. La morte non fa paura, né tanto meno il suicidio. È parte integrante della nostra stessa vita.

Il lettore viene condotto per mano nei pensieri e nei dubbi di chi affronta il vivere quotidiano in un modo apparentemente distante dal nostro. Finisce con il seguire attentamente la vita di coloro che poche pagine prima erano dei semplici sconosciuti. Si crea un’empatia involontaria, ci si rende conto di errori commessi, di cosa sia il rimpianto. A ciascuno è consentito di poter dare il proprio giudizio. Al dolore non si può sempre dare una spiegazione.

(Philippe Besson, Una buona ragione per uccidersi, traduzione di Barbara Puggelli, Edizioni Clichy, 2013, pp. 256, euro 16)

“Questi sono i quaranta” di Judd Apatow

Una commedia dal sapore comico e amaro allo stesso tempo; esilarante e a tratti grottesca: brevi ed esaustive le frasi di cui necessita la quarta fatica di Judd Apatow per essere descritta. Spin off del già noto Molto incinta, Questi sono i quaranta esplora la quotidianità di Pete e Debbie (Paul Rudd e Leslie Mann) cinque anni dopo la loro prima apparizione e alla soglia dei fatidici quaranta, con i problemi, le paure e i disagi che spesso questo traguardo porta con sé.

Padre e madre in una famiglia modello spot anni ottanta, Pete e Debbie vivono insieme alle loro due figlie, Charlotte e Sadie, in una confortevole casa di un ricco quartiere residenziale americano: una patinata copertina che cela dietro sé una realtà ben diversa da quanto appare.

Sin dalle prime scene, infatti, la coppia si scopre in una crisi generazionale che porta con sé tutti i problemi legati alla loro età, ma anche a fatti contingenti: l’etichetta discografica di Pete naviga in cattivissime acque; la boutique di Debbie si ritrova in negativo di svariate migliaia di dollari e, come se non bastasse, Pete deve mantenere, a insaputa della moglie, un padre sfaccendato e irresponsabile. A complicare il tutto ci si mettono le manie di perfezionismo dell’ossessiva Debbie, che pretende di avere tutto sotto controllo come la maggior parte delle madri di famiglia, e l’indolenza di Pete che, anziché affrontare di petto con il sostegno della moglie la sua difficile situazione lavorativa, si chiude a riccio e si lascia andare, cercando conforto nei dolci e nel cibo spazzatura

Uno scorcio di vita quotidiana, una fotografia di un periodo lieto quanto cruciale: Questi sono i quaranta rappresenta una perfetta sintesi delle contraddizioni, delle angosce, ma anche delle gioie che gli uomini comunemente vivono all’indomani della gioventù e in attesa della terza età. L’umorismo a tratti grossolano, tipico dello stile del regista, si ripresenta come una promessa mantenuta; ma la firma di Apatow si riconosce anche dalla tipologia di commedia, basata sul dialogo e sull’episodio apparentemente fine a se stesso. Solo sul finale ogni avvenimento prenderà forma all’interno di una vicenda molto più complessa, come il tassello che va a comporre un grande puzzle.

Goliardico e scanzonato solo in apparenza, il film vuole in realtà offrire uno spunto di riflessione sulla vita che sogniamo e la vita che viviamo; un perpetuo scambio tra realtà e finzione, vita ideale e vita vissuta. Il sogno incarnato dai coniugi belli e ricchi racchiude il disfacimento di una coppia che ha perso il desiderio. Desiderio dell’uno verso l’altra, ma anche desiderio verso la vita: l’ossessiva ricerca di perfezione fa perdere a Debbie l’hic et nunc dell'attimo che tenta invano di possederla; l’incapacità di incarnare questa infallibilità fa perdere a Pete la voglia di provarci. Emblematica in questo senso la scena in cui Pete si schianta con la bici addosso allo sportello di un’auto inavvertitamente aperto da un uomo il quale risponde ai suoi leciti insulti ricoprendolo di botte. La moglie, dopo aver assistito all’incidente, con estrema calma e sangue freddo lo porta in ospedale e non appena riapre gli occhi comincia a parlargli nuovamente dei loro problemi coniugali.

Il messaggio saliente di questa tragicomica pellicola è che troppi dilemmi esistenziali, spesso, fanno perdere di vista l’esistenza stessa. Vivere chiedendosi come sia giusto vivere porta l’individuo a perdere il rapporto corporeo con il mondo.

Forse Apatow non immagina nemmeno di essere arrivato così in fondo.

Del resto, Questi sono i quaranta viene presentata come una commediola per trascorrere dei buoni minuti spensierati.

 

(Questi sono i quaranta, di Judd Apatow, 2012, commedia, 134’)

 

“Nessuno sa di noi” di Simona Sparaco

Non è un libro di stagione. Non si scola all’ombra per dissetare le tristezze messe in borsa. Non propina ossessioni erotiche, notti ammanettate in costumi di lattice, stoiche maratone a fior di lenzuola, o turbolenti pomeriggi borghesi, in cui la priorità schiaffata in agenda è quella di abbinare il sandalo al colore dell’aperitivo. Se cercate disimpegno e abbronzatura facile lasciatelo stare. Si conficca più a fondo dell’ombrellone nella sabbia. E non distrae dal dolore. Lo inietta dritto in vena. Chiaro e spaesante. Estremamente scomodo.

Perché l’infelicità sa essere molto democratica, toccando in sorte anche a chi può permettersi un biglietto in prima fila. E soprattutto perché davvero Nessuno sa di noi (Giunti, 2013). Questo ci dice Simona Sparaco, con il suo terzo romanzo tra i cinque finalisti del Premio Strega di quest’anno. Parla attraverso Luce, giornalista affermata che dalla sua rubrica di successo sorseggia la sofferenza altrui. Le sbavature, i conflitti, i graffi screziati in mezzo alla pelle, come un baffo di vernice scappato di mano. Finché arriva la razione prevista per lei. E non c’è bocca sufficiente a ingoiarla per intero. Luce ha trentacinque anni. E il suo corpo bussa, freme già da un po’. Chiede di essere abitato.

Così, insieme a Pietro, il suo compagno, fanno quello che li accomuna a miriadi di altre coppie in cerca di “eredi”. Rincorrono l’attimo, quello biologicamente perfetto, quando tutti gli ingranaggi sono lubrificati al meglio, quando cielo e calendario propiziano e sorridono. S’improvvisa ben poco, non c’è spazio per un poetico imprevisto. Si aspetta la temperatura. Quella dell’attesa. Ma finalmente la pancia si anima, si riempie di promesse. Luce sta per diventare madre e questo evento la allaga. Lorenzo è già lì, dentro la culla, addosso al respiro, a invadere di senso tutta la sua vita. Di figlia agiata e scolorita, con una mamma troppo impegnata a trovarsi per accorgersi di dove fosse lei. Tutto procede, le settimane si divorano per inseguire l’ultima, ma durante l’ennesima ecografia, una smorfia s’inclina sul viso della ginecologa.

Quella foto così intima non la convince affatto. Lorenzo è cresciuto poco, è cresciuto male. Torace e polmoni non vanno d’accordo. Displasia scheletrica è la sentenza finale. Che purtroppo non rivela a sufficienza. Potrebbe tradursi in acondroplasia, un villaggio i cui residenti si chiamano nani. Oppure chissà. Comunque Lorenzo potrebbe non sopravvivere al di fuori di quel buio. E se anche potesse, non sarebbe possibile stabilire come. Galleggerebbe come un’ipotesi sbiadita, come un futuro con le gambe di cristallo.

Luce e Pietro indagano, domandano, invocano altri pareri. Ma poi s’inchiodano. Davanti alla scelta peggiore. Per le leggi italiane quella pancia è troppo piena, troppo estesa per spazzare via il suo contenuto.

E allora non resta che cercare ospedali di altre lingue, altre mani che interrompano quell’incubo.

A Londra Luce partorisce Lorenzo che è già morto, perché qualcuno gli inietta il silenzio mentre sonnecchia. Ma ovviamente dopo non c’è alcun sollievo. Quella non è un’angoscia solubile. Luce è sgonfia, inaridita, avvizzita in quei panni che non guarda neanche più. È preda di un vortice in cui rabbia, amarezza, colpa e solitudine giocano a strozzarsi. E il suo rapporto con Pietro rischia di polverizzarsi. Perché dopo quel vuoto non esiste un domani da chiamare per nome.

Il romanzo interroga una porzione spinosa della nostra coscienza, che spesso ammansiamo con caraffe di buonismo. Ci diciamo che la vita è sacra. Lo sanciscono le nostre regole.

Ce lo suggerisce anche la fiction, in cui ogni gravidanza dopo qualche nuvola è sempre bene accetta, in cui un “no” non rientra nel copione.

Eppure, appunto, Nessuno sa di noi. Nessuno. Neanche noi stessi. Che non facciamo che stupirci e disattenderci, anche in frangenti più spiccioli. Ci sono sottoboschi, vegetazioni di tragedie in cui è difficile addentrarsi e perciò ognuno sceglie il suo passo. I blog in cui Luce si affaccia per capire di non essere sola costituiscono l’esempio più accecante. Costellazioni di donne doppiamente ferite, irritate dal giudizio dei saggi, dei benpensanti con l’opinione sempre in tasca. Perché nella vita degli altri bisognerebbe entrare in punta di piedi. Con la curiosità di un turista e il rispetto di un ospite.

Doppio merito, quindi, a questo libro. Non solo per la scrittura intensa e consapevole (sicuramente la prova più matura dell’autrice), ma per il coraggio di svegliare un dibattito, di aprire una crepa. E attraverso quella crepa, lasciar filtrare un mondo che, se guardato in faccia, potrebbe avere i nostri occhi.

(Simona Sparaco, Nessuno sa di noi, Giunti, 2013, pp. 256, euro 12)

“Imperi dell’Indo” di Alice Albinia

Per assurdo, Imperi dell’Indo di Alice Albinia (Adelphi, 2013) funziona al contrario. Mi spiego: di solito, dopo aver letto un libro di viaggi, di scoperte, di mondi inesplorati, si ha subito voglia di partire. Di vedere con i proprio occhi ciò che è immortalato tra quelle pagine. Imperi dell’Indo riesce talmente bene nella propria missione, da offrire concretamente i luoghi del Pakistan e dell’India in cui si muove il fiume del titolo. Se a lettura conclusa non si vuole partire non è per una questione negativa, ma solamente perché la scrittrice Alice Albinia ha portato anche te in quei posti. Lettura e viaggio la medesima cosa.

L’autrice, classe 1976, londinese, dopo vari e prestigiosi studi si trasferisce a Delhi come giornalista. Da lì il passo è breve e il suo esordio letterario imminente. Questa la missione: attraversare dalla foce alla sorgente, il fiume Indo, il “Fiume dei Fiumi”: talmente importante da dare il nome stesso all’India. Tremila chilometri d’acqua, attraverso svariati paesi e paesaggi, culture, civiltà e persone. Storie millenarie di rivalità e conflitti, militari e religiosi. Tutti svoltisi in prossimità delle rive.

Il libro non è solo un diario di viaggio, in cui annotare – con documentaristica precisione e storico fondamento – tutti i dettagli e gli avvenimenti. È anche – anzi, soprattutto – il pretesto per scoprire, tappa dopo tappa, un mondo e una cultura millenaria e complessa. Seguire l’Indo è anche il modo per conoscere la sua storia e tutto ciò che si è sviluppato ai suo bordi. Come spiega l’autrice nella prefazione: «Fu l’Indo a dare coerenza alla mie esplorazioni; il fiume è al centro di questo libro perché scorre attraverso le vite delle sue genti come un incantesimo».

Molto bello, e forse per noi impensabile, vedere nei vari capitoli come questa sia la realtà: l’unione sacra e profonda, spirituale, delle persone con il fiume.

Dopo la citata prefazione, il viaggio può iniziare. Si parte da Karachi, città piena di minoranze etniche e religiose. Con spietatezza si narra del caos post-1947, alla fine del mandato inglese. Delle lacerazioni del Pakistan, delle carneficine nel Punjab tra sikh, hindu e musulmani. Procedendo nella lettura, non c’è argomento del mondo indiano a non essere trattato. Dal Ramadam, alle condizioni dei lavoratori, ai tratti poco noti del Corano e come questi vengono applicati quotidianamente. Dalla schiavitù alla costruzione dei templi lungo il fiume, l’autrice compone un’opera enciclopedica e affascinante. Sicuramente Imperi dell’Indo sarà la base assoluta per chi ama queste terre, ma non intrigherà meno anche la persona più curiosa e dall’irrefrenabile sete di conoscenza. Che, a volte, si può allietare anche senza viaggiare, grazie a libri di questo livello.

(Alice Albinia, Imperi dell’Indo, trad. di Laura Noulian, Adelphi, 2013, pp. 493, euro 30)