“I Postclassici” ai Fori Imperiali

Per la prima volta, fino al 29 settembre, l’arte contemporanea entra negli spazi tra i più famosi dell’arte classica: i Fori Imperiali ospitano la mostra I Postclassici, 16 artisti italiani contemporanei chiamati dal curatore Vincenzo Trione a produrre o proporre un’opera che meglio esprima il loro rapporto con il concetto di classico e dell’arte classica.

È vero che per i romani, nativi o adottati, spesso i Fori sono un luogo da evitare, una foresta proibita, una Notturn Alley, per chi ha letto Harry Potter, o una terra di Mordor, per chi ha letto Il Signore degli Anelli, insomma un luogo in cui è consigliabile non andare per il bene della propria incolumità e serenità, e in effetti, essere catapultati in un universo di Birkenstock con calzini annessi, dove una bottiglietta d’acqua arriva a costare anche 7 euro non è proprio ciò che si possa dire piacevole, eppure, dedicare una giornata alla visita di uno dei più importanti siti archeologici, ora che è anche arricchito da opere di grandi artisti contemporanei, è sicuramente un’esperienza che vale la pena affrontare, ed è ciò che ha fatto la sottoscritta, in un afoso venerdì mattina, anche senza un «anello per domarli».

Le opere in mostra sono collocatein sei specifici spazi dell’immensa superficie dei Fori: lo Stadio Palatino – o Ippodromo – dove sono esposte le opere di Kounellis, del collettivo Alis Filliol, di Andrea Aquilanti, di Francesco Barocco, di Gregorio Botta, di Nino Longobardi e di Claudio Parmiggiani, il Museo Palatino, dove sono esposte le fotografie di Mimmo Jodice, la Vigna Barberini, con l’installazione di Roberto Pietrosanti, il Criptoportico Neroniano, che ospita la serie “Ruined Ruins” di Gianluigi Colin, il Tempio di Venere a Roma, con le opere di Paladino, Pistoletto, Vanessa Beecroft e Claudio Parmiggiani, e infine il Tempio di Romolo, in cui è esposta l’installazione di Giulio Paolini.

C’è da dire che nonostante la scelta di concentrare le opere in questi specifici luoghi il percorso rimane comunque criptico e un po’ dispersivo, soprattutto per la mancanza di segnaletica e l’assenza di una mappa che indichi esattamente l’ubicazione delle opere.

Lo Stadio Palatino, anche per le sue dimensioni, è lo spazio in cui si concentra il maggior numero delle opere: qui è esposta “Senza l’antica prospettiva” l’opera che Jainis Kounellis ha creato espressamente per la mostra, un rettangolo formato da rovine presenti nello stesso stadio disposte dall’artista in modo da rappresentare un temenos, come lo definisce Kounellis stesso, uno spazio “ritagliato” (temnos in greco significa tagliare) in cui è rappresentato il significato contemporaneo che l’artista attribuisce all’antico, un concetto che ha perso il significato sacro che aveva poiché attraverso la sua espressione fisica, la rovina, è divenuto parte della tragicità dell’uomo in quanto testimonianza della universale transitorietà. Oltre all’opera di Kounellis, le opere che maggiormente catturano l’attenzione sono quelle poste al centro dello stadio, soprattutto “Le combattenti” di Marisa Albanese, figure femminili composte e silenziose che richiamano il classico nel colore candido e negli elmi che indossano e che, per l’artista, attraverso le loro pose composte e raccolte, simboleggiano il contrasto più profondo che esiste tra l’antico e il contemporaneo, un’epoca caratterizzata da eccesso, ostentazione e frenesia. Sempre nello Stadio è posta una delle due opere in mostra di Claudio Parmiggiani, un artista che fin dagli esordi, negli anni ’70, ha sempre posto al centro della sua poetica la riflessione sull’antico legato alla caducità del tempo, un concetto espresso in entrambe le opere presenti in mostra. In quella all’interno dello Stadio, una testa reclinata gialla –colore che sostituisce l’oro e che richiama le statue più ricche dell’antichità, le statue crisoelefantine – bendata, adagiata su degli stracci e su un basamento con una farfalla, un simbolismo complesso che mira a indicare, come per Kounellis, l’inesorabile trascorrere del tempo con i suoi inevitabili cambiamenti che portano una statua considerata sacra a divenire rovina, una metafora della vita e del destino al quale non può fuggire nessuno, neanche gli dei.

 

 

Il luogo più evocativo di tutta la mostra è senza dubbio il Tempio di Venere: qui sono esposte le due opere più rappresentative dell’esposizione, l’arcinota “Venere degli Stracci”, di Pistoletto, nell’inedita e fascinosa cornice dell’abside del tempio, che sembra essere proprio il posto a cui era destinata da sempre, un dialogo naturale e meraviglioso di antico e contemporaneo in cui il bello canonico dell’arte classica, ormai ridotto a rovina, si unisce al più colorato e contrastante bello contemporaneo dando concretezza alla massima dello stesso artista circa la sacralità che «si produce nel senso della discendenza anziché dell’ascendenza». L’altra opera molto suggestiva sono i giganteschi scudi in ferro e terracotta di Mimmo Paladino, dalla collezione dello stesso artista, scudi giganteschi che respingono e allo stesso tempo vengono permeati da vari elementi e oggetti della società contemporanea come scarpe, numeri, ombrelli o fucili, dando vita all’immagine che ha l’artista della storia, un flusso continuo di avvenimenti, un susseguirsi di momenti legati, che solo apparentemente può essere diviso in epoche e tempi contrapposti.

 

 

Degna di nota è anche “Anamnesi”, la collezione di fotografie di Mimmo Jodice esposte tra la collezione di statue del Museo Palatino. Fotografie di opere d’arte classica riviste secondo il concetto che l’artista ha sviluppato di quest’arte, una bellezza atemporale che riesce a esprimersi anche quando la sua fisicità è scalfita dal tempo: le statue di Jodice sprigionano fascino e bellezza nonostante la luce e le ombre insistano sulle loro ferite.

La mostra è veramente notevole sia per l’idea di utilizzare i Fori come spazio espositivo che dia luogo a un dialogo tra arte classica e contemporanea, sia per come è stata realizzata, la selezione delle opere esposte, tranne poche eccezioni, poco valorizzate. Unica nota negativa è l’organizzazione e la logistica, l’assenza di segnaletica, ma soprattutto di una cartina, rendono poco agevole il percorso, la cosa migliore è quindi attrezzarsi prima: il mio consiglio è quello di stampare una cartina prima di recarsi al Foro, per evitare di impazzire nella ricerca o di rischiare di perdersi qualcosa.

 

I Postclassici, la ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana
Foro Romano – Palatino
23 maggio – 29 settembre 2013

Per ulteriori informazioni vistare il sito www.postclassici.it/

“Doppio gioco” di James Marsh

Tradire la famiglia per salvare suo figlio. È la paradossale situazione in cui si trova Colette, la protagonista di Doppio gioco di James Marsh, con Clive Owen nei panni di un agente dei servizi segreti britannici.

Belfast 1973, mancano pochi giorni a Natale. Quando il padre le chiede di andargli a comprare le sigarette, Colette non vuole lasciare le collanine con cui sta giocando e manda il fratellino Sean al suo posto. Nei pochi minuti fuori casa il bambino viene raggiunto da un proiettile vagante e muore. Vent’anni dopo Colette è una madre sola che vive con il rimorso della morte di Sean. La rabbia ha portato i suoi fratelli maggiori Gerry e Connor a diventare attivisti dell’IRA, il senso di colpa ha spinto lei a seguirli nelle missioni. Un giorno viene mandata a Londra per piazzare una bomba nella metropolitana, ma viene arrestata prima dell’esplosione. L’agente dell’MI5 che ha guidato l’operazione, Mac, prima le fa vedere dei documenti che dimostrano che a uccidere Sean potrebbe essere stato non l’esercito inglese ma un colpo partito da un’arma dei terroristi, poi le offre una scelta: affrontare il processo e finire in un carcere inglese, lontana da suo figlio, o tornare a casa, a Belfast, come informatrice. Colette accetta la proposta di Mac.

Alla base di Doppio gioco c’è un romanzo, Shadow dancer, scritto nel 1998 da Tom Bradby, giornalista e scrittore britannico inviato nell’Ulster negli anni novanta, che lo ha poi adattato per il grande schermo. Bradby ha sfruttato la propria competenza diretta dell’Irlanda devastata dal terrorismo per confezionare una storia che fonde dimensione privata e pubblica, in cui la trama della politica si intreccia con la storia di una madre e delle sue paure. Trasferendola sullo schermo, Bradby e il regista James Marsh (premio Oscar 2009 per il documentario Man on Wire, dedicato all’impresa del funambolo Philippe Petit tra le Twin Towers di New York) lasciano passare l’antefatto negli anni settanta e poi abbandonano immediatamente la dimensione intima e sentimentale della vicenda, spostando l’attenzione sull’intreccio multilivello di spionaggio e sulle pieghe di thriller politico che animano il film. Non è, in sé, una scelta sbagliata, ma lo scarto tra la prima parte più personale e attenta ai risvolti emotivi di Colette risulta brusco, frettoloso. L’amor di madre che la spinge a tradire i fratelli, rivelandone i piani, è lo slancio iniziale che sbiadisce con l’evoluzione del film. Il senso di colpa che dovrebbe legare Colette ai fratelli nella violenza delle loro rivendicazioni è rimesso all’intuizione dello spettatore, non viene esplicitato o ricordato dopo l’antefatto. Si capisce che lei non vorrebbe essere una terrorista, che vorrebbe una diversa normalità per sé e suo figlio, ma la forza invincibile che convince e costringe la donna a subire (apparentemente) la volontà terroristica dei fratelli non si manifesta mai pienamente, almeno fino al finale che rivela il Doppio gioco, forse anche triplo, del titolo italiano.

Quella che emerge è una certa freddezza nell’esposizione, dovuta forse anche alla prevalente attività di documentarista di Marsh che lo porta a a mantenersi distaccato dalle vicende che filma, senza passare dalla parte dell’osservatore esterno a quella dei personaggi nonostante il materiale dall’alto potenziale emotivo.

L’interesse per il passato recente che ha sempre contraddistinto il lavoro di Marsh sia di finzione (Red Rising) che documentaristico (il recente Project Nim, oltre al già citato Man on Wire) si conferma qui ancora di più: il terrorismo nordirlandese e le mosse oscure dei servizi segreti britannici sono trama ghiotta per sezionare la storia nel particolare, sfruttando l’occasione dell’opera di fantasia per muoversi in totale libertà. Osservando il passato nei frammenti emerge che non ci sono buoni in Doppio gioco, tutti tramano qualcosa e hanno a che fare con una forza più grande che li obbliga: Colette subisce i suoi fratelli, in particolare Gerry, che a sua volta subisce il capo della cellula Kevin che non vuole la tregua tra IRA e Inghilterra; dall’altra parte Mac è tenuto all’oscuro dei veri piani dell’MI5 e si trova a essere passeggero di un treno che credeva di condurre.

Tra tutti questi inganni, l’amore di madre è più forte di tutto il resto, dell’amore per i fratelli, dell’amore di sé, della rabbia politica, ed è l’unico sentimento di cui Marsh sembra ricordarsi.

 

(Doppio gioco, di James Marsh, 2012, thriller, 100’)

 

“Tutte le poesie” di Sylvia Plath

A cinquant’anni dalla scomparsa della poetessa, Mondadori ripropone Tutte le poesie di Sylvia Plath nella collana Oscar poesia, per la cura di Anna Ravano. L’autrice americana, che in vita pubblicò prevalentemente in rivista, raccolse in volume solo i componimenti di The Colossus and Other Poems, oltre al romanzo La campana di vetro. Il lavoro più noto, Ariel, farà la sua comparsa a due anni dal suicidio, nel 1965.

Sylvia Plath fu da subito l’oggetto di un culto legato alla sua vicenda biografica. Il corpo di questo prodigio delle lettere, completamente votata alla poesia, moglie e madre tradita, è stato spesso confuso col corpus dei suoi scritti.

Le sua è una voce netta, che mescola l’esigenza narrativa e confessionale all’ascendenza onirica e pagana di una classicità ormai estranea a se stessa:
 

Dopo il disastro

[…] Mamma Medea in grembiule verde
si muove umile come una comune casalinga
tra i suoi appartamenti distrutti, passando
in rassegna scarpe carbonizzate, poltrone zuppe:
defraudata del rogo e della ruota,
la folla le succhia l’ultima lacrima e se ne va.
 

Aftermath

[…] Mother Medea in a green smock
Moves humbly as any housewife through
Her ruined apartments, taking stock
Of charred shoes, the sodden upholstery:
Cheated of the pyre and rack,
The crowd sucks her last tear and turns away.

 

Ne risulta una realtà espressiva in cui dominano i colori forti e su tutti il nero, universo di possibilità mancate. La personalità poetica di Sylvia Plath, in virtù di una precisione da studentessa modello in contrasto/continuità con le pulsioni edipiche e primigenie, costringe il lettore o l’ascoltatore a prestare attenzione ai suoi versi. Sopravvive in queste liriche di metà Novecento una forza prevaricatrice che annulla la volontà altrui e rende se stessa “estetica necessaria”.

L’evoluzione di questa poetica tra il 1956 e il 1963 è raccontata dal premio Nobel Seamus Heany nel saggio introduttivo «Battito di zoccoli incessante»: «in queste poesie», scrive Heany, «le convenzioni del modernismo e le intuizioni della psicologia sono comunicate in un idioma intensamente personale, e allo stesso tempo completamente accessibile».

Questa nuova edizione di Tutte le poesie ordina i componimenti per anno, smembrando così i nuclei delle raccolte pensate dall’autrice. Tuttavia la scelta è discussa e motivata in una nota alle vicissitudini editoriali che le poesie della Plath hanno attraversato.
 

Donna sterile

Vuota, rimando l’eco di ogni minimo passo,
museo senza statue, grandioso di colonne, porticati,
rotonde.
Nel mio cortile una fontana balza e riaffonda dentro di sé,
un cuore monacale, cieca al mondo. Gigli di marmo
esalano il loro pallore come profumo.

Mi immagino con un grande pubblico,
madre di una bianca Nike e di molti Apolli dagli occhi
vuoti.
Invece i morti feriscono con loro attenzioni, e non
Può accadere nulla.
La luna mi posa una mano sulla fronte,
senza espressione e muta come un’infermiera.
 

Barren woman

Empty, I echo to the least footfall,
Museum without statues, grand with pillars, porticoes,
Rotundas.
In my courtyard a fountain leaps and sinks back into itself,
Nun-hearted and blind to the world. Marble lilies
Exhale their pallor like scent.

I imagine myself with a great public,
Mother of a with Nike and several bald-eyed Apollos.
Instead, the dead injure me with attentions, and nothing
Can happen.
The moon lays a hand on my forehead,
Blank-faced and mum as a nurse.

 

Probabilmente l’attualità delle poesie di Sylvia Plath consiste nell’aver lavorato per tutto il corso della sua vita artistica nelle prossimità del proprio limite, di aver fatto di preferenza, se così si può dire, opera di fortificazione più che di edificazione. In virtù di un talento cristallino la Plath si è mossa avanti e indietro nei territori concessi a lei per diritto di nascita, adattando la propria idea e la propria educazione all’ordine naturale di un paesaggio boschivo.

Questa poesia che per molto tempo si è voluta incentrata su una serie di divisioni forti e laceranti in realtà conosce molti momenti performativi, che a scadenza decennale, come ci dice la poetessa, andavano incontro a un irrimandabile conto col passato.
 

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
mi riesce–
[…] Ho trent’anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire.
Questa è la Numero Tre.
Quanto ciarpame
da annientare ogni decennio,
che miriade di filamenti.
(Da Lady Lazarus)
 

(Sylvia Plath, Tutte le poesie, trad. di Anna Ravano, Mondadori, 2013, pp. 870, euro 18)

“Dalla parte del cervo” degli EDAQ

Il disco degli EDAQ ti colpisce subito. In copertina campeggia una testa di cervo appesa a una parete. Questo personalmente mi costringe (con piacere) a ricordare le nostre meravigliose Alpi. Ma tali viaggi mentali non ci sono troppo utili. Anzi, il significato della copertina ce lo spiegano direttamente gli stessi EDAQ. Con le parole di Enrico Negro: «Sulla copertina c’è una testa di cervo: per noi è diventato una sorta di totem, dietro il quale ciascuno di noi, del gruppo, vede un suo mondo immaginario, a libera interpretazione. Sicuramente, almeno per quanto mi riguarda, Dalla parte del cervo è anche stare da una parte che non sia quella che prevarica con la forza o con la prepotenza le altre persone, la natura, insomma, un concetto che forse, di questi tempi, farebbe bene a essere rispolverato da molti».

L’Ensemble D’Autunno Quintet è una band piemontese e forse qualcosa di più, formata da Francesco Busso (ghironda elettroacustica), Gabriele Ferrero (viola, violino e mandolino), Flavio Giacchero (clarinetto basso e cornamusa), Stefano Risso (contrabbasso), Enrico Negro (chitarra acustica e classica) e Adriano De Micco (percussioni). Gli EDAQ sono figli dell’Associazione Grand-Mère, un collettivo che si occupa della promozione e della diffusione della musica tradizionale della Valle d’Aosta e del Piemonte, anche definita musica tradizionale delle Alpi Occidentali.

Questo loro esordio si intitola Dalla parte del cervo e contiene un armonioso sound popolare, che affonda le proprie radici in diversi generi europei: musica celtica, valzer, polca, ma sopratutto tanta musica delle valli occitane francesi e delle valli franco-provenzali della loro terra d’origine, il Piemonte. Non il solito folk, ma un complesso lavoro di ricerca e sperimentazione, dove brillano e si mescolano elementi di musica apparentemente inconciliabili: musica classica, jazz e persino elettronica. Tradizione e modernità, terra d’origine e suoni lontani. Un equilibrio mai messo in discussione. Gli EDAQ compiono un viaggio immaginario, quasi metafisico e, partendo dal loro Piemonte, raggiungono paesi e regioni lontane come la Bretagna, la Scozia, l’Europa dell’est, la Provenza ma anche un po’ d’Africa. Nelle dodici tracce che compongono questo esordio raccontano storie senza parlare, alternando lente ballate dal sapore medioevale a canzoni dense di energia e vitalità. Un disco che, grazie alla bellezza e all’originalità delle sue sonorità, farà innamorare gli appassionati del genere, ma anche coloro che rifiutano schemi e preconcetti.

«Una musica per avvolgere le orecchie e la danza, come la nebbia in autunno avvolge e vela i sensi, rimandandoci a un mondo onirico, pulsante, immaginifico».


(EDAQ, Dalla parte del cervo, Grand-mère, 2012)
 

“Sicilia. La fabbrica del mito” di Matteo Collura

Matteo Collura, giornalista e scrittore già autore di L’isola senza ponte e Sicilia sconosciuta, nel suo nuovo libro, Sicilia. La fabbrica del mito (Longanesi, 2013), ripercorre i miti, i misteri e i protagonisti della sua terra natale, l’Isola del sole, dalle primissime fuitine, passando ai fatti di cronaca arrivando alla mafia dei nostri giorni.

Che la Sicilia fosse una terra mitica lo si sapeva già, da sempre, ma in questo saggio l’autore racconta soprattutto fatti reali, storie di persone realmente esistite che, con le loro gesta, hanno segnato in un modo o nell’altro la storia di questa terra.

Tra i tanti, un antico modo di dire vuole che su quest’isola il diavolo abbia preso moglie, credenza riconducibile alla leggenda secondo cui fu proprio qui che avvenne il rapimento della bellissima Persefone, figlia della dea Demetra, per mano del dio degli inferi Ade; ritrovata la figlia, Demetra chiese aiuto a Zeus, dio dell’Olimpo, che riuscì soccorrerla, ma solo in parte: la giovane infatti avrebbe passato metà dell’anno con il suo rapitore e l’altra metà con la madre. Fu il primo matrimonio riparatore della storia.

Da questo mitologico episodio deriva forse il fatto che, in Sicilia, gli uomini ricorrevano alla violenza sessuale per convincere le donne che li rifiutavano, certi di poter utilizzare qualsiasi mezzo per “persuadere” le donne oggetto delle loro morbose attenzioni; oltretutto, il codice penale non puniva lo stupro se l’uomo accettava di sposare la vittima. Solo nel 1981 il Parlamento abrogò quell’articolo.

In questo contesto non si può non citare il nome di Franca Viola, coraggiosa sedicenne siciliana che nel 1965, dopo aver subito un rapimento e lo stupro da parte di un compaesano, si rifiutò di sposare il suo aggressore: «Non ti sposo. Piuttosto me ne starò in paese a fare la zitella. Mi trattino pure come un’appestata». Sì, perché in Sicilia, a quei tempi, ci sarebbe stato più onore nello sposare il proprio stupratore che nel rifiutarlo, per vivere poi come una «svergognata agli occhi della comunità».

E se il nome di Franca Viola va ricordato con orgoglio in quanto, come la definì un articolo della Stampa, «fu la prima ragazza italiana a rifiutare il matrimonio riparatore nella Sicilia degli anni Sessanta», non tutti gli altri protagonisti citati nel libro sono altrettanto meritevoli. Per citarne alcuni, i monaci mafiosi: frati francescani che fungevano da tramite tra i mandanti mafiosi e le povere vittime costrette a pagare il pizzo dietro minaccia di morte, minaccia fatta in prima persona dai monaci stessi, soprattutto a bambini: «Che bel bambino! Sembra vivo…».

Il libro di Collura permette a chi in Sicilia non ci è nato, e tante cose non le sapeva, di imparare qualcosa di più su questa terra tanto bella quanto piena di misteri e di contraddizioni, un luogo senza tempo, in cui le leggende non muoiono mai ma finiscono per intrecciarsi con la realtà. In conclusione: un libro accattivante che già dalle prime pagine incuriosisce il lettore guidandolo alla scoperta di una terra che è davvero fabbrica di miti.


(Matteo Collura, Sicilia. La fabbrica del mito, Longanesi, 2013, pp. 200, euro 18)

“Jack London. Vita, opere e avventura” di Daniel Dyer

«Sono nato proletario […]. Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me».

L’autore di queste parole è Jack London. Dicono bene l’incipit di una vita che vorrà sfidare l’angustia del destino da cui sembrerebbe segnata irrimediabilmente. E lo farà, è il caso di dire, come se fosse un romanzo. Ora, che a uno scrittore – un grande narratore – capiti in sorte anche una vita straordinaria (che abbia la capacità, il talento per una tale vita) non succede spesso (sennò dove sarebbe lo straordinario? A meno di non considerare tale la fuffa mondana di Jep Gambardella, che peraltro grande scrittore non è).

Jack London, notoriamente, rientra nel novero di queste eccezioni. Dell’uomo che volle essere scrittore contro ogni avversità, che partecipò alla corsa all’oro del Klondike, che fu cronista delle guerre in Messico e in Corea, ci racconta tutto Daniel Dyer in una biografia di recente traduzione presso Mattioli 1885: Jack London. Vita, opere e avventura, che contiene anche un archivio fotografico col bel faccione rubizzo del narratore di Il richiamo della foresta.

Dyer come narratore non sembra a sua volta un gigante ma conosce bene la materia. Ce la racconta a partire dal breve periodo che, nemmeno ventenne, London trascorse in carcere con l’accusa di vagabondaggio. Non doveva essere un motivo di particolare ansia viaggiare in treno senza biglietto per il giovane che già da bambino aveva dovuto guadagnarsi da vivere e mollare la scuola. Che «sapeva difendersi con i pugni quando era necessario» e che non sa che di lì a dieci anni sarà uno scrittore fra i più noti al mondo. Vocazione che gli è chiara da subito: un gran desiderio di vivere e nello stesso tempo di raccontare quel che gli capita. La formazione è per forza di cose irregolare, gli studi frammentari anche se contrassegnati dalla sua abituale voracità. Il socialista non immune da razzismo non sarà un teorico raffinatissimo ma vola alto: sa che un uomo per definirsi tale deve mirare ad ambizioni che implichino il superamento dei bisogni elementari dello stomaco e che un lavoro dignitoso è quello che almeno li assicura. L’idealista ebbe una tale fortuna che poté permettersi un ranch gigantesco e di sognare di farne una comunità totalmente autosufficiente. Con la moglie Charmian progettò un lungo viaggio «nei mari del Sud» a bordo dello Snark, uno yacht la cui costruzione «fu quasi un disastro». Incompetenza di chi lavorò al progetto, terremoti che distrussero quanto già costruito, spese che lievitavano di continuo; ma anche l’insofferenza degli editori di Cosmopolitan, la rivista che aveva anticipato parte del denaro per l’impresa in cambio di articoli che la raccontassero, decisa a regolare i conti. Il giorno in cui finalmente lo Snark puntò per le Hawaii, il 23 aprile 1907, «faceva acqua dappertutto». Contro ogni previsione, l’imbarcazione vide Honolulu nemmeno un mese dopo. Costretto dall’inettitudine altrui, lo scrittore «ammaliato dal mare» aveva imparato a navigare egli stesso. E alle Hawaii si cimentò anche nel surf.

Lo so, sembra troppo per qualsiasi letterato che non sia Hemingway (specie se ricordiamo che i due americani furono autori di alcuni storie bellissime). Ma che ci volere fare, Jack London era proprio fatto così.


(Daniel Dyer, Jack London. Vita, opere e avventura, trad. di Franca Brea, Mattioli 1885, 2013, pp. 170, euro 19,90)

[NTF6] “Une nuit à la présidence” di Jean-Louis Martinelli

La parola negli eleganti salotti africani striscia e ogni tanto alza la testa. Si nutre di sguardi fugaci e di promesse a metà. Presidenti africani nelle mani di consorti il cui spirito democratico termina laddove inizia la propria privata gelosia. Intermediari di multinazionali straniere con abiti dai colori ancora troppo coloniali. La parola inizia a far parte di un lessico deviato e deviante. Sottile s’insinua e mette in dubbio certezze troppo manichee. Una corrispondenza d’amorosi denari si svolge in un appartamento presidenziale. Promesse multinazionali e ori emergenti. Tutto è chiaro pur non assumendo mai la forma della parola, se non di quella biascicata, sussurrata. Perché davvero sarebbe troppo complesso sostenere il carico morale della parola urlata.

Umani, molto umani questi presidenti pseudo-democratici, questi intermediari strozzini di nazioni. L’umanità che avvolge il pubblico e per una buona ora mette in crisi la certezza del nemico da combattere. Quello di presidenti sanguinari e disumani, di multinazionali senza scrupoli. Il presidente di questo stato africano non è altro che una marionetta troppo greve per percepire la sofferenza altrui. L’intermediario della multinazionale non è altro che un rancoroso uomo ferito. L’incontro di due interessi, l’incontro di due uomini penosi, segue una strada già tracciata. Nient’altro, finché un gruppo di musicisti non decide di cantare quella parola che non può essere pronunciata. I musicisti sono cantastorie di una realtà privata del senso della pietà. La pietà si è persa nelle pieghe dei passaggi burocratici. Il mostro si è smaterializzato. La tragedia si compie e il carnefice non appare. Partire, perdersi nel deserto, sfruttati sessualmente, ubriachi di disperazione. La canzone rompe il ritmo della parola sussurrata dai poteri.

Il testo del regista Jean-Louis Martinelli sembra reggere bene agli attacchi dello scadimento banale in cui si può cadere quando si parla dei mali africani. Si intrecciano vicende personali e universali. Gli accenti variano e riescono a rendere il presunto carnefice senza colpa, almeno prima che venga messo con le spalle al muro. La regia, scarna ma incisiva all’inizio, si lascia però poi cullare eccessivamente da questa sapiente commistione. I personaggi iniziano a rimanere staticamente aggrappati ai propri ruoli, alle proprie pose. Il ritmo si sbilancia fortemente, approdando a una poetica sempre più persa in interventi didascalici. La scena diviene spettatrice di una spiegazione non richiesta. Il testo inizia a solidificarsi in modo sempre più evidente, perdendo ogni duttilità, al pari della regia, complice l’imbarazzante gestione dei sopratitoli. Si opta così per un dramma, quello africano, solo narrato, spiegato, mentre si perde l’occasione dell’esperienza di comprensione che solo il teatro sa offrire.


Une nuit à la présidence
testo Jean-Louis Martinelli
in collaborazione con Aminata Traoré
regia Jean-Louis Martinelli
con Bil Aka Kora, Malou Christiane Bambara, K. Urbain Guiguemde, Nongodo Ouedraogo, Odile Sankara, Moussa Sanou, Yannick Soulier, Blandine Yameogo, Wendy

“Giovani, artisti e disoccupati” di Cyrille Martinez

Andy Warhol ha incarnato il prototipo dell’artista eclettico, sensibile a molteplici influenze culturali e capace di porre domande sul concetto stesso di arte, schernendo gli equivoci presenti nella testa dei suoi fruitori. Per questo, non stupisce troppo un libro dedicato, come si apprende dal sottotitolo, alle avventure newyorkesi di Warhol e del poeta beat John Giorno, presentato qui come suo amante; o almeno di questo persuade la graziosa copertina rosa salmone di Giovani, artisti e disoccupati (Edizioni Clichy, 2013) di Cyrille Martinez.

Eppure, è andata ben diversamente: perché, anche accettando un immotivato e sconnesso andamento episodico, sarebbe stato auspicabile comprendere l’evoluzione dei personaggi, il rapporto fra l’assenza di trama ed episodi alquanto insipidi e la definizione di nuclei narrativi chiari e coerenti. Al contrario, i due artisti vengono definiti in maniera molto sommessa, mostrando il movimento circolare e ristagnante dei personaggi che animano gli eventi artistici di New York.

Attraverso un inizio che rende già percepibili i principali difetti del libro, la Grande Mela rivela il fascino snob degli artisti che vi si trasferirono nei primi anni Sessanta, eleggendola sede dei loro atelier e laboratori e conferendole un’aura inquieta e allettante. Sorge così il Quartiere degli Scrittori, una vera e propria città nella città improntata all’equazione fra scrittore e romanziere, e dove ogni altra forma di scrivente è bandita. Non si comprende se John e altri due amici si siano trasferiti lì, ma sappiamo che vivono in un appartamentino, chiamato «l’atelier», dove sono organizzate feste notturne che celebrano i sensi nella dissoluta libidine alcolica. John, aspirante poeta, rappresenta il disagio che la sua arte sconta verso generi letterari più amati dal pubblico. Andy è un artista che logora tutte le definizioni: coi suoi vivaci parrucchini e attraverso prodotti artistici inusuali esprime una verve iconoclasta, della quale si nutre anche la sfrontata esibizione della relazione sessuale fra di loro due.

Travolti sempre di più dal ciclo interminabile di vernissage e letture poetiche, Andy e il compagno John disegnano un mondo a loro misura, plasmato da anfetamina, cannabis e altre droghe di diversa natura. Il vino scivola incessante nel bicchiere di John, gran dormiglione, mentre Andy, aspettando il successo, consuma le notti in progetti ancora una volta eccentrici, fino a trovare il suo linguaggio. Quando poi riuscirà a farsi notare da Eleanor, una gallerista, avrà inizio la sua epoca d’oro, che Martinez narra fino alla performance di John che dorme su un letto, intitolata Il dormiente, incensata dal largo consenso dei critici.

La cosciente ripetitività dei temi e la vacuità di molte precisazioni, il patetico episodio dell’incontro con Eleanor e l’accidia dello scrittore verso l’indagine psicologica e descrizioni più approfondite rispetto a osservazioni su comodini e finestre, sottopongono il testo a un progressivo cedimento, che sfocia in un finale che passa inosservato. Considerando lo stile povero e il carattere modesto dei tentativi di Martinez di destreggiarsi con slanci ironici e piccanti, l’opera trae forza principalmente dall’interrogativo se questa sia davvero la storia di Warhol e Giorno, interrogativo che aleggia nelle prime pagine, ma che tuttavia si esaurisce in fretta. Non si tratterà, forse, di uno spunto narrativo con un potenziale retrogusto commerciale?


(Cyrille Martinez, Giovani, artisti e disoccupati, trad. di Francesca Martino, Edizioni Clichy, 2013, pp. 138, euro 14)

“Circo Itaglia” di Pep Marchegiani

«Peel slowly and see», scriveva Andy Warhol nel 1967, invitando i fan dei Velvet Underground a sbirciare sotto la buccia della sua mitica banana. E a quasi cinquant’anni da allora, quell’invito sembra ancora presente. Warhol dentro ci vide un pene; chi la sbuccia oggi forse ci vedrà una repubblica.

Questo forse è ciò che suggerisce Pep Marchegiani incidendo la sua versione del frutto pop per eccellenza sulla quarta di copertina di Circo Itaglia (Neo Edizioni, 2013), libro/album d’immagini d’esordio di quello che è uno degli attuali e più noti rappresentanti della Pop Art nazionale. Uscito il 15 febbraio, a distanza ravvicinatissima dalle ultime elezioni politiche, è un libro che parla con un linguaggio spregiudicatamente colorato, ostinatamente clownesco ma al tempo stesso reale, come è quello dei personaggi che ospita, raccolti qui e là dalla nostra scena politica.

«Molti dei nostri politici sono degli incapaci. I restanti sono capaci di tutto», recita Boris Makaresko nell’epigrafe che apre le porte di «Monkeycitorio», il circo che ha prestato a Marchegiani le facce e le voci che compongono le 112 tavole del libro. Eccoli allora i veri protagonisti, i clown, o meglio, i politici italiani ritinteggiati a nuovo, tragici eroi di un’epopea repubblicana che va avanti a suon di proclami istrionici, battute grottesche, uscite infelici e indimenticabili come tormentoni di cui però Pep non si prende nessuna responsabilità. A chi li disegna spetta soltanto il compito di presentarceli nella cornice che più gli si addice e di rivestirli della carica di cui si sono spogliati al loro ingresso nella «SEDE DELLA CAMERA DEI PREGIUDICATI», lasciando a loro libertà di parola assoluta.

 


 

Ed è proprio grazie a ciò che dicono, e che Marchegiani riporta intatto ad accompagnare le tavole dopo un attento bricolage massmediatico, che i personaggi mettono in luce tutto il loro potenziale circense. Il risultato si avvicina a qualcosa di simile ai manifesti elettorali a cui siamo abituati, solo più colorati, pop, irriverenti e disgraziatamente realistici.

Nel circo di Marchegiani c’è tutta la nostra classe politica: dai veterani come Napolitano alle new entry dello show politico come Grillo, senza dimenticare di ritagliare uno spazio doverosamente più ampio a chi più di tutti ha portato avanti la baracca con tanto impegno e ci la messo la faccia. Su tutti il «Bunga King» Silvio e quelli del governo «Mario & Monti», che oltre che clown sanno essere i testimonial perfetti per qualsiasi prodotto, in scatola e non.

 

 

Circo Itaglia, visto anche il periodo in cui arriva alle stampe, sembra voler essere un affresco composto da tanti piccoli ritratti che, al di là del singolo dettaglio, mettono in risalto la particolare pochezza di una classe dirigente abituata a farsi conoscere più per ciò che di imbarazzante li contraddistingue. La gaffe prende il posto dello slogan e, come un denominatore comune, anima il palazzo politico di clowneschi scivoloni che fanno ridere e raccapricciare. Un libro che possiamo circoscrivere al periodo in cui viviamo e votiamo, ma che sembra quasi voler essere un modo in più per tenere a mente ciò che è la politica oggi e ciò di cui invece abbiamo bisogno. Anche quando le persone non lo dimostrano, un libro è invece sempre un oggetto politico.

(Pep Marchegiani, Circo Itaglia, Neo Edizioni, 2013, pp. 132, euro 15)

“Romanzo criminale” di Stefano Sollima

Difficile, veramente difficile iniziare un discorso sulla banda della Magliana. La più grande organizzazione criminale conosciuta a Roma. In grado di invadere ancora le pagine di cronaca: vedi il caso Emanuela Orlandi. Pagine e pagine di storia della capitale, dalla fine degli anni Settanta in poi, che molti vorrebbero dimenticare. Ma che tanti altri vorrebbero tramandare, nella giusta maniera, alle generazioni future, perché i giovani possano prendere coscienza anche dei momenti più bui invece di ignorare l’ingombrante passato.

Nel 2002 è il giudice Giancarlo De Cataldo a catturare il grande pubblico con Romanzo criminale, un lungo libro atto a ripercorrere – ovviamente romanzando molti eventi – le vicende della banda della Magliana. L’eco del successo è rumorosissimo, tanto da portare alla trasposizione cinematografica del 2005 a opera di Michele Placido, accompagnato da un cast d’eccezione (Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino ed Elio Germano, solo per citare alcuni nomi della lunghissima lista) in grado di vincere ben 8 David di Donatello. Tre anni dopo sarà il momento del piccolo schermo.

Stefano Sollima ne è convinto: Romanzo criminale può diventare una grande serie tv. Sky concorda. E i ventidue episodi, prodotti da Cattleya, vengono trasmessi in anteprima proprio su Sky Cinema. Il Libanese, il Freddo, il Dandi e il resto della banda diventano i protagonisti di due emozionanti stagioni. Come prevedibile il pubblico si divide immediatamente: siamo di fronte a uno dei migliori progetti italiani mai realizzati o a un tremendo esempio per i giovani nonché una bruttissima pubblicità per Roma? I dubbi, bisogna ammetterlo, sono legittimi. Non posso nascondermi, dopo l’ultimo episodio l’ho quasi sussurrato: anche io, come molti altri, sono stato col Libanese. Ecco il rischio più grande: trasformare un gruppo di criminali in eroi, dei modelli. Ma non si può rinunciare alla realtà ponendo così poca fiducia nel giudizio del pubblico stesso: sì, sarò stato col Libanese, ma non ho pensato seriamente di prendermi Roma. Grazie al romanzo di De Cataldo, al film di Placido, alla serie di Sollima una grossa fetta di lettori e spettatori è entrata in contatto con un grande capitolo della storia moderna italiana, accompagnato dai grandi eventi che hanno segnato quegli anni, come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro o la strage di Bologna.

Per noi appassionati di show televisivi, Romanzo criminale rimane una delle migliori produzioni italiane. Meritevole di menzione nei secoli dei secoli. Spettacolare la cornice della capitale sullo sfondo, splendida l’interpretazione del giovane cast, quasi interamente romano e alla prima esperienza di alto livello. Impossibile dimenticare l’espressione perennemente minacciosa di Francesco Montanari nei panni del Libanese, o l’esuberanza del Bufalo (al secolo Andrea Sartoretti). Obbligatorio chiamare in causa Marco Giallini, il Terribile della serie, un cattivo carismatico più che mai, interpretato da uno degli attori più navigati di tutto il cast. La differenza la fa anche una colonna sonora unica e azzeccatissima, tra hit dance come “You Make Me Feel (Mighty Real)” di Sylvester – dipinto con epiteti da non ripetere dal Libanese e dal Freddo poco convinti – o una “Cuccurucucù” da brividi nella seconda stagione.

Quasi impossibile non appassionarsi alle vicende della banda dopo tutte le ore passate insieme. Alla fine dell’ultimo episodio è innegabile il legame creato con i protagonisti. Da parte mia, arrivano solo i ringraziamenti per questo lavoro, perché Romanzo criminale non deve essere un esempio ma una lezione di storia, e ne abbiamo bisogno un po’ tutti.


 

“Quello che non c’è scritto” di Rafael Reig

Eccoci alle prese con un romanzo per cuori forti, o meglio con due romanzi, uno all’interno dell’altro. Quello che non c’è scritto di Rafael Reig, (Marcos y Marcos, 2013), è un libro breve e di effetto che si insinua nella vita quotidiana di molte famiglie divorziate e nell’intimità di noi lettori.

La trama, tutto sommato, è semplice; è la narrazione a dare al romanzo uno spessore e una complessità interessanti: un marito, Carlos, e una moglie, Carmen, si lasciano dopo un matrimonio tumultuoso. Come spesso accade, la vera vittima del divorzio è il figlio, Jorge, che resta con la madre dopo un procedimento legale gestito con grande maestria – e con un certo cinismo – dalla sua avvocatessa. Secondo il padre, Jorge cresce quindi troppo attaccato alla madre, prendendo il peggio di Carmen, il suo sguardo accusatorio e il giudizio sempre pronto, e assumendo tutte quelle caratteristiche che un padre un po’ padrone, di quelli della vecchia scuola, non apprezza: goffaggine, timidezza, incapacità di relazionarsi. In questo universo dai toni ben poco rosei si intromette la nuova fiamma di Carlos, o per meglio dire la sua nuova-vecchia fiamma, Yolanda, sua passione prima del matrimonio. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione da parte del tribunale a stare insieme al figlio in piena autonomia, dopo anni di vigilanza stabilita senza dubbio con una giusta causa, Carlos porta Jorge in montagna per un weekend padre e figlio durante il quale conta di comunicargli qualcosa di importante, senza avere il coraggio di farlo effettivamente. Prima di andarsene da casa di Carmen, le lascia – non si capisce se volontariamente o no – una bozza del suo romanzo, l’apparente realizzazione di un suo sogno artistico da tempo cullato. E qui inizia il romanzo dentro al romanzo.

Il manoscritto di Carlos si alterna al racconto principale e narra una Madrid violenta in cui un uomo dalle risorse piuttosto limitate progetta e mette in pratica il sequestro di una ragazza di famiglia agiata per trarne il maggior vantaggio economico possibile: qui Carmen e il lettore di Reig diventano un tutt’uno, le considerazioni della donna sono in realtà considerazioni più universali. Carmen, infatti, legge sì il manoscritto, ma legge anche quello che non c’è scritto, quello che secondo lei l’autore lascia intendere. Vede nella violenza del libro quella che Carlos aveva esercitato sul figlio, vede nei desideri sessuali più perversi dei vari personaggi le molestie che aveva accettato durante il matrimonio, dalle fotografie sconce alla soddisfazione del piacere del marito a scapito del suo, associa le chiamate a cui padre e figlio non rispondono al rapimento di cui legge nel libro con crescente apprensione e, soprattutto, convince noi lettori della presenza di un ineluttabile secondo fine nell’uscita fuori porta di Carlos e Jorge. Rivanga il passato, lo disconosce, disconosce il suo presente, la sua attuale vita di amante del proprio capo, e cerca di giustificare le azioni giudiziarie intraprese contro Carlos tentando di scaricare la colpa sulla sua avvocatessa. In parallelo, Carlos sta facendo la stessa cosa osservando Jorge, giudicandolo e giudicandosi, e a sua volta il bambino è inquieto, sicuro di non essere che una delusione per il padre.

L’impossibilità di separare le due finzioni narrative rende il romanzo avvincente, lo riempie di tensione, fa provare pena per una madre angosciata, per un padre incapace di gestire le numerose pressioni cui è sottoposto e, soprattutto, di trattenersi dal bere per fronteggiarle. Pena per un figlio che non riesce a vedere, dietro la durezza e il rifiuto del padre, il suo amore, e che ne trae le sue conseguenze durante quello che avrebbe dovuto essere un fine settimana di poco fuori dalle righe.

Un incontro tra un romanzo psicologico e un thriller, Quello che non c’è scritto merita senza dubbio una lode per lo stile, l’inventiva e i temi quotidiani affrontati in modo insolito.

(Rafael Reig, Quello che non c’è scritto, trad. di Francesca Conte e Claudia Tarolo, Marcos y Marcos, 2013, pp. 316, euro 17)

“Versioni di me” di Dana Spiotta

«Da grandi, Nik e Denise si sarebbero detti di aver avuto un padre tremendo. Faceva le sue apparizioni sempre a caso, e un bel giorno se n’era andato per sempre. “Sarebbe stato un ottimo zio”, le aveva detto Nik l’ultima volta che ne avevano parlato. “Il perfetto zio porta-regali una volta l’anno, che può farti un resoconto su quanto sei cresciuto e poi giocare alla lotta per due minuti prima di versarsi uno scotch e andarsene”».

Il rapporto padre-figlio è uno dei topoi della cultura nordamericana. E da queste poche frasi tratte dalle prime pagine di Versioni di me di Dana Spiotta (minimum fax, 2013), si potrebbe pensare che anche questo romanzo si collochi in questo arcipelago narrativo, ponendosi come l’ennesima – anche se non sarebbe per questo degna di minore attenzione – storia americana sul rapporto tra i padri e i figli, tema caro a tanta letteratura d’oltreoceano – basti pensare a romanzi quali Pastorale americana di Roth e Le correzioni di Franzen –, ma anche alle narrazioni cinematografiche e televisive, come dimostrano la pellicola The Tree of Life di Terrence Malick e la serie televisiva Six Feet Under. Il romanzo della Spiotta, però, pur non abdicando del tutto questa vocazione al racconto dei rapporti intergenerazionali, fa un passo avanti e narra la storia di due fratelli, Nik e Denise, entrambi ormai alla soglia della mezza età, in una Los Angeles che trasuda vita e morte al tempo stesso.

Un tempo un rocker di successo, poi caduto in disgrazia, oggi Nik lavora come barista in un locale, vivendo alle spalle della sorella, divorata – fisicamente, ma soprattutto psicologicamente – dallo scorrere del tempo. Se Nik trova un’evasione e una consolazione alla propria frustrazione nel redigere quelle che lui chiama «Cronache» (il diario – fatto di lettere e recensioni fasulle – di una carriera musicale folgorante, ma soprattutto totalmente inventata), Denise riuscirà a rappacificarsi con la vita soltanto nel momento in cui si vedrà costretta a ripercorrere l’autobiografia romanzata del fratello, che all’indomani del suo cinquantesimo compleanno scompare gettando la sorella nella disperazione.

Come Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, anche Versioni di me racconta lo scorrere del tempo e le sue ricadute, questa volta però sulle vite di due fratelli molto, troppo diversi fra loro per non cedere alla tentazione di amarsi indiscriminatamente. Ed è nelle poche righe riportate in apertura, che si trova racchiusa l’essenza del romanzo, perché quel padre che «faceva le sue apparizioni […] e un bel giorno se n’era andato per sempre» non è altro che la passata giovinezza (e i sogni e le speranze che questa recava con sé) dei due protagonisti, quella stagione della vita che può trovare una poetica rappresentazione in una metafora che la veda come uno «zio porta-regali […] che può farti un resoconto su quanto sei cresciuto», nel bene e nel male, «e poi giocare alla lotta per due minuti prima di versarsi uno scotch e andarsene» chissà dove, da solo, e questa volta per sempre.

(Dana Spiotta, Versioni di me, trad. di Francesco Pacifico, minimum fax, 2013, pp. 249, euro 16)