[NTF6] Considerazioni conclusive sul Napoli Teatro Festival 2013

Il Napoli Teatro Festival, anche quest’anno, ha fatto parlare di sé. In negativo – il caso dello Spopolatore di Peter Brook – o in positivo – gli spettacoli previsti dal Fringe Festival – come ogni grande festival. Eppure la verità è che di rivelazioni ce ne sono state ben poche ma non si sono avute nemmeno quelle conferme che ci si aspettava. Difficile fare il punto della situazione. Sicuramente è stato un festival contraddittorio, con alcune scelte opinabili. Inutile fare nomi e cognomi, molto meglio cercare di capire che cosa sta succedendo, in questo periodo storico, in Italia, sul piano culturale. La domanda da porsi è questa: il teatro è morto oppure è tutta colpa delle direzioni artistiche? Perché siamo di fronte a un bivio: se i festival hanno il ruolo di scoprire talenti, proporre spettacoli di qualità e dare allo spettatore un’immagine di quel che sta capitando in Italia e nel mondo, dal punto di vista culturale, stiamo fallendo. E stiamo seguendo in piena regola i dettami beckettiani: stiamo fallendo sempre meglio. Non credo sia un problema solo legato al Teatro Festival partenopeo, è anzi abbastanza diffuso lungo lo stivale. Purtroppo se ne parla poco, e anche male, e sicuramente un articolo come questo non può affrontare tutti i problemi che attanagliano la situazione artistica italiana. Ma evidentemente non c’entrano nulla la crisi economica e la mancanza di fondi: qui c’è una crisi di idee! Il teatro viene visto sempre più come mestiere, e sempre meno come una possibilità, ed è imbarazzante. Come volevasi dimostrare, infatti, è stato il Fringe a offrire le cose migliori. Da Edipo a Terzigno fino ad Andrea Cosentino passando per i 248 kg di Esiba Teatro. E il festival principale? Una noia mortale tranne rare eccezioni, come La classe di Garella, un momento davvero indimenticabile.

Inutile puntare il dito solo su De Fusco, direttore artistico del Festival, è l’intero sistema che sta affondando. E, con esso, lo spettatore che sta sviluppando una coscienza critica totalmente falsata da quel che viene proposto. Non riesce più a distinguere ciò che è buono da ciò che è scadente, proprio perché oggi, nei cartelloni teatrali, nei principali festival, gli spettacoli non vengono proposti in base a criteri qualitativi. È il concetto di direzione artistica che andrebbe rivisto. E dovrebbe essere il primo passaggio verso un cambiamento radicale imperniato soprattutto sulla qualità di una proposta teatrale.

“NW”: incontro con Zadie Smith

L’hotel Boscolo Exedra è il tipico hotel dove si pensa di poter intervistare un personaggio come Zadie Smith – in occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo, NW (Mondadori, 2013) – e Zadie Smith l’idea di Zadie Smith – turbante rosso, occhiali, intelligenza vertiginosa –, il suo impatto sulla cultura e sulla narrativa mondiale degli ultimi quindici anni, gli infiniti dedali invisibili che l’hanno portata a essere una delle scrittrici under 30, prima, under 40, ora, più influenti al mondo. Per ovvi motivi è stato impossibile spingersi troppo in profondità, riuscendo comunque ad accarezzare un rarissimo tipo di corteccia celebrale, ma stare a guardare fuori dai cancelli il funzionamento di certe sinapsi risulta comunque appagante quanto per un bambino andare a Disneyworld  e dissolversi nei suoi personaggi preferiti.

Dopo un breve pre-incontro con gli altri blogger, ci accomodiamo in una delle tante sale dell’hotel, attorno a un tavolo di vetro dove poco prima c’è stato un altro incontro con la stampa.  Poco dopo, Zadie ci raggiunge sedendosi accanto all’interprete, il cui aiuto comunque non servirà. A terra, diversi scatoloni con dentro copie di NW.  Nella stanza accanto, la figlia piange, e questo aumenta la sensazione di familiarità che già aleggia nella sala.

Si parte con l’idea che ha portato alla nascita del suo ultimo libro: la scena iniziale, quando Leah viene truffata da Shar che bussa alla sua porta chiedendole dei soldi per un taxi fino all’ospedale dove dovrebbe essere ricoverata la madre. Scene come queste, a Londra, accadono spesso: la disperazione è reale, è tangibile. Da qui, lo spunto per plasmare le vite dei protagonisti.

Si passa per la concezione di lettura come arte, e dunque dell’esercizio costante che serve a migliorarla, giorno dopo giorno; la necessità di concentrazione, come quando bisogna ricordarsi la miriade di personaggi di Game of Thrones, ci dice. Bisogna dedicare tempo alla lettura per affinarsi come lettori, non accontentarsi dell’immediatezza del web. Poi ammette di non seguire alcun metodo durante la stesura dei suoi libri: dopo aver ascoltato per anni le abitudini “da impiegato” di scrittori come Murakami, risulta vicino all’idea romantica di scrittura pensare che tutto possa fuoriuscire dal proprio subconscio.

Passando per le descrizioni ballardiane degli enormi palazzi londinesi e newyorkesi, dove vivono migliaia di persone, dove lei stessa vive, ma nessuno sa nulla di nessun altro, tutti tendono a rimanere nel proprio spazio, a costruire il proprio spazio, impegnati a coltivare le proprie ambizioni; un distacco non scaturisce dall’architettura, ma dall’uomo stesso che decide di tenere a distanza l’altro.

L’illusione del raggiungimento della felicità attraverso la scalata sociale, l’imborghesimento che non porta a un vero senso di appagamento: un lavoro, un marito (una moglie), una casa, tutto subito per arrivare, ma per arrivare a cosa? E con e contro chi stiamo gareggiando?

La sua North West London come la Dublin di Joyce? Lei glissa un po’, spostando l’attenzione sull’amore nei confronti dello scrittore irlandese, per le sue opere e per il suo approccio alla vita, contrapponendolo a quello nichilista di Beckett – «perché fare un figlio se poi morirà?».

L’autofiction, la difficoltà nel capire dove inizia la realtà e dove la finzione; la sua passione per il graphic novel che l’ha spinta a inserire Daniel Clowes e Chris Ware in The book of other people, antologia di racconti da lei curata: il graphic novel è letteratura.

I problemi con la traduzione: come posso rendere in un’altra lingua una situazione colloquiale senza che il senso venga stravolto e reso ambiguo? Ad esempio, in Francia, ai personaggi di colore di solito associano un determinato slang di strada: questione che limita tutte le possibili sfumature che quella frase, che quel romanzo, può assumere.

Poi, verso la fine, i condizionatori continuano a sparare aria fredda e fuori il sole inizia piano piano a calare, Silvia di Finzioni le chiede di fare il nome di un personaggio letterario con cui andrebbe a cena volentieri e flirterebbe un po’; la domanda la spiazza, lei ci pensa, ripete meccanicamente che è davvero una buona domanda, sbuffa, prova a rispondere, ma niente, non riesce a tirare fuori nulla, ci sarebbe bisogno di molto altro tempo.

Sarà per la prossima volta.

 

 

Grazie ad Anna Da Re di Mondadori per aver reso tutto questo possibile, a Silvia Dell’Amore di Finzioni, Patrizia La Daga di Le ultime 20, Gloria Ghioni di La Critica Letteraria, Giuseppe Fantasia dell’Huffington Post per il bellissimo pomeriggio passato insieme e ovviamente a Zadie Smith per la sua gentilezza e disponibilità.

(Zadie Smith, NW, trad. di Silvia Pareschi, Mondadori, 2013, pp. 353, euro 18)

“Io so’ Carmela” di Alessia Di Giovanni e Monica Barengo

A sette anni dalla tragedia che ha segnato la fine della vita di Carmela Cirella e l’inizio per il padre, Alfonso Frassanito, di una lunga e insoluta battaglia per avere giustizia, esce un graphic novel che racconta la sua storia: Io so’ Carmela (Becco Giallo, 2013). Il fumetto, sceneggiato da Alessia Di Giovanni e illustrato da Monica Barengo, è basato sul diario della piccola Carmela, morta suicida il 15 aprile 2007 all’età di tredici anni.

La storia di Carmela è una storia di violenza, di abusi, ma anche di mala giustizia. Inizia nel  2005, quando la ragazzina, che all’epoca frequentava la seconda media a Taranto, confessa di esser stata importunata da un ufficiale della marina, tale Alfredo C., che viene denunciato e diffidato. Nonostante la diffida, Alfredo continua ad aggirarsi nei pressi della scuola di Carmela e, come è naturale, i familiari iniziano a controllarla di più, nel tentativo di proteggerla. Adolescente, ancora sul punto di affacciarsi alla vita e all’amore, Carmela si sente oppressa, ferita, diversa: dopo l’ennesima discussione con i genitori, il 9 novembre del 2006, scappa di casa.

 

   

 

Viene ritrovata quattro giorni dopo, traumatizzata e ammutolita, con i vestiti sporchi e strappati. È interminabile la serie di violenze subite da Carmela in un lasso di tempo così ridotto: viene abusata prima da due ragazzi minorenni e da un quarantaseienne pregiudicato, successivamente da due ambulanti siciliani di ventisei e ventisette anni. L’infernale odissea della ragazzina, però, non finisce qui. Una volta ritrovata dai genitori, sconvolta, decide di denunciare alla polizia gli abusi subite, specificando i nomi dei suoi aguzzini e i luoghi in cui si sono consumate le violenze. È l’inizio di un lungo e travagliato percorso nel baratro dell’indifferenza.

 

 

Per aiutare la figlia a riprendersi dopo il trauma subito, i genitori si rivolgono attraverso il Tribunale dei Minori al Servizio Sanitario e agli assistenti sociali. Un lungo colloquio con uno psicologo che la etichetta come “disturbata”, ed ecco che viene disposto il ricovero di Carmela in un istituto specializzato in casi di violenza familiare. Nel frattempo, i minori accusati di violenza sessuale vengono interrogati e confessano i fatti, pur giustificando le loro azioni con la consensualità della ragazza. I vestiti che Carmela indossava quando è stata ritrovata vengono restituiti alla famiglia senza essere sottoposti a perizia. A dicembre, Carmela entra nel Centro Aurora di Lecce: la prima visita dei genitori, prevista per l’indomani, avviene soltanto un mese dopo. Senza alcuna comunicazione né consenso da parte dei familiari, Carmela viene sottoposta a una cura a base di psicofarmaci (En, Haldol e Tolep). Le indagini della polizia, intanto, restano ferme.

Seguiranno l’espulsione di Carmela dalla scuola frequentata a Lecce, il trasferimento in un altro centro, il Sipario di Gravina, e i graduali solleciti da parte dei genitori per poter riportare a casa la figlia. La ragazza, però, è sempre più insofferente: il 14 aprile, mentre si trova a casa per il fine settimana, viene ricoverata in seguito a palpitazioni e difficoltà respiratorie, e viene dimessa dopo qualche ora; il 15 aprile, Carmela si suicida gettandosi dal settimo piano della casa di un’amica. A sei anni dalla sua morte, i suoi stupratori sono ancora in libertà, e tutte le persone connesse alla vicenda non sono state destituite né punite.

 

 

   

 

Come tradizione per la casa editrice Becco Giallo, Io so’ Carmela è un graphic novel di denuncia, un progetto toccante, non solo per l’atrocità della storia che racconta, ma perché vede la collaborazione di varie figure: in primis, il padre di Carmela, Alfonso Frassanito, che apre il volume con una commovente prefazione; Alessia Di Giovanni, che ha saputo trasferire i pensieri affidati da Carmela a un diario, ritrovato pochi giorni dopo la sua morte, in una sceneggiatura che unisce sapientemente narrazione e introspezione, illustrata dalla giovanissima Monica Barengo. Uno sfondo di tinte tenui e figure esili e delicate su cui dominano decisi il rosso e nero, con insolenza, con violenza, a denunciare, silenziosamente, quella reale.

A completare il volume – che prende il titolo dall’omonima associazione per la tutela dei diritti e della famiglia creata dai genitori di Carmela – la cronistoria della vicenda, che arriva fino ai giorni nostri, seguendo la battaglia processuale intrapresa da Frassanito in cerca di giustizia: l’ultima udienza per i tre maggiorenni sotto accusa si terrà il prossimo 12 luglio.

 

 

(Alessia Di Giovanni, Monica Barengo, Io so’ Carmela, Becco Giallo, 2013, pp. 160, euro 15)

“Banshee” di Jonathan Tropper e David Schickler

Qualche giorno fa qualcuno mi ha detto: per caso hai mai visto Banshee? La mia risposta è stata: mai sentita nominare.

Dopo qualche giorno ero diventato fan di una delle serie televisive più folli mai create!

Volendo fare dei paragoni potremmo parlare di un Kill Bill serializzato ma con molti più personaggi approfonditi lungo i dieci episodi di questa prima stagione (oltre che nei web-episode denominati Banshee: Origins).

La serie racconta di un ex galeotto che, a causa di varie vicende si ritrova a fare lo sceriffo in una cittadina della Pennsylvania: Banshee appunto. Preferisco non andare oltre questo incipit per non rovinarvi le varie sorprese, e colpi di scena disseminati lungo le varie puntate.

I creatori si sono sbizzarriti a mettere di tutto in questo serial, dalla violenza estrema, a una storia d’amore, dai cliché da prison-movie fino ai gangster, amish e tanto tanto altro.

Alan Ball, produttore di True Blood, in effetti è abbastanza avvezzo ai miscugli di generi differenti nelle opere da lui prodotte.

Ciò che colpisce, in un’analisi più dettagliata, sono le due anime di ogni personaggio, anche in quelli più marginali. Ogni comparsa, anche quella apparentemente più inutile, è in realtà qualcosa di diverso da ciò che sembra, e questo rende Banshee molto intrigante, come a suo tempo fu Twin Peaks, serie capostipite di un intero genere, ambientata in un’altra cittadina nell’America più provinciale. Ultimamente negli Stati Uniti, dalle solite città metropoli in cui gran parte del cinema e della televisione ambientavano le proprie storie, si è infatti passati a raccontare la provincia, l’entroterra americano – altrettanto affascinante – in genere dominato da un’atmosfera molto pacifica e perbenista che in realtà nasconde tanto marciume, lo stesso che viene fuori nelle cronache internazionali.

I registi che si sono alternati nei vari capitoli della storia hanno tenuto conto anche di questo, facendo ad esempio uso di macchina a mano in una scena ambientata in una scuola, oppure soffermandosi con particolare ricchezza di dettagli su alcuni scontri molto violenti, come quelli che spesso avvengono in alcune ridenti cittadine americane.

La doppia anima degli USA è quindi nascosta nei personaggi finti ed estremizzati di Banshee, così come in alcune realtà provinciali. È possibile che il mio sia un entusiasmo eccessivo, nato da un prodotto di semplice e puro intrattenimento, ma credo che un’analisi più approfondita di una serie che, come Breaking Bad, racconta atmosfere e luoghi differenti dall’America che siamo soliti trovare sul piccolo schermo penso debba essere fatta. Molti degli autori più sensibili – come è già accaduto negli anni Sessanta e Settanta con la fantascienza – ci hanno raccontato le loro paure più radicate (la minaccia del Vietnam e della Russia, la bomba atomica, ecc.). Allo stesso modo, gli autori dei nostri giorni ci raccontano spesso di personaggi non più eroici ma corrotti, forse proprio come la loro amata patria.

Mi raccomando, dopo ogni episodio non scordate di guardare i titoli di coda fino in fondo.
 

“La sindrome dell’ira di Dio” di Giovanni Di Iacovo

Dio (non proprio quello da cui deriverebbe la terribile sindrome, per intenderci) benedica Giovanni Di Iacovo: era da tempo che non mi innamoravo di un romanzo così meraviglioso, straniante, divertente e dal ritmo incalzante come La sindrome dell’ira di Dio (Zero91, 2013), testo a metà tra l’onirico e l’agghiacciante realtà umana. Di Iacovo, classe 1978, è autore di altre interessanti opere letterarie (per la sottoscritta, amore a prima vista già dai titoli) tra cui Sognando una cicatrice (Castelvecchi, 2000), Sushi Bar Sarajevo (Palomar, 2007), Biancaneve e i sette operai Thyssenkrupp (Neo, 2008) e Tutti i poveri devono morire (Castelvecchi, 2010).

L’eroina di questo testo a metà tra noir e romanzo di formazione (suddiviso in tre parti) è Liebe Wallace, escort sensuale e brillante a cui manca l’occhio sinistro («vallo a capire perché!»). In seguito all’incontro con un’ambigua cliente di origini haitiane, Magloire, Liebe verrà catapultata in un universo magico e carnevalesco, caratterizzato da una galleria di personaggi grotteschi e, a primo impatto, ricchi di nonsense: l’atmosfera che si respira è quella di una sorta di fiaba squisitamente oscura, che ricorda alcune opere di E.T.A. Hoffmann, Lewis Carroll e Tim Burton. Durante questa avventura mozzafiato, Liebe non solo giungerà a comprendere la verità su chi è veramente (in primis del perché si ritrovi con un occhio solo), ma verrà a conoscenza di come sia realmente nato il virus HIV – alias sindrome dell’ira di Dio – del fatto che esista un antidoto per debellare questa terribile malattia, e scoprirà la storia dei suoi diabolici ideatori, un gruppo di scienziati fondatori, a loro volta, di una specie di micronazione (ovvero una comunità autoghettizzata e asettica) in Texas. Il protagonista maschile, Victor Lockwood, è un folle ma geniale erotomane nonché fondatore dell’omonima Repubblica Democratica, situata nel cuore di Londra, in cui coesistono tre tipologie di cittadini: i Freaks, cioè donne barbute, gente con deformità spettacolari e acrobati mutilati; i Perdenti, ovvero disoccupati cronici, falliti, disgraziati «senza nessuna qualità monetizzabile!; i Morituri, malati terminali di Aids. Qual è il fil rouge che lega la bella «ciclopina» al «ragazzo dagli occhi viola»? Be’, ovviamente l’amore, di quelli così intensi e romantici da rievocare l’affascinante binomio eros-thanatos.

L’autore pone dunque l’accento su varie tematiche aberranti della società odierna come la spettacolarizzazione della morte, il razzismo galoppante e il putrido bigottismo da sempre ben radicati, la paura e l’orrore per tutto ciò che è diverso, che trascende gli schemi e le regole della società tremendamente ignorante e perbenista. Insomma, se ancora non vi ho convinti, vi svelo anche che per ogni capitolo (trentadue in tutto) l’autore pone in esergo un brano musicale con cui ne consiglia la lettura (cito, tra i miei preferiti, Depeche Mode, Portishead, The Cure, Iggy Pop, Massive Attack…) compiendo una meravigliosa sinestesia vista/udito. Perché, come afferma Di Iacovo: «Questo è un libro per tutti coloro che non hanno paura di vivere la vita in modo pieno e completo: a loro piacerà perdersi nelle mie storie, nelle mie pagine e scoprire la bellezza nelle diversità». Amen.

 

(Gianluca Di Iacovo, La sindrome dell’ira di Dio, Zero91, 2013, pp. 208, euro 15)

“Il giornalista” di Miriam Mafai

Voi che vi siete iscritti a Filosofia, ma poi ci avete ripensato, decidendo di studiare fisica; voi che avete abbandonato Fisica, appassionandovi all’archeologia, e vi siete iscritti a Scienze Politiche perché il medico, intanto, vi ha diagnosticato un’allergia rinitica agli acari della polvere; voi che da Scienze Politiche siete passati a studiare il greco antico perché avete letto Filologia e libertà di Luciano Canfora, partecipando, per l’esame complementare di Linguistica, alle lezioni di Luca Serianni, che però vi hanno innamorato a tal punto da offuscare l’interesse per il greco; ecco, voi potete considerarvi fortunati: voi siete gli eletti, i pochi che hanno ricevuto la chiamata; siete i soli che potranno intraprendere una carriera, senza il timore di sbagliare strada: voi siete giornalisti nati.

Lo suggerisce Miriam Mafai nel suo breve saggio intitolato Il giornalista. Il libro, già pubblicato da Laterza nel 1986 e ripubblicato lo scorso aprile da edizioni Ensemble per ricordare l’autrice a un anno dalla sua scomparsa, raccoglie riflessioni attualissime sul mestiere del giornalista, aneddoti legati alla carriera di Miriam Mafai e consigli agli aspiranti.

Nello stilare l’elenco delle doti richieste a chi fa questo lavoro, Miriam Mafai registra «una naturale tendenza alla produttiva superficialità», vale a dire il «sapersi appassionare a un argomento per breve tempo, scriverne e dimenticarlo subito dopo». Parlando della questione palestinese, l’autrice afferma: «Non sono mai diventata uno “specialista” della questione (la mia incostante curiosità mi impedisce di diventare specialista di alcunché)». Non a caso pone la curiosità come dote essenziale, che si possiede per natura e non si può in nessun modo imparare: «Lo scrivere si impara. Ciò che non si impara, e che mi sembra soprattutto necessario, è una grande curiosità».

Nel pamphlet non manca il racconto appassionato della sua carriera; fu memorabile il giorno in cui, un po’ per caso, da funzionario di partito diventò corrispondente da Parigi per Vie Nuove, settimanale del Pci: «Il mio primo servizio per Vie Nuove fu una cronaca sulla visita a Parigi della regina Elisabetta. Fu un autentico disastro […]. Solo allora mi resi conto che stavo cambiando mestiere e che dovevo impararlo». La Mafai prosegue con il passaggio all’Unità come redattore parlamentare, poi a Noi donne come dirigente, fino al lavoro di inviato per Paese Sera: «Ho sempre amato molto i giornali in cui ho lavorato, ma me ne sono sempre allontanata senza sofferenza. La monogamia può essere una scelta della propria vita sentimentale, la capisco meno nella vita professionale. Viene il momento in cui si sente il bisogno di conoscere altra gente, di misurarsi con altri impegni».

Quando Scalfari la chiamò per far parte della redazione di un nuovo giornale, La Repubblica, il «vascello pirata», come lui stesso lo definiva, Miriam Mafai non se lo fece ripetere due volte; così si ritrovò l’1 gennaio 1976 alla prima assemblea di redazione: «Reduci dalla montagna, da Capri o da un cenone, passammo assieme il primo giorno dell’anno nuovo a preparare il numero zero della Repubblica. Eravamo a Roma, una cinquantina, tra cui alcuni ragazzi che non avevano mai lavorato in un quotidiano».

Tuttavia, Miriam Mafai non nasconde la sua preoccupazione per il futuro di questo mestiere: l’uso delle nuove tecnologie potrebbe trasformare il giornalista da avventuriero randagio, affamato di storie, in un compilatore di informazioni, entro il perimetro fumante dell’ufficio di redazione: «Un giornalista al videoterminale è ancora un giornalista in senso stretto, è ancora un professionista, o tende, inevitabilmente, ad assumere un altro ruolo e a trasformarsi in un tecnico, per quanto qualificato, della comunicazione?»; «E se l’arrivo del calcolatore preparasse lo scivolamento della nostra categoria dal mondo felice e disordinato dei “creativi” al mondo grigio e disciplinato degli “amministrativi”?».

La schiettezza e l’amore per il vero, la repulsione per la retorica che caratterizzano le sue prose giornalistiche, emergono con forza quando l’autrice dà consigli spassionati agli aspiranti giornalisti: «Le porte dei giornali si aprono solo dall’interno: è inutile bussare o dare spallate se non c’è qualcuno da dentro che socchiude almeno uno spiraglio. Per questo si dice tra di noi che il primo consiglio da dare a un giovane che voglia fare il giornalista è di nascere figlio di giornalista o figlio di un amico di un grande giornalista».


(Miriam Mafai, Il giornalista, Ensemble, 2013, pp. 62, euro 10)

“My Dear Old Black Bic”: Diamond alla Galleria Varsi di Roma

A due passi dal Tevere e da via Giulia, nel rione Regola, la galleria Varsi rappresenta una nuova realtà romana. Luminosa e accogliente, fino a questo momento si è occupata di street art, ma non intende chiudersi solo in questa cerchia e ha in programma di occuparsi di tutto ciò che sia innovativo, underground e di forte impatto sul piano tecnico e di contenuti.

My Dear Old Black Bic, visitabile fino al 7 luglio, è la seconda mostra in calendario alla galleria; l’autore è Diamond, giovane street artist romano. Le opere presenti in mostra, come ci suggerisce il titolo, sono interamente realizzate grazie all’uso della più famosa penna a sfera, la Bic. Cinquanta tavole di media grandezza, provenienti dall’intera produzione di Diamond degli ultimi tre anni, tappezzano le pareti e si suddividono per tematiche all’interno dello spazio espositivo. Nella parete sulla sinistra, vicino all’entrata, troviamo gli studi d’artista, esercizi geometrici di puro diletto e abilità che raffigurano uccelli, rondini e pipistrelli, tra cui spicca un bellissimo e complicatissimo scheletro di serpente disegnato in negativo. L’uso della Bic è impercettibile, solo un attento e minuzioso osservatore può accorgersene e svelare la tecnica dell’artista. Un grande poster creato per l’occasione ritrae una donna con un fucile, filo conduttore e arcano della mostra. Seguono sempre sulla stessa parete le sue icone: donne legate, cultura giapponese e arte circense. Nelle pareti del lato opposto si approfondisce il tema della secessione viennese, che fa da cornice decorativa a una visione della donna contemporanea, un po’ pin-up e un po’ dominatrice giapponese.
 


 

La secessione viennese è visibile e presente in tutte le sue cornici, dagli stilemi araldici a quelli floreali fino ai più semplici motivi decorativi: una sintesi tra la più severa geometria wagneriana e il sogno floreale e incantato dell’art nouveau. Al centro c’è sempre la donna, alcune volte dominata, altre dominatrice, vista e rappresentata attraverso le icone classiche del passato, modelli di forza e di determinazione. Queste donne sono legate con la tecnica dello Shibari – antica arte giapponese di legare le persone (Hojōjutsu) – che può essere utilizzata per il rilassamento corporeo o mentale e per il piacere sessuale. In Giappone, inizialmente, aveva un uso cerimoniale in ambito religioso, dove la corda simboleggiava il legame tra l’uomo e il divino, poi come forma di tortura e più tardi si è diffusa come pratica erotica.

Diamond lo rappresenta molto e molti suoi lavori riguardano questa pratica. Armonia, estetica e piacere sono alla sua base. Ciò è creato da un paradosso: chi è legato ha la sensazione di essere in uno stato di completa libertà e anche chi lega (e chi assiste) ne trae godimento. Il corpo della donna diventa una tela, dove formare mix di disegni geometrici, simboli di tradizioni orientali. Raramente è finalizzato a un atto sessuale completo ed esplicito, è più un gioco che permette di esplorare e conoscere a fondo il proprio essere, arrivare a uno stato di assoluta ricettività e consapevolezza.

L’interesse per l’arte circense si lega invece alla pratica dello yoga e alla capacità di contorsione del corpo femminile come nelle antiche pratiche orientali. L’esposizione termina con la rivisitazione di alcune icone femminili: dall’operaia Geraldine Doyle, ritratta nel manifesto simbolo del movimento femminista americano (“We can do it”, per intendersi), a Dita Von Teese, a una giovane donna talebana con lo stereo in spalla, dalle pin-up con i loro tatuaggi Old School, alle dominatrici sadomaso con tanto di frusta. Tutte queste tavole sono disegni originali tratti dai suoi vecchi o più recenti stencil o poster outdoor. La precisione e la cura maniacale del particolare fanno emergere, come Diamond stesso ama chiamarle, le «malattie del tratto», cioè dei giochi di precisione che diventano delle vere ossessioni, come le calze a rete bucate e i capelli neri lucidi.
 


 

La donna, soggetto onnipresente – fa eccezione una tavola che invece rimanda alle origini di writer dell’artista, “Le Origini”, appunto – è il vero tema: donna armata in contrasto con la donna legata, donna dominatrice-sadomaso e donna lottatrice. La mostra crea un filo di Arianna che solo alla fine può essere svelato con la figura della donna che comanda e gestisce anche quando è completamente legata. È sempre lei che grazie alla sua contorta anatomia gestisce l’uomo nella società, non solo attraverso il piacere fisico ma anche quello mentale: un omaggio alla donna nelle sue varie rappresentazioni e nei suoi molteplici aspetti.


“My Dear Old Black Bic” di Diamond
Galleria Varsi, via San Salvatore in Campo 51, Roma
6 giugno – 7 luglio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.galleriavarsi.it

“Un anno a Treblinka” di Yankel-Yakov Wiernik

Un anno a Treblinka di Yankel-Yakov Wiernik (Mattioli 1885, 2013) è il racconto straziante e spietato di uno dei pochissimi sopravvissuti al campo di sterminio di Treblinka, ultimo dei lager a entrare in funzione nell’est della Polonia occupata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. È più di un racconto: è una testimonianza diretta. La testimonianza di un uomo che per tutta la vita rimarrà affetto dalla sindrome del sopravvissuto, e che sarà anche uno dei testimoni che il 6 giugno del 1961 deporrà al processo contro Adolf Eichmann, “l’architetto dell’Olocausto”, a Gerusalemme.

Wiernik, falegname nato in Polonia, è catturato dai soldati tedeschi e deportato presso il lager di Treblinka il 23 agosto del 1942, all’età di 50 anni, per rimanervi rinchiuso fino al 2 agosto 1943, giorno in cui nel campo scoppia la rivolta dei deportati di cui lo stesso Wiernik fu uno degli ideatori e “capi”.

A Treblinka non esisteva la tipica selezione vigente negli altri campi di sterminio tra abili e non abili al lavoro: chi vi arrivava aveva come unica direzione sempre e solo la morte. Wiernik, uomo semplice ma astuto, dotato di un grande spirito di sopravvivenza, riesce fin da subito a scampare all’esecuzione immediata, ma nonostante ciò la sua sensibilità e intelligenza gli fanno immediatamente capire in quale abisso è precipitato.

Ben presto viene notato nel campo dai tedeschi e dagli ucraini per le sue grandi doti di falegname e quindi impiegato come responsabile capo dei lavori di ampliamento del campo stesso. Per un anno, lavorando tutto il giorno all’ampliamento di Treblinka, sotto il sole cocente in estate e al freddo pungente in inverno, Wiernik è esentato dalla morte, mentre i suoi occhi e il suo cuore si fanno testimoni e custodi di barbarie e atti spregevoli compiuti verso i deportati. Nessuno veniva risparmiato dall’uccisione sicura e quasi tutti andavano incontro alla morte nelle camere a gas.

Mano a mano che i giorni passano, però, la sete di vendetta, di rivolta, la dannata voglia di fuggire verso la salvezza crescono: «Caro Lettore, è solo per te che continuo a vivere questa mia miserabile esistenza, nonostante essa abbia perso per me qualsiasi attrattiva […]. È necessario raccontare al mondo l’infamia di quei barbari, così che i secoli e le generazioni a venire possano esecrarli. E sarò io a far sì che ciò accada».Queste le parole di un uomo che ha visto e vissuto sulla propria pelle uno degli orrori più grandi della Storia e che ha voluto lasciare ai posteri il suo terribile racconto, attraverso parole semplici e immediate. Scrivere diventa quindi una via per alleviare, in qualche modo, un dolore che lo ha accompagnato per tutto il resto della sua esistenza, per alleggerire quel fardello fatto della morte di vittime innocenti e che gli ha pesato continuamente sull’anima, nonostante la sua innocenza.

Un anno a Treblinka lascia in chi lo legge un vuoto dentro, nel profondo, lì dove stanno i sentimenti, le fragilità, i dubbi. Parole scritte che devono essere lette: per non dimenticare mai, nemmeno oggi. Parole e fatti che vanno e devono essere ricordati. Soprattutto oggi.


(Yankel-Yakov Wiernik, Un anno a Treblinka (con la deposizione al processo Eichmann), trad. di Livio Crescenzi e Silvia Zamagni, Mattioli 1885, 2013, pp. 137, euro 12,90)

“To the Wonder” di Terrence Malick

Accolto con perplessità a Venezia, To the Wonder è il nuovo capitolo della ricerca di Terrence Malick sull'uomo in uscita il prossimo 4 luglio.

Neil e Marina si amano a Parigi. Lui è inquieto, lei è felice e lo è anche la figlia di lei Tatiana, avuta da un matrimonio di gioventù. Quando Neil decide di tornare in Oklaoma, al suo lavoro di operatore ambientale, le due lo seguono. Provano a essere una famiglia, ma non va. Neil non vuole impegnarsi, Marina lo sente sempre più distante e Tatiana soffre un mondo non suo. Quando il visto della donna scade, senza la promessa di un matrimonio davanti, madre e figlia decidono di tornare in Francia. Neil torna a frequentare per un breve periodo un’amica della sorella. Di nuovo, quando l’impegno si presenta, lui si sottrae, finché Marina torna e decidono di provare la strada del matrimonio.

La trama di To the Wonder, in sé, ha una rilevanza secondaria rispetto alle tematiche che lo alimentano. Come nel precedente e acclamatissimo The Tree of Life, Malick sfrutta un’intuizione narrativa per portare avanti un discorso più ampio sul tema che maggiormente appartiene al suo cinema: l’amore e le sue conseguenze sulla vita degli uomini, sulla loro solitudine di fronte all’altro, sull’incomunicabilità di un sentimento necessario e determinante.

In To the Wonder la poetica di Malick («Il più grande poeta della mia generazione», lo ha definito Michael Cimino) prosegue la propria ricerca su se stessa da dove si era interrotta in The Tree of Life: il flusso narrativo si frammenta ulteriormente in sequenze distaccate illuminate da lampi di ricordi e dal respiro di immensi paesaggi; i dialoghi, già rarefatti, spariscono del tutto. I personaggi non dialogano, monologano senza rispondersi, affidando alla classica voce fuori campo del cinema malickiano considerazioni di ogni tipo sulla vita, sull’amore, su Dio. Ognuno parla la propria lingua: Neil (Ben Affleck) inglese, padre Quintana (Javier Bardem), prete inquieto a cui Neil e Marina si rivolgono separati per cercare risposte, spagnolo, Marina (Olga Kurylenko) francese, Anna (Romina Mondello, abbondantemente fuori parte), amica e coscienza malvagia e zingara di Marina, italiano. È una babele di incomunicabilità, di isolamento e solitudine. Gli uomini non sanno più parlare tra loro, non sanno più parlare con la terra, capirne le esigenze e i bisogni, non si rendono più conto di esserne un elemento, di essere in balia dei suoi cicli.

Il legame tra natura e vita umana è indissolubile, scandisce i tempi dell’unione di Neil e Marina, che perde di purezza nello stesso momento in cui Neil scopre una pozza d’acqua contaminata, che si rompe quando scade il visto di Marina e le orchidee nella loro casa perdono l’ultimo petalo, che si riconcilia mentre i fiori sbocciano. L’amore è come la marea che lega Mont Saint-Michel che i due visitano a inizio film alla costa normanna, la forza che rende l’uno due, poi di nuovo uno, poi di nuovo due, in un ciclo invincibile. È la tensione verso cui l’uomo è costantemente proiettato, sia essa verticale, verso il Dio che padre Quintana ricerca senza speranza, sia orizzontale verso la donna o l’uomo amato. È una pulsione che schianta ed eleva allo stesso tempo, che è catena e chiave per la libertà. Quello che accomuna le due spinte è la necessità di un’interposizione, di un oggetto mediano che concili il soggetto con l’oggetto e sia sintesi di una dialettica inesauribile: Quintana ha bisogno di Dio per riuscire ad amare pienamente i miserabili che assiste, Neil e Marina hanno bisogno di un figlio, Tatiana o uno loro, per unirsi per sempre, o di perdersi in altri amanti per sentire il bisogno di ridurre le loro distanze. È la Marina di Olga Kurylenko il personaggio maggiormente a contatto con la natura, spirito aggraziato e libero che incarna un’idea di amore infantile e animalesco, fatto di spontaneità con gli uomini e la terra, di passeggiate a piedi nudi e di ammirazione costante, bisognosa delle attenzioni di un uomo incapace di affettività che la lascia sfiorire.

Il cinema di Malick è un cinema di luci e paesaggi e di riflessione, da sempre. Dopo i vent’anni trascorsi tra I giorni del cielo e La sottile linea rossa, sembra che ora il regista texano abbia molto da dire e abbia fretta di farlo (ha in cantiere tre nuovi film, pare, il primo, Knight of Cups, in uscita negli ultimi mesi del 2013). Assodata una squadra (Emmanuel Lubetzki alla fotografia, il montaggio, essenziale nella sua forma espressiva, guidato da Keith Fraase), Malick prosegue la sua ricerca sull’uomo e sul mondo. In To the Wonder non riesce a raggiungere il lirismo lancinante di The Tree of Life, ma la meraviglia verso cui tende è molto vicina.

 

(To the wonder, di Terrence Malick, 2012, drammatico, 112’)

 

“Tutte le feste di domani”: a tu per tu con Veronica Raimo

Dopo il buon esordio nel 2007 con Il dolore secondo Matteo (minimum fax), Veronica Raimo torna in libreria con Tutte le feste di domani (Rizzoli, 2013). Protagonista della narrazione è Alberta, giovane universitaria ribelle prima, moglie del docente universitario Flavio Falsini poi, infine amante dello scrittore in erba Carsten. Fulcro di un triangolo amoroso tipicamente borghese, Alberta è una figura dalle molte facce, piena di contraddizioni, una creatura bordeline: ribelle e conformista, subdola e fedele, carnefice e vittima.

Attorno a lei ruotano tutti gli altri personaggi, a cominciare da Flavio, il marito di Alberta, mite fino all’eccesso, a tratti puro, vittima dell’idealizzazione che egli stesso ha creato di una moglie che ama senza condizioni; o Carsten, giovane americano alle prese con il romanzo d’esordio, perso dietro al suo narcisismo e a un passato che chiarirà solo con la scrittura, sarà lui la nemesi di tutti gli amanti di Alberta.

Tutte le feste di domani pecca forse di originalità in quanto a trama, ma colpisce per la fluidità della scrittura raggiunta dall’autrice nel corso di questi sei anni trascorsi dal suo esordio.

Abbiamo rivolto a Veronica qualche domanda per conoscere più a fondo questo suo secondo romanzo. 


Vorrei partire dall’inizio, con un’annotazione sull’incipit di Tutte le feste di domani che, a mio parere, funziona molto bene, poiché lascia intendere, in poche righe, senza descriverla esplicitamente, quella che sarà l’atmosfera dell’intero romanzo, con i conflitti di una famiglia alto-borghese e l’artificiosità tipica di un certo modello culturale italiano… Che cosa puoi dirci a riguardo? Quando e come nasce?

L’inizio in realtà nasce in un momento in cui la storia che avevo in mente era molto diversa da quella che ho poi scritto, anche se l’ambientazione è rimasta la stessa. Per parecchio tempo non ho avuto altro che quell’inizio. Un interno borghese e dei rapporti definiti attraverso l’interazione con lo spazio e con gli oggetti, che in fondo è il modo più immediato in cui spesso ci relazioniamo agli altri: studiamo il loro modo di muoversi, di vestirsi, i loro feticci estetici e culturali.


La trama sembra essere invece il punto debole del libro – la messa in scena dello stereotipo borghese, con i suoi tradimenti e la sua misera ipocrisia è qualcosa di già scritto – e, a livello di intreccio, offri poco di nuovo rispetto a buona parte dei romanzi italiani contemporanei. Qual è stato il tuo rapporto con la trama? Quali difficoltà hai incontrato durante la stesura di questo tuo secondo romanzo?

Non ho mai deciso una trama a tavolino, o tentato di elaborare un intreccio volutamente originale e complesso, per cui non so che dire; della trama, pensata come cosa a sé, in effetti non me ne importa quasi niente. Mi viene in mente Two Lovers di James Gray, uno dei miei registi preferiti, se dobbiamo pensare alla trama è quanto di più trito ci possa essere: un uomo combattuto tra una donna pallosa e affettuosa e una completamente scombinata e inaffidabile. Sullo sfondo una famiglia ebrea tradizionale, di quelle raccontate mille volte. Ecco, per me è un film magnifico. L’originalità a tutti i costi mi sembra un finto mito, non allarga i confini della libertà individuale, ma li limita e li rende artificiosi.


La caratterizzazione che fai dei personaggi sembra invece studiata nei minimi particolari, tanto da permetterti di modellare molto spesso i protagonisti del romanzo attraverso il non detto che si nasconde dietro i gesti e gli oggetti…

Be’, mi fa piacere questa cosa. Giocare con il non detto, quando riesce, è anche un modo per non imporre una visione già satura e codificata al lettore, ma lasciargli un margine di immaginazione autonomo. Non mi piacciono le opere troppo chiuse o troppo esplicite, in nessun campo, e non amo la sensazione che lo sguardo sia forzato in un’unica direzione.


La qualità della tua scrittura – fatta eccezione forse per qualche dialogo – è l’aspetto più rilevante del libro: limpida e scorrevole, non affatica mai e si dimostra matura e consapevole. Quanto ha influito in tutto questo la tua esperienza di traduttrice?

Non credo abbia influito molto. Sono due cose che tendo a mantenere piuttosto distinte, però in effetti c’è da dire una cosa: quello che mi irrita di più quando traduco è scontrarmi con delle frasi non logiche, frasi che non hanno senso, che magari funzionano a livello evocativo, ma oggettivamente non hanno senso. Questo tipo di approssimazione nella scrittura mi dà piuttosto fastidio e cerco di evitarla scrupolosamente.


Nel libro ricorrono spesso riferimenti ad autori come Ingeborg Bachmann, Bernand Malamud e persino Giacomo Leopardi. Sono scelti con un significato preciso? Quali sono i tuoi modelli di riferimento?

Molto disparati come si può evincere. Quando mi capita di scoprire ed entusiasmarmi per qualcuno (scrittori, registi, musicisti) sono abbastanza ossessiva e consumo in poco tempo tutto quello che ho a disposizione, quindi credo che quello che mi resta a livello di influenza sia una specie di residuo da assuefazione. In parte l’abuso di citazioni e riferimenti nel romanzo è abbastanza strumentale; Alberta, la protagonista, vive qualsiasi cosa – anche quelle che dovrebbero essere le passioni e le sensazioni più autentiche – filtrate da modelli. È alla continua ricerca di questa mediazione estetica come possibilità di autodefinizione attraverso l’avvicinamento e la presa di distanza da questi modelli. Per quanto mi riguarda, mentre stavo scrivendo il libro le ossessioni del momento erano soprattutto Cheever e Malamud.


Concludo chiedendoti di Roma, la città in cui si svolge la storia che racconti: perché questa ambientazione? Pensi che questa scelta possa aver influito su alcuni aspetti relativi ai protagonisti del romanzo?

Roma innanzitutto perché è la città dove vivo e che conosco meglio. Non ho un’idea diciamo “sociologica” della letteratura, quindi anche nella ricostruzione di una Roma fine ’70/inizio ’80 non sono stata particolarmente scientifica nelle ricerche, ma quello che m’interessava era la conflittualità latente di Roma, una conflittualità che si rigenera e si trasforma in continuazione, senza arrivare a derive drammatiche ma molto spesso tragi-comiche, perché Roma ha questa capacità estrema di contenere e ammansire il conflitto. Parte di quel conflitto latente vive ancora oggi sottotraccia in una presunta pacificazione borghese.


Grazie Veronica per la gentilezza e in bocca al lupo per il romanzo.


(Veronica Raimo, Tutte le feste di domani, Rizzoli, 2013, pp. 306, euro 18)

“…Like Clockwork” dei Queens of the Stone Age

Era il video di “Go with the Flow”. Una macchina sparata al massimo nel sole del deserto. Tra chitarre furiose e donne seminude. Rosso intorno. Furore e grinta. A tutta velocità. Ho sempre idealizzato così il rock dei Queens of the Stone Age. Un hard rock che con Songs for the Deaf ha segnato livelli irraggiungibili nella discografia del terzo millennio.

Dopo qualche alto e basso, fuoriuscite dalla band, paternità e silenzio, le “Regine” sono tornate. Alla loro maniera. Risalendo su quella macchina, imbracciando le medesime chitarre, e consegnando …Like Clockwork.

Coerente con l’accenno fatto all’inizio, ora i fan possono mettere al massimo nello stereo “My God Is the Sun”. Il nuovo brano è la quintessenza del sound di Josh Homme e compagni. Le chitarre stoner e la batteria sono la fusione perfetta, pronta a prendere il lancio con il ritornello. L’iniziale ascolto di un pezzo del genere, da subito tranquillizza l’ascoltatore e il critico scettico. Ma le basi per un nuovo grande disco c’erano tutte: il ritorno Nick Oliveri e Dave Grohl (!!!) e le news riguardanti le guest. Se alla combriccola non può mancare il faro tutelare di Mark Lanegan, gli altri nomi hanno incuriosito e fatto salire l’eccitazione: la moglie di Homme – Brody Dalle –, Alex Turner degli Arctic Monkeys, Trent Reznor e Elton John. Sì, avete letto bene anche l’ultimo nome. Tutti personaggi illustri, che ascoltando bene il disco, incidono poco sulle tracce.

Di …Like Clockwork, rispetto al passato, colpisce la vena più psichedelica e visionaria. Sperimentale. Prendete quel capolavoro malato di “Kalopsia”. Un brano del genere le “Regine” non lo avevano mai fatto, e il risultato è clamoroso. Come riuscitissime e indelebili sono le dolenti ballate dell’album: da “The Vampire of Time and Memory” – perfettamente il linea con lo stile grafico fumettistico del disco – a “I Appear Missing” e il gran finale di “Like Clockwork”. I brani che avanzano sono i Queens of the Stone Age in grande spolvero, molto curati negli arrangiamenti, e pieni di energia e vitalità.

Insomma, cari lettori, …Like Clockwork quest’estate vi terrà parecchia compagnia. Perché i Queens of the Stone Age oltre ad avere il Sole, hanno anche il Rock come Dio. Un po’ come noi.


(Queens of the Stone Age, …Like Clockwork, Matador Records, 2013)

 

“Mandami tanta vita” di Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo ha felicemente superato, in questo suo nuovo, fortunato Mandami tanta vita (Feltrinelli, 2013) un certo memorialismo adolescenziale, diaristico, del precedente romanzo, per darci la densità di vicende, e di dramma, che il distacco temporale di una vicenda ambientata nei decenni iniziali del secolo scorso consente, ma anche, ricalcando uno dei suoi due protagonisti, Piero, su una precisa, e perfettamente identificabile (valga, per tutti, il particolare del ritratto di Casorati) figura storica, ha potuto conferire ai personaggi la profondità culturale (e magari, anche, perché no, umana), che ai ragazzotti del liceo romano, coi loro pauperistici cliché espressivi, non era probabilmente concessa.

Ma se a questa precisa temperie storica il personaggio di Piero in qualche maniera “doveva” uniformarsi, in quel tanto di eroismo intellettuale, l’altro protagonista, Moraldo, personaggio di assoluta invenzione, ha potuto meglio colorarsi delle tinte più attuali, più nostre – sveviane, verrebbe da dire… – del velleitarismo, dello scacco; a lui, così, è concessa la “debolezza” della sessualità (in Piero o non c’è, o è codificata, matrimoniale: l’intensa poesia del suo chinarsi sul seno della moglie che allatta il bambino…), del desiderio che si sveglia, del particolare “basso” del gonfiore nei pantaloni. A lui è riservata l’esperienza della donna che – quasi programmaticamente – prima si concede, perfino con troppa facilità e poi, inspiegabilmente («mistero senza fine bello», no? Tanto per restare a Torino, e a quegli anni…), si sottrae; di questa donna, Carlotta, neanche per un momento riusciamo, proprio come Moraldo, a entrare nell’animo, a vederla magari con lo stesso stupore di chi si vede fotografato da lei; eppure, dietro quello sguardo c’è, deve esserci, una capacità di penetrazione che sconcerta: come, altrimenti, avrebbe saputo ciò che scrive dietro il frammento di foto (era «il dono di una delle sue fotografie» che Moraldo aveva invano chiesto, al primo incontro), che quella parte di lei gli fa paura? Ed è originale (ma, a un tempo, profondamente poetico), quel gesto, di profanazione insieme e di sopravvivenza, degli occhi strappati dalla foto, su cui la vicenda del libro si chiude.

Netta, dunque, l’opposizione, l’alterità che connota le due figure femminili: di Ada, la moglie di Piero, sappiamo invece tutti i pensieri, dolci, femminilmente solleciti del suo uomo, fino a quel rinunciare, per lui – quasi da eroina pucciniana – alla sua musica, a quel cercare sul dizionario i termini troppo “alti” con cui lui le si rivolge.

Ben diversamente, Moraldo e il suo deuteragonista sono in realtà molto meno opposti e speculari che a prima vista; si presentano come due diverse facce di una stessa sconfitta (con in più, a rivelare un sapiente uso di «motivi liberi», il punto di contatto della bocciatura di Moraldo; come sarà, poi, con ancora più parlante giustezza, per il libro montaliano, che Piero pubblica); meglio, sono entrambi “al di qua” della vita: Moraldo, avendone, dichiarandone, la consapevolezza, Piero nel suo esilio, in quel suo approdo al nulla, al naufragio, in cui finisce per “ritrovarsi” con Moraldo ancora più di quanto questi non faccia con la sua inafferrabile Carlotta per i pochi istanti in cui alzano lo sguardo alle mongolfiere; oltre che, ovviamente, del virtuosistico, splendido episodio dell’incontro sulla panchina del parco.

Momento, questo, in cui risiede uno dei tratti di maggiore eccellenza del libro, dal punto di vista strettamente letterario: di vittoriosa affermazione della specificità della letteratura, rispetto a tutte le altre forme di mimetismo così affannosamente rincorse da quanti pongono l’apice delle proprie aspirazioni di scrittore nel fare da spunto alla sceneggiatura di un film con un paio di ragazzotti bellocci, e possibilmente svestiti. Alludo al divario, che solo la pagina letteraria può realizzare, fra il pensato e il detto: fra ciò che Moraldo vorrebbe dire al riconosciuto Piero e ciò che invece gli dice; come già era avvenuto quasi ogni volta nei dialoghi, specie quelli iniziali, con Carlotta, fra le voci del suo desiderio e i tanto più impacciati mots de la tribu che la sua bocca pronuncia.

Eppure (occorre dirlo!), dove il libro trova forse il senso più alto del suo valore è proprio nella parola: la finezza del lessico, che non disdegna, all’occasione, icasticità da parlato, ma respira di continuo la sensibilità di quello poetico, specie nelle felici metafore (i libri ingialliti come mani di vecchi, gli alberi in preda al vento come in una pena dantesca, Alfieri come un’esplosione di gabbiani, ma si pesca a piene mani quasi ovunque…); e poi, il ductus svelto e pur sempre sovranamente elegante delle frasi, la misura di una paratassi mai minimalista, anzi di un sorvegliatissimo atticismo. Una prova, insomma, di raggiunta, freschissima maturità.


(Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli, 2013, pp. 160, euro 13)