Sangue di Giuda di Gala

Maschere della letteratura contemporanea

Scrittore del Sud è un’etichetta ambivalente: da un lato ti dà un’ottima base da cui partire, un orizzonte su cui muoverti, a maggior ragione se sei un esordiente; dall’altra può risultare fuorviante, fallace come può essere solo una cesura univoca su un campo eterogeneo. Perché a ben guardare le scritture del Sud sono di natura molteplice, soprattutto negli ultimi anni. Molti scrittori contemporanei incrociano il patrimonio folklorico del Meridione con il proprio immaginario o con un immaginario affine o preso in prestito: basti pensare alla Sicilia gotica e americanissima di Orazio Labbate, debitrice tanto di Bufalino quanto di Faulkner o del crime di True Detective, oppure le geometrie interiori di Veronica Galletta, che accennano un patrimonio culturale senza strillarlo, o ancora la Puglia cinematica di Omar Di Monopoli e il Salento dal sapore gore di Andrea Donaera. Gli approcci sono diversissimi, e in questo ventaglio possiamo salutare l’arrivo di Graziano Gala con il suo Sangue di Giuda (minimum fax, 2021): un’opera che dà al Meridione un sapore nazionalpopolare e iperletterario al tempo stesso.

Nazionalpopolare perché Gala si lega alle memorie perturbanti del pop nostrano: Giuda è un vecchio solitario a cui hanno rubato il televisore, lo enuncia al commissario del paese, un anonimo agglomerato di case nel «Sud del Sud dei santi», per dirla con Carmelo Bene. Da qui partirà il monologo di Giuda che, stravolto dal furto del televisore, come se esso costituisse la sua bizzarra madeleine, ripercorrerà la sua vita alle prese con un padre difficile, con una figlia con cui intrattiene un rapporto di odio-amore, con il suo nome, quel “Giuda” che in realtà è un appellativo, uno dei tanti dati al Sud, ma che cela il buco nero del suo passato, il vero nome che il protagonista, alle prese con la palude della sua biografia, cerca di ricordare.

Ma si diceva del pop nostrano: la storia di Giuda è visionaria, un miscuglio di donchisciottesco e grottesco, la psiche di Giuda è abitata da emanazioni del microcosmo televisivo nazionale, Pippo Baudo è il suo animale guida, la sagoma che nel racconto stravolto gli fa da strambo Virgilio. A questo si aggiunge la figura di Ferlinghetti, vicino di casa fra il vero e l’immaginato che ricalca il poeta beat. E qui siamo dalle parti dell’iperletterario, perché Gala non si limita a qualche citazione colta, ma si addentra in un territorio ben più spinoso: l’ambizione dell’autore è assemblare una lingua originale.

Sangue di Giuda, memore della tradizione dialettale, dell’orizzonte del racconto orale e della dimensione del racconto teatrale, è narrato assecondando il lievitare di un impasto linguistico a metà fra il pugliese e il campano, un idioma sghembo che localizzi l’azione nel cuore del Meridione ma allo stesso tempo impedisca al lettore di delinearne i confini, in modo da situare l’orizzonte della narrazione nelle lande assolate di un paesaggio senza nome e sul palato di un narratore inaffidabile come Giuda.

L’incredibile vivacità linguistica lascia saltare all’occhio due cose: il Sud raccontato da Gala è artificioso e barocco, eppure colpisce nel suo manierismo, è un diorama che fa da fondale alle vicende del protagonista che ha un sapore ispanico, reminiscenze del paesaggio brullo del Don Chisciotte e degli spazi angusti ma evocativi di La vita è sogno di Calderón de la Barca; l’altra riguarda Giuda, il personaggio a cui ruota l’opera, e che allo stesso modo si fa portatore di questa nuova lingua, un idioletto masticato dalla sua gola, formulato nel suo cranio, fermentato alla luce di diverse e contrastanti esperienze, sul modello di un altro recente e fortunato matto-saggio delle lettere nostrane quale Bonfiglio Liborio dell’omonimo romanzo di Remo Rapino.

Proprio Giuda è il prisma attraverso cui leggere l’opera. Giuda è un personaggio donchisciottesco, preda di fantasie selvagge, malumori repentini, ma anche slanci utopici o comici, una maschera da commedia che, pagina dopo pagina, si trasfigura in un tipo psicologico mai coeso, ma dannatamente umano. La sua lingua insaporita di termini forbiti celati nell’amalgama dialettale ne è una spia: Giuda è capace di travisare la realtà circostante quanto di immergersi con dolorosa lucidità nelle memorie del suo passato, lì dove si trovano i traumi che lo hanno portato allo spaesamento del presente.

Sangue di Giuda si gioca sul doppio binario dell’intreccio accattivante e del tour de force linguistico riuscendo in entrambi in campi a dirci qualcosa di nuovo: da una parte rinnova l’immaginario meridionale attraverso il filtro di una psicologia visionaria a metà fra il genio e il matto, dall’altra opera una sperimentazione sulla lingua che dal calco orale si trasfigura in un idioma mai parlato e, fino ad ora, mai scritto, ampliando le categorie cognitive sia di chi mastica il dialetto sia di chi, a digiuno di idioletti del genere, si approccia a questa lingua artificialissima e viva al tempo stesso. Un sacco di carne al fuoco, dunque, e dal primo romanzo di un giovane autore non si può chiedere di meglio.

 

(Graziano Gala, Sangue di Giuda, minimum fax, 2021, 171 pp., euro 16, articolo di Giovanni Bitetto)

 

Ritratto di Dostoevskij

Dostoevskij secondo Gide

Può accadere a volte che tra due autori, anche appartenenti a epoche differenti, vengano a crearsi dei legami di pensiero e scrittura ascrivibili a congiunzioni mentali o emozionali non sempre facilmente esplicabili secondo logica. Può accadere a volte, come è successo tra Baudelaire e Poe, tra Gide e Dostoevskij, o più recentemente tra Tabucchi e Pessoa, che personalità contigue, seppur abitanti luoghi, culture e spazi tra loro differenti, si riconoscano nelle parole dell’altro, nelle parole dell’altro trovino gli stessi interrogativi o colgano parte di sé, parte del proprio percorso artistico ed esistenziale, sfaccettature ancora inconsapevoli, echi, suggestioni e richiami a cui prestare ascolto, voce e idee.

Gide è stato probabilmente, insieme a Bachtin, il miglior esegeta di Dostoevskij. L’incontro dello scrittore francese con le opere del genio russo è stato folgorante, immersivo, febbricitante, e ha prodotto un effetto riflettente capace di rivelare a Gide nel corso di anni di letture e riletture intense e ripetute non solo un’affinità elettiva, al contempo poetica e umorale, una peculiare assonanza intellettiva e artistica, ma anche una comune e condivisa visione del destino dell’uomo su questa terra, nonché le stesse inquietudini morali ed estetiche. Il Dostoevskij di Gide (ult. ed. Medusa Edizioni, 2013), nonostante la sua sua natura d’occasione – il volume eterogeneo raccoglie testi di lezioni, conferenze, articoli che vanno dal 1908 al 1923 –, è composto da pagine memorabili per finezza interpretativa, acutezza delle intuizioni di carattere poetico e filosofico, eleganza e arguzia della prosa. Lungi dai rigidi precetti di una critica che impone distanza e separazione rispetto al proprio argomento d’indagine, lo scrittore francese opta per un approccio personale, soggettivo, non mediato, ai testi di Dostoevskij, perché in essi cerca e scorge non solo e non tanto ulteriori verità sullo scrittore russo, bensì i riflessi di sé stesso e della propria sensibilità, i motivi e i chiaroscuri che si vanno sedimentando al fondo della propria ricerca letteraria.

Attraverso la lettura corpo a corpo che intraprende con i capolavori di Dostoevskij, Gide tenta in fondo di esprimere e dar forma, mediante una fine operazione di maieutica, ai propri pensieri più reconditi («Dostoevskij mi è soltanto spesso qui pretesto per esprimere i miei propri pensieri»): l’irriducibile ansia di ricerca, le riflessioni sulla morte, gli enigmatici e antinomici rapporti dell’individuo con sé stesso, con gli altri e con Dio. Ad accomunarli, nella finestra temporale in cui Gide completa il libro, anche una sofferta vocazione mistico-religiosa – in Gide sarebbe meglio parlare di “crisi” religiosa, esplicitatasi chiaramente nei frammenti di Numquid et tu? del 1922 – che permea similmente il sostrato narrativo delle loro opere, in quelle di Dostoevskij con maggiore forza ed evidenza.

Gide procede per tagli, incisioni, accostamenti alveolari che si stratificano verticalmente entro il perimetro di una fitto contrappunto dialettico. All’interno di questa vivida galleria di impressioni, considerazioni, illuminazioni di senso, non si produce mai un eccesso di ermeneutica, che rischierebbe di confondere e sovradeterminare i significati e le posizioni in gioco, ma al contrario si innesca un moto bidirezionale che amplia il portato dell’opera e ne moltiplica le sfumature. Più che un esame critico, viene allora a configurarsi un dialogo vivo, appassionato, in cui i due interlocutori sono posizionati allo stesso livello. L’autore francese utilizza con premura e rigorosa precisione la sua penna per sondare a mo’ di sismografo il nucleo profondo e magmatico dell’immaginario dostoevskiano. Fondamentale poi il rimando ai testi, proposti con una certa frequenza (anche brani estesi), di cui Gide si serve non solo per suffragare le proprie opinioni, ma anche perché è ben consapevole che spesso per arrivare al nocciolo di un discorso o di una questione spinosa è preferibile far parlare direttamente i testi piuttosto che esibirsi in una rischiosa operazione da ventriloquo.

Nella prima sezione del libro lo scrittore francese ricostruisce gli snodi cruciali della biografia di Dostoevskij mediante l’uso ricorrente di passaggi epistolari capaci di tratteggiare con perfetta concisione la fisionomia di un uomo cagionevole di salute, costantemente assillato da problemi di soldi, di debiti, di scadenze, tormentato senza sosta da preoccupazioni di carattere artistico e compositivo, da dubbi esistenziali e religiosi, angosciato dalle ombre di un futuro incerto e precario, perennemente insoddisfatto del proprio lavoro, ossessionato dalla convinzione di potere sempre scrivere meglio, dalla paura di non riuscire mai a finire in tempo e di non essere in grado di esprimere neanche una minima parte dell’immenso garbuglio di pensieri che gli guida freneticamente la mano sul foglio. Dalla selezione della corrispondenza che Gide maneggia e commenta emerge la figura di un martire votato all’autodistruzione, che non si risparmia nulla, assiduamente amareggiato, esigente verso sé stesso oltre ogni buon senso, percorso da una spinta cerebrale inesauribile, per cui la scrittura non è solo frutto di una predisposizione innata, di un estro naturale, ma anche e soprattutto una necessità materiale, fisiologica, morale. Un uomo che ha sacrificato la sua intera vita sull’altare della creazione artistica, barattando ogni potenziale spiraglio di serenità, ogni momento di celebrazione e gloria, con la smania mefistofelica e vertiginosa propria di un esploratore degli abissi, dedito a perlustrare giorno e notte le passioni, i vizi, i desideri repressi e rimossi, i timori celati, le ambizioni, le sofferenze, le crudeltà, gli enigmi, le ossessioni, gli slanci amorevoli ed evangelici dell’essere umano. D’altronde, è proprio nell’obbligo, nella costrizione, nel bisogno pressante che il genio rivela la forza aurorale dell’idea divenuta parola, frase, periodo.

Ciò che attira Gide in Dostoevskij – ne veniamo a conoscenza per lo più nelle pagine che costituiscono le Conferenze del Vieux-Colombier, la sezione più estesa del libro – è la sua ineguagliabile capacità di spingersi nelle regioni più profonde dell’anima e della psiche umana (assai prima di Freud) e al tempo stesso la compresenza reiterata del dramma e dell’ironia, del basso e del sublime, di impulsi improvvisi che animano senza soluzione di continuità i suoi personaggi – specialmente quelli presenti nei capolavori: I demoni, I fratelli Karamazov, Delitto e castigo – rendendoli partecipi di un antagonismo sorgivo, proteiforme, in cui la natura dell’uomo emerge in tutta la sua tragica doppiezza e contraddittorietà. Prima di ogni altro Dostoevskij ha compreso che la vita intima è il regno dell’umano e gli smottamenti repentini dell’inconscio non sono che una sottile manifestazione del suo farsi e disfarsi. Lo scrittore russo riesce per mezzo di inarrivabili qualità espressive a sintetizzare nell’atto romanzesco gli input più disparati, le teorie filosofiche, i precetti religiosi, le prerogative morali che lo pervadono e lo inquietano. È infatti nelle aporie, negli scarti incolmabili, che si nasconde la grandezza di Dostoevskij, che è sempre prima scrittore e poi, solo successivamente, anche maître à penser, moralista, anarchico, fervente evangelico.

I personaggi dostoevskiani – concetti che si umanizzano e acquisiscono valore universale sovente oltrepassando la bidimensionalità del testo per diventare figure vive e pulsanti –  in virtù dell’oscillazione ripetuta e urgente che li muove e li agita alternativamente tra passioni terrene e demoniache, mire subdole e vendicative, sentimenti di aberrazione e potenza megalomane, stati di trance e trascendenza, sperimentano le dimensioni più profonde, oscure e intangibili della condizione umana, accedendo attraverso percezioni acuite e intuizioni rapsodiche a una rinnovata consapevolezza di sé e del mondo circostante. È dalla compenetrazione ontologica degli estremi che si produce l’atto di rivelazione, si accende un barlume di conoscenza.

Per Gide indagare le ragioni e i moti che soggiacciono alla parabola romanzesca di Dostoevskij significa innanzitutto riconoscere e indagare il male, la violenza e le manifestazioni latenti e inconsce che ne abitano il centro fondativo e germinante. Solo scongiurando le proprie ombre, rischiarandone i contorni, è possibile recuperare un equilibrio salvifico, sopravvivere eticamente all’irriducibile complessità dell’essere.

Nonostante lo spirito irrisolto, permeato da suggestioni plurime e multiformi, Dostoevskij è per Gide lo scrittore che, come folgorato da una stimmate divina, da una sovraumana preveggenza, ha saputo meglio di ogni altro sorpassare le soglie dell’inimmaginabile, dell’imperscrutabile, alla ricerca di una nuova dimensione dell’umano, del suo essere nel mondo.

In costante equilibrio tra l’omaggio sentito e lo scavo obliquo, tra l’ammirazione incondizionata e il lucido esorcismo, quello di Gide è un esercizio di lettura che, caratterizzato anche da tendenze comparative (ripetuti riferimenti a Balzac e Nietzsche), non chiude alcuna strada, ma ne inaugura delle altre, fertili e percorribili. Ecco perché il suo volumetto non si riduce a mai semplice veicolo di retorica o di raffinata teoresi, ma al contrario, percorso sin dalle prima battute da una tensione conoscitiva continua e insoddisfatta, è capace di restituirci ancora oggi un’immagine forse non del tutto fedele, forse disegnata su misura, ma certamente rivelatoria, a tratti epifanica, di uno dei più grandi scrittori di sempre.

Copertina di La scomparsa dei riti

Comunicazione senza comunità

L’improvviso scoppio della moda Vintage, i filtri per l’invecchiamento in stile polaroid su Instagram, un certo attaccamento verso il mondo analogico: fenomeni che con la dovuta attenzione si rivelano più complessi di una semplice forma di nostalgia.

Per esempio, credo sinceramente che delle trame delle decorazioni sui colletti delle camicie di mia nonna, da lei cucite alla mia età, mi catturi il fascino del non sapere come si faccia. Qualsiasi cosa mi si presenti sotto mano, se posso trovare il corrispettivo in un negozio polveroso del quartiere di San Frediano a Firenze quest’ultimo mi sembrerà sempre più bello, più vero. Ed è in fondo diventato una forma di feticismo il credere che un oggetto sia tanto più prezioso quanto più ha preso l’umido nella cantina di una palazzina anni Settanta. Prendo in mano una vecchia sveglia al mercatino del riuso e penso che abbia avuto un significato per qualcuno, che sia stata un regalo, sia stata desiderata, attesa, pensata e infine ricevuta in dono. Penso insomma, che contenga un valore in sé.

Dopo qualche tempo ho capito che questa forma di venerazione nasceva dal fatto che intorno a quell’oggetto, quella semplice sveglia, si avvolgeva l’itinerario di un rito con i suoi tempi e la sua liturgia. La si usava senza scadenza e entrava nel rigore delle cose automatiche che appartengono al quotidiano. Un rito, per essere definito tale, ha bisogno di una comunità che impieghi il suo tempo senza uno scopo, che festeggi senza un motivo, che ripeta azioni collaudate dall’uso. Oggi invece, questa forma di conoscenza è completamente perduta proprio perché, come dice Byung-Chul Han in La scomparsa dei riti (nottetempo, 2021), non vi è una comunità in grado di sostenerla.

È così che viene meno anche il senso dei simboli: se non esiste più una comunità non può esistere nemmeno un simbolo che deve essere riconosciuto come tale da un gruppo che vi ritrovi un senso collettivo. Forse per questo mi capita spesso, come a tanti della mia generazione, di sentire dai miei genitori piccoli aneddoti su come si facevano certe cose prima. Tutti questi racconti sono attraversati da una caratteristica: il tempo dell’attesa, della preparazione, un momento precedente in cui si svolgeva un rito necessario per ottenere una chiamata a un telefono pubblico, il conseguimento della laurea, la prenotazione di un albergo.

Nel suo libro Byung-Chul Han riprende una frase di Antoine de Saint-Exupéry (dalla Cittadella): «E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione». Forse è proprio questo l’elemento che ci affascina dei riti, il senso di costruzione collettiva, una compartecipazione che oggi sembra minata da un narcisismo esclusivo ed escludente, dalle gravi conseguenze emotive.

I riti, oggettivando il mondo e riconnettendo ciascuno all’Altro, creano una comunità anche senza comunicazione. Oggi però imperversa una sorta di incessante comunicazione senza comunità, un «baccano» in cui tutti giriamo a vuoto credendo illusoriamente di interagire con il mondo. È quindi riappropriandoci dei riti che potremo riaprire una società atomizzata al «senso di una vera connessione con l’Altro», sostiene Han, che – dopo aver teorizzato la “società della stanchezza” (i disturbi depressivi e la sindrome da burnout, dovuti all’eccesso di positività anziché dalla negatività, come segno dell’epoca), “l’agonia dell’eros” in cui sfocia l’incapacità autoreferenziale di relazionarsi con gli altri e la “società senza dolore”, terrorizzata dalla sofferenza – aggiunge un altro tassello al suo implacabile lavoro di critica del presente.

Molti sono i prestiti di celebri filosofi e pensatori della fase attuale del capitalismo citati in La scomparsa dei riti. L’autore ha validi motivi per questa scelta, alcuni sono stati davvero luminari. Hitckock sapeva bene di girare in bianco e nero: se tutto sembra la sfumatura dello stesso colore, basta infilare una lampadina nel bicchiere di latte dell’assassino per dare un indizio agli spettatori. Eppure, non riesco a fare a meno di notare la disorganicità di questo assemblaggio di frasi minime (a volte, massime moraleggianti), che fatica a delineare una teoria coerente. Soprattutto se si è abituati alle feconde e sistematiche riflessioni di Byung-Chul Han, critico di riferimento della società digitale e dell’antropologia neoliberale, c’è il rischio di rimanere disorientati dalla Scomparsa dei riti, nonostante l’indubbia ricchezza di stimoli (che certamente mi faranno curiosare al mercatino di San Frediano con occhi nuovi).

 

(Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, nottetempo, 2021, trad. di Simone Aglan-Buttazzi, pp. 144, euro 15, articolo di Anita Fallani)

Copertina di Sugli spalti di Ferreri

Un viaggio per gli stadi del mondo

In queste ultime due stagioni di calcio abbiamo scoperto che ascoltare dalla televisione le parole che si urlano i calciatori mentre giocano in campo non ha nessuna rilevanza, ma ci siamo resi conto che le uniche parole importanti all’interno di uno stadio sono quelle di chi lo frequenta, qualche metro sopra il prato, sulle gradinate e le curve. In Sugli spalti (Meltemi, 2021) Andrea Ferreri racconta proprio questo: quello che ha visto, scoperto, ascoltato in giro per gli stadi del mondo.

Sono venticinque gli stadi selezionati tra quelli visitati dall’autore. A ognuno è dedicato un capitolo, ma prima di iniziare la lettura si potrebbe consigliare al lettore di scegliere a piacimento dall’indice lo stadio che più gli ispira anche senza rispettare l’ordine in cui è stato inserito; spiluccare qua e là, adoperare ogni capitolo del libro per attraversare ogni stadio come una porta verso epoche e periodi diversi.

Quello di Sugli spalti non è un viaggio che ha alla radice il gusto di collezionare visite agli stadi più popolari, non ha ragioni di tifo, e nemmeno di mettere in fila racconti di partite memorabili. Ferreri preferisce piuttosto annodare un filo rosso a ognuno di quegli stadi che hanno da raccontare molto più dei risultati delle gare.

È un percorso lungo anni e continenti, dettato dalla passione dell’autore ma senza fortunatamente essere né nostalgico né alla moda. Siccome far libri di sport, a maggior ragione di calcio, e ancora più di calcio non fiction, significa rivolgersi a una nicchia di lettori molto preparata, la difficoltà nel trovare un argomento nuovo, o visto da una angolatura diversa, aumenta a dismisura. Che questo viaggio zaino in spalla sia stato anche una questione di cuore è chiaro dal risultato ma non dalla lingua usata: Ferreri non inciampa mai nel mostrare romanticismo posticcio, e se delle volte è forse perfino didascalico e di maniera ciò è conseguenza di aver scelto di affrontare storie borderline non col passo del romanziere.

I capitoli più belli sono quelli lontani dalle rotte più battute, e ci si trova davanti a qualcosa di nuovo quando l’esperienza dell’autore si mescola agli eventi che evoca: non quindi tanto il Maracanà, il Camp Nou e nemmeno Upton Park (che è stato casa del West Ham United fino a pochi anni fa e che qui “serve” all’autore per raccontare una particolare commistione tra tifosi e squadra, a ruoli invertiti), quanto lo stadio Garcilaso de la Vega a Cuzco, in Perù, dove avviene l’incontro con un tifoso locale, i suoi occhi commossi nel raccontare una partita lontana oltre quindici anni e da lì un pezzo di storia del suo paese.

Poi lo stadio Azadi a Teheran, che parte con una storia di calcio ma va presto ben oltre. Una ragazza tifosa che per guardare una partita si traveste da uomo, perché solo così può entrare, e che dovrà sacrificarsi per far andare ancora più lontano la sua storia e smuovere qualcosa anche in Iran sul tema dei diritti civili.

E anche il Senegal, in uno stadio da diecimila posti intitolato a Aline Sitoe Diatta, giovane donna ribelle e rivoluzionaria in nome dei diritti, che ha pagato per le sue battaglie e il cui volto ancora oggi campeggia sugli striscioni e sulle magliette dei tifosi che si assiepano su gradoni malfermi di questo stadio dell’Africa occidentale. Anche quest’ultimo, come molti altri, lontanissimo dalle nostre rotte tradizionali in fatto di stadi, anche soltanto di quelli conosciuti attraverso la televisione.

È proprio questo il pregio principale di Sugli spalti: stimolare collegamenti tra il calcio e la storia di un paese e delle persone che lo vivono. È un libro che può arricchire maggiormente la libreria di un appassionato di antropologia, di sociologia o di storia che di un tifoso di calcio, e non può far altro, se riesce a far centro, che rimandare a ulteriori ricerche per ricostruire un mondo attorno alle arene più o meno moderne sparse per i continenti. E quindi alimentare nuove storie e nuovi miti.

 

(Andrea Ferreri, Sugli spalti, Meltemi, 2021, 224 pp., euro 18, articolo di Gianni Agostinelli)

 

Copertina di Quando tornerò di Balzano

La colpa nelle madri degli orfani bianchi

Nell’espressione orfani bianchi, detti anche children home alone, rientrano tutti quei figli che vengono – di fatto – abbandonati dai propri genitori e che vivono, per questo, una forma di lutto differente da quella imposta dalla morte ma altrettanto dolorosa. L’abbandono, nella maggior parte dei casi, è il risultato di una necessità, spesso di tipo economico: come mandrie le persone si spostano per andare altrove a cercare lavoro e guadagnare soldi da mandare alla propria famiglia, rimasta nel paese d’origine.

Migliaia sono le donne costrette a emigrare per andare a svolgere mansioni come quella di badante. È la sorte di Daniela, protagonista dell’ultimo romanzo di Marco Balzano, Quando tornerò (Einaudi, 2021).

Rumena e madre di Manuel e Angelica, lascia casa e famiglia di notte, come una ladra, prende un pullman e arriva in Italia, a Milano, per fare la badante. Solo una lettera destinata ai suoi figli spiega le motivazioni, che resteranno però incomprensibili agli occhi di chi l’avrà tra le mani.

«La mansarda così ridotta, piena di polvere e ragnatele, era l’immagine di come finiscono i sogni e, ovviamente, le famiglie». La notizia dell’allontanamento di Daniela crea iniziale spaesamento, che si traduce in un vuoto che né la maturità di Angelica – la figlia maggiore – né la presenza dei nonni sono in grado di colmare. Mancano gli strumenti, per Manuel, per comprendere cosa possa spingere una madre a cambiare addirittura nazione lasciandosi incurante tutto alle spalle.

In una narrazione tripartita, in cui a ogni elemento di questo nucleo familiare sbilenco viene data occasione di mostrare la propria versione dei fatti, Balzano si dimostra padrone della materia: chi viene abbandonato, inerme spettatore apparentemente senza voce, e chi abbandona, protagonista suo malgrado di un dramma che si è consumato e si consuma da decenni, hanno la stessa dignità di esistere sulla pagina.

«“A volte si può solo fare così”, aveva detto sul pullman. Quella frase mi toglieva la colpa».

È davvero possibile estirpare la colpa? Ed è di colpa che si tratta? Il tormento interiore di Daniela, le promesse fallaci che continuamente ripete a sé stessa quando rimanda e rimanda ancora il suo ritorno a Rădeni, come sarebbero giudicate da qualunque tribunale morale?

Nell’attesa logorante di guadagnare abbastanza per poter tornare a casa e nella prostrazione quotidiana cui si riduce la mente quando deve pulire gli escrementi di una persona anziana che si ribella e che insulta, si insinua – a volte – la libertà di godersi il sole di Milano, una passeggiata tra le strade, un po’ di sesso sul divano del «vecchio». In questi momenti di sospensione della colpa, Daniela concede a sé stessa un attimo – solo uno – di tregua.

Se, come dice lo stesso autore nella nota finale, «da trent’anni a questa parte, due terzi dei migranti del pianeta sono donne. Eppure, nonostante questo dato di fatto, si continua a parlare di migrazione come una questione essenzialmente maschile», Quando tornerò vuole ridare dignità a volti sconosciuti ma allo stesso modo familiari: sono tutte quelle donne che, facce stanche, si vedono in metropolitana mentre tornano a casa; che accudiscono i nostri anziani; che vivono in solitudine in spazi che non hanno le dimensioni né le fattezze di una casa.

Nella promessa di un ritorno che allunga le distanze dal suo adempimento, non resta che continuare a sperare, proprio come, in un momento di lucidità, fa Manuel:

«Quando guardavo l’orto e la nostra casa vuota pensavo a quanto sarebbe stato bello coltivare la terra e aprire un agriturismo. Certo, a Rădeni non c’è turismo. Anzi, non ci sono proprio più le persone, è rimasto qualche vecchio come nonno Mihai, e qualche ragazzo spaiato come me. Tutti se ne vanno da qui, lo so. Però magari le cose cambieranno, le madri che lavorano all’estero torneranno indietro e la gente imparerà ad apprezzare questa zona. Anche la dittatura si credeva che non dovesse finire mai. E comunque, da quando vivo coi nonni, Rădeni mi sembra così bella… Il lago, i girasoli, le montagne azzurre, i monasteri dipinti, a un tiro di schioppo la Moldavia che come dice la nonna “è il giardino dell’Unione”».

 

(Marco Balzano, Quando tornerò, Einaudi, 2021, 208 pp., euro 18,50, articolo di Giovanna Nappi)
Il rosso e il blu di Giommoni

Una favola per riequilibrare il mondo

«Le favole servono solo a sperare che tutto possa andar bene quando va male» afferma a un certo punto un personaggio minore di Il rosso e il blu (effequ, 2020). Ma se Luca Giommoni ha scelto di utilizzare la favola come chiave di volta del suo esordio, non è certo per proporre comodi lieti fini o letture buoniste della più terrificante strage avvenuta in questo nuovo millennio.

Ispirato dall’esperienza di insegnante per stranieri maturata dall’autore, il romanzo è incentrato sulle vicende dell’improbabile eppur credibilissimo centro di accoglienza straordinario Arcobaleno e dei suoi ospiti, perlopiù migranti sbarcati in Italia in attesa di ripartire verso nuove destinazioni. Possibile raccontare il dramma consumatosi tra la coste libiche e quelle italiane con i toni di una fiaba senza peccare di patetismo o di cinismo? La risposta è sì, se si hanno ben chiare le intenzioni.

Giommoni utilizza infatti questo filtro da un lato per esorcizzare le ferite che i suoi personaggi portano ben impresse sulla pelle, dall’altro per smontare gli stereotipi e i luoghi comuni che tanto ci confortano quando abbiamo a che fare con il fenomeno delle migrazioni.

Ecco come si descrive in un passaggio la traversata a bordo di un barcone:

«Bastava voltarsi un attimo, un solo attimo per cercare una stella cadente per affidarle un desiderio, per ritrovare posti occupati soltanto da gocce salate. Nel mare ognuna aveva le sue priorità: “Il telefono!”, “Dov’è il documento, dov’è andato?”, “Il mio bambino! Dov’è il mio bambino?”, ma il mare le accoglieva tutte. Le onde si aprivano come carezze, poi tornavano a ripetere la stessa canzone triste».

E forse è proprio per il loro non aderire affatto alle narrazioni costruite da media e politici (“i giovanotti prestanti” contro “i poveracci”) che gli ospiti di Arcobaleno vengono visti dagli altri come pazzi, o più semplicemente come tonti.

Makamba, giovane maliano appena arrivato nel centro e “innesco narrativo” del romanzo, si è messo in testa di riequilibrare tutti i rubinetti del mondo, causando non pochi disastri. «Più che da una nave o dalla sofferenza Makamba pare sbarcato da un’idea», l’idea di rimettere a posto le cose a cominciare da un piccolo e utopico gesto idraulico che possa riavvicinare gli esseri umani. Una missione impossibile? Forse, ma, citando l’autore, a immaginare altri mondi non si finisce poi per cambiare anche questo?

Aggrapparsi a qualcosa, anche a qualcosa di insignificante, per darsi uno scopo, o per negare la crudeltà, come accade a Benedict, nigeriano scampato a una struttura di raccolta (prigionia) libica. Incapace di accettare la disumanità dei suoi carcerieri e torturatori, Benedict, novello Billy Pilgrim di Mattatoio n.5, preferisce convincersi di essere stato rapito dagli alieni per un esperimento («Qui, se vuoi farcela, devi trovare una tua forma di pazzia»).

Lo stesso processo, stavolta simbolico anziché psicologico, lo riproduce anche Fagadan, il ragazzo con la gomma da cancellare in tasca, sempre pronto a eliminare tutto ciò che non gli piace («Quando ho capito che con la gomma potevo cancellare gli errori, la prima cosa che ho cancellato è stata la Libia»).

Discorso diverso invece per Malang, ex ospite di Arcobaleno diventato poi mediatore linguistico per il centro. Malang vive in Italia da tanti anni, ha imparato che per essere accettato deve abbassare la testa, dare il meno possibile nell’occhio, perché se sei straniero vai bene solo se ti mostri umile e non disturbi.

Trovandosi in una terra di mezzo, il suo punto di vista è sensibilmente differente da quello degli altri personaggi, ma la sua posizione è comunque instabile: dentro il centro è “quello che ce l’ha fatta”, ma appena fuori torna a essere un immigrato qualsiasi da bersagliare di banane.

Dall’altra parte, ma non meno strampalati, ci sono i collaboratori del centro Manfredi, Valerio e Santiago. Ognuno di loro sembra incarnare una differente anima dell’accoglienza post Decreto Sicurezza e un ruolo per certi versi speculare a quello degli ospiti.

Manfredi, il direttore, è l’entusiasta che pur di aiutare le persone getta il cuore oltre l’ostacolo, spesso a scapito dei dipendenti (e dei loro stipendi). Come a volte succede in questi ambiti per scarsità di fondi, il lato volontaristico scavalca quello lavorativo, trasformando l’attività in un atto di eroica improvvisazione.

Valerio è invece un insegnante di italiano ormai sopraffatto dal carico di dolore con il quale è quotidianamente chiamato a confrontarsi. Di fronte alle continue ingiustizie subite dai suoi allievi, Valerio ha imparato a rispondere con una strategia collaudata: la FTGC (fughe da tristezze da grande continente). Impossibile spiegare, rendere conto dell’insensatezza della burocrazia o del razzismo, meglio offrire  una colazione al bar e poi darsela a gambe di soppiatto.

E poi c’è Santiago, il tuttofare ossessionato dalla rendicontazione, che sopperisce agli stipendi arretrati accumulando assegni familiari e bonus bebè. Queste coppie di personaggi (Makamba e Manfredi: i sognatori; Benedict e Valerio: i fuggitivi; Malang e Santiago: i disillusi) creano un fronte comune di sbandati che si oppone al vero antagonista del romanzo: la burocrazia.

Chi sono i veri pazzi?, sembra chiedersi l’autore. Questa gang di emarginati o le autorità che di volta in volta somministrano la loro piccola o enorme dose di potere sul destino di un individuo? Le esilaranti situazioni in cui il carceriere o il burocrate di turno sono messi in ridicolo dallo spiazzante candore dei nostri – momenti nei quali si riconosce un certo debito nei confronti di Il buon soldato Sc’vèik – mostrano con efficacia come la pazzia non abiti il più delle volte nei sognatori, ma nell’indifferenza di chi esegue gli ordini.

Ci si incanta, ci si arrabbia e ci si commuove al cospetto di questa favola sgangherata. È solo una favola, ma questo mondo «ha bisogno di storie e di qualcuno che ci creda, che ci creda veramente».

 

(Luca Giommoni, Il rosso e il blu, Effequ, 2020, 256 pp., euro 15, articolo di Martin Hofer)

 

Fascisti d'America di Leoni

Orfani di Trump: l’estrema destra a stelle e strisce

Gli Stati Uniti sono la più grande democrazia del mondo? Le vicende di Capitol Hill che hanno segnato la fine della presidenza Trump avevano sollevato più di qualche dubbio, e il recente libro di Federico Leoni non fa che aggiungerne di nuovi. Fascisti d’America è una mappa dell’estrema destra a stelle e strisce, che ci introduce in un mondo variegato estremamente inquietante nella sua assurdità. In ogni democrazia esistono bolle di fanatismo e di estremismo, ma oltreatlantico si raggiungono picchi impensabili.

Pubblicato da Paesi Edizioni, il reportage di Leoni ha il merito di illuminare gli angoli oscuri dell’estremismo di destra americano con una formula narrativa e un ritmo davvero appassionanti. L’indagine nasce da una domanda: come è stato possibile passare dalla grande promessa progressista di Obama, all’assalto violento (e grottesco) al Campidoglio di Washington?

Non basta certo mezzo minuto di incitamento presidenziale all’odio, per spiegare un lungo, sofisticato percorso di aggregazione, fermentazione e riscatto delle frange estremiste yankee. Sono tante le tappe che hanno segnato questa “lunga marcia” su Washington. Un processo che Donald Trump aveva provato a cavalcare, senza sapere che, come osserva l’autore, «l’estrema destra aveva usato Trump più di quanto non fosse vero il contrario». Ecco perché un libro come questo è necessario.

La lettura di Fascisti d’America è un’esperienza straniante per il cittadino italiano. Fin dall’inizio è chiaro che gli estremisti al di là dell’Oceano vivono in un humus culturale molto diverso da quello in cui sono cresciuti i neofascisti di casa nostra. Da subito emerge che il razzismo, il suprematismo bianco, è un elemento essenziale e dichiarato della destra americana. «La razza è il fondamento dell’identità» afferma Richard Spencer, teorico (e inventore) dell’alt-right. E se è vero che il tema dell’immigrazione e dell’ostilità verso i messicani che tentano di valicare il Rio Bravo è un grande cavallo di battaglia dei neofascisti a stelle e strisce, il lettore si trova prestissimo in un quadro molto diverso dalle lotte anti-migranti al quale l’ha abituato la destra europea. Un quadro in cui pullulano le bandiere sudiste, gli attivisti del Ku Klux Klan («gli spettri dei morti confederati sorti dalla tomba per compiere la loro vendetta») e partiti apertamente neonazisti. Oltre che ovviamente le radio private dei complottisti di turno (di cui fu pioniere Tom Metzger), e personaggi famigerati come Steve Bannon, stratega trumpiano della prima ora di cui Leoni ricostruisce l’ascesa passo dopo passo.

Dietro l’etichetta dell’estrema destra c’è una realtà frammentatissima, in preda alle violente bizze di questo o quel gruppo (Patriots, Proud Boys, Three Percenters, Oath Keepers, CSPOA). Un accrocco di sigle inquietanti, ma a prima vista inoffensive, che si presentano come ragionevoli e moderate. Ed è qui che ci si sbaglia: uno alla volta, Leoni ci mostra come tutti gli esponenti della galassia nera americana (si possono citare Jared Taylor, Peter Brimelow, Brad Griffin) tendano pian piano a «indossare la cravatta», abbandonando i toni estremisti ed organizzando conferenze in spazi istituzionali – quando i privati non gli affittano le sale – nelle quali però sostengono che «a diverse razze corrispondono diversi quozienti intellettivi».

Quale che sia la facciata, l’estremismo scorre forte nel sangue degli americani, come dimostra il grande desiderio di mantenere basso il gun control, che pure produce un tasso di morti e feriti da arma da fuoco di svariate volte superiore a quello dei paesi europei. E qui, appunto, emerge un elemento “ideologico” che probabilmente un italiano o un francese faticano a comprendere fino in fondo, ma che Fascisti d’America ha il pregio di illustrare in modo eloquente. Tante volte, al cinema, capita di ascoltare la frase preoccupata di qualche losco personaggio: «Ci sono i federali!». Ecco, uno dei tratti caratteristici della destra americana, che si pone in totale antitesi con il culto statalista della destra europea, è l’idea che sia il governo federale stesso a cospirare contro gli Stati Uniti, un dogma indiscutibile per le frange più radicali.

Certo, potremmo vederla come un’ennesima manifestazione del complottismo che le anima. Ma la paranoia riflette anche un sentimento di distanza, di lontananza dall’istituzione federale, che invece in Europa è sconosciuto, se non in casi eccezionali. Con questa consapevolezza appare meno stramba l’idea che gruppi di fanatici americani credano che il vero potere non risieda nel Presidente degli Stati Uniti, ma nello sceriffo della contea. Del resto, lo sceriffo spara. E dunque le pallottole non sono e non dovranno mai essere monopolio federale. È dal rigetto dell’autorità federale che deriva la rivendicazione delle armi da fuoco (quante pagine sono state scritte, da Weber in poi, sul monopolio della forza come elemento distintivo dello stato moderno!). Tutti uniti nella lotta al gun control, al Presidente nero che lo propugnava, e al Nuovo Ordine Mondiale che si annida nel governo.

Come implica il concetto stesso di alt-right, il vero salto in avanti per la destra americana è stata la scoperta del Web. Uno snodo fondamentale che ha permesso a galassie isolate, popolate da pochi fanatici, di diffondere il loro verbo nell’intera società americana e di mobilitare migliaia di persone. Con la Rete il fenomeno sociale è diventato fenomeno politico: molto presto la classe politica repubblicana ha cominciato ad accarezzare questo pezzo iperattivo, fedelissimo e oltranzista dell’elettorato.

Della pletora di gruppetti estremisti (contrapposti e diversissimi tra loro, va ribadito) Donald Trump è stato il federatore, il messia, il Salvatore. E quando anche la pandemia di Covid ci ha messo del suo (il lockdown ha isolato milioni di persone davanti al computer), sono esplosi fenomeni parossistici come QAnon: una delle più assurde (e disturbanti) teorie del complotto mai sentite, eppure sbarcata addirittura al Congresso con Marjorie Taylor Green e Lauren Boebert.

Sullo sfondo, gli USA hanno continuato a infiammarsi sempre di più (in particolare dopo l’omicidio Floyd) e, caduto Trump, la polarizzazione politica non accenna a spegnersi neanche sotto la presidenza Biden. Dopotutto, bisogna dirlo apertamente: a destra l’obiettivo è la guerra civile. E l’assalto del 6 gennaio 2021 potrebbe essere stato solo un assaggio di quel che ci aspetterà.

A volte è perfino difficile credere all’affresco di violenza, paranoia, complottismo e fanatismo che Leoni dipinge nel suo libro. Forse il lettore più interessato ai risvolti socio-politici avrebbe preferito un’indagine più profonda e analitica del processo di aggregazione e di convivenza delle (tante) destre a stelle e strisce, eppure la bella penna dell’autore è preziosa nel tratteggiare un quadro sintetico, ma ricco e completo, di attentati, sigle, idee e teorici dell’alt-right. Il lettore sarà ancora più stimolato ad approfondire, facendo tesoro di quel pozzo di informazioni raccontate a ritmo di thriller che è Fascisti d’America.

 

(Federico Leoni, Fascisti d’America. I suprematisti bianchi, i complottisti di QAnon, le milizie armate, la destra radicale. Ecco gli orfani di Trump che vogliono la rivoluzione, Paesi Edizioni, 2020, 160 pp., euro 16, articolo di Marco Di Geronimo)

 

Copertina di Estinzione di Thomas Bernhard

Ipocrisia allo specchio

Estinzione, l’ultimo romanzo di Thomas Bernhard, pubblicato nel 1986 e edito per la prima volta in Italia da Adelphi dieci anni dopo, è un testo doloroso, una sorta di testamento intellettuale e letterario dell’autore dove la sua abituale intensa orchestrazione del testo risulta – in questo libro più che altrove – irriverente e violenta, quasi nociva per il lettore che tra un sorriso e una meschinità si ritrova nudo di fronte all’abisso che si nasconde dietro alla cortina dell’incanto.

Franz-Josef Murau, il protagonista di Estinzione, è un intellettuale austriaco che vive a Roma, lontano dalla ricca famiglia di possidenti terrieri. Murau è un irregolare, vittima della rigida educazione nazionalsocialista e cattolica che gli è stata impartita in casa, a Wolfsegg in Alta Austria.

Il libro, un lungo monologo interiore di quasi cinquecento pagine, è diviso in due parti, “Il telegramma” e “Il testamento”, entrambe composte da un unico paragrafo. La storia comincia con un telegramma inviato a Murau dalle sorelle, Caecilia e Amalia, che lo informano della drammatica morte dei genitori e del loro fratello maggiore. Proprio a partire da questa tragedia la voce narrante, con una scrittura incerta e trafelata, prova a seguire il pensiero del protagonista.

Il lungo monologo, che pure prende le mosse dall’evento luttuoso, è un disperato tentativo da parte di Murau di risolvere il complesso d’origine che accomuna tutta l’umanità. Il romanzo, di conseguenza, è caratterizzato da un linguaggio nevrotico e concitato adatto a mostrare al lettore il sofferto dispendio intellettuale della voce narrante. Il protagonista infatti attraverso il soliloquio prova a razionalizzare il violento traffico dei suoi pensieri.

Il pensiero, però, non riesce mai a sfuggire alla propria costruzione intellettuale, e per mantenere la sua struttura aleatoria si fa sempre più incoerente. Per giustificare il risentimento che Murau prova ancora nei confronti della famiglia il lutto viene inizialmente traslato nei limiti dell’accettabile; così, al posto del dolore per la perdita dei suoi cari, a traumatizzarlo è il suo essere un sopravvissuto; non la morte in sé quindi ma l’evento sensazionale che lo ha colto impreparato. Già dopo una ventina di pagine però il protagonista confessa lo shock causatogli dalla drammatica notizia e prende atto – per la prima volta nel libro – della propria debolezza e dell’impossibilità, o forse incapacità, di affrontare davvero il dolore.

È proprio questo continuo ondeggiare dall’esaltazione di sé al senso di colpa il tratto distintivo di tutto il romanzo. Il motore esplicito della narrazione però continua a essere il rancore nei confronti della sua famiglia e dell’Austria in generale; l’unico a salvarsi è lo zio Georg, fratello del padre, che per primo ha iniziato il giovane Murau allo studio e all’arte, guarendolo dall’annientamento intellettuale che i genitori avevano attuato nei suoi confronti.

Nel corso di Estinzione il monologo si fa sempre più vacuo e prova a estinguere tutto, compreso il passato. Il pensiero si rifugia in luoghi ormai vuoti, andati via per sempre, come i ricordi d’infanzia, perché come afferma Murau: «Crediamo che noi si sia arrivati al punto di essere una macchina pensante, ma non possiamo fidarci del pensiero di questa nostra macchina pensante. In fondo, essa lavora incessantemente contro la nostra testa, […] produce incessantemente pensieri dei quali non sappiamo da dove siano venuti e a che fine siano pensati e in quale connessione si trovano». Siamo dunque alla svolta: Murau comprende che l’essere umano è solo un pensatore sconfitto, è impossibile comprendere gli altri così come è impossibile comprendere noi stessi, e proprio per questo chi non sa nascondere il proprio pensiero diventa pazzo e soccombe nella maniera più infelice e terribile. A imperare dunque è la meschinità e ciò vale per tutti, indistintamente.

Estinzione si pone proprio come il testo ultimo, nato e concepito per estinguere definitivamente Wolfsegg e il passato e il presente che essa contiene; è la scrittura che si impone per annientare, in tutte le sue incongruenze, il complesso di origine dell’umanità.

Ecco perché Murau dopo aver letto il telegramma tira fuori dal cassetto della sua scrivania una foto dei suoi genitori, una del fratello Johannes e una delle sue sorelle, le osserva e torna col pensiero alla sua infanzia, non riuscendo a fare a meno di pensare alla natura diabolica delle persone, alla debolezza e all’ottusità del padre, all’inconsistenza del fratello, alla perfidia della madre e al beffardo disprezzo delle sorelle. Riflettendo su tutto questo si disgrega, e nel ricordare la complicità della sua famiglia con le SS e il Terzo Reich annienta con il deflagrare delle parole e del racconto la dolorosa realtà.

L’incoerenza del mondo è data dal velo di incanto che maschera la vita: anche il funerale viene descritto come un teatro a cielo aperto in cui tutti ipocritamente mentono sciorinando parole di commiato e banalità. Lo stesso Murau – preoccupandosi di continuo del ruolo che deve interpretare nel corso della cerimonia – non fa altro che recitare. Il protagonista si sente incommensurabilmente colpevole di essere come tutti gli altri e, benché sia attratto da chi vive di ipocrisia e gode dei frutti della propria meschinità – come Spadolini, un suo amico arcivescovo e allo stesso tempo amante della madre –, prova comunque a rifiutare qualsiasi forma di bassezza annientandosi attraverso la sua verbale furia liquidatoria. Innalza così la sua voce a grido collettivo e mostra a tutti quello che qualunque essere umano prova a nascondere: le quotidiane meschinità di ciascuno di noi. Estinzione è quindi l’ipocrisia che si guarda allo specchio e per salvarsi specchiandosi si estingue.

 

(Thomas Bernhard, Estinzione. Uno sfacelo, trad. di Andreina Lavagetto, prima ed. italiana Adelphi, 1996; 2020, 493 pp., euro 14, articolo di Giuseppe Maria Marmo)
Copertina di Storie che si biforcano di Dario De Marco

Le variazioni della letteratura

L’indipendente campana Wojtek Edizioni sembra avere una particolare attenzione per le opere in cui è di primaria importanza la ricerca formale, lo sperimentalismo e un certo gusto postmoderno viepiù tramontato nelle lettere italiane, e non sempre a giusta ragione, dopo la sbornia filoatlantista di qualche decade fa. Nel novero si ascrivono Teorie della comprensione profonda delle cose di Alfredo Palomba, ambizioso e straripante romanzo-mondo debitore tanto di Antonio Moresco quanto del massimalismo americano di Wallace e soci, Timidi messaggi per ragazze cifrate di Ferruccio Mazzanti, fulminante e svagata novella sull’universo hikikomori, e Storie che si biforcano, nuova uscita firmata da Dario De Marco.

Già dal titolo di questa silloge di racconti si può intuire l’ascendenza borgesiana, parentela che non si ferma solo all’omaggio ma interessa la struttura vera e propria dell’opera. Il libro è costruito su ventuno coppie di racconti i quali, pur presentando ambientazione e personaggi medesimi, a un certo punto della narrazione variano, arrivando a esiti differenti. Ci troviamo dunque di fronte una costruzione simmetrica che fa della forma il fondamento del gioco letterario. Ma c’è di più, perché il libro di De Marco è forse uno dei rari casi di letteratura ergodica all’italiana, ovvero un tipo di letteratura massimamente interessata all’effetto visivo del testo. E infatti il tomo si legge fisicamente in due sensi: i racconti sono disposti a pagine alterne, al termine di ogni racconto segni grafici suggeriscono che, oltre ad andare avanti con la narrazione nel verso consueto, si può capovolgere il libro e leggere il racconto speculare a quello che si è appena letto. Una piacevole scelta tipografica che aumenta l’entropia dell’opera e stimola il lettore a concepire il testo come spazio labirintico.

Ed è proprio della variazione che fa tesoro la scrittura di De Marco, perché, oltre all’attenzione formale, è la stessa materia del racconto a far riflettere sulla miriade di possibilità che possono interessare il campo letterario. Non si può dire che l’autore non abbia fatto un lavoro certosino anche sul piano del significato, il ventaglio di narrazioni è vario e mai banale: si va da racconti di fantascienza a gialli, passando per prove più intime e altre smaccatamente comiche. Proprio il genere, la possibilità di avere delle regole fisse da seguire e trasgredire, facilita l’autore nel porre in evidenza lo scarto fra una via narrativa e la sua controparte. Gli esiti dei racconti spesso riflettono il destino dell’uomo, il fatto che è così volubile, o così esposto al caso: un piccolo dettaglio, un mutamento di poco conto porta a svolte inattese, mette in moto una reazione a catena che sfocia in esiti antitetici, tragici in un senso e, nel racconto speculare, al contrario comici. Così un uomo può morire o trovarsi braccato dalla polizia, un altro assassinato o salvo in una sparatoria, un personaggio può avere un tumore oppure rendersi conto di averlo solo sognato: le permutazioni sono considerevoli.

Sulla scorta di padri nobili del gioco letterario, quali il Manganelli di Centuria e il Queneau degli Esercizi di stile, ma anche, per quanto riguarda l’attenzione che viene richiesta al lettore, il Cortázar di Rayuela, De Marco si approccia al groviglio di traiettorie che può prendere la penna quando si scrive e ne esce con una prova divertente, stimolante, in grado di biforcarsi, triplicarsi, moltiplicarsi all’infinito nella mente del lettore che, abituato a tanta soporifera letteratura odierna, si ritrova per una volta con i neuroni piacevolmente in fiamme.

 

(Dario De Marco, Storie che si biforcano, Wojtek Edizioni, 2021, 120 pp., euro 14, articolo di Giovanni Bitetto)
Qui non crescono i fiori di Giordano

Ognuno sulla propria isola

Avevo già avuto modo di leggere Qui non crescono i fiori di Luca Giordano nel 2013, quando uscì la prima volta per ISBN Edizioni. Rileggerlo a distanza di otto anni, riedito da TerraRossa Edizioni nella collana Fondanti, mi ha permesso di ripensare e riflettere su elementi del romanzo che la prima volta mi erano sfuggiti. La storia, così come lo stile asciutto e di forte impatto visivo, cinematografico, li avevo ben presenti. È innegabile per esempio che Luca Giordano abbia una passione per Guillermo Arriaga e Alejandro González Iñárritu. Tanto da poter dire, allora come oggi, che Qui non crescono i fiori sembra il quarto capitolo di Amores perros, il film che portò al successo Iñárritu e Arriaga.

Il romanzo racconta di due fratelli, Damiano e Salvatore, che restano appiedati con il loro Ape in aperta campagna sull’isola in cui vivono. L’isola si trova in un mare del profondo Sud e non viene mai nominata, ma da vari indizi la si può identificare con Lampedusa. Damiano lascia il fratello dodicenne da solo e torna verso la casa/officina del padre per cercare aiuto. Quando arriva, trova suo padre con Pietro – un amico di Damiano che lavora nell’officina – che tentano di montare un’antenna parabolica sul tetto. In poche pagine e con poche ma perfette pennellate, Giordano ci fa capire i rapporti e le incomprensioni fra i personaggi in scena. La gelosia di Damiano verso il fratellino, il padre che beve oltre il lecito e che per ogni cosa incolpa il figlio grande, e la mancanza o sparizione della madre/moglie Alice. Una famiglia di maschi senza donne, cui si aggiunge Pietro, l’amico e aiutante dell’officina.

Rimasto da solo a tenere d’occhio l’Ape, Salvatore viene aggredito da un cane randagio che lo morde. Questo evento, ancorché traumatico, apre un’irrefrenabile curiosità di Salvatore nei confronti dei cani, fino a adottarne uno di nascosto che tiene in una cascina abbandonata, nonostante il padre gli abbia sempre intimato di non entrare lì mai per nessuna ragione. Intanto, Damiano sogna di abbandonare l’isola, e con Pietro pensa di iscriversi alle selezioni del Grande Fratello: quale occasione migliore per andare via e diventare ricco e famoso?

Queste sono le linee guida, le tracce lasciate dai personaggi sulla polvere delle strade di campagna dell’isola. È sempre pericoloso andare alla ricerca di riferimenti letterari che talvolta ingombrano più che spiegare, tuttavia leggendo il romanzo di Luca Giordano mi sono trovato a ripensare a una voluminosa letteratura americana della provincia che nell’ultimo lustro ha sbancato, perlomeno in Italia, in libreria. Per esempio mi sono tornati in mente alcuni passaggi di Ruggine americana di Philipp Meyer – o meglio a una certa relazione fra ambienti familiari, desiderio di fuga, degrado e sogni irrealizzabili – e ho capito che i personaggi di Qui non crescono i fiori sono ciascuno un’isola a sé stante, come quella su cui vivono. Il principale motore è l’incomunicabilità, l’incapacità di esprimere se stessi e mostrarsi all’altro per quel che si è e per quel che si prova.

Salvatore vorrebbe un cane ma ha paura di dirlo a suo padre. Damiano odia suo fratello e sogna la fuga dall’isola, Pietro di nascosto manomette le auto dell’isola per far sì che l’officina non debba chiudere. Infine Mario, il padre di Salvatore e Damiano, ha un segreto ancor più inconfessabile che riguarda la madre dei ragazzi, che una mattina è scomparsa nel nulla – perlomeno questo è ciò che sa Salvatore.

È in questi non detti, in questi passati oscuri, nel caldo che tormenta, nel sole che non dà tregua, nella terra polverosa, nella solitudine di ciascun personaggio, perfino in quelli di contorno (come la vecchia vedova che non si arrende alla morte del marito e continua a aspettare che rientri, che apra la porta di casa e si palesi) che ognuno di loro si costruisce la propria isola. Come in Ruggine americana c’è sempre una tragedia alle porte, quasi a sottolineare che solo una tragedia può scuotere l’immobilismo in cui galleggia quella realtà. È di tragedia in tragedia che progredisce la vicenda, che le isole di ciascuno come terre alla deriva si toccano e si scontrano – e qui torna Amores perros.

Qui non crescono i fiori è un romanzo crudo, tanto vero quanto ineluttabile, in cui il lettore vede con precisione i personaggi, li vede senza ombre, ma solo perché le ombre a mezzogiorno sono cortissime, vede e sa che non può fare niente per cambiare la realtà, o il destino se si preferisce. E sullo sfondo resta solo una barca, nascosta in un anfratto, l’unico mezzo capace di connettere fra loro le isole, il piccolo segreto di famiglia, l’unico momento di unione.

 

(Luca Giordano, Qui non crescono i fiori, TerraRossa Edizioni, 2021, 216 pp., euro 15,90, articolo di Fernando Coratelli)

 

Copertina di Lavocat Fatto e finzione

Frontiere della finzione: mondi attuali e mondi possibili

Fatto e finzione di Françoise Lavocat, Segni e stili del moderno di Franco Moretti e Le costanti e le varianti, atti del Convegno Compalit 2019, costituiscono le prime opere pubblicate da Del Vecchio Editore nella nuova collana L’anima e le forme.

Francesco De Cristofaro, membro del Comitato di direzione, ricorda la natura proteiforme di questa collana, che già nel titolo lukácsiano (L’anima e le forme è infatti una raccolta di saggi sulle modalità privilegiate nel rapporto tra vita e anima umane pubblicata da György Lukács nel 1908) rivela la propria fisionomia quale punto di riferimento per il dibattito culturale di teoria della letteratura e di letterature comparate: produzione saggistica (monografie originali), ristampe (testi fuori commercio la cui voce risulta però ancora importante nel panorama della ricerca letteraria) e lavori di équipe (atti di convegni, seminari, giornate di studi e tesi di dottorato di comprovata importanza scientifica) ne costituiscono la triplice espressione editoriale. L’ispirazione della collana, una cui fondamentale particolarità risiede nella doppia possibilità di fruizione (cartacea e online), potrebbe dopotutto essere ben espressa con le parole, pur naturalmente riferite ad altro contesto, contenute nella premessa dal titolo C’era una volta, con la quale Franco Moretti introduce ai suoi Segni e stili del moderno (p. 8), ricordando quando tra gli anni Sessanta e Ottanta, scrivere «un saggio su rivista non era come porre un mattone nella grande cattedrale del sapere; era uno schizzo di tutta la cattedrale; sghembo, e magari troppo microscopico per essere preso sul serio; ma quella cosa lì. In ogni pozzanghera, si provava a vedere il firmamento. Gran fatica, grande libertà».

Il primo volume pubblicato in questa collana, per la prima volta tradotto in italiano dopo l’originale edizione francese (Seuil, 2016) è Fatto e finzione. Per una frontiera di Françoise Lavocat (trad. di Chetro De Carolis) che, come ricordato da Guido Mazzoni nell’ambito delle serie di incontri di Extrema ratio, segna un punto di svolta in un dibattito critico di lunga tradizione, sia per ragioni interne alla teoria della letteratura e alla letteratura comparata sia per ragioni esterne ad esse, legate piuttosto alla trasformazione della nostra cultura, alla logica del discorso pubblico, dei media e del dibattito politico.

Ben diverso da un pamphlet, questo libro davvero molto vasto si muove infatti con grande coerenza attorno ad alcuni fondamentali nuclei teorici.

Con la prima grande questione ripercorsa nella trattazione, Lavocat ricostruisce la storia dell’opposizione teorica di due posizioni filosofiche circa lo spazio di frontière tra fatto e finzione: contro quelle teorie che, negando tale frontiera concettuale, sanciscono l’assenza di segni di finzionalità all’interno dei testi, Lavocat recupera, e abbraccia, la teoria immanentista, affermando come la distinzione tra fattualità e fiction sia interna alla logica del funzionamento dei testi ‒ esclusi, però, quelli di indirizzo poetico, come assunto anche da Genette in Fiction et diction (1991).

Pertanto, con una prospettiva di lunga durata, questo studio si ricollega non solo ai discorsi degli ultimi decenni sopra questo grande dibattito che vede coinvolti, tra gli altri, Barthes, Ricœur, Veyne, Foucault, Lacan, ma anche ai termini aristotelici di storia (intesa, appunto, come fatto) e di poesia (finzione) sui quali dibattevano i grandi intellettuali della cultura europea già nella seconda metà del Cinquecento e poi nell’arco dell’intero Seicento (recuperando, comunque, questioni teorico-letterarie di origine classica).

Nel libro, inoltre, si procede alla comparazione di elementi propri non solo delle culture occidentali (in ispecie americana, inglese, francese e italiana) ma anche di quelle orientali (giapponese in prima istanza). Fin dal primo capitolo, infatti, si includono nel novero dei casi presi in esame nell’ambito dei chiarimenti circoscritti sulla materia anche esempi tratti dalla letteratura asiatica; si pensi all’originale disamina di Genji monogatari, romanzo attribuito alla dama di corte imperiale Murasaki Shikibu e scritto in Giappone intorno all’anno Mille.

Premessa teorica indispensabile a questo studio è che i segni di finzionalità, per quanto ritenuti immanenti ai testi, non vengono tuttavia letti come elementi costanti; al contrario, essi appaiono ricollocati di caso in caso nei loro specifici contesti di riferimento. Per questa ragione, si afferma la necessità di «equilibrare una prospettiva interna (l’indagine sugli indizi interni di finzionalità o di fattualità) e una prospettiva esterna (pragmatica, culturale, sociologica)» (p. 66), così da rimarcare la suddetta distinzione tra testi finzionali e testi fattuali, che Lavocat ritiene essere paradossalmente scaturita dall’«odio della finzione» (p. 173): una sorta di contropartita, insomma, del rifiuto della categoria di finzione tradizionale ottocentesca.

Dichiarando apertamente di allontanarsi da assunti strutturalisti e da «vari millenni di timorosa diffidenza nei confronti dell’immersione finzionale» (p. 649), Lavocat afferma poi la sostanza ontologica della frontiera che distingue fattualità e finzionalità: ne deriva la natura concettuale, cioè non pragmatica, della distinzione tra realtà e fiction, che pure non esclude certamente quelle forme di ibridazione per le quali all’autrice risulta impossibile dettare una risoluzione pienamente normativa del discorso. Si verificano infatti dei casi in cui un personaggio reale si trova inserito in una dimensione finzionale quale referente storico all’interno della dinamica testuale (valga l’esempio celeberrimo di Napoleone in Guerra e pace). Un ruolo decisivo, infatti, è giocato da quei meccanismi di identificazione che, attraverso l’empatia, favoriscono un «certo tipo di immersione nel racconto e di identificazione col personaggio insita nel romanzo» (p. 26).

A ogni modo, questo tipo di eterogeneità referenziale non afferisce solo a forme antiche o ritenute letterariamente canoniche: anche la narrazione cinematografica, infatti, ne viene investita molto frequentemente. Ad esempio, nel film di Spike Jonze, Adaptation (2003, tit. ita. Il ladro di orchidee), s’individuano tre categorie di personaggi cui corrispondono diversi gradi di finzionalità intorno ai quali s’impernia la sceneggiatura: John Malkovich nel ruolo di se stesso all’inizio del film; il personaggio di Charlie Kaufman (interpretato da Nicolas Cage) nel ruolo dello sceneggiatore incaricato, nella realtà così come nella pellicola, dell’adattamento di un libro documentaristico sulla vita del coltivatore di orchidee John Laroche, che è interpretato da Chris Cooper ed è personaggio reale, come pure la giornalista Susan Orlean, l’autrice dell’opera interpretata da Meryl Streep. Il libro in questione è The Orchid Thief, pubblicato dalla giornalista nel 1998. L’intervento di un personaggio di finzione, Donald Kaufman, nel ruolo del fratello gemello dello sceneggiatore Charlie, complica ulteriormente la dinamica dei «sofisticati giochi orchestrati dal film intorno alla referenzialità» (p. 507).

 

Un’altra importante questione affrontata nel libro riguarda le problematicità derivate dal rifiuto della frontière: negare la distinzione tra fatto e finzione, infatti, comporta delle conseguenze di tipo etico che già Carlo Ginzburg aveva sottolineato nel corso del suo dibattito con Hayden White circa le riflessioni sui diversi modi di intendere il rapporto tra storia e letteratura. Questa è dopotutto una delle ragioni per la quale nel merito del discorso si evidenziano alcune possibili contrarietà circa la finzionalizzazione dell’esperienza estetica.

Non mancano, in questo senso, i riferimenti contemporanei. Si pensi ai due esempi europei di «revisionismo attraverso la finzione», che rivelano come la natura ibrida di certe costruzioni storico-finzionali possa originare, «grazie ai modi propri della finzione, delle versioni non attestate e non consensuali della storia» (p. 142): Los soldados de Salamina di Javier Cercas (2001) e Jan Karsi di Yannick Haenel (2009).

È opportuno però tenere conto che, come ricordato da Pierluigi Pellini nel suddetto incontro di Extrema ratio, un certo uso della realtà storica all’interno della finzionalità pone sì un problema etico, ma origina anche degli interrogativi sulla liceità dell’azione, dell’inventiva e della licenza autoriale, dal momento che in un simile contesto si profila il rischio di restituire alla letteratura una funzione strettamente pedagogica, limitandone l’effettivo campo d’indagine.

Il discorso investe anche la dimensione politica: la dichiarazione sulla «realtà alternativa»,  consapevolmente integrata al discorso ufficiale della presidenza statunitense, rilasciata nel corso di un’intervista per la CNN il 22 gennaio 2017 da Kellyanne Conway, allora counselor di Donald Trump, fornisce un esempio immediato dei rischi legati alla negazione della frontière, dalla quale anzi derivano due fenomeni complementari ulteriormente rimarcati anche da Guido Mazzoni: l’indistinzione tra realtà e finzione nel dominio politico e la finzionalizzazione del potere, tratti peculiari già dei fascismi e delle dittature del secolo scorso e oggi dei populismi.

Come alcuni esempi riportati hanno già mostrato, la ricca vastità dei soggetti presi in esame e posti a sistema nella prospettiva analitica degli studi condotti nel libro abbraccia diverse discipline, tra le quali anche le scienze cognitive (a partire, soprattutto, dagli studi di Anna Abraham e Marco Sperduti), la museografia e l’ambito giuridico. In merito all’incontro tra letteratura e realtà giudiziaria, argomento di grande attualità soprattutto negli studi americani (la Legal Narratology in cui spicca il volume del 1996 di Peter Brooks, Law’s Stories: Narrative and Rhetoric in the Law), Lavocat suggerisce che la finzione, considerata spesso come dominio del non-diritto, costituisce in realtà un luogo di costante negoziazione dello stesso, inteso come diritto di referenzialità.

L’attenzione allo statuto dell’individuo su cui s’impernia l’elemento finzionale nella dinamica testuale e al grado di prestigio attribuito alla figura dell’autore conduce a un paragone tra realtà occidentale e realtà orientale, dove una secolare tradizione di testi in prima persona quando più quando meno impostati sulla fiction pone al centro della scena narrativa persone reali, il cui ritratto finzionale raramente comporta conseguenze legali (almeno fino alla svolta epocale del clamoroso processo intentato tra il 1961 e il 1966 a Yukio Mishima dal politico Hachirô Arita a causa del romanzo Dopo il banchetto). Al contrario, nella società occidentale i primi episodi processuali sono stati intentati da persone «non potenti e che si reputano lese per essere servite da modello alla parte avversa» (p. 345) già a fine Ottocento. Il primo caso recensito dalla giurisprudenza vede opposti Émile Zola e un certo Duverdy nel febbraio 1882; nel 1887, invece, Jules Verne aveva vinto un processo di diffamazione contro l’ingegnere Turpin, che si era riconosciuto in un personaggio di Face au drapeau.

Questo esempio, come gli altri numerosissimi casi riportati nell’architettura del discorso scandagliato da Lavocat nelle sue molteplici declinazioni teorico-filosofiche, mostra insomma quanto sia importante e attuale «la necessità cognitiva, concettuale e politica delle frontiere della finzione» (p. 10): lo studio del «fenomeno della finzionalità», così, si delinea non solo come studio di una «costante antropologica» e di una «competenza cognitiva condivisa», ma anche quale «esercizio di libertà» (p. 31).

Poster di La tigre bianca

Il pollo è scappato dalla stia

I colori della pelle a volte sono così diversi che l’uomo  vi ha costruito sopra il mostro del razzismo. Ne La tigre bianca di Ramin Bahrani spicca il marrone dell’India, e marginalmente il giallo della Cina, ammirata dal protagonista, Balram Halwai, per non essersi sottomessa al tentativo di schiavizzazione da parte dell’Inghilterra.

Sullo sfondo l’eleganza del bianco, che brilla fra le tigri perché è una rarità. Noi occidentali lo abbiamo trasformato nel colore del potere, in questo film diventa la meta da raggiungere. Balram lo dice chiaramente che «il futuro appartiene ai gialli e ai marroni», anche se poi il suo modello diventa appunto una tigre bianca, segno di supremazia proprio per il suo colore albino, un’eccezione in mezzo a un branco di animali gialli e neri – gli stessi di cui crede che domineranno il mondo: «L’India e la Cina sono il domani, ora che i nostri ex padroni, i bianchi, si sono rovinati con la tossicodipendenza, la sodomia e l’abuso di telefonia mobile». La metafora cromatica va oltre il razzismo della pelle, esprimendosi come denuncia alla «più grande democrazia del mondo», appellativo ironico e dissacrante col quale viene definita l’India.

Balram si trova imbrigliato nel sistema delle caste, soffocato da una società corrotta e senza scrupoli: lui stesso viene fermato da bambino, quando tenta di dimostrare la sua intelligenza, ma gli è imposto di portare i soldi a casa dalla famiglia. Come nella stia per i polli l’odore del sangue annienta la capacità di ribellione degli animali, così tra il popolo indiano di un servo ci si può fidare ciecamente: imbrigliato nella gabbia, vi rimane senza opporsi.

Una volta cresciuto si fa strada nel mondo degli autisti, vigile a cogliere qualsiasi opportunità di ascesa. E quando entra nelle grazie di un giovane padrone, Ashok, più umano rispetto alla famiglia che perpetra il proprio potere fatto di sfruttamento e illegalità, scopre i semplici privilegi di una vita lontana dalla povertà: lavarsi i denti, pettinarsi i capelli, profumarsi con il deodorante. Gesti quotidiani che rendono la sua esistenza di ultimo ancora più opprimente; così tanto da costringerlo a commettere un crimine pur di ascendere nella scala sociale. È mascherato da maragià quando si illude di essere entrato nella cerchia ristretta di Ashok; ma l’abbaglio dura soltanto un attimo: si dice che l’abito non faccia il monaco.

La tigre bianca è allora una denuncia inclemente e priva di scrupoli a una società che spinge i poveri a delinquere pur di liberarsi dalle catene di un destino senza scampo. È svanita l’innocente illusione del sogno che si realizza.

Balram se la prende, tra le righe, con The Millionaire per sottolineare che il suo è un dramma dark che non lascia spazio alla speranza. Anche quando raggiunge l’obiettivo rimane quel sapore amaro del riscatto costruito sulla morte e sull’inganno. Approdato al trono del potere, dice di rispettare i suoi dipendenti con l’illusione di un contratto di lavoro, ma si tratta pur sempre di un successo ottenuto con il furto di una borsa di soldi a un uomo aggredito alle spalle. Come canta Vinicio Capossela, «I miei sogni se li è presi l’uomo nero e non li ha resi; l’uomo nero che li tiene e ti trattiene un anno intero. M’han coperto tutto d’oro e poi mi han lasciato solo: solo, solo qui a pensare, a diventare marajà».

Il marcio contro il quale si indigna da povero diventa parte integrante del suo modo di pensare da ricco: l’inclinazione a essere uno schiavo buono e rispettoso, e il dramma psicologico che ne consegue, non lo libera dal male. Essere uscito dal pollaio lo rende speciale rispetto alle sue origini, ma esattamente uguale ai padroni dai quali è fuggito. «L’imprenditore indiano deve essere integerrimo e disonesto, religioso e ateo, subdolo e sincero, tutto allo stesso tempo».

Il costo della libertà non equivale alla sete di giustizia sociale: pur di arrivare a respirare senza il perenne nodo alla gola della schiavitù, è disposto a qualsiasi compromesso o azione malevola. La sua vita non è altro che l’emblema dell’imitazione di massa: impara l’arrivismo dai suoi simili, come assorbe la corruttibilità da chi lo manovra. Jaspers, nel suo Psicopatologia generale, scrive che «L’individuo perde nella folla la padronanza di se stesso. Non perché si entusiasmi da sé, ma perché la folla lo contagia, così si propagano le passioni; le mode e le usanze hanno la loro origine in questa imitazione […]. Noi giudichiamo, valutiamo, prendiamo posizione, riprendendo semplicemente, contro la volontà e senza saperlo, i giudizi e le valutazioni di altri. Non abbiamo affatto valutato, giudicato, preso posizione da noi, e tuttavia abbiamo il sentimento della presa di posizione personale. Questa adozione dei giudizi altrui senza un giudizio proprio, si chiama suggestione del giudizio».

La tigre bianca è dunque un film molto interessante, ricco di spunti per cercare di capire meglio l’India di oggi: «la nostra nazione manca di acqua potabile, elettricità, fognature, trasporti pubblici, senso dell’igiene, disciplina, cortesia e puntualità, la più grande democrazia del mondo a livello demografico, ma non di imprenditori».

Dispiace solo che la tensione della prima parte del film sia scemata nel finale: chissà, magari avrebbe potuto tentare di affacciarsi sulla cima di Parasite, esempio perfettamente riuscito di commedia dalle tinte nere che racconta il dramma del divario fra ricchi e poveri, oppure superare in qualità The Millionaire, l’alter ego indiano a cui Balram risponde per le rime. Lui che ascende dalla casta dei Shudra, i servitori identificati con il colore nero, a quella dei Vaishya, gli artigiani dalle tinte giallo e bronzo. Purtroppo il bianco degli intellettuali Brahmani rimane un miraggio. «Se anche dovessero sbattermi in prigione, non mi pentirei mai di ciò che ho fatto; ne vale la pena se ti fa assaporare, anche solo per un giorno, un’ora o un minuto, cosa significhi non essere un servo».

(La tigre bianca, di Ramin Bahrani, 2021, drammatico, 125’)