“Libro” di José Luís Peixoto

Un romanzo così profondo che si insinua sotto pelle.

Libro, di José Luís Peixoto (Einaudi, 2013), ti travolge e non ti lascia possibilità di movimento: immobile, sospeso nel tempo affronti  il tuo viaggio epico insieme al piccolo Ilìdio, solo e in attesa, accanto alla fontana di un piccolo paesino portoghese.

Libro inizia con un abbandono. La madre pone nelle mani del figlio un libro e gli raccomanda di «non dimenticarlo mai», come se il loro legame potesse essere riposto in quell’oggetto. L’ultimo abbraccio e poi l’addio silenzioso.

Quel bimbo innocente, tanto amato, ogni giorno le ricorda la paura che ha del padre: «una paura scura e mortale», lei non ne parlava mai ma in quei silenzi c’era odore di violenza.

La tristezza di quel giorno pregna per sempre il suo cuore di bimbo. Ilídio cresce allevato da Josué, diventa un ragazzo vivace e si innamora perdutamente di Adelaide, l’unica donna che abbia mai amato oltre a sua madre. Quel sentimento candido viene minato dalla partenza improvvisa dell’amata, obbligata dalla zia ad attraversare il confine della Francia clandestinamente. Adelaide è terrorizzata, si sente «sanguinare dentro, sentiva che l’interno della pelle le sanguinava e che tutto quel sangue si accumulava, liquido, spesso, e che sarebbe bastato sfiorarle un lembo per farlo travasare fuori e ucciderla».

Questa volta, però, Ilídio non rimane fermo ad aspettare ma decide di combattere per loro, affrontando un viaggio impervio e pericoloso.

I giovani protagonisti abbandonano quindi la tranquilla vita rurale dell’entroterra portoghese e vengono scaraventati nelle assordanti strade della mitica Parigi, «vero e proprio oceano» di profondità, come la definì Balzac; ne vengono inghiottiti e si perdono. Il loro candido amore viene serbato fuori dal tempo e dalle impurità.

Il romanzo sembra accingersi a una tragica conclusione, quando Peixoto ci proietta, senza preavviso, nella seconda parte della narrazione. È allora che scopriamo l’identità del narratore e lo conosciamo tramite i suoi libri: «i libri che ho sugli scaffali compongono il disegno di me stesso: ciò che voglio ricordare e ciò che non voglio dimenticare», si rivolge al lettore in prima persona, interagisce con quest’ultimo e lo rende fruitore attivo dell’opera.  L’autoreferenzialità della seconda parte del romanzo ci conduce a una riflessione sull’oggetto-libro, già suggerita a partire dal titolo:  Libro non è solo il libro che il piccolo Ilídio porta sempre con sé; ma in sé abbozza il ritratto dell’autore e, ancor più, riflette l’immagine di un’intera nazione.

È un libro pregno di emozioni e di grandi dolori che trascina il lettore sulle tracce di un immane accadimento storico degli anni Sessanta: l’emigrazione clandestina verso la Francia di migliaia di portoghesi. Peixoto ha composto un’opera molto ambiziosa dal titolo audace: Libro vuole imporsi come il libro patriottico, così dichiara l’autore, della letteratura portoghese. Lo scrittore sente il forte bisogno di raccontare ciò che ha ascoltato durante tutti i pranzi di famiglia: la grande emigrazione. Vuole narrare il disagio vissuto da un’intera popolazione, ne sente l’esigenzarecondita. Si incorona nuovo scrittore-vate, si libera così di un dovere o, come lo definì lui stesso, di un segreto. Compie questo atto eroico per sé, per la sua famiglia e per rendere giustizia a tutti quei portoghesi che in Francia non sono mai arrivati, non vuole permettere che vengano dimenticati.

Peixoto urla la violenza e la sopravvivenza di un popolo per riaffermarne la dignità nazionale: un libro intenso, tagliente, che ti lascia la sola amarezza di essere già giunto alla fine.

(José Luís Peixoto, Libro, trad. di Sandra Biondo, Einaudi, 2013, pp. 304, euro 16)

“L’estasi dell’influenza” di Jonathan Lethem

«Il mio lettore potrebbe, a ragione, essere sul punto di esclamare: “Comunista!” Una società aperta, variegata e moderna non può prosperare senza qualche forma di proprietà intellettuale. Non ci vuole una gran riflessione, però, per capire che c’è un’ampia quota di valore che il termine “proprietà” non è in grado di catturare».

Nel 2007, sull’Harper’s Magazine, esce un pezzo di Jonathan Lethem dal titolo «L’estasi dell’influenza»: punto centrale, l’influenza nell’arte, che non è né si tramuta in plagio. È così che l’autore di Brooklyn senza madre formula un’affascinante teoria sostenendo che la compresenza di un’economia di mercato e di dono all’interno dell’opera d’arte risulta fondamentale per capire che il riferimento, fino alla copiatura più appariscente, è arricchimento, è continuazione. Da Nabokov a Walt Disney, passando per Bob Dylan. Si ribalta così il punto di vista dell’idea bloomiana di angoscia dell’influenza, per cui i grandi scrittori post Canone hanno sempre avuto a che fare con il Canone, Shakespeare in primis, in modo diverso Dante e Cervantes, in un continuum fatto della costante dimostrazione di essere all’altezza di quel pilastro occidentale da cui non si può fuggire.

Attorno a questo pezzo è stata costruita, per l’appunto, L’estasi dell’influenza (Bompiani, 2013) una raccolta di articoli, opinioni, saggi, briciole autobiografiche riunite in un solo volume.

La sua Brooklyn e il lavoro come libraio, ovvero ciò che sarebbe stato se non fosse diventato uno scrittore; la passione per i fumetti e per il cinema: da una classifica spiccatamente avantpop dei cinque supereroi più depressi, a proposte per un ipotetico Il padrinoParte IV; il reputare le serie tv non degne dell’appellativo “opera d’arte”: troppo eteree, non inserite in un quadro, senza contorno; l’importanza di Calvino, Dick e Ballard nella sua formazione di scrittore e di lettore, e come, una volta deciso di andare a conoscere i primi due (l’autore italiano avrebbe dovuto tenere un incontro presso la libreria Cody’s Books, Berkeley, oltre al ciclo di lezioni ad Harvard mai avvenuto e che poi ha dato alla luce le Lezioni americane, dove Lethem aveva deciso di recarsi), pensò di aver subito un torto personale dopo aver saputo del loro decesso; l’11 settembre e le ripercussioni sulla società; e poi cosa accadrebbe se certi film fossero stati scritti all’epoca del cellulare; l’amore per la musica, l’incontro con James Brown, l’intervista a Bob Dylan, Otis Redding e Rick James; i suoi anti-Rushmore letterari fino ai surreali racconti su Drew Barrymore.

Una testimonianza intellettuale tanto controllata quanto emotiva: carta che sembra fatta della sostanza del web, riferimenti continui, velocissimi, “ipertestuali”, che consolidano l’autore de La fortezza della solitudine come punto di riferimento della generazione post DeLillo-Coover-Barth.

In fondo, una forma mentis protesa a pensare che la creazione artistica non parta dal nulla, ma dal caos: sembra quasi la sinossi postmoderna del primo principio della termodinamica. Sarà plagio questo?


(Jonathan Lethem, L’estasi dell’influenza, trad. di Gianni Pannofino, Bompiani, 2013, pp. 607, euro 23)

[IlLive] Il Teatro degli Orrori @Villa Ada Festival 2013

Non serve un motivo specifico o un pretesto per vedere un concerto de Il Teatro degli Orrori. Sicuramente aiuta la loro scelta di riproporre per intero il capolavoro A Sangue Freddo. La rock band indipendente, mai paga di girare l’Italia e d’incendiarne i palchi, ha avuto la magnifica idea di allietare i tanti sostenitori onorando traccia per traccia uno dei dischi intoccabili della storia della musica italiana recente.

La cornice ve l’abbiamo già presentata: il Villa Ada Festival 2013. Giovedì 20 giugno, per il ventennale di “Roma incontra il mondo”, Capovilla e soci hanno regalato una delle loro solite performance. Furiosi e carichi. Poetici e toccanti, quanto noise e martellanti. Il Teatro degli Orrori consolida – se mai ce ne fosse bisogno – la reputazione di band imperdibile dal vivo.

È bello guardarsi intorno e vedere l’eterogeneità del pubblico: giovanissimi e adolescenti in prima fila che non smettono un secondo di pogare, e via via verso il fondo, a crescere d’età. Sono pochissimi i gruppi in Italia ad avere un seguito del genere. Tra i motivi ci sono sicuramente il carisma e l’impatto di Pier Paolo Capovilla.

Ogni canzone viene recitata, vissuta, donata agli spettatori. Dal delicato inizio di “Io ti aspetto” fino al fragore che accoglie due autentici pezzi-bomba: “Due” e l’inno “A sangue freddo.” La scaletta segue la track-list dell’album, mostrando ancora una volta come il lavoro del 2009 sia composto solamente da canzoni fantastiche. Inaspettato il duetto con Marina Rei, durante uno dei loro pezzi più famosi e struggenti: “Direzioni diverse”.

Sempre altissima l’atmosfera che accompagna un momento-cult del Teatro, ovvero “Majakowski”. Il concerto di Villa Ada (aperto dai bravissimi Nadar Solo) permette inoltre di rivivere brani che adesso la band propone di meno, ma sempre efficacissimi: “Alt!” e “La via è breve” su tutti. Mentre “È colpa mia” è un altro cavallo di battaglia che sia Il Teatro degli Orrori sia il pubblico non si stancano mai di urlare.

È questo il segreto de Il Teatro degli Orrori: unire la cultura, l'impegno civile e sociale, con un rock possente e graffiante. Alla vena attoriale, recitativa e letteraria di Capovilla combacia perfettamente la tecnica senza pari di Favero, Valente e Mirai.

Impreziosito da bis davvero inaspettati e per questo gradevolissimi, come “Refusenik” e “Nostalgia”, il concerto de Il Teatro degli Orrori a Villa Ada ha dimostrato ancora una volta quanto può essere grande il solco che il gruppo può lasciare nel cuore e nei ricordi del pubblico. Nella speranza di rivederli presto, con o senza un pretesto.

“Addio a Berlino” di Christopher Isherwood

«Domani parto per l’Inghilterra. Tornerò qui tra qualche settimana, ma solo per prendere le mie cose prima di lasciare Berlino per sempre». Con queste parole, Christopher Isherwood si concede in prima persona in Addio a Berlino (Adelphi, 2013), conclusione amara e silenziosa di un intensissimo soggiorno berlinese.

Lo scrittore arriva nella capitale tedesca alla fine della repubblica di Weimar, dove sono ancora visibili, e forti, l’agiatezza e lo splendore ritrovato dell’epoca d’oro di Stresemann, dopo le nefaste vicende della grande guerra. Isherwood è attirato dalle luci scintillanti dei cabaret, dei seminterrati adibiti a palcoscenici, dove si esibiscono guitti, ricchi signori, artisti squattrinati e libertini, in una versione europea e molto più decadente degli americanissimi ruggenti anni Venti.

Lo scrittore inglese, nei suoi anni a Berlino, intraprende un doppio esercizio di scrittura, e contrappone al suo terzo romanzo, Mr Norris se ne va (Einaudi, 1993), la scrittura del suo più personale diario di quel periodo, dove in prima persona, e da grande intellettuale, racconta, riporta e analizza uno dei momenti più importanti e tragici del Novecento, ovvero il tramonto della repubblica di Weimar e l’avanzata nazista. In quegli anni la città tedesca è un grande crocevia di viaggiatori, intellettuali, politici, tutti mossi da una curiosità storica che in quel momento non aveva ancora dato le sue tragiche conclusioni.

La fauna che incontra Isherwood è a dir poco sopra le righe, da inquilini alloggiati presso le dimore di anziane signore, trasformatesi in affittacamere, a rampolli dell’alta borghesia; dai fugaci incontri notturni, ai rapporti umani più intensi e duraturi; tra questi, su tutti, spicca la personalità di Sally Bowles, giovane cantante di cabaret e aspirante attrice, spigliata, avventuriera, arrivista, pronta a tutto pur di consacrarsi a sparuti attimi di ricchezza materiale.

Isherwood racconta con lucidità le persone e i cambiamenti sociali che la Germania, e tutta l’Europa, stavano vivendo in quegli anni. Con grande ironia e perspicacia, lo scrittore si sofferma soprattutto su come il popolo medio si sia pian piano assuefatto all’avanzata nazista, giudicata in un primo momento con superficialità, paragonata a poco meno che a manifestazioni folkloristiche, analizzando e riscontrando una certa riprovevole e pericolosa imparzialità. E colui che è imparziale durante uno scontro, quasi sempre, alla fine, parteggerà per il vincitore, il sopravvissuto, che sia esso angelo o demonio. Meglio vivo che sopraffatto devono aver pensato in tanti in quel momento, dopo che di punto in bianco, la marcetta di giovani fanatici in uniforme, con svastiche in bella mostra, divenne qualcosa di diabolico e irreversibile.

Isherwood punta il dito verso coloro che sono stati silenti spettatori, quasi divertiti, di ciò che in molti ritenevano nient’altro che una pagliacciata, e da grande intellettuale previene, annuncia. L’autore quindi conclude che un tempo allegro, fatto di cabaret, caffè e risate sguaiate, e musica, e fumo, e alcol, e pensieri, sta giungendo al termine.

Le ultime pagine di Addio a Berlino sono una lunga e lenta dissolvenza, in cui ogni riga sembra corrispondere alla chiusura d’una luminosa finestra, di un unico grande e fumoso cabaret, come si serravano le grandi case prima di partire per le vacanze estive, lasciandosi alle spalle le stanze vuote. Una vacanza mai interrotta: «I tram, e la gente sui marciapiedi hanno un’aria curiosamente familiare; assomigliano in maniera impressionante a qualcosa che in passato ci è apparso normale e piacevole», che si ripiega su un’amara e struggente constatazione esistenzialista: «No. Ancora adesso non riesco a credere che tutte queste cose siano accadute davvero».


(Christopher Isherwood, Addio a Berlino, trad. di Laura Noulian, Adelphi, 2013, pp. 252, euro 18)

“Lineamenti – I nuovi volti e confini delle mafie”: a tu per tu con Consuelo Cagnati

«Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia […] Gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… »

È Leonardo Sciascia a scrivere queste righe tratte da Il giorno della civetta, anno 1961.

Cinquantadue anni sono trascorsi dalla pubblicazione di questo importante libro, il più venduto e celebre dell’autore siciliano. Queste sue parole, queste sue considerazioni sono ancora fonte di riflessione e di ispirazione per tanti. Di indagine, di lotta e di impegno per altri ancora.

Un’opera “contemporanea” perché nulla è cambiato. Profetica, perché anticipatrice di tempi e storie. Linee che collegano, lineamenti che uniscono luoghi all’apparenza distanti, tratti, segmenti, strisce, tracce sparse che dal Sud, dalla Sicilia, dalla Campania e dalla Calabria arrivano al Nord Italia, a quella Milano considerata oggi «la capitale economica della ’ndrangheta», fino all’Europa e anche oltre. Il tutto, inquinando e diffondendo quel nauseabondo olezzo di malaffare ben al di là dei confini entro i quali si tendono usualmente a ingabbiare.

Lineamenti – I nuovi volti e confini delle mafie è lo spettacolo ideato, scritto e interpretato da Consuelo Cagnati e Andrea Maurizi del Teatro delle condizioni avverse, che Flanerí ha visto in anteprima al Teatro Tordinona di Roma e che sarà prossimamente in scena il 22 giugno a Viterbo, il 26 a Belluno e il 27 a Vicenza. Queste le date certe, ma Lineamenti, realizzato in collaborazione con Libera, l’associazione antimafia fondata da Don Luigi Ciotti, è uno spettacolo teatrale indipendente e nuove date si aggiungeranno successivamente. «Saremo in scena tutta l’estate» garantisce Consuelo che abbiamo incontrato dopo lo spettacolo. Dalla storia di Peppino Impastato, inoltre, è tratto un altro spettacolo della stessa compagnia e degli stessi autori, Malacarne, il 23 e 24 giugno in scena rispettivamente a Lecce e Taranto.

Passione e dedizione sono gli elementi caratterizzanti di chi lavora e fa teatro indipendente. Quando si parla di teatro civile, e antimafia per giunta, parlando di storie e cose concrete, elencando nomi e numeri, le difficoltà aumentano. Lineamentiè liberamente tratto da due libri importanti: Alveare – Il dominio invisibile della ndrangheta del nord di Giuseppe Catozzella (Rizzoli) e Gotica – ndrangheta, mafia e camorra oltre passano la linea di Giovanni Tizian (Round Robin).


Uno stile di scrittura e messinscena che ricorda quello inaugurato proprio da Peppino Impastato con la sua Radio Aut a Cinisi e il suo prendersi gioco di «mafiopoli». Palco spoglio, fondo nero, due piccole scale rosse, un asse di legno, alcuni nastri bianchi e rossi, una caffettiera e pochi altri oggetti sono gli unici elementi che accompagnano i circa sessanta minuti di Lineamenti. Il tutto intercalando momenti di satira e sberleffo ad altri più seri. Consuelo, che preparazione ha la stesura di un copione così denso?

Per evitare di mettere troppa carne al fuoco abbiamo scelto di individuare alcune macro aree, degli argomenti di partenza, dai quali poi tirare le linee della nostra rappresentazione. E quindi: speculazione edilizia, video poker, malasanità, e poi i Comuni sciolti per mafia, il caffè… Il paragone con Peppino ci lusinga. Quello della irrisione sarcastica era proprio lo strumento che lui e i suoi compagni interpretavano in quegli anni nella piazza di Cinisi contro Tano Badalamenti, il boss del paese. Alternando momenti più divertenti recitati da Andrea, come l’improbabile capocosca incappucciato della banda della Magliana incapace dei riti ancestrali con santini e puncicate nello stile di Cosa Nostra, e i miei monologhi più seri abbiamo cercato di trovare il giusto equilibrio. Mettere in scena uno spettacolo così e recitarlo è anche semplice per chi fa teatro. Scriverlo è stato più complicato. Tante interviste, studio, letture. Quando abbiamo capito che avevamo bisogno di due storie “calde” ci siamo rivolti a Tizian e Catozzella.


Il teatro civile è narrazione ma anche informazione. Per catturare il pubblico ci vogliono storie forti, appunto, e una messinscena accattivante…

Avevamo bisogno di personaggi che si muovessero all’interno di una situazione e che man mano raccontassero le varie problematiche in prima persona. L’asse portante dello spettacolo sono le due storie di Giovanni e Giuseppe, racconti di vita vissuta, del lavoro quotidiano di due giornalisti che con il loro bagaglio di origine meridionale, arrivano al nord, Emilia e Lombardia, e notano che anche in questi luoghi le cosche sono padrone del territorio.


Le storie di Giovanni, calabrese e figlio di vittima di mafia, e poi quella di Giuseppe, che racconta di suo padre immigrato sardo che già negli anni ’60 fa il cameriere in un grande hotel e si ritrova, lui innocente e stoicamente contrario, circondato da colleghi affiliati alle ’ndrine. È qui che vi è venuta in mente la celebre metafora della linea della palma di Sciascia?

È stato automatico il collegamento. Le linee della palma, del caffè forte e del caffè concentrato. Lo stesso Tizian parla di linea gotica nella sua inchiesta. E da qui è sorta l’idea di un palco spoglio e tante linee e nastri, e assi, come meccanismo narrativo. E poi il caffè… Ecco proprio l’apparente innocenza di una cosa per noi italiani normale e quotidiana come il caffè è fortemente significativa in ambienti mafiosi. «La mafia sta nel caffè del mattino», dico a un certo punto di un mio monologo, in una frase tratta da Alveare di Catuzzella. Il caffè, infatti, in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione e lo impongono ai commercianti. C’è poi il carattere simbolico dell’apparentemente banale «offrire un caffè» che in Sicilia, come in Calabria e Campania il mafioso ti offre e assume un significato quasi di affiliazione. Stesse costrizioni si hanno con le macchinette del video poker imposto in bar e locali.


Tutti elementi che vengono condensati in appena un’ora intensa di messa in scena, dove citate, con abili stratagemmi satirici, anche Andreotti e le inchieste che toccano personaggi vicini a Berlusconi, come lo stalliere Mangano e Dell’Utri, legati alla nascita di Forza Italia.

Il nostro obiettivo era quello di “toccare” con la battuta dei monologhi di Andrea le indagini su “pezzi grossi”. «Oggi le mafie non cercano più i politici da corrompere. Si candidano direttamente loro» diciamo, citando Piero Grasso, nello spettacolo.Poi ci focalizziamo, però, sulle storie tangibili e reali che raccontano Giovanni e Giuseppe nelle loro inchieste dove la mafia calabrese, silenziosa, nascosta, poco eclatante rispetto a siciliani e campani, è invece la più inserita ed efferata. Infine, il tocco di speranza con il capitolo dei beni confiscati alle mafie che sono la grande vittoria di Libera e della lotta alla mafia. Che sequestra i beni ai mafiosi. Luoghi a cui viene data nuova vita, dove i giovani possono incontrarsi e raccontare anche queste storie, storie di legalità, storie di persone semplici ma eroiche, che quando vengono rivelate ai più giovani, nelle scuole, negli oratori, e in altri punti di aggregazione, formano le coscienze e gli uomini e le donne del futuro. Giuseppe Catozzella e Giovanni Tizian sono i due giornalisti che con i loro libri hanno reso possibile questo copione e questo spettacolo. Non tanto, però, per le cronache che raccontano, quanto per i motivi che li hanno spinti a raccontarle. Lineamenti non parla solo di loro, perché «ognuno di noi ha una quota di responsabilità», come dice Don Ciotti, «questo spettacolo parla di tutti noi. Parla della nostra quota, di cui dobbiamo farci carico, affinché non ci siano più eroi solitari».

 

Giovanni Tizian, 30 anni, giornalista della Gazzetta di Modena, Narcomafie è dallo scorso 29 dicembre sottoscorta per il suo libro Gotica, nel quale racconta delle infiltrazioni della ’ndrangheta in Emilia. Il padre Giuseppe è stato ucciso nel 1989 a colpi di lupara a Locri, perchè era banchiere onesto e non aveva voluto far favori ai clan.

Giuseppe Catozzella, ha 37 anni, collabora con L’Espresso e tiene un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Del suo ultimo romanzo-inchiesta, Alveare, la casa di produzione cinematografica Wildside ha acquistato i diritti cinematografici, e sono stati tratti tre differenti spettacoli teatrali.


Lineamenti – I nuovi volti e confini delle mafie
di e con
Consuelo Cagnati e Andrea Maurizi


Prossime date:

22 giugno – Sala Gatti – Viterbo,
26 giugno – Piccolo Teatro Pierobon di Paiane– Belluno
27 giugno – Parco Retrone ai Ferrovieri– Vicenza

“Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino

«Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto».

È il 1979 quando Italo Calvino sceglie di affidare il ruolo di protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore al destinatario unico e molteplice del romanzo: il Lettore.

Fin dal primo capitolo, la scelta di utilizzare il tono informale della seconda persona nella forma rigida dell’imperativo si rivela sistematica e utile a suggerire l’ impianto rigoroso, ma leggero, che è alla base del testo. Nello spazio anonimo e sfocato di una comune stazione ferroviaria, la trama sfuggevole e inconsistente del primo incipit sembra contrapporsi al realismo casuale e ben definito degli eventi successivi.

L’anomala ripetizione di frasi e interi paragrafi di testo, costringe il protagonista, dopo circa trenta pagine, a interrompere la lettura e a recarsi il libreria per sostituire la copia evidentemente sbagliata del suo libro. Qui, di fronte all’impassibile consapevolezza dell’errore di legatoria da parte del libraio, l’esperienza di lettura sospesa, che a primo impatto aveva infastidito notevolmente il Lettore, diventa occasione di incontro e condivisione con la lettrice. Ludmilla conquista così il suo ruolo di personaggio chiave intervenendo, silenziosa, a modificare il corso degli eventi, fra le pareti di una libreria.

Nel successivo e continuo frantumarsi dell’azione narrativa, animata dalle figure antagoniste di Lotaria (sorella di Ludmilla) e di Ermes Marana (subdolo de-costruttore di storie), l’indagine del reale concentrata nei dieci incipit interrotti e l’apparato classico dei dodici capitoli della storia d’amore fra il Lettore e Ludmilla si alternano su livelli contrapposti ma tra loro in equilibrio.

L’impalcatura formale si definisce, quindi, in maniera progressiva attraverso l’espediente tecnico dell’incipit, l’interruzione istituzionalizzata della trama e, non da ultimo, attraverso il rimando consapevole, e non semplicistico, ai classici delle Mille e una notte, dell’Orlando furioso e, più in generale, della storia d’amore. È così che Se una notte d’inverno un viaggiatore diventa un classico; è così che riesce a tradurre la lettura in esperienza sensibile.

Quando poi, fra le righe del “Diario dello scrittore Silas Flannery”, la scrittura di Calvino diventa critica, il fascino della lettura come attività suprema e inafferrabile entra in campo insieme al tema della contrapposizione fra mondo scritto e mondo non scritto e della riflessione meta-romanzesca.

«Metto l’occhio al cannocchiale e lo punto sulla lettrice. Tra i suoi occhi e la pagina vola una farfalla bianca. Qualsiasi cosa lei stesse leggendo ora certo è la farfalla che ha catturato la sua attenzione. Il mondo non scritto ha il suo culmine in quella farfalla».

Qui lo scrittore annulla «se stesso per dar voce a ciò che è fuori». Lo sforzo che il testo richiede per farsi comprendere e apprezzare è intenso. Leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore necessita di una totale immedesimazione nelle strutture che governano il testo; richiede tempo, attenzione e, in alcuni casi, anche ri-lettura. Ma, senza ombra di dubbio, vale la pena provarci; riuscirci sta soltanto alla nostra volontà di leggerci attraverso gli altri.


(Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, 1979)

“Cha cha cha” di Marco Risi

Una Roma violenta e corrotta fa da sfondo a Cha cha cha, tentativo a firma di Marco Risi di rinverdire i fasti del cinema di genere in Italia guardando al noir di scuola francese.

Corso è un detective privato incaricato dalla ricca Michelle di tenere d’occhio il figlio sedicenne Tommaso, leggermente più inquieto e distante rispetto a un normale adolescente. Un tempo Corso e Michelle si sono amati, quando lui era un poliziotto nella squadra dell’ispettore Torre e lei un’attrice tossica arrivata in Italia in cerca di fortuna. Poi le cose sono cambiate, lui ha lasciato la polizia mentre lei è diventata la donna del potente avvocato Argento e vive in una villa in cui passa tutta l’alta società italiana nello sfarzo delle feste. Quando Tommaso muore all’uscita di una discoteca in un incidente stradale sotto i suoi occhi, Corso si ritrova coinvolto in un’indagine che lo porterà a scoprire un intreccio di corruzione che lega il ragazzino, l’avvocato, il suo ex capo Torre e un ingegnere trovato morto pochi giorni prima, in un campo vicino all’aeroporto.

L’attenzione per la dimensione sociale è sempre stata uno dei punti di forza dei film di Marco Risi, soprattutto nel periodo a cavallo tra gli anni ottanta e novanta in cui ha alternato momenti di crudezza dal sapore neorealistico (Mery per sempre e il suo seguito Ragazzi fuori) a un cinema che si carica di rimandi al giornalismo d’inchiesta con Il muro di gomma sul disastro aereo di Ustica.

Dopo essersi riavvicinato all’impegno civile con il riuscito Fortapàsc nel 2009, Risi, sempre con la rodata collaborazione in scrittura del giornalista politico Andrea Purgatori e di Jim Carrington, tenta ora con Cha cha cha la strada del cinema di genere, il noir, arricchendolo, secondo il modello del polar francese e di certo cinema statunitense, con uno sguardo di denuncia sulla corruzione politica e affaristica nell’Italia d’oggi.

L’operazione riesce solo a tratti. La messa in scena del thriller è efficace, con una Roma fatta di cavalcavia,  suburbana e livida, lontana dalle immagini da cartolina, fotografata dallo scomparso Marco Onorato, a cui il film è dedicato, ma non basta. Se la trama del giallo è in sé prevedibile per i suoi risvolti di dramma (simil) familiare, la denuncia del malaffare si accenna solo in frammenti, senza spingersi in considerazioni di portata più vasta, senza allargare il campo su una rete di corruzione più ampia e invincibile, ma limitandosi a dare una nuova, ennesima, versione, della Roma criminale che tanto va ultimamente.

Tratteggiando il personaggio di Corso, interpretato da un Luca Argentero sull’introspettivo e non pienamente convincente, Risi gioca con i cliché del caso cercando di applicarli senza esito alla realtà romana, lasciandosi andare a rimandi e citazioni presi dal cinema che più lo ha colpito, con tanto di scazzottata in desabillé, pudicamente ombreggiata, in stile La promessa dell’assassino, seguita a stretto giro da un momento di sordità collettiva in stile Copland.

Nel ruolo di mater dolorosa, la supermodella Eva Herzigova funziona, mentre Claudio Amendola, che aveva condiviso i primi passi cinematografici con Risi, nei panni dell’ispettore Torre conferisce quella giusta dose di disincantato e disgustato cinismo all'intero film, ma fatica a recuperare quella carica di spontanea fisicità ormai appannata da anni di televisione.

L’impressione generale che lascia Cha cha cha è quella di una serie di accenni e suggestioni, incluso il titolo stesso, che non si sviluppano pienamente. Un senso di incompletezza, un passo avanti e uno indietro, come nel cha cha cha.

 

(Cha cha cha, di Marco Risi, 2013, thriller, 90’)

 

“Mopaya” di Douna Loup e Gabriel Nganga Nseka

Mopaya (Miraggi, 2012) è il racconto biografico di Gabriel Nganga Nseka, congolese, che ha registrato le sue parole per poi donarle a Douna Loup, giovane scrittrice svizzera e appassionata di etnologia, diventata la portavoce del racconto stesso.

Mopaya, termine che noi tradurremmo come “straniero” o “esiliato”, in lingua bantu, la lingua d’origine del protagonista, significa: «colui che porta il sé l’altrove». Sì, perché Gabriel, con il suo viaggio, è proprio questo.

Nato e vissuto fino a circa tredici anni in un piccolo villaggio del Basso Congo, Kinzadi per la precisione, rimane profondamente segnato dalla morte della mamma, avvenuta quando lui aveva solo quattro anni. Destinato a essere un bambino giudizioso, buono e intelligente, capace a scuola come nel lavoro nei campi dove aiuta il padre – creando così il suo unico legame con quella terra fatta di alberi, casupole, giallo e sole –, Gabriel sente fin da piccolo l’esigenza e il bisogno di migrare, di vedere altro, di partire per crescere, emulando i fratelli maggiori che si sono allontanati dalla casa paterna e che ora sono indipendenti. Partire dalle proprie origini, lasciare il proprio paese, è fatica e paura, è abbandonare la figura paterna, ma è anche sete, curiosità: partire è morire, ma è anche rinascere in un altro luogo che ci consegna un’altra lingua, altri colori, altre persone e affetti, altri sapori e profumi.

Il viaggio di Gabriel, qui raccontato e descritto in un alternarsi costante di presente e passato, di voce adolescente e di voce adulta, tempi di racconto e voci concatenati dal fil rouge dei ricordi, è sia un viaggio fisico che un viaggio d’iniziazione verso l’età adulta.

La meta finale è l’Europa, ma per raggiungerla occorre attraversare obbligatoriamente tutta l’Angola, in periodo in guerra, e quindi scampare miracolosamente all’arruolamento forzato. Gabriel riuscirà a passare i severi controlli con un po’ di fortuna, ma anche grazie all’aiuto della famiglia che lo ospita e che gli ha procurato un falso passaporto e il quantitativo di denaro sufficiente per ottenere il visto. Ma «Luanda la nera», l’Angola, rimarrà per sempre il suo incubo più ricorrente, il suo inferno personale.

Il mopaya, il viaggiatore, è sottoposto a pericoli costanti, nel tentativo di arrivare in un paese che, inizialmente, non lo vuole, lo respinge. Gabriel giunge infine in un piccolo paesino della Svizzera, dove vedrà per la prima volta in vita sua la neve, che con il suo candore e con il suo manto tutto fa tacere, e dove imparerà lo svizzero-tedesco, una lingua che nel suo essere «grezza e senza struttura» gli ricorda il dialetto d’origine. Si fermerà proprio lì, nella vana ed estenuante attesa di un permesso da rifugiato mai accettato dalle autorità.

Sarà solamente una donna, Renata, a salvarlo, sposandolo e permettendogli così di rimanere e diventare parte di un nuovo paese.

In realtà Gabriel, oggi infermiere in un istituto psichiatrico e papà di una bimba avuta dal secondo matrimonio, separato e risposato più volte, non riuscirà a sentirsi mai totalmente parte di quel paese, mai più si sentirà completamente a suo agio, né avrà mai più la sensazione di sentirsi a casa: «Ho perso la sensazione di appartenere al mondo».

Mopaya: nessun luogo, se non quello da cui provieni, per quanto bello, pieno d’affetto, di serenità e di aspettative potrà mai eguagliare le tue origini e coincidere perfettamente con te stesso. Il nostro comune destino è quello di portare con noi l’altrove. E forse, di costruire giorno dopo giorno il coraggio per fare ritorno a casa. Un giorno, chissà.


(Douna Loup, Gabriel Nganga Nseka, Mopaya. Colui che porta in sé l’altrove, trad. di Giuseppe Sofo, Miraggi, 2012, pp. 112, euro 12)

[SongList] Alcol

Sarà un luogo comune, uno stereotipo, un vezzo convenzionato. Fatto sta che la rock star, il cantautore maledetto, il poeta metropolitano gradisce – e non poco – la compagnia dell’alcol. Molto spesso tale vizioso sodalizio è produttivo e stimolante, altre volte è l’unico sfogo possibile. In casi estremi, il piacere della bevuta uccide fisicamente l’amante, logorandolo piano dall’interno. Nella nostra nuova Songlist presentiamo alcune dichiarazioni d’amore etiliche: letterarie e colte grazie ai testi di Capovilla e Berninger, moleste e sbruffone in perfetto stile Gallagher, rabbiose e sentite ma anche mistiche e spirituali.

Avviso al lettore: questa Songlist può provocare irrefrenabile sete. Non di acqua. Ovviamente.

 

Il Teatro degli Orrori, “E lei venne”

 

Oasis, “Cigarettes and Alcohol”

 

Vasco Rossi, “Vuoi star ferma!”

 

Ministri, “Bevo”

 

Mark Lanegan, “Whisky for the Holy Ghost”

 

Tom Waits, “Warm Beer and Cold Women”

 

Metallica, “Whisky in the jar”

 

Jeff Buckley, “Lilac Wine”

 

The Replacements, “Red Red Wine”

 

One Dimensional Man, “The Wine That I Drink”

 

The National, “All The Wine”

 

Muse, “Liquid State”

“Zero Zero Zero” di Roberto Saviano

Bianca come il latte. Soffice come la neve. La più desiderata nel mondo. Insidiosa e provocatrice, fa promesse con clausole che nessuno legge. Prostituta di prestigio, passa di persona in persona senza tradire le aspettative di nessuno. Conosciuta con diversi epiteti, il suo nome identificativo è cocaina. Questo e molto altro ci ricorda un documentato e disgustato Roberto Saviano in Zero Zero Zero (Feltrinelli, 2013). Con un avvertimento: chiunque ti circondi abusa della White Lady, la farina Zero Zero Zero. Probabilmente anche la persona che scrive. O forse proprio tu che leggi.

Come ogni storia che si rispetti, anche quella della cocaina ha un proprio Big Bang che parte con “El Padrino o “Kiki”, all’anagrafe Félix Gallardo, Messico. E proprio come ogni storia che si rispetti, si parte dal singolo per creare un’organizzazione basata su regole ferree. Così seguono tradimenti, lotte interne, sradicamenti, diramazioni che si diffondono in tutto il mondo. Un vero e proprio sistema governativo che si nutre di vuoti e problemi interni, si insidia nelle retrovie diffondendo violenza e paura, grazie all’appoggio di un sistema di banche internazionali e a un business a scatole cinesi che si rendono garante di un’economia solida. Organizzazioni (o cartelli) messicane e colombiane che addestrano bestie violente e fanno affari con l’albero della ’ndrangheta calabrese, le mafie italoamericane, i camorristi di Scampia, la Mafija russa. Tutte con veri e propri capi di Stato (anche donne) che impongono regole, stabiliscono rotte e nuovi sistemi di scambio, codici identificativi e nuovi sistemi di trasporto, diversi tipi di tagli e qualità della merce. Perché la coca è infinita, la coca è certezza, la coca è mercato sicuro. Si addestrano muli (i trasportatori di ovuli) in Africa, si comprano armi, si ricicla e ricicla all’infinito il denaro sporco dei traffici anche dalle carceri spagnole, le preferite dai boss di tutto il mondo. Madrid diventa la Wall Street della polvere bianca, e i pochi testimoni che denunciano si sprecano e vengono fatti tacere. I cani della polizia diventano fedeli alleati da scortare per continuare la lotta contro il malebianco.

Dalla polvere è nato il tutto. Così la Dea Madre Cocaina continua a dispensare generosamente i suoi effetti apparentemente innocui ed eccitanti, nascondendo le tracce di sangue e terrore che si porta dietro.

Dal venditore al compratore, Saviano setaccia tutte le tappe della farina più desiderata e ricercata al mondo. Alterna lirismo e veri e propri saggi documentati di fatti, numeri, nomi, date. Cerca di toccare le corde dei più esigenti e dei più emotivi. Alterna la descrizione del business a quella della violenza. A conti fatti però, non si capisce se Saviano vuole semplicemente documentare o cerca di sensibilizzare il lettore sulla sua posizione scomoda e le sue paure più profonde. Il vero lettore sa ascoltare e giudicare da sé, e anche se Saviano dichiara di non fidarsi di nessuno, potrebbe almeno mostrare un minimo di fiducia nei confronti del suo pubblico più fedele.


(Roberto Saviano, Zero Zero Zero, Feltrinelli, 2013, pp. 448, euro 18)

[NTF6] La seconda settimana: “La notte di Scrooge” e “La classe”

Continua il Napoli Teatro Festival: abbiamo scelto di seguire uno spettacolo molto giovane, che ha bisogno di tanti rimaneggiamenti per poter decollare definitivamente, e l’ultimo lavoro di Garella, forse il momento più alto del NTF6.


La notte di Scrooge – Petraio Produzioni (Fringe Festival)

Marco Mario De Notaris adatta A Christmas Carol di Charles Dickens per mettere in scena uno spettacolo per tutta la famiglia. Niente di così complesso né sofisticato ma semplicemente un lavoro fatto di piccole cose, una produzione low budget per raccontare la storia di Scrooge, un uomo di affari molto avido, e della sua famosa notte abitata dagli spettri del natale passato, presente e futuro. Il risultato è un lavoro godibile, molto carino, con alcune intuizioni divertenti – gli spettatori accompagnati sin dentro la storia – ma una recitazione, talvolta, sopra le righe. Niente di sconvolgente, certo, ma a volte il pubblico a teatro ha bisogno anche di abbandonare i propri fantasmi per divertirsi senza troppe pretese.


La classe – Nanni Garella

L’ultimo lavoro di Nanni Garella con il gruppo di pazienti psichiatrici “Arte & Salute”, è probabilmente l’evento più emozionante di un festival con alti e bassi. Non si tratta né di una riduzione né di un adattamento de La classe morta di Tedeusz Kantor ma, anzi, trattasi di un vero e proprio tradimento. De La classe morta restano i banchi di scuola, i vecchi-bambini con il proprio manichino, simbolo del proprio Io sdoppiato, di una vita ormai passata.

Resta anche la narrazione frammentata – in questo Garella è fedelissimo a Kantor – e lo sguardo sul passato. Ma, per il resto, La classe è un favoloso tradimento, come si accennava all’inizio. La messa in scena è ciclica, ricorda la stanza vuota di Tango di Zbigniew Rybczyński che si riempie, poi, di tanti personaggi e di azioni reiterate fino all’ossessione. Rybczyński metteva in scena, attraverso un bellissimo corto d’animazione, la ciclicità della vita come se fosse un tango, Garella, invece, adopera un valzer per far rivivere la classe.

Un lavoro intelligente, intenso, sull’essenza dell’uomo, su quel che diventa e quel che non è mai stato. La classe morta, però, alla fine, colpo di scena, è più viva dei vivi, metafora anche di una situazione teatrale italiana ormai morta, che “rinasce” ingabbiata solo all’interno di canoni prestabiliti.

Garella ha saputo individuare, ancora una volta, nel gruppo di pazienti di “Arte & Salute” la sua classe di attori, materia vivente che non plasma a modo suo ma che, anzi, rende partecipe, da buon regista qual è, di un tableau vivant kantoriano. Lo spazio diventa memoria, non ci sono i formalismi di un certo teatro di rappresentazione e, alla fine, è l’esperienza degli attori a venire fuori, prepotente e magnifica. 

 

Napoli. Teatro Festival Italia
dal 4 al 23 giugno 2013

Consulta qui il programma completo del festival.

“Guida alla vita laica” di Roberto Anzellotti

Cos’è uno stato laico? È quello completamente autonomo e indipendente nei confronti di qualsiasi confessione religiosa gerarchicamente organizzata. Vivere in uno stato veramente laico vuol dire in fondo più libertà nella vita di tutti, credenti e non. Il potere religioso, specialmente quello delle grandi religioni monoteiste, è di fatto uno dei più forti nel mondo. Rispetto ad altre nazioni, la nostra vive a questo proposito una situazione del tutto particolare. L’Italia, infatti, si dichiara uno stato laico, ma all’interno del suo territorio fisico esiste un altro stato, piccolo, ma con un’influenza enorme: il Vaticano. L’Italia è la nazione europea più profondamente e direttamente influenzata dalla Chiesa Cattolica Romana. Quanto il potere del Cattolicesimo abbia inciso sulla storia, la politica e la società del popolo italiano, lo indaga Guida alla vita laica (Neo, 2013) di Roberto Anzellotti: pescarese, classe 1956, è da sempre impegnato nel sociale, si batte per i diritti civili e la difesa della laicità in Italia.

Non è facile per un italiano dichiararsi ateo o agnostico nel proprio paese; l’autore lo ha sperimentato in prima persona, vivendo situazioni di disagio e discriminazione, subendo intimidazioni e censure, ma venendo così anche a conoscenza diretta dei privilegi ecclesiastici e dei conseguenti soprusi a danno del cittadino, che molte volte non è padrone di esercitare appieno i propri diritti civili sulla base di una scelta personale, se quest’ultima non è in linea con le visioni imposte dalla Chiesa e anche da alcune classi politiche, sottomesse dal fascino clericale.

Già dal titolo, semplicissimo, si capiscono lo spirito e le intenzioni che hanno motivato Anzellotti e la finalità che l’autore ha voluto dare al suo scritto. Guida alla vita laica è esattamente questo: una guida molto oggettiva e pragmatica, che apre un percorso di riflessione attraverso esempi documentati e argomentati con oggettività, al fine di fare luce sugli aspetti più sommersi del potere ecclesiastico, ed evidenziare come il messaggio di pace del Vangelo e la politica del Vaticano siano incompatibili poi nei fatti. Il tutto con un linguaggio semplice, chiaro, scorrevole, alla portata di tutti.

È un libro sicuramente anticlericale, più che ateo, che coerentemente non si serve degli stessi mezzi utilizzati da chi in queste pagine è oggetto di riflessione e informazione, ossia la religione; non vuole né convincere né convertire nessuno, ma stimolare il lettore alla conoscenza più vasta e approfondita di ciò che combatte o di ciò in cui crede, per questo può essere una lettura interessante anche per il cristiano cattolico praticante, che si trova non di rado da una parte a seguire la sua fede e dall’altra a dover mettere da parte buon senso e capacità critica per non entrare in conflitto con il credo religioso. L’autore in queste pagine si prefigge un intento fondamentale: informare.

Nel 2001, Anzellotti ha aderito all’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti), un’associazione di pura ispirazione libertaria, trasversale a ogni ambiente di potere, esule quindi da ogni tipo di legame partitico, politico e religioso, che si prefigge la diffusione e la tutela della laicità come diritto al rispetto delle idee di tutti e alla libertà di poterle esprimere pubblicamente.

Ancora oggi, infatti, agnosticismo, ateismo e in genere ogni forma di libero pensiero fanno paura a chi detiene il potere e soggioga in qualche modo le scelte delle masse. Il divorzio, l’aborto, la questione scientifica sulle cellule staminali, il testamento biologico (con i casi drammatici di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, divenuti noti attraverso i media), la situazione dei matrimoni misti, tra persone non solo di cultura, ma di religione diversa, sono tematiche attuali e scottanti che riguardano da vicino la parte più intima e privata della vita di tutti noi e la nostra libertà di scelta e, in senso più ampio, il vivere civile e non religioso, eppure la Chiesa non si è mai fatta da parte, continuando a intervenire con direttive e dogmi sulla morale e sull’etica, con effetti decisamente laceranti.

Siamo prima di tutto cittadini o battezzati? A quanto pare, la seconda ipotesi: siamo sudditi della chiesa cattolica, che si serve di grandi numeri per mantenere il suo status privilegiato. Per questo già da secoli, ma ufficialmente dal 1983, si è iniziato a parlare di apostasia, ossia l’atto (liberatorio) dello “sbattezzo”, in seguito a casi reali in cui la vita delle persone è stata pesantemente rovinata dai dettami cattolici.

Un altro percorso che si affronta è proprio l’itinerario dei privilegi, in primis quelli economici, che la Chiesa nel tempo si è conquistata, a discapito dei cittadini. I tanti possedimenti immobiliari del Vaticano sul territorio italiano, gli oratori e i crocifissi nelle aule della scuola pubblica, la questione delle acque, L’IMU, la prassi dell’otto per mille sulle nostre dichiarazioni dei redditi e, non di certo per ultima, la politica.

Infine, dopo gli itinerari del privilegio, ecco un viaggio tra quelli del libero pensiero: i tantissimi luoghi a Roma e in tutta Italia. Il Colosseo, Castel Sant’Angelo, Campo de’ Fiori. Monumenti, piazze, statue, di grande valore architettonico e artistico, ma pure simbolico, poiché nel corso della storia sono stati scenari degli atti della repressione cattolica o rappresentano il coraggio di chi si è battuto in prima persona per l’emancipazione della coscienza atea, o agnostica, e laica. Testimoni, per non dimenticare.

 

(Roberto Anzellotti, Guida alla vita laica, Neo Edizioni, 2013, pp. 160, euro 10)