La collana Special Books di ISBN Edizioni

Per il mese di giugno dedicato a ISBN Edizioni, abbiamo scelto di approfondire Special Books, la collana di narrativa straniera caratterizzata da uno stile grafico che a solo un anno dalla sua presentazione, nel 2011, si è meritato l’European Design Award. Il perché dell’aggettivo special è presto detto: oltre che un incontro con autori inediti o presenti con pochi titoli in Italia, questi libri di piccolo formato assicurano un’esperienza tattile unica: titolo e illustrazione sono in rilievo sulla copertina del libro; basta prenderne uno in mano per lasciarsi incuriosire da una sensazione a cui non siamo certo abituati quando passiamo la mano da una parte all’altra sulla copertina generalmente liscia e uniforme di un libro e lo scegliamo.

Sul bianco che, come abbiamo già puntualizzato nella presentazione di due settimane fa, caratterizza e simboleggia l’idea di purezza che la casa editrice vuole trasmettere, si imprimono tutte le informazioni che possono entrare sulla copertina di un formato tascabile, attraverso un’ampia anticipazione della trama o una grafica presente, ma al tempo stesso essenziale e simbolica. Pensiamo, e cominciamo così a conoscere qualche titolo, da Skippy muore di Paul Murray(2010), in cui la notizia della morte del protagonista è già sulla copertina, che assomiglia alla prima pagina di un quotidiano, o a Il ladro di gomme di Douglas Coupland (2013), in cui le palline di gomma coloratissime si riferiscono sia all’accumulo di oggetti dello Staples megastore, dove lavorano i personaggi, ma anche alle diversità dell’animo umano, che si manifestano dall’incontro-scontro degli umori imprigionati in forme sempre uguali.

 

               

 

«Tutta la superficie del libro è un pretesto per raccontare, mescolare testo e immagine, per portare il contenuto fuori dalle righe», ha spiegato Alice Beniero, art director di ISBN a Il Sole 24 Ore, «cercare una forma di comunicazione diretta, dichiarare in copertina lo sviluppo della storia, ammiccando ai media e ai supporti visivi che useremmo nel quotidiano per raccontare un determinato evento». Una prima impressione importante, immediata, diretta, a cui ritornare alla fine della lettura prima di riporre il libro nella libreria.

Dall’aprile 2010, anno in cui la collana è stata presentata al Salone Internazionale del Libro di Torino, è stato rispettato il proposito di pubblicare sette libri l’anno.

L’ingresso nella squadra di Douglas Coupland, autore di best-seller internazionali che pubblica attualmente solo con ISBN, è stato sicuramente un traguardo importante e ha quasi coinciso con l’inaugurazione di Special Books. Generazione A, il primo titolo con ISBN, è infatti uscito il 23 settembre 2010 con traduzione di Marco Pensante. Si tratta del seguito di Generazione X, romanzo d’esordio dello scrittore canadese (Mondadori, 1998) che, battezzando con questa definizione la fetta generazionale che ha trent’anni nei primi anni Novanta, disegna il paesaggio surreale, distopico e in più di un caso post-apocalittico che farà da sfondo ai romanzi successivi come Le ultime cinque ore (gennaio 2013, in questa stessa collana).

Tra i ventuno Special Books, come di consueto, vogliamo suggerirvene tre:

  • I corpi neri, di Shannon Burke (2011), storia intrisa della violenza e del dolore che bagnano una New York dell’inizio degli anni Novanta, vissuta nell’autoambulanza, luogo in cui alla violenza si argina, si tampona prima che sia troppo tardi.
  • Il libro segreto delle cose sacre, di Torsten Krol (2012), una trama di sentieri inaspettati tracciati da un autore mai apparso pubblicamente; uno scenario post-apocalittico in cui si muove una società nuova, rinnovata dal disastro ambientale.
  • Alta definizione, di Adam Wilson (2013), una sorta di romanzo di (non)formazione che ha per protagonista un ventenne la cui vita da perdente passata ad accumulare informazioni ricevute da tv e computer, ma senza uscire di casa né interagire fino in fondo con la realtà, è destinata a cambiare radicalmente grazie a un incontro fortuito.

Inoltre, i titoli più venduti della collana SpecialBooks, per ora il già citato Skippy muore e L’ultimo lupo mannaro di Glen Duncan (2011), sono già disponibili in ristampa nella collana SuperSpecial, di recente inaugurazione e caratterizzata da un nuovo formato e un nuovo progetto grafico, tutto basato sulla comunicazione: una cornice delimita uno spazio ancora una volta bianco in cui troneggiano l’elemento-simbolo del libro e la citazione a cui è affidata la “seduzione del lettore”. Una collana che sembra voler ulteriormente riassumere il percorso della casa editrice, fissando alcuni punti fermi: vecchi titoli, nuovi classici.

“Per le mani ti prenderò” di Alessandra Boccaletti e Giovanna Dodi

Per le mani ti prenderò (Ensemble, 2013) è l’incontro di quattro mani: due, adulte, appartengono a Giovanna Dodi, che ha messo al mondo una bambina affetta da sindrome di down; le altre due, più piccole, sono della (ex) bambina in questione, Alessandra Boccaletti, i cui pensieri diaristici intervallano la narrazione della madre: la descrizione di vent’anni di una vita diversa, che necessita di una gestione non rispondente alle logiche convenzionali, spesso complessa.

La visione che Dodi offre nel raccontare il quotidiano della disabilità è molto distante da quella di Gianluca Nicoletti che, poco tempo fa, in Una notte ho sognato che parlavi dipingeva il rapporto con il figlio autistico con una spietatezza che abbracciava sia la ferocia che l’affetto: qui, il registro stilistico è semplice e mite, come a rispecchiare il carattere di questa piccola donna che si definisce «down dentro, ma fuori no»,studiosa e compita, perfettamente autonoma, sempre pronta a nuovi viaggi e avventure. Sono proprio gli stralci di diario della ragazza, purtroppo scarni, a rendere particolare e curioso questo piccolo libro: impossibile non pensare a Roland Barthes, quando affermava che «Le parole non sono mai pazze, tutt’al più sono perverse: è la sintassi ad essere pazza», quando ci si trova di fronte a concetti resi con una disarmante potenza sgrammaticata: «Quello che ho da dire dico alla Sara, i suoi sogni entrano nei miei sogni».

Le due prospettive, interna ed esterna, si sovrappongono senza soluzione di continuità, ibridandosi. Le preoccupazioni della madre incontrano la voglia di vivere della figlia, che dà a tratti l’impressione di essere la vera adulta della vicenda. Osservando questa fotografia affollata di personaggi, ognuno con il suo ruolo, il suo affetto e le sue ansie, quello che resta è forse il legame serrato della famiglia nucleare, impegnata e caparbia, ma soprattutto la figura solare di questa ragazzina che viaggia, legge, ascolta musica, si diploma e rivendica costantemente un’autonomia che, seppure non percorribile su binari conformati, sembra urlare il sacrosanto diritto all’individualità.

 

(Giovanna Dodi, Alessandra Boccaletti, Per le mani ti prenderò, Ensemble, 2013, pp. 84, euro 12)

“Stoker” di Chan-Wook Park

Primo film occidentale, prodotto dai fratelli Ridley e Tony Scott con Michael Costigan, per Chan-Wook Park che in Stoker dirige Mia Wasikowska, Matthew Goode e Nicole Kidman in un inquietante racconto di formazione.

India Stoker è una ragazza riservata e introversa, che vive in una grande villa isolata con i genitori e la governante. Con il padre Richard ha un rapporto speciale fatto di silenziose battute di caccia: è l’unico che riesce a vincere l’impassibilità che la ragazza sembra riservare al resto del mondo, inclusa la madre Evie che maschera con formale frivolezza la gelosia per la figlia. Il giorno del suo diciottesimo compleanno India attende il ritorno a casa del padre ma ad arrivare è invece una telefonata che ne annuncia la morte in un incidente. Al funerale si presenta Charlie, il fratello più giovane di Richard, bell’aspetto e macchina sportiva, che India non aveva mai conosciuto e di cui non aveva mai sentito parlare. Lo zio decide di rimanere per un po’ di tempo con loro. India, inizialmente insospettita e turbata dalla presenza dell’estraneo sente crescere un’attrazione mai provata per Charlie fino a scoprirne la vera natura.

Il regista di Old boy sbarca a Hollywood con un thriller teso e raffinato che indaga sul valore simbolico della violenza come mezzo di passaggio traumatico nel corso della vita.

C’è da rimarcare subito un aspetto di Stoker di Chan-Wook Park: l’assoluta perfezione formale della messa in scena che somma in sé un susseguirsi di trovate registiche perfettamente accompagnate dal montaggio di Nicolas De Toth, carico di suggestioni e analogie (la scena dei capelli spazzolati che diventano ciuffi d’erba), e dalla fotografia di Chung-Hoon Chung, che gioca alternando tenebra e luce per esplodere nel luminoso e colorato finale.

Per il resto, Stoker è una parabola sul passaggio all’età adulta e sulla fine dell’infanzia attraverso la scoperta della sessualità come appetito incontrollabile (qui il senso del riferimento contenuto nel titolo-omaggio all’autore di Dracula), dell’eros come impulso distruttivo e istinto di morte. Attraverso una simbologia precisa – le scarpe: sempre basse e uguali ogni anno quelle donate dal padre, troppo strette il giorno del compleanno; col tacco, aggressive e femminili quelle regalate dallo zio – India segue un percorso di crescita che passa attraverso la distruzione delle figure maschili per una graduale presa di coscienza della propria dimensione femminile. La rimozione della sicurezza della figura paterna le lascia aperta una strada nuova di libertà che si manifesta sin dall’incipit anticipatore: «Diventare adulti vuol dire diventare liberi», dice India parlando di responsabilità del colore dei fiori e del vento necessario a gonfiare una camicia. Quel vento è la scoperta del desiderio come forza violenta così come appare nella scena della masturbazione nella doccia, del desiderio come gioco di armonia e dominio nel frenetico duetto al piano con Charlie.

Partendo dalla sceneggiatura di Wentworth Miller (prima scrittura per l’attore noto per la serie tv Prison break), Park riesce a mantenere la tensione a livelli quasi ipnotici fino al momento in cui si inizia a rivelare la verità di Charlie. È in questa prima parte che Stoker raggiunge i momenti più potenti e alti, sia a livello registico che di trama, che culminano con l’arrivo della zia Gil e la sequenza a montaggio alternato nel motel dal sapore hitchcockiano, prima manifestazione di quel vampirismo simbolico e incruento che è l’essenza di Charlie. Nell’evolversi, però, l’intreccio non riesce a mantenersi al livello della forma espressiva e dell’allegoria sulla perdita dell’innocenza di India che attraversa tutto il film finendo per appiattirsi su un livello da horror adolescenziale.

Nei panni della silenziosa India Stoker, Mia Wasikowska riesce particolarmente bene, così come Matthew Goode come Charlie, affascinante e misurato nel mascherare la follia, e la vedova bambola interpretata da Nicole Kidman.

I brani eseguiti al pianoforte sono stati appositamente composti da Philip Glass.

 

(Stoker, di Chan-Wook Park, 2013, drammatico, 100’)

“La bionda e il bunker”: a tu per tu con Jakuta Alikavazovic

Dopo aver fatto il suo esordio in Italia lo scorso anno con Fuga in blu (Transeuropa, 2012), Jakuta Alikavazovic torna in libreria con La bionda e il bunker (66thand2nd, 2013). Un romanzo, o meglio un enigma: Anna, fotografa, una bionda irresistibile; John, l’ex marito, scrittore; una fotografia che scatena inevitabile attrazione e gelosia, una collezione d’arte perduta, un amore nascosto, un copriletto blu. Questi, e molti altri, i tasselli con cui la scrittrice francese compone il suo rompicapo, sfiorando il genere noir e coinvolgendo il lettore nella ricerca di qualcosa di impalpabile: una forma d’arte, un mito, forse un segreto da nulla. Con una scrittura che unisce la precisione chimica alla perenne sensazione di disorientamento, di inganno, La bionda e il bunker è un meccanismo estetico perfetto.

Ne abbiamo parlato con l’autrice in occasione del Salone del Libro di Torino:

Avendo letto La bionda e il bunker dopo Fuga in blu, pubblicato in italiano lo scorso anno, ho avuto l’impressione che molti aspetti, sia per quanto riguarda la struttura sia il contenuto del libro, fossero analoghi, marcassero una sorta di percorso comune, sei d’accordo?

Mentre scrivevo questo libro, La bionda e il bunker, avevo l’impressione di scrivere qualcosa di completamente nuovo per me, e poi, una volta arrivata in fondo, quando ho cercato di leggerlo come un lettore e non come uno scrittore – o almeno quando ho tentato di farlo, perché non è facile – mi sono resa conto di tutti gli aspetti che il romanzo aveva in comune con Fuga in blu. Soprattutto a livello di struttura, perché per esempio la metafora architettonica è presente anche lì, e non so bene perché. Sai, è strano, perché so perfettamente di giocare con le mie stesse ossessioni, ma poi non sono conscia di come funzionino. Non so, potrebbe suonare un po’ naïf, ma forse questo è esattamente ciò che si intende per “stile” di uno scrittore: quando non si è consci di ciò che si sta facendo, ma in fondo si fa sempre la stessa cosa.

Certo. La mia prima domanda riguardava appunto l’architettura, perché mi sembra che la metafora di fondo influenzi ovviamente la struttura del libro ma anche il suo contenuto. Ad esempio: la scena in cui si descrive il Centre Pompidou è splendida, sembra di essere realmente lì, immaginare l’edificio in ogni sua parte, proprio come nel prologo di Fuga in blu, sulla costruzione del cinema Londra-Luxor. Quindi, mi chiedevo qual è l’importanza che dai a questa metafora architettonica, e se ti ha aiutato in qualche modo a sviluppare la storia stessa.

Sì, credo proprio di sì. Ovviamente è qualcosa che penso in retrospettiva, quando rifletto sul lavoro svolto. Credo davvero che sia utile, si tratta di vedere il romanzo stesso come se fosse un edificio, e il lettore fosse in grado prima di tutto di vederlo da fuori, proprio come si fa con la facciata di un palazzo o un monumento. È proprio ciò che offre la parte visuale o fotografica della scena, e credo che spieghi in qualche modo anche la freddezza dei personaggi, a livello superficiale. Quindi, all’inizio lo si vede da fuori, dall’esterno, e poi, se faccio il mio lavoro come si deve e il lettore accetta ciò che sto cercando di creare, sarà in grado di entrare nel romanzo e abitarlo come farebbe con un edificio. A quel punto la prospettiva cambia, radicalmente, e si vede il tutto da un punto di vista differente.
Questa è una prima spiegazione, poi c’è il fatto che ho letteralmente bisogno di marcare il mio territorio in quanto scrittrice. Non intendo a livello di mondo letterario, ma semplicemente per quanto riguarda me e la mia scrittura: dare una geografia al territorio sconosciuto di ciò che posso e non posso fare. Ora credo di aver trovato una sorta di comfort zone, e quello che cerco di fare è spingermi ogni volta al di là di questi confini.

Oltre a quella macroscopica, c’è anche una microarchitettura, quella che delimita l’ambiente prettamente letterario, no?

Sì, ed è ovviamente molto importante, addirittura dal punto di vista materiale: ad esempio, la libreria, così importante in Fuga in blu, dovrebbe essere realmente presa come una biblioteca ideale. In questo romanzo, forse, ci sono più riferimenti più diretti ad altri scrittori, ad altri romanzi. Per esempio, tutta la parte ambientata alla pensione Ritzi, a Venezia, è una sorta di omaggio a Il grande sonno di Raymond Chandler. Una delle prime scene, quella in cui Marlowe incontra il generale Sternwood nella serra, hai presente? Ho voluto creare al Ritzi la mia serra personale, più fredda, umida, e blu. Ecco, questo colore, il blu, è un altro di quegli aspetti che tornano sempre.

Spostiamoci invece sui personaggi: ancora una volta, in entrambi i romanzi, le figure femminili sono il fulcro principale della storia, ma non appaiono mai veramente in primo piano. Mi spiego: pur essendo protagoniste a tutti gli effetti delle vicende narrate, sono sempre ritratte dal punto di vista di qualcun altro, in particolare Anna, la bionda. Sono sempre come assenti, sfuggenti, misteriose.

È vero, anche se non so spiegarti con precisione per quale ragione. Senz’altro sono interessata al modo in cui la femminilità è costruita a livello sociale ed estetico, parafrasando forse Simone de Beauvoir: «On ne naît pas femmes: on les devient».
In qualche modo, è la mia esperienza di donna, o meglio di ragazza, che guarda le altre donne, con la perenne sensazione di non essere ancora arrivata a quel punto, di non essere ancora abbastanza. Credo che tutto al giorno d’oggi sia costruito in modo da spingere le ragazze e le donne stesse a desiderare un’approvazione sociale della femminilità, che corrisponde a un ideale costruito dal marketing.
Credo derivi dall’uso delle immagini nei film, immagini di desiderio e di donne ritratte come oggetti del desiderio, proprio come la foto di John nel libro. Nei miei romanzi però il soggetto deve sempre tornare in primo piano, lotta per tornare in primo piano ed esprimersi. Fuga in blu, per esempio, non voglio rivelare troppo, ma si conclude con la protagonista che finalmente è capace di affermare se stessa e di creare qualcosa, alla fine. Questo romanzo, invece, di cui voglio rivelare ancor meno, alla fin fine è tutto centrato su una donna che letteralmente ruba la scena, e decide che è la creatrice di qualcosa, non voglio dire cosa.

Il romanzo è una sorta di puzzle anche per quanto riguarda i generi letterari: narrativa, saggistica, noir, certi capitoli potrebbero essere letti come racconti brevi. Inoltre, quando Gray inizia a leggere il romanzo di John si instaura una sorta di gioco meta-letterario. È molto composito, come spieghi questa scelta?

È vero per tutto ciò che scrivo, specialmente in quest’ultimo romanzo. Gioca molto con i riferimenti alla realtà, con i diversi generi, c’è uno spunto noir, ma è anche una storia d’amore, c’è della saggistica, ecc. È come se riflettesse il mio stato d’animo quando inizio a scrivere un libro, quando improvvisamente tutto diventa cibo per il libro stesso. C’è un mistero al fulcro del romanzo, e funziona in qualche modo da campo magnetico, può attrarre al suo interno qualsiasi cosa, trasformando tutto in materia narrativa.

Inoltre, i riferimenti a personaggi realmente esistiti e alla mitologia formano una parte importante dell’ossatura del romanzo. Ti ha richiesto molte ricerche?

Sì, ho fatto svariate ricerche prima di iniziare a scrivere il libro. Poi ho presto a scrivere basandomi su quanto ricordavo, cercando di lasciare da parte le nozioni vere e proprie. In realtà, mi hanno fatto notare che ci sono anche un paio di errori, ma è perché scrivevo quello che ricordavo, senza tornare indietro a verificare.

La bionda e il bunker, inoltre, si compone di tanti brevi capitoli che intrecciano punti di vista, momenti e storie diverse: hai scritto il romanzo così come è stato pubblicato o questo ordine è frutto di un lavoro successivo?

In realtà sì, ho scritto il romanzo proprio in quell’ordine, saltando da una storia all’altra, da un personaggio all’altro. È stato molto strano, ma è stato un bel momento: vivevo praticamente come un’eremita, mi sono letteralmente chiusa in casa, per concentrarmi, come in un bunker, appunto (ride, ndr). E la struttura del romanzo mi ha completamente assorbita: era come danzare con il libro, come se mi conducesse in un ballo. Non ho scritto molti libri, ma questa sensazione è tra le più belle che si possano provare, ne divento quasi dipendente, perché so che finirò per scoprire qualcosa, su me stessa e sul libro. Entro in uno stato di concentrazione tale che non ha nulla a che vedere con la vita di tutti i giorni, è qualcosa di molto particolare.

Nel romanzo appaiono inoltre svariate forme d’arte: fotografia, architettura, scrittura… È come se il fulcro stesso della narrazione fosse l’idea di conservazione dell’arte: è davvero possibile? Credi che la scrittura stessa sia a suo modo una modalità di conservazione dell’arte?

Non saprei, ma sì, credo ci sia una vera tensione tra la volontà di mantenere le cose in salvo dalla distruzione e dalla decadenza, e l’inevitabilità della perdita. In fondo sono una romantica, quindi per me non si tratta solo di conservazione dell’arte ma anche dei sentimenti, dei sentimenti e delle relazioni, due aspetti in qualche modo equivalenti nel libro. Arte e amore diventano praticamente l’una lo specchio dell’altra. Quindi, a sopravvivere è solo il forte desiderio per qualcosa o qualcuno, e credo che i luoghi più sicuri dove possa sopravvivere siano la mente e il cuore dell’uomo. È un concetto melanconico, ma non privo di ottimismo: siamo tutti portatori di qualcosa di prezioso.
Per quanto riguarda la scrittura: sì, sono molto attaccata alla letteratura, non che per me sia un feticcio, o forse sì, lo è davvero (ride, ndr). Sai, diventare scrittore significa avere del tempo – che significa anche ovviamente avere una certa somma di denaro a disposizione –, non si ha bisogno di materiali specifici, non si ha bisogno di nulla di particolare. Quindi in linea di principio potrebbe farlo chiunque e significa creare qualcosa da zero. Quando poi il libro viene pubblicato, esce in un certo numero di copie, quindi è qualcosa di unico, ma allo stesso tempo non è unico. Una cosa che mi affascina tantissimo sono i libri antichi, usati: sono solo oggetti, ma il messaggio che contengono sopravvive. È come dopo un naufragio: certe cose vengono a galla, altre restano sommerse per anni, poi all’improvviso spuntano. Ed è incredibile che esistessero, che quel libro esistesse, magari quarant’anni prima che nascessi.

Cosa pensi della letteratura europea in generale e francese in particolare? Ti senti più affine a qualche autore specifico, hai modelli a cui ti affidi?

Be’, ci sono autori che amo, davvero, con cui ho stabilito una sorta di partnership. Autori europei, e ovviamente anche francesi. Ora però ciò che voglio più di tutto è trovare la mia voce, allontanandomi anche dagli scrittori che ammiro di più e fare il mio percorso. Con umiltà, ovviamente. È la stessa cosa che faccio quando devo fare ricerche prima di scrivere un libro: poi cerco di liberarmi delle informazioni accumulate, e lavorare solo sui ricordi che ne ho.

Stai lavorando su qualcosa di nuovo al momento?

Sì, ho appena iniziato a lavorare a un nuovo libro, ma ho iniziato da così poco tempo che non ne saprei proprio dire nulla: potrebbe cambiare tutto. Sai, di solito si ha un’idea del libro che si sta affrontando, se sarà lungo o corto, per esempio… Ecco, in questo momento non saprei dirti nemmeno questo (sorride, ndr).

 

 

(Jakuta Alikavazovic, La bionda e il bunker, trad. di Elena Sacchini, 66thand2nd, pp. 187, euro 15)

“Racconti di Odessa” di Isaak Babel’

Racconti di Odessa (Voland, 2012) di Isaak Babel’ è una breve, delicata epopea suddivisa in quindici racconti che attraverso personaggi fiabeschi e suggestive descrizioni di tramonti e malinconie affrescano la struggente emarginazione della minoranza ebraica di Odessa, florido emporio commerciale e sede di un vivace crogiuolo di etnie.

Nella sua puntuale prefazione, il traduttore Bruno Osimo avverte il lettore della presenza di tali specificità culturali russe ed ebraiche, quali indizi di una consistente ibridazione linguistica tanto cara all’autore e inevitabilmente adombrata dal traduttore. Eppure, Osimo argomenta di aver cercato di preservarla, riproducendo le stravaganze lessicali, con scelte, per sua stessa ammissione, assai autonome e originali, fra le quali spiccano la licenza di ripensare i cognomi preservando l’eco della desinenza pseudo-russa posticcia e la scelta di ignorare i cambiamenti apportati dal vezzeggiativo e dal patronimico ai nomi propri.

Il risultato di questa attitudine filologica tanto scrupolosa verso la cultura quanto versatile nei confronti della lingua, è la piena restituzione di un immaginario vivido e funambolesco dominato da gangster crudeli e miseri fabbri, ambulanti e sicari, egualmente imbrigliati nel laccio della mafia locale.

Il carattere corale della raccolta prevede una struttura episodica nella quale si muove un vortice di caratteri umani e micro-vicissitudini, che concede al lettore l’illusione di una storia unica, priva di incongruenze, tesi avvallata dalla disposizione dei racconti, scelta da Osimo, non in base all’ordine di stesura o di pubblicazione, bensì secondo la sfrangiata cronologia dei fatti narrati.

Scritti negli anni Venti e Trenta, ma ambientati alla vigilia della rivoluzione sovietica, questi racconti contengono frammenti di visioni quotidiane, avvolti da un incredibile incanto e da straniamento geografico, del confine rispetto all’impero. Si distinguono per la freschezza delle immagini i racconti che ricostruiscono l’infanzia dell’io narrante (“Storia della mia colombaia”, “Primo amore” e “Risveglio”) e “Come si faceva a Odessa”, che assieme a “Il Re” e “Tramonto”, ricorda l’ascesa di Benja Grid, re dei gangster nella Moldavjanka, il ghetto ebraico della cittadina. Su Odessa grava il clima dello sfacelo dei pogróm, gli atti di persecuzione antisemita, una violenza che Babel’ coglie nella sua brutalità macabra e inumana proiettandola oltremisura nei dettagli. «Ero in terra, e le interiora dell’uccello spiaccicato mi sgocciolavano sulla tempia. Scorrevano lungo le guance serpeggiando, schizzando e accecandomi».

Le esistenze sgangherate di tanti piccoli anti-eroi incedono in un dedalo di strade grigie, rischiarate, nella narrazione, dall’esplorazione del mondo lirico e meraviglioso schiuso dalla potenza delle parole. Appoggiandosi sull’eloquenza schietta della lingua colloquiale, l’autore alleggerisce il tono barocco impiegato per gli elementi naturali, su tutti «l’occhio purpureo del tramonto» e «la notte, cosparsa di stelle, di aria blu e di silenzio», un tono che, però, scansando il rischio della ridondanza, amplifica l’espressività di Babel’.

In conclusione, questa piccola e pregevole antologia offre piacevoli miniature, slanci drammaturgici, realizzati in modo compiuto nelle opere teatrali Tramonto e Maria e una consistente ricerca estetica, ma tuttavia risente delle disparità del valore artistico dei singoli lavori che la compongono, che la rendono un’armonia appena un po’ stonata, ma più genuina.

(Isaak Babel’, Racconti di Odessa, trad. di Bruno Osimo, Voland, 2012, pp. 173, euro 10)

“Soft Work” di Sterling Ruby al MACRO di Testaccio

Morbidi e giganteschi cuscini occupano l’intero spazio del padiglione B della Pelanda del MACRO di Testaccio: Sterling Ruby e i suoi ultimi lavori si presentano con la mostra Soft Work, sua prima personale in Italia inaugurata il 22 maggio.

Sterling Ruby è nato nel 1972 in una base americana a Bitburg, in Germania, da madre tedesca e padre americano, ma è vissuto e cresciuto negli Stati Uniti, prima a Baltimora e poi in Pennsylvania. Dopo aver frequentato la Pennsylvania School of Art and Design, ha proseguito gli studi presso la School of the Art Institute of Chicago e l’Art Center College of Design di Pasadena. Nel 2003 si è trasferito a Los Angeles, dove attualmente vive e lavora. Ha collaborato con artisti come Richard Hawkins e Mike Kelley, che hanno influenzato in modo significato le sue opere.

 

 

I suoi lavori spaziano dalle ceramiche, alla pittura, ai collage e video. Predilige costruire grandi installazioni in opposizione al minimalismo contemporaneo più essenziale. I suoi lavori vogliono essere ambigui: per questo non svela mai esplicitamente il suo immaginario, ma lascia libera interpretazione allo spettatore. Il suo stile è graffiante e sporco. Proclamato dal New York Times come uno degli artisti emergenti più importanti del XXI secolo, la sua arte spazia dalla subcultura urbana metropolitana allo studio della psicologia individuale in rapporto al tessuto sociale. Le sue opere non si limitano a rappresentare una realtà, ma la analizzano e ne svelano le contraddizioni. I graffiti, le gang urbane, la violenza, la schizofrenia, le malattie mentali sono rapportate ed espresse in contrasto e in parallelo con la globalizzazione, il consumismo, l’inquinamento e soprattutto con la dominazione americana e la sua attuale decadenza.

 

 

La mostra, curata da Maria Alicata, con l’organizzazione generale di Damiana Leoni e il contributo della Depart Foundation, è stata concepita dall’artista come una grande unica istallazione in continua evoluzione. Sterling inserisce a ogni tappa nuovi contributi. La tappa di Roma è quella più ricca: molte opere sono state create appositamente per l’allestimento del MACRO, grande onore per il museo romano. Il visitatore è accolto e quasi “abbracciato” dalla composizione morbida e dalle sue dimensioni straordinarie. Le bocche giganti e le grandi lacrime formano soffici sculture calpestabili, simili a divani. L’ambiente rimanda a una dimensione domestica e rassicurante fatta da coperte, cuscini, trapunte che formano oggetti scultorei. Il riferimento è chiaro: le case americane, nidi protettivi e rifuggi sicuri. L’uso del cuscino come mezzo espressivo è una tecnica femminile che nasconde al suo interno una sottile ironia sulla figura maschile nel contesto domestico, così come le figure pop presenti.

 

 

I materiali rimandano a un senso di sicurezza messo in discussione dalle forme spiazzanti. Le lacrime riprese dalla tradizione carceraria rappresentano l’omicidio, in questo caso riferito alla società odierna – in particolare quella americana – che ha ucciso, sia realmente che metaforicamente, l’uomo. Le enormi bocche, simili a quelle di un vampiro insaziabile, rappresentano il consumismo americano e le forme simili a divani rimandano agli apatici mariti seduti a guardare la tv. Infine, la texture della bandiera americana – allegoria negativa dell’ambiente familiare felice e ovattato – è la rappresentazione dell’ipocrisia della classe media. Sterling rappresenta l’ambiguità della società in rapporto con l’esperienza individuale. Una piccola riflessione personale è creata anche dallo spiazzamento emozionale prodotto dalla grandezza dell’opera in rapporto alla dimensione dell’uomo. Una mostra che cerca di indagare oltre la semplice realtà o il semplice dissenso: Sterling vuole che sia lo spettatore a iniziare un’autocritica che derivi dalla sua coscienza intima e personale. La mostra ci pone in un universo quasi fantastico che però è tattile perché tutte le opere possono essere toccate e calpestate. Un universo in cui vale la pena entrare, a metà tra una favola e un incubo, il cui centro è sempre lo spettatore con la sua anima.

 

Sterling Ruby, Soft Work
Pelanda del MACRO di Testaccio, piazza Orazio Giustiniani 4, Roma
22 maggio-15 settembre 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.museomacro.org

[iVideo] A tu per tu con Ernesto Bassignano (seconda parte)

Come promesso ecco a voi la seconda parte dell’intervista a Ernesto Bassignano: fondatore dello storico Folk Studio con Venditti e De Gregori, cantautore, giornalista, una vita passata in radio (attualmente conduce Rodeo su Radio Città Futura), con trasmissioni cult come Ho perso il trend. Una vera enciclopedia vivente, che ha conosciuto e collaborato con i nomi più importanti della storia artistica italiana recente.

Se vi foste persi la prima parte dell’intervista potete trovarla qui.

 

A tu per tu con Ernesto Bassignano (seconda parte)

intervista di Alessio Belli e Simone Mercurio
riprese di Diego Ortuso e Andrea Stige
montaggio di Diego Ortuso


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“Metropolis” di Flavio Soriga

Io, fossi in voi, non mi fiderei della quarta di copertina di Metropolis di Flavio Soriga (Bompiani, 2013). Non tanto per la sinossi, abile e sintetica quanto basta. È dal sedicesimo rigo che non bisognerebbe fidarsi, quando si parla di «noir metropolitano». Ma andiamo con ordine.

La storia è semplice, lineare: il corpo di una donna viene trovato in una cabina di una spiaggia di Cagliari, la polizia indaga. Le cose, però, si fanno da subito più interessanti: la donna è Giulia Hernandez di San Raimondo, rampollo della nobiltà cagliaritana, mecenate, libertina, una donna che non sapeva vivere in pace l’essere una Hernandez di San Raimondo. Il poliziotto incaricato dell’indagine è Martino Crissanti, un capitano dell’arma atipico, un antropologo ligio al dovere.

Il problema di fondo è che tutti conoscevano Giulia Hernandez, ma nessuno la conosceva per davvero: Giulia Hernandez, questo personaggio sfuggente già in vita, nel romanzo appare solo grazie al collage di immagini che ne lasciano amanti, conoscenti, artisti, parenti; ognuno ne mostra un tassello e il capitano Crissanti cerca di ricomporre il puzzle.

La bugia nella dicitura di «noir metropolitano» è dunque questa: Metropolis di Soriga non è un noir metropolitano. Mi spiego meglio. Le condizioni del noir non sussistono; ve ne sono certo alcuni elementi, ma l’indagine è svolta alla luce del sole, il capitano Crissanti è sostanzialmente un buono e manca il torbido del noir vero e proprio. Giulia Hernandez di San Raimondo non era un personaggio scomodo, viene uccisa a coltellate e la prima pista che si segue è quella passionale, le tinte non sono quelle nere e rosse del noir, sono quelle bianche e blu (come la copertina, ben più sincera della quarta) di un settembre cagliaritano. E Cagliari è tutto meno che una metropoli, ma non ne farei un dramma, anzi: è un luogo vivo e vitale, ogni angolo ha un’identità e i luoghi sono specifici, lontani dai fumosi non-luoghi del noir; perfino la periferia spietata mantiene un barlume di speranza nella bontà e nella bellezza, identificata spesso con la stessa Hernandez. La parte sfaccettata invece sta nei personaggi: tanti, caratterizzati da pochi segni ma non stereotipati, dal nobile del capoluogo all’appuntato del nord Italia, dal pizzaiolo di Sant’Elia al cantautore, ognuno con una parte importante nell’economia del romanzo, portatori di una qualche verità o almeno di un racconto.

L’ultima parte della quarta di copertina invece è credibile, è vera: la lingua dell’autore è riconoscibile e trascinante, accompagna il lettore con ritmo sincopato tra i monologhi e i punti di vista dei diversi personaggi che sembrano così tutti un po’ dei Soriga deflagrati, dei frammenti d’autore incastonati in un ex criminale, un insegnante di storia, e tra gli altri, in un guizzo ironico, nel cugino scrittore di un poco di buono, chiaramente il Soriga dei suoi libri precedenti, accusato di pochezza letteraria.

Per tirare le fila, Metropolis di Flavio Soriga è un buon libro; non vi terrà col fiato sospeso, non vi mostrerà le incrinature e «gli angoli più crudi del presente» (ancora lei, la quarta di copertina). Vi racconterà una storia, e vi terrà compagnia. Per un libro mi sembra onesto.


(Flavio Soriga, Metropolis, Bompiani, 2013, pp. 256, euro 17)

“Elementare, Chaplin!” di Rafael Marín

Non sono un’appassionata di gialli né tantomeno di fantascienza, eppure questo libro, Elementare, Chaplin! di Rafael Marín (Meridiano Zero, 2012), mi ha attirato fin da subito, colpevole forse una grafica di copertina essenziale ma geniale, per quella macchietta nera su sfondo giallo che unisce i tratti caratteristici dei due protagonisti del romanzo in un’unica, ineccepibile immagine.

Rafael Marín, considerato uno dei migliori scrittori spagnoli di fantasy e fantascienza, nel 2005 si cimenta nella costruzione di una storia che va a confluire nel ciclo holmesiano, storia che l’editore bolognese recupera e pubblica a fine 2012 nella collana Gli obliqui.

La trama del romanzo è modellata sui canoni narrativi tipici delle indagini di Sherlock Holmes: un caso da risolvere, criminali da arrestare, misteri da svelare e indizi da seguire. Il tutto ovviamente sul filo logico delle notorie deduzioni del detective più famoso della letteratura inglese.

Ciò che rende unico il testo sono i personaggi accostati al grande investigatore, in primo luogo, come si evince dal titolo, l’altrettanto grande e famoso comico Charlie Chaplin. L’autore lo inserisce nel romanzo tra gli irregolari di Baker Street da bambino, e poi lo sostituisce al fido aiutante Watson nella risoluzione di un caso quando, all’età di sedici anni, è un attore alle prime armi. Marín riesce a coinvolgere Chaplin nelle indagini di Holmes affidandogli ruoli cruciali e, allo stesso tempo, a raccontare la storia di ciò che l’attore diventerà per il cinema internazionale: riesce, per esempio, a raccontare l’origine del suo inconfondibile abbigliamento e di molte espressioni che caratterizzeranno il suo umorismo.

Un ruolo di fondamentale importanza per la costruzione della storia è affidato poi, in modo alquanto astuto, a William Gillette, il primo attore che impersonerà lo stesso Sherlock Holmes in uno spettacolo teatrale, al quale davvero partecipò anche il giovane Charlie Chaplin. Ma nel romanzo incontriamo anche Oscar Wilde che si affida alle capacità investigative del detective per ritrovare un amico poeta scomparso; incontriamo Aleister Crowley, considerato il padre dell’occultismo moderno, a capo di una setta da sconfiggere; e perfino Albert Einstein, che rischia di essere rapito a causa della sua straordinaria intelligenza.

Seguendo la falsariga di un tipico romanzo holmesiano, Rafael Marín ci intriga con un vivace gioco letterario in cui vengono intrecciate le vicende di personaggi reali e letterari (tra cui il dottor Fu Manchu di Sax Rohmer e la Lucy Westenra del Dracula di Bram Stoker). Quello dell’autore non è semplice citazionismo ma magistrale costruzione di un’architettura che si muove senza alcuna fatica tra due piani enigmatici: da una parte la risoluzione di un intricato caso dell’ispettore Sherlock, dall’altra la stuzzicante sfida letteraria che propone al lettore attraverso un vortice di famosi protagonisti.

Insomma, un romanzo intelligente e colto che affascina e insieme diverte, e che si legge davvero facilmente nonostante l’evidente complessità della sua composizione.


(Rafael Marín, Elementare, Chaplin!, trad. di Mariana E. Califano, Meridiano Zero, 2012, pp. 268, euro 16)

E ci son buoni tutti

A dire quello che non va. A puntare il dito e petulanti far notare che il muro è storto e la vernice data male il parquet fuori asse e l’ascensore saltellante. Ci son buoni tutti a far le pulci al fare altrui. «Vuol finire lei, Santità?», pare disse Michelangelo coi pennelli tra le mani a un asfissiante Giulio II. Si fa carriera, a biasimare. A trovare il treno giusto, si finisce pure in Parlamento. Anche in massa. E lì qualcosina poi s’inceppa: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Sapere, saper fare, saper essere. Si gioca in questa terna, la vera competenza. Ma lo strillone no, il puntadito no: e del sapere e del saper essere non si cura perché lui (o lei) è dalla scuola, dagli scout, dalla partita di calcetto o pallavolo, che crede il suo ruolo compiuto nella messa in evidenza di quello che non va. Basta poco a detonarli, di solito un avverbio: «Quindi?»

Io faccio così: paziente ascolto, non controbatto, lascio che i retori del dito puntato elenchino, argomentino, s’infervorino, sbavicchino pure e attendo. Attendo la pausa (non si può pretendere dai ditopuntanti il rispetto dei turni dialogici: il loro sdegno l’intitola alla prepotenza) del rifiato, taccio per un poco (e la delusione gli si dipinge in volto: si nutrono dell’accodo, in un climax d’infervoramento, o della polarizzazione, anticamera allo scontro verbale), e prorompo: «Quindi?»
Che gusto lo sgomento che li coglie. La reazione è la stessa, sempre. Vaga alterazione dei tratti, bocca semi-aperta, occhio sgranato: «Come “quindi”…» E io, sorridente (sadico…): «Eh: quindi? che proponi? che s’ha da fa’?» L’occhio vaga, destra-sinistra-destra, e arriva la proposta. E la mazzata (molto, sadico…): «Con quali soldi?”. Lì si coglie, finalmente, la totale inconsistenza di chi non è abituato al fare. La raggiera è varia: dal classico «i soldi ci sono, basta tagliare gli sprechi» (quali, come, con quali provvedimenti, conto corrente o capitale è inutile chiederlo, perché di bilanci i ditopuntanti poco o nulla sanno) al radical-chic «io di soldi non me ne intendo, non sono un tecnico» al meraviglioso (non fosse che lo credono davvero) «che c’entrano i soldi?!»
Pericolosetto, ragionare così. I soldi c’entrano, c’entrano sempre. Ogni cosa ha un costo, tutto è monetizzabile: tempo, dedizione, estetica. È fondamentalmente una questione di scelte: di capitoli di bilancio, direbbe un tecnico. Di storni. I tagli, chi maneggia soldi lo sa, non esistono: è tutto un muover di pedine e fiches da un campo all’altro del tavolo di gioco. Un fattivo vero, non un ditopuntante stizzoso e stizzito, queste cose le conosce a menadito, e ci si barcamena abilmente. Però purtroppo di ditopuntanti tendenti al fariseo l’Italia è piena. Colpa di Croce? Dei troppi temi in cui ci abituano a parlare di pace senza bellum e senza para? Temo di sì. Idealità vs reale. Con scelta di campo, a volte che rischia di sconfinare se non nel patologico quantomeno nell’ostinato, stile barzotto (il mulo, per disambiguare).

Altro tema a cuore dei ditopuntanti è l’ecologismo. Di bandiera. «A prescindere», direbbe Totò. Ecco l’aneddoto: Roma, casa, ospite non romano. «E non la fai la raccolta differenziata, tu?!» (Ai cultori degli italiani regionali intuire la provenienza geografica dell’ospite). «No, va tutto in discarica». «Non è vero! Ci sono i cassonetti diversi!» Primo iato: che ci siano cassonetti differenziati (loro, loro sì…) non esclude che comunque s’interri poi il tutto; ma paziento, non infierisco… «Fidati, ho un amico che ci lavora e…» «E che c’entra?!» Secondo iato, un po’ più preoccupante. Come che c’entra?! Ci lavora, lo saprà…. ma non obietto, tanto lo so che il piano del reale non interessa, ai ditopuntanti: il loro gusto sta nel biasimo delle (presunte) mancanze altrui, il loro orgasmo nell’imporre comportamenti (sempre a loro presunzione) virtuosi. Fatica vana; e difatti, forte di questo irrefutabile imperativo categorico, sentenzia: «E se anche fosse, comunque è bene abituarsi a selezionare i rifiuti». E lo fa. Lo fa davvero: ci si mette, rovista nella bustona e seleziona (peraltro, borbottando sulla non-organicità della stessa busta).

Io mi chiedo, ancora, che senso abbia (oltre un’eco, forse di quando entrambi si era in caserma e nottetempo, abbrutiti dal sonno e da varie privazioni, ci si faceva pulire con lo spazzolino da denti le suole ad anfibi che avremmo rilordato di lì a poche ore) “abituarsi a selezionare i rifiuti”. E reprimo, a fatica, l’istinto della polisemia.
Anzi no: lo estremizzo. Mi faccio pragma, tutto causa ed effetto, determinismo a serramanico e la selezione la faccio io, da oggi in poi. Raccolta differenziata delle opinioni, dei commenti, delle vacuità ideologizzate, e tutto sepolto nella discarica del mio sciocchezzaio. Tasto destro dell’inconscio e “Svuota cestino”. E se mi vedo un ditopuntante parato innanzi… né ascolto né argomento più. Basta. Piuttosto, agguanto e storco.

“A viso coperto”: a tu per tu con Riccardo Gazzaniga

Riccardo Gazzaniga, genovese, trentasei anni, è Sovrintendente della Polizia di Stato. Lavora nella sua città, dove si occupa prevalentemente di ordine pubblico, oltre ad essere delegato Silp e Cgil e responsabile di una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume e poliziotto che salvò molti ebrei durante la seconda guerra mondiale. Sin dall’età di diciotto anni si è cimentato nella scrittura di piccoli racconti thriller, horror e gialli. Passione che, pian piano, lo ha portato a vivere una sorta di vita parallela a quella del celerino: quella dello scrittore. E chissà se con l’uscita a marzo scorso del suo primo romanzo, A viso coperto (Einaudi, 2013) – già vincitore nel 2012 del Premio Calvino –, questa seconda vita non riesca persino a prendere il sopravvento. Soprattutto tenendo conto dell’ottima accoglienza avuta da parte sia della critica che dei lettori.

Per il suo esordio, Gazzaniga ha scelto, a mio avviso con grande intuito ma anche con molto coraggio, di far incontrare le sue due vite parallele creando un romanzo in cui si intrecciano le storie di celerini e ultrà in una fredda settimana genovese. Una storia densa di azione, gran ritmo, ma anche di sentimenti e scelte difficili.

Cerchiamo allora, con quest’intervista, di scoprire qualcosa di più su questo giovane scrittore poliziotto e sul suo fortunato esordio letterario.


Innanzitutto complimenti. A viso coperto non sembra proprio il romanzo di uno scrittore agli esordi, pare piuttosto uscito da una penna navigata. Del resto, hai alle spalle già molti anni di scrittura, anche se fatti finora solo di piccoli racconti, soprattutto gialli. Ti è tornata utile questa esperienza al momento di scrivere una storia lunga?

Credo di sì. Scrivere tanti racconti horror e thriller mi ha fatto imparare qualcosa sui meccanismi della suspense e la gestione delle informazioni date al lettore. Si può mettere suspense e tensione ovunque, anche senza cadaveri o apparizioni soprannaturali. Inoltre l’abitudine alla lunghezza del racconto mi ha spinto a lavorare su paragrafi brevi. Questa scelta ha conquistato i lettori oltre le mie aspettative. Tante mail che mi arrivano mi dicono che questa brevità spingeva a continuare la lettura, ora dopo ora, senza riuscire a staccarsi dal libro. Per un autore è la più grande gioia possibile.


Si può dire che nel tuo romanzo racconti un po’ la storia della tua vita. La vicenda si svolge tutta in pochi giorni e descrive la vita di celerini e ultrà a Genova, i loro scontri, i loro dubbi e le difficoltà delle persone che stanno loro vicine. Quanto c’è di te, di Riccardo in questo romanzo? Il celerino Nicola, uno dei protagonisti, sembra essere un tuo alter ego, anche lui vorrebbe scrivere un romanzo sul suo lavoro.

Nicola prova a scrivere un saggio, in verità, e questa è un’idea che per qualche tempo ho accarezzato, ma presto mi sono reso conto di non avere le competenze sociologiche per farlo e nemmeno l’entusiasmo, perché un saggio non avrebbe raccontato con la necessaria vitalità il clima degli scontri. Un romanzo, invece mi sembrava anche più vivo e reale dei fatti stessi. Mi serviva a spiegare le dinamiche emotive dei personaggi, le loro ragioni, cosa li spingeva alle loro scelte e ai loro errori.


A un certo punto della storia un celerino, Fabio, racconta che spesso gli capita di fare un sogno. Cittadini qualsiasi, non ultrà, ma lavoratori, casalinghe e studenti marciano infuriati verso il Parlamento. I poliziotti si trovano in tenuta antisommossa e un dirigente ordina loro di caricare la folla sebbene nessuno lanci alcun oggetto. Allora Fabio si toglie il casco, lascia cadere lo scudo, getta il manganello e altri colleghi lo imitano, lasciando scoperta la porta del Palazzo. La gente applaude e abbraccia i poliziotti. A te è mai capitato di pensare qualcosa di simile? Di volerti schierare dalla parte dei cittadini comuni invece di difendere i palazzi del potere?

Questo pensiero di Fabio rispecchia quel dubbio che il poliziotto può avvertire di fronte a recriminazioni che sente come più legittime di altre da parte dei manifestanti che ha di fronte. Ma lo stesso poliziotto deve superare le sue opinioni personali, nella certezza di servire la maggioranza dei cittadini e porre in essere la volontà di quella maggioranza.
Se i poliziotti agissero diversamente sarebbe grave e si metterebbe a rischio l’essenza stessa della democrazia. È logico che l’uomo dietro la divisa ha una sua idea, una sua opinione. E può accadere che lo stesso poliziotto o il carabiniere abbia magari una vita, dei sogni e delle speranze molto più simili al manifestante o al tifoso di fronte a lui, che non al politico che gestisce la cosa pubblica: questo era il pensiero del mio personaggio.


Nel romanzo, più volte, alcuni ultrà affermano che si comportano in questo modo, usano la violenza perché ormai lo stadio è rimasta l’unica zona franca in una società inquadrata e ordinata. Anzi, decidono di aumentare il livello dello scontro proprio perché anche negli stadi, con le nuove leggi, sta venendo meno quella libertà che finora era garantita. Il contesto storico attuale è molto difficile, con una crisi economica e sociale fortissima, soprattutto fra i giovani ci sono molta disillusone e povertà. Pensi che potremmo vedere nei prossimi mesi una recrudescenza delle violenze negli stadi? Potrebbero prendere il posto dei conflitti nelle strade come avveniva negli anni ’70?

Gli stadi sono oggi decisamente più “tranquilli” di anni fa. In qualche modo lo Stato sta vincendo la sua battaglia per limitare la violenza calcistica, nonostante difficoltà e anche taluni errori. Ma vi sono stati e vi sono casi, in alcune città, in cui i gruppi ultrà hanno preso posizioni politiche. Non tanto nel senso di schierarsi a destra o a sinistra – passaggio questo già compiuto – ma nel rivendicare diritti o avanzare richieste specifiche e universali.
Se una tifoseria chiede, per esempio, numeri identificativi sui caschi dei poliziotti, questo è già un passo politico. Viene portata avanti una linea precisa di rivendicazione, intendo.
Non possiamo dimenticarci che in taluni stati europei, come la Jugoslavia per esempio o anche i paesi del nord Africa l’anno scorso, il tifo calcistico ha avuto un ruolo centrale nell’innesco di rivolte di piazza e persino di conflitti bellici. Nello stesso G8 del 2001 il numero di ultrà presenti era altissimo, ben più di quanto non si sappia.
Ridurre il mondo ultrà a un mero fenomeno di violenza domenicale sarebbe una semplificazione. Per questo non è un’assurdità pensare che la violenza di piazza possa sfogare negli stadi o, ancora di più, che lo stadio possa essere il viatico a formazioni attive poi anche all’esterno, con rivendicazioni che diventano politiche.


Per tornare al libro, c’è una precisa volontà stilistica dietro la scelta di suddividerlo in molti piccoli capitoli (a volte si esauriscono anche in una o due pagine) o piuttosto è un’esigenza dettata dal ritmo della storia e dalle molte storie che si intrecciano?

Come ho detto, credo nasca dalla mia esperienza coi racconti, e anche dalla difficoltà a gestire così tanti personaggi. Utilizzare capitoli suddivisi chiaramente mi ha permesso di gestire la narrazione in modo quasi filmico, come se impugnassi una telecamera che di volta in volta si concentrava su uno degli attori.


Questa tua ultima affermazione mi conferma un’impressione che già avevo avuto man mano che la lettura del romanzo andava avanti: sia le scelte narrative (in particolare dialoghi brevi e cambio repentino della scene) sia le vicende narrate mi sembrano perfette per portare sullo schermo la tua storia. Ti piacerebbe se questo libro potesse diventare un film? 

Mi piacerebbe moltissimo e non è escluso che non succeda. Diciamo che ci spero, per adesso.


Hai già in mente un’idea per un nuovo libro? In A viso coperto ci sono così tanti personaggi che, seppure a volte appena tratteggiati, hanno ciascuno un profilo già ben delineato. Non appena finito di leggere, ho subito pensato che sarebbe interessante vedere cosa riserva la vita a molti di loro. Mi vengono in mente, per esempio, i due ragazzini appena entrati nel mondo degli ultrà, oppure la storia tra il celerino Gianluca e la ragazza ribelle Elisa. Hai pensato a un possibile seguito?

In verità la storia di uno dei due giovani ultrà aveva un ulteriore passaggio, che ho tolto, un po’ perché avevo dei dubbi sui fatti accaduti dopo la fine del romanzo e non sapevo se togliessero forza alla narrazione, un po’ per evitare di cadere nello scontato e nel già visto.
In verità oggi non riesco a pensare a un altro romanzo che continui le loro vicende, perché mi rendo conto che penso a una sorta di ripetizione di quanto già scritto. Io scrivo per divertirmi, innanzitutto, e temo che continuando con questa storia avrei meno stimoli.
Forse potrei pensare a uno spin-off per uno o due soli personaggi, evitando la massa attuale di punti di vista che ho mosso in A viso coperto.
Al momento sto pensando a un’altra storia, lontana dalla Polizia. Ma è presto per pensare al secondo romanzo. Mi voglio godere il mio esordio, ancora per un po’!
 


(Riccardo Gazzaniga, A viso coperto, Einaudi, 2013, pp. 544, euro 19)

“Vulcano” dei TunaTones

Dato che l’estate fa la preziosa e si nasconde, ci penseremo noi ad aiutarvi. Un raggio di sole e un’ondata calda sono stati portati dai TunaTones, alla loro seconda fatica discografica. Un anno fa si erano presentati al pubblico con iTunas, loro disco d’esordio prodotto dalla Prosdocimi Records. A un anno di distanza arriva il gradito bis grazie a Vulcano.

La band veneta ha ripreso da dove aveva lasciato, con la sua spiccata impronta “Surfabilly”, come loro stessi l’hanno definita, e quel sound accattivante e ballereccio proprio di un tempo che fu. Il ritorno alle atmosfere di cinquanta e più anni fa è scelta assai gradita e porterà l’estate nelle vostre orecchie anche se vi trovate comodamente seduti a casa in una giornata piovosa.

Il caro vecchio Rockabilly scorre potente in tutte e dieci le tracce dell’album, che sembra venire incontro alle esigenze di tutti, con un avvio pieno di energia pronto a far sudare anche il festaiolo più restio, per poi passare con “B.F.D.”, sesto brano del disco, a un ritmo più vicino a una ballata per rispondere alle richieste anche dei più romantici. Da qui in poi i TunaTones sembrano voler un pochino rallentare e calmare i bollenti spiriti, almeno fino alla decima traccia, meritevole di una menzione speciale.

Questa volta infatti c’è stato anche il tempo per sperimentare: il nome del brano dice già tutto: “Heavy Medley” potrebbe essere la risposta all’idea lanciata qualche anno fa dai Baseballs. I ragazzi tedeschi avevano trovato il successo proprio selezionando brani famosi più o meno moderni rivisitandoli in pieno stile Elvis. A differenza dei Tunatones, però, non si sono mai mossi in direzione di brani originali, restando a tutti gli effetti una sorta di cover band.

Il gruppo veneto si è spinto però oltre, perché invece di accontentarsi di brani squisitamente pop ha alzato l’asticella pescando tre successi dal mondo del rock toccando persino il metal con la scelta di “Hells Bells” degli AC/DC, “Run To The Hills” degli Iron Maiden per chiudere con “Enter Sandman” dei Metallica. Un rischio calcolato probabilmente, visto che il risultato sembra proprio la dimostrazione di un’idea azzeccata in grado di dare degna conclusione a un disco già di sicuro gradimento.

Non c’è alcun dubbio: Vulcano è il disco giusto per fare da sottofondo alle vostre giornate di relax, alle vostre feste con gli amici o alle vostre serate davanti a un falò in spiaggia. Se l’estate continua a voltarci le spalle adesso sappiamo come fargliela pagare.


(TunaTones, Vulcano, Prosdocimi Records, 2013)