“Il trionfo della metafisica” di Eduard Limonov

Dopo il frastuono, i toni esagerati, le parole spese un po’ alla buona senza che dell’autore fosse mai stata letta una riga, forse è il caso di leggerselo un libro di Eduard Limonov e stare un po’ ai testi. L’opera che gli ha dedicato Emmanuel Carrère (Limonov, Adelphi, 2012) si è naturalmente giovata (tranne rari casi) delle prodezze del personaggio, sì da catturare un pubblico di lettori decisamente ampio. Lo scrittore francese raccontava la vita di quest’uomo sospeso fra Mosca, Parigi, New York e i Balcani in guerra e una montagna di guai spesso deliberatamente cercati. Una biografia romanzesca in sé, per qualità intrinseche al personaggio (un uomo che «mette insieme più vite di quelle di Plutarco»: dall’introduzione di Maria Candida Ghidini), prima che all’opera dell’ottimo scrittore francese, che però forse non ha contribuito granché alla conoscenza dei testi di Limonov, essendo uno di quei casi in cui il troppo dell’autore empirico rischia di venir meno alla verifica dei testi e quindi di deludere (per tacere della tendenza a spettacolarizzare il fatto letterario e di accontentarsi deliberatamente della “scena”).

Un buon libro per misurare l’apporto concreto di Limonov alle storie letterarie può essere Il trionfo della metafisica, tradotto in italiano da Salani. Lo scrittore russo, autodefinitosi nazi-comunista, arrestato con l’accusa di terrorismo (avrebbe creato «una banda armata illegale») vi racconta la sua esperienza di detenuto (zek) in una colonia penale i cui tratti sembrano discendere dritti dritti dalla storia (anche letteraria) del suo immenso e per certi versi terribile paese.Storie di steppe lontane dal mondo in cui non molto diversamente dai gulag stalinisti si giocano i destini di criminali veri o presunti, ma anche di carnefici, spie e aguzzini. Tra fatiche e umiliazioni, prove efferate cui i detenuti vengono sottoposti con la ferma intenzione dei carcerieri di annullarne ogni volontà, si affacciano sulla scena vari personaggi che Limonov, sempre tentato da un certo eroismo estetizzante, racconta con apprezzabile sobrietà.

Sbruffone lo resta sempre, l’ego tracima senza sosta, ma al netto di questa spuma, il racconto tiene e così la descrizione del sistema concentrazionario, degli uomini che lo popolano. Non poche nell’abiezione della colonia penale le tempre solidissime che suscitano la sua ammirazione. Proprio sul versante di una durezza autoimposta, di una disciplina più mistica che militare – da buddista – il narratore-personaggio si guadagna il suo diritto alla sopravvivenza. Una sfida non priva di ragioni: quelle che un individuo non disposto a rinunciare alla propria dignità di uomo oppone al mero arbitrio del potere. Ché in fondo, il sedicente nazi-comunista Limonov sembra molto preoccupato della libertà dei singoli. E ci racconta come il suo un paese libero non lo sia mai diventato. Limonov non gli risparmia nulla, e anche questo lo si immaginava conoscendo le sue eccentriche e cortocircuitate posizioni politiche. La registrazione del mondo carcerario dice a sufficienza dell’idea della vita umana che si ha dalle parti di Mosca – se vale il noto principio che dallo stato delle carceri si comprende il livello di democrazia di un paese. Sull’argomento in Italia qualcosa da dire non mancherebbe. Così, se Putin si mostra sensibile ai consigli di Berlusconi in materia di televisione – come raccontano le cronache recenti – è immaginabile che l’ex agente KGB ne sapesse abbastanza da solo, se è vero, come scrive Limonov, che nella colonia penale «il notiziario televisivo è obbligatorio».


(Eduard Limonov, Il trionfo della metafisica. Memorie di uno scrittore in prigione, trad. di Giulia de Florio e Elena Freda Piredda, Salani, 2013, pp. 250, euro 16)

“Il caso Kerenes” di Călin Netzer

A conferma della nouvelle vague del cinema romeno, scossa e alimentata da Cristi Puiu e Cristian Mungiu, arriva Il caso Kerenes di Călin Peter Netzer, già vincitore dell’Orso d’oro all’ultimo Festival del Cinema di Berlino.

Cornelia è una ricca signora dell’alta borghesia di Bucarest. La sua vita è scandita da cene eleganti, incontri formali, il lavoro come scenografa teatrale, le incomprensioni con un marito che sente distante, e gli sfoghi con la sorella dottoressa. Sfoghi che si concentrano sul figlio Barbu, andato a vivere lontano con una donna divorziata, e incapace di ricambiare l’affetto possessivo e invadente che la madre vorrebbe donargli. È l’unica incrinatura in una vita apparentemente perfetta, l’unico strappo nel tessuto cucito a mano da Cornelia. Un incidente automobilistico in cui Barbu investe e uccide un bambino sembra offrire l’occasione, il pretesto, per riavvicinare il figlio e poter tornare a controllare la sua vita.

La più celebre Cornelia ad aver dedicato la vita ai propri figli è senza dubbio la madre dei fratelli Gracchi di romana memoria; educatrice, consigliera, fiera ostentatrice delle virtù filiali fin dalla più giovane età. La Cornelia di Natzer ha molto poco da spartire, oltre al nome, con la matrona romana. Le accomuna il benessere, sì, e l’aver consacrato la vita alla crescita, in tutti i sensi, dei figli, ma gli esiti le allontanano, le portano agli estremi opposti.

L’ansia di controllo assoluto che la madre di Il caso Kerenes proietta sul figlio è indipendente dallo stesso interesse di Barbu, va oltre la necessità dell'uomo reale per caricarsi esclusivamente della proiezione ideale che la donna ha fatto del proprio figlio. Cornelia vive in un mondo in cui tutto è disponibile, tutto è inclinabile secondo la sua volontà. Non è prepotenza, o arroganza. È abitudine. Proprio per questo non può accettare che a sfuggirle, unico evaso dalla prigione di cui è sovrana, è il figlio tanto amato. L’incidente le apre la strada per una gloriosa offensiva, per invadere massicciamente la vita del figlio ora a rischio di fronte alla minaccia dei quindici anni di carcere che arriverebbero con una condanna. È la breccia in cui inserisce il suo esercito di conoscenze per sabotare il meccanismo della giustizia e riportare il figlio a casa, la sua. Barbu è un inetto a vivere: l’amore asfissiante che come ossigeno purgato respirava nella casa familiare ha finito per renderlo un guscio d’uomo, ma questo a Cornelia non importa. A lei importa solo che lui segua i suoi consigli, che la sua vita assomigli a quella che lei vorrebbe.

Più che soffermarsi sul rapporto madre-figlio, a Netzer interessa concentrarsi sulla madre, incarnazione di un potere apprensivo e oppressivo, espressione della possibilità del male attraverso una concezione errata di amore come controllo. Dietro la dimensione individuale e familiare si delinea un affresco sociale in cui le differenti classi sociali non si incontrano ma possono solo scontrarsi. Cornelia rappresenta quella borghesia abituata a risolvere ogni situazione ricorrendo all’autorità della conoscenza, dell’aggancio, della corsia preferenziale. L’immagine della Romania che emerge non è distante da realtà note: un paese facilmente incline alla corruttibilità, più che alla corruzione, in cui prevale un atteggiamento mentale che porta a lasciar prevalere l’autorità di censo sull’autorità legale (il rapporto tra Cornelia e gli agenti incaricati del caso ne è la prova). La famiglia modesta del bambino ucciso vede le proprie possibilità di giustizia diminuire sempre più sotto i colpi del denaro della famiglia di Barbu, trovando però nella dignità del dolore il coraggio e la forza di rifiutare ogni tipo di compromesso per raggiungere una morale altra, alta.

Călin Netzer accompagna la perfetta Cornelia di Luminiţa Gheorghiu con telecamere mobili e nervose. In due momenti dimostra tutto il suo talento: l’iniziale festa di compleanno (con sottofondo musicale di Nino D’Angelo e Gianna Nannini); il confronto tra Cornelia e i genitori del bambino.

(Il caso Kerenes, di Călin Peter Netzer, 2013, drammatico, 113’)

 

“Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia” di Giuseppe Rizzo

Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia di Giuseppe Rizzo (Felitrinelli, 2013) ha un titolo che gioca a ingannare. Perché la piccola guerra è fatta per radere al suolo “una certa” Sicilia: lo stereotipo della piccola cittadina della provincia siciliana in cui la mafia la fa da padrona sembra ormai un cliché, ma chi in questi piccoli paesi di provincia ci è nato e cresciuto lo sa che non è soltanto qualcosa da raccontare agli amici del continente. È una storia che conosci a memoria, è la storia di Lortica, il paesino immaginario in cui Rizzo ambienta il romanzo, ma potrebbe essere quella di molti altri comuni siciliani, o calabresi, o pugliesi, o campani.

In questa storia però ci sono dei personaggi che si ribellano, in un modo tutto loro, scanzonato, da ragazzi di paese, che però nel momento in cui sono andati via dall’isola hanno scoperto un mondo nuovo.

La disillusione nelle parole di Osso, Gaga e Pupetta è fortissima. Sono convinti che la loro terra sia spacciata, che niente e nessuno la possa risollevare, che le famiglie mafiose (che si susseguono di generazione in generazione) continueranno ad agire indisturbate grazie alle connivenze politiche e militari.

Tuttavia, l’amarezza che pervade i protagonisti a un certo punto è travolta dagli eventi: questi ragazzi non sono eroi, non credono nemmeno che la figura dell’eroe possa esistere in una condizione sociale come quella siciliana, eppure si oppongono a quello che li circonda arrivando a rischiare moltissimo.

La trama è semplice: tre ragazzi nati in un piccolo paesino della provincia di Agrigento, ma residenti ormai altrove, si ritrovano al paese per fare uno scherzo goliardico al sindaco. Complici gli amori passati e gli amori futuri di uno dei protagonisti, si troveranno ben presto a scoprire i traffici illeciti in cui sono implicati il sindaco, alcune famiglie mafiose e vari imprenditori del luogo. Cosa riusciranno a fare lo lascio scoprire alla curiosità del lettore, ciò che è importante segnalare è l’estremo realismo di questo romanzo seppure narri una storia per molti versi assurda.

Giuseppe Rizzo ha praticamente la mia età, viene da un posto abbastanza vicino a quello da cui vengo io. È forse anche per questi motivi che in Piccola guerra lampo ho apprezzato molto il racconto di una storia ambientata in luoghi che molti possono riconoscere come vicini alla propria memoria. I tre protagonisti del romanzo potrebbero senza dubbio essere tre dei miei amici che, per ragioni analoghe, sono sparsi per il mondo, e sono sicura che assomigliano alla parte più autentica di ciascuno di noi. Questo il grande merito di Rizzo: ha sapientemente creato una storia molto romanzata in una cornice dura e reale come solo il posto da cui provieni e che, volente o nolente, chiami casa sa essere.

Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia va letto non solo da trentenni siciliani emigrati, come i protagonisti, ma da chi vuole calarsi nella lettura, magari tutta d’un fiato, di una storia in cui chiunque può trovare una parte di sé, della propria vita e delle proprie origini. Qualsiasi esse siano.


(Giuseppe Rizzo, Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, Feltrinelli, 2013, pp. 288, euro 14)

[NTF6] La prima settimana: “Spam”, “Lo spopolatore”, “248 kg”

Che cosa sta offrendo il Napoli. Teatro Festival Italia 2013? Al momento il cartellone principale ha deluso le aspettative. Nella prima settimana di programmazione, abbiamo seguito Spam di Spregelburd e Lo spopolatore, la ricerca teatrale di Brook sul testo di Beckett. La delusione è cocente: mancanza di idee, lavori vuoti e tanta sciatteria.
Molto bene, invece, il Fringe Festival, la rassegna indipendente del Napoli. Teatro Festival Italia e 248 kg della Compagnia Esiba Teatro ne è un fulgido esempio.
Ci saranno colpi di scena nei prossimi giorni? Ve lo racconteremo nel prossimo report!


Spam– Rafael Spregelburd & Lorenzo Gleijeses

Spam di Spregelburd è un lavoro sulla ricerca della propria identità partendo dallo spam, la cosiddetta spazzatura digitale. Teoricamente è l’opera più completa di Spregelburd perché unisce musica e suoni dal vivo, video documentari e un testo componibile in base ai numeri estratti dall’attore, una sorta di “gioco del mondo” cortazariano.
Sulla carta, un potenziale capolavoro ma, in pratica, in scena è il festival del vuoto, un grande bluff. Grande perché c’è un testo attento a mescolare tra loro elementi provenienti dalla cultura pop contemporanea e suggestioni linguistiche derivanti da Lacan e Žižek. Grande perché concettualmente mette in scena un umano post-moderno affatto banale. Eppure lo spettacolo, tolti i primi dieci minuti, non funziona : il processo di ricombinazione degli eventi, per quanto divertente all’inizio, dopo un po’ annoia, la recitazione – tranne pochi guizzi – è piatta e, a parte pochi momenti fortunati, tutto appare fuori contesto. Spregelburd e Gleijeses non approfondiscono concettualmente il rapporto tra l’identità del professore Mario Monti, protagonista dello spettacolo, e il rifiuto, lo spam. Preferiscono “alleggerire” il lavoro con inserti comici, alcuni davvero notevoli, e non portare avanti uno spettacolo più strutturato. Perché approdare, quindi, a un teatro integrale, a una Sprechoper, cioè un’opera parlata, se non ci sono i presupposti per distruggere le banalità del teatro contemporaneo?


Lo spopolatore– Peter Brook

Lo spopolatore è un racconto breve di Beckett, scritto in lingua francese tra il 1965 e il 1970. Peter Brook, uno dei registi più importanti di teatro, lo mette in scena secondo il modello delle «residenze creative» fortemente voluto dal direttore del festival Luca De Fusco. Da metà maggio, infatti, è a Napoli a lavorare sul testo con Miriam Goldschmidt, una delle più grandi attrici del teatro tedesco e già con lui nel Mahābhārata.
Il pubblico è introdotto all’interno di un cilindro, dalla circonferenza di 50 metri e 16 metri di altezza, nel quale, lungo la parete circolare, si ravvisano delle nicchie che sono accessibili solo da vecchie scale a pioli. Un luogo infernale, abitato da esseri di entrambi i sessi e di qualsiasi fascia di età, dove non c’è possibilità di redenzione, un inferno dantesco.
Beckett dapprima analizza, con approccio quasi documentaristico, le atmosfere e poi, con lo stesso tono, come se disponesse di una macchina da presa, fa uno zoom su alcuni aspetti crudeli e inenarrabili.
Ma che dire della regia e della ricerca teatrale di Peter Brook? Francamente deludente e imbarazzante! La Goldschmidt recita, copione alla mano, ed è visibilmente ingabbiata all’interno dei fogli che legge, la scena presenta solo quattro scale appoggiate alle pareti del fantomatico cilindro e non c’è mai un reale coinvolgimento del pubblico.
Brook è uno dei rari registi di teatro che ha saputo coniugare l’innovazione alla tradizione. La cattiva riuscita del suo progetto dipende da lui ma anche da una miope direzione artistica che non ha saputo valutare altre strade per mettere in pratica, in diverso modo e proficuamente, la sua esperienza di maestro indiscusso del teatro del Novecento.


248 kg– Compagnia Esiba Teatro (Fringe Festival)

Una curiosa novità ce la fornisce il Fringe Festival, la rassegna “off” di Napoli. Teatro Festival Italia. Si chiama 248 kg ed è la storia di un «ciccione», come recita la cartella stampa.
Benno, un ragazzino di provincia tondo e paffuto prende per mano il pubblico in sala introducendolo nel suo mondo ingenuo e fragile. Lui, protagonista di una vita che non ama, si è addossato il peso delle cattiverie di un mondo spietato, in cui dominano pregiudizi e illusioni e che non va oltre la cortina dell’apparenza.
La messa in scena della Compagnia Esiba Teatro è interessante, densa di spunti e assolutamente non accademica. Lo spettacolo ha un suo respiro preciso, talvolta accelerato, altre volte lento, misurato. Ultimo episodio della Trilogia della sconfitta scritta da Tommaso Di Dio, 248 kg è un lavoro pregevole, scevro da intellettualismi – e una tematica del genere avrebbe potuto scatenare barocchismi nella scrittura di ogni sorta – ma soprattutto intelligente. Perché si può fare teatro anche con pochi elementi ma se ci sono tantissime idee in gioco, come nel caso di questo lavoro, il risultato sarà senz’altro più che positivo.

Napoli. Teatro Festival Italia
dal 4 al 23 giugno 2013

Consulta qui il programma completo del festival.

“Jim entra nel campo di basket” di Jim Carroll

«Ti sei accorto che un tossico quando è fatto a un certo punto comincia ad assomigliare a un feto?» «Sta tutto lì, bello, è il ritorno al ventre materno».

Jim entra nel campo di basket (minimum fax, 2013), raccoglie i diari di Jim Carroll, scritti dall’autunno del ’63 all’estate del ’66 e pubblicati negli Stati Uniti nel 1978.

Jim è un adolescente, ama la pallacanestro e ama farsi d’eroina. Ama sniffare colla negli spogliatoi tra un tempo e l’altro della partita e calarsi LSD. Mentre gli amici si ubriacano, lui si fa di altri acidi.

Odia quelli della narcotici, «i bastardi più stronzi e infidi che conosco, e aggiungeteci che sono anche i più corrotti», la scuola cattolica, «limone spremuto negli occhi», e il suo «lavoro di merda allo Yankee Stadium».

La vita come pallacanestro e la pallacanestro come vita, parti di una che entrano nell’altra e viceversa, fondendosi, confondendosi, deformandosi, arricchendosi. La non esistenza di un punto di confine tra i due universi, un unicum spazio-temporale-esistenziale.

La pallacanestro, mezzo per tentare una sorta di scalata sociale, un Henry Higgins involontario, con Jim nei panni un po’ stretti di Eliza Doolittle: come quando bisognava giocare una partita «in un quartiere di lusso che si chiama Riverdale… gigantesche case private in pietra… un sacco di edera e piscina e tutto quanto», con gli avversari tirati a lucido durante il riscaldamento, facendo sembrare Jim e la sua squadra dei pezzenti – loro che non portavano le borsette «da froci con la roba dentro» e che si cambiavano al volo – e che a fine gara, dopo aver sconfitto i padroni di casa con uno scarto notevole, conquistavano tutto il pubblico avversario, ricevendo bibite gratis e pacche sulle spalle.

La dipendenza da eroina tipo Pepsi Cola («la cosa divertente è che pensavo che l’eroina non desse dipendenza e la marijuana sì»). L’eroina, unico motivo assieme alla pallacanestro e alla poesia per cui vale la pena vivere; finché piano piano la pallacanestro non si fa da parte, lasciando la ribalta alle droghe più disparate e alla discesa di Jim verso il suo inferno privato. Qualche sprazzo del rapporto con i genitori, la guerra del Vietnam, sedicenti marxisti, la necessità di prostituirsi per tirare su qualche soldo, la Grand Central Station che starebbe sulla Guida di New York per pervertiti, se solo esistesse una guida del genere.

Una girone dantesco che Jim si è costruito da solo, tutto apposta per lui, evitando appositamente di installare uscite di sicurezza, modi per scappare: anche solo delle finestre con le grate. Sarebbe tutto inutile: l’unico modo per fuggire da se stesso sono un canestro attaccato al muro e una scorta d’eroina.

Si dice spesso che chi pensa che lo sport, la pallacanestro in questo caso, sia solo sport, non ha mai capito granché. Ecco: Jim entra nel campo di basket non può che esserne un’ulteriore conferma.

(Jim Carroll, Jim entra nel campo di basket, trad. di Tiziana Lo Porto, minimum fax, 2013, pp. 208, euro 10)

Libreria caffè N’importe Quoi: «di tutto e di più» nel cuore di Roma

Partiamo da un dato reale: la libreria caffè N’importe Quoi si trova al civico 10 di via Beatrice Cenci a Roma. Zona Ghetto/Isola Tiberina per intenderci. Sulla carta tutto lineare: a due passi dalla sinagoga, a cinque dal Teatro Argentina, area pedonale e romanità verace – c’è chi dice che gli abitanti di quel quartiere siano gli ultimi veri romani.

Poi ti incammini e allora è facile perdersi per i vicoli limitrofi, tra archi e portici, stradine cieche per finta e schegge di antichità amalgamate nel presente. Quando finalmente arrivi a destinazione, dopo aver incontrato una serie di luoghi sorprendenti che non avevi calcolato – il Portico d’Ottavia, piazza delle Cinque Scole, via Monte de’ Cenci, e ancora via dell’Arco de’ Cenci – ti accoglie una ragazza che legge un libro a testa in giù, come se niente fosse, come se la libreria caffè stesse proprio dietro l’angolo di casa tua, a pochi metri. E subito dopo ti accorgi della scritta che troneggia all’altezza dei suoi fianchi: N’importe Quoi. A quel punto sbirci attraverso il vetro e ci vuole davvero poco per convincersi: entrare è la cosa migliore che si possa fare.

«N’importe Quoi», ci spiega sorridendo Caroline – francese francese di Parigi –, che insieme a Hélène – francese francese di Angoulême – e a Stefano – romano romano – gestisce questo spazietto multilingue, vuol dire «di tutto e di più, qualsiasi cosa», e rappresenta a pieno l’identità del luogo. Perché davvero può capitare di trovarci di tutto a N’importe Quoi. Libri nuovi e usati, in italiano ma anche in francese e inglese – sì, libri in lingua originale usati! –, guide turistiche per stranieri, ma anche per chi “ama” perdersi per i vicoli cittadini. E ancora libri per bambini e libri a 1 euro, la «Torre del meno 50%» e la «valigia dei libri». Autori da tutto il mondo, piccole e medie case editrici selezionate con cura.
 


Ma N’importe Quoi è anche un caffè, un luogo d’incontro raccolto e familiare. Per chiunque voglia scambiare la propria madrelingua con quella altrui – nasce da quest’idea l’appuntamento del martedì con “Friends in Rome” –; per chi ama la musica – sono ormai imperdibili gli incontri di “Senza filtro” tra il giornalista Stefano Mannucci e i numerosi ospiti musicali, del calibro di Eugenio Finardi, Luca Carboni e Simone Cristicchi, che si succedono ormai da qualche anno –; per chi magari ha letto un libro e vuole conoscerne più a fondo l’autore – evento altrettanto imperdibile è “Radiolivres incontra…” con Edoardo Inglese e Vittorio Macioce che intervistano scrittori già affermati e non –; per chi, infine, vuole gustare un’autentica selezione gastronomica francese e bere del buon vino biologico, nella più schietta cordialità.
 


Una volta usciti dalla libreria caffè vi accorgerete che in fondo la ragazza a testa in giù aveva ragione, che davvero, venendo dall’Isola Tiberina, bastava camminare per un po’ in Lungotevere de’ Cenci, svoltare a destra alla traversa prima di via Arenula ed ecco facile facile via Beatrice Cenci… Poco importa, N’importe Quoi vi aspetta qualunque itinerario decidiate di percorrere.

 

Libreria Caffè N’importe Quoi
Via Beatrice Cenci, 10
Roma

Pagina Facebook

“Cate, io” di Matteo Cellini

È facile. Indossare il corpo come un abito leggero. Spalle di seta, fianchi di garza. Infilarsi dappertutto come un fluido gentile, esporre al sole i confini più bianchi perché gli altri si accorgano di cosa stanno per sfiorare.

Ma camminare in discesa non è per chiunque. Di sicuro non per Caterina, che scivola bene solo in mezzo alle sue angosce. È lei la protagonista del primo romanzo di Matteo Cellini Cate, io (Fazi, 2013), tra i dodici finalisti del Premio Strega, nonché vincitore del Campiello Opera Prima.

Diciassette anni e cento chili di passi inceppati, vestiti mai abbastanza lunghi, muri mai abbastanza espansi per eclissare i suoi contorni. Caterina vive a Urbania, fantaversione di Urbino, mappa distorta di un videogioco in cui è sempre lei a essere sconfitta, qualsiasi pulsante prema. Frequenta il liceo, si acciambella tra i banchi, parcheggia le sue ore davanti a una lezione d’italiano, ma non c’è nulla in quegli scampoli che sia vagamente semplice.

Tutto deve essere vagliato, passato in rassegna, non si può lasciare al caso il passaggio quotidiano di un asteroide con i jeans. E così Cate seleziona ogni mossa: dall’attesa dell’autobus alla scelta del posto, dal colore delle scarpe al peso del respiro. Per lei i pomeriggi sono boschi crudeli, cespugli di scherno pronti a pungerla e a irritarla. Non esistono lingue innocenti, che schioccano all’aria e infagottano parole. Ci sono lame incandescenti che aspettano i suoi piedi, le sue braccia, i suoi pensieri. E quindi l’unica cura è la prevenzione: immaginare offese, autoinfliggersi le battute peggiori per evitare di restare disarmati.

Perciò Caterina è così grande da sdoppiarsi: in casa è se stessa e fuori un’eroina. Ha una famiglia grassa, che somiglia alla sua pelle, un ecosistema di gommapiuma che si è preoccupato soltanto di abbracciarla e non l’ha messa in guardia dal circo urlante al di là della porta. Ma quel gioco Cate lo ha toccato presto. Troppo curiosa per eluderlo, troppo scoperta per non essere ferita. È diventata “Cate Ciccia”: acuta, riflessiva, silenziosa, mai invadente. Perché bastava la sua carne a occupare tutti gli occhi.

Poi qualcosa, in quel costrutto fatto a regola d’arte, impastato di sale e di cinismo, comincia a sgretolarsi. C’è uno sguardo che la cerca e non per deriderla. Che la circumnaviga come si fa con le terre sconosciute. Con le terre sognate. C’è suo fratello Gionata che si permette di essere se stesso, che sorride accanto a chi sa amarlo. Suo fratello obeso che non si lascia rallentare mentre corre verso ciò che vuole. E questi eventi fulminanti strattonano il suo mondo, minano la sola certezza che riusciva a cullarla. Quella di essere infelice. Perché forse ci vuole coraggio a provare il contrario, a posare la corazza e sentirsi nudi.

E Cate, dall’alto e dal largo della sua intelligenza, ha paura di spingersi altrove. Di sapere che c’è spazio anche per lei. E poltrone accoglienti per i suoi desideri. Basta poco per sprofondare, per arrivare a un dito dal buio. A lei succede naufragando nel cibo, perché è quello il suo legittimo dolore, il destino adeguato alla sua enormità di «non-persona». Fino allo schianto. Ma rialzarsi è la vera avventura. E forse la storia comincia da lì. Per lei che è di carta e per tutte quelle schiere di ragazze reali che si muovono nei propri panni come fantasmi appesantiti. Per l’esercito di vetro di giovani donne costrette a confrontarsi con l’emporio mediatico della bellezza.

Con le flotte a buon mercato di cosce magre e levigate, di denti allineati, di seni eccessivi stampati a fatica su un torace improbabile. Con le facce impietrite di chi resta immobile, davanti agli orologi e a ogni curva d’espressione. Per tutte coloro che si sentono guaste, montate a casaccio, appiccicate a un’epoca che si finge pluralista e invece pensa solo alla sua impalcatura. Alla facciata da affrescare. Anche se il resto è a rischio di crollo. Cellini ci immerge nei saliscendi di una mente affilata, quella di Cate, dove i finali sembrano già scritti, dove prima del pane serve il vittimismo per nutrirsi davvero, anche se lo si trucca da autoironia.

Il risultato, al di là di una trama asciutta e non rutilante, è un meccanismo riuscito, sospinto da una scrittura davvero inaspettata, originale, mai prevedibile. Dove ogni metafora gioca con le altre e trascina le pagine fino alla fine. È il punto di vista l’elemento vincente, la collisione di un dialetto universale, quello del diverso, contro gli spigoli di un tempo che si racconta tondo. Un libro che esplode e implode con Cate, con la sua pienezza in cerca di misura, che qui, tra le sue righe, ha trovato la taglia ideale.

(Matteo Cellini, Cate, io, Fazi, 2013, pp. 216, euro 16)

[Focus] Gli zombie in tv, come il piccolo schermo ha cambiato i non-morti

L’invasione è inarrestabile. Probabilmente qualcuno non se ne è ancora reso conto, nessuno troverà risposte guardandosi intorno, eppure gli zombie sono ormai tra di noi. La loro ascesa, iniziata nel Ventesimo secolo, ha subito un’impennata nel nuovo millennio che li ha spinti ovunque, dal cinema alla carta stampata fino addirittura agli show televisivi. Gli uomini a cui va il merito di aver reso possibile tutto questo vanno ricercati entrambi negli Stati Uniti, e rispondono ai nomi di Richard Matheson e George Andrew Romero. Le pagine del libro Io sono leggenda del 1954 sono state ispiratrici per La notte dei morti viventi, uscito nelle sale cinematografiche quattordici anni dopo e divenuto un cult definito a tutti gli effetti come capostipite del genere zombie.

Da qui in poi il grande schermo ha presentato decine di pellicole a loro dedicate, ma la svolta arriva inaspettata nel 1996: una delle più grandi software house giapponesi, la Capcom, pubblica Biohazard, giunto in Europa col nome di Resident Evil, un videogame horror in cui a farla da padrone sono proprio i non-morti. Il successo è clamoroso, negli anni successivi arriverà una decina di altri capitoli della serie, ma soprattutto questo movimento sarà destinato a un’espansione rapidissima. Come già detto, dal 2000 in poi gli zombie saranno ovunque, rendendo praticamente impossibile citare quanto pubblicato nei diversi ambiti negli ultimi dieci anni. Per noi appassionati di serie televisive un’ultima fondamentale tappa va fatta: il 2003, infatti, è l’anno di The Walking Dead di Robert Kirkman, uno dei primi fumetti completamente incentrati sugli zombie da cui è stata tratta l’omonima serie televisiva (che vi abbiamo presentato qui poche settimane fa), diventata una tra le più seguite in America col passare delle stagioni. A sottolineare quanto i morti viventi siano entrati nell’immaginario collettivo ci hanno pensato le pagine di cronaca statunitensi degli ultimi mesi, tra casi di cannibalismo e misteriosi omicidi frutti di presunte droghe capaci di scatenare queste  reazioni.

Abbiamo parlato di film, fumetti, libri e serie televisive, eppure qualcosa è rimasto invariato per oltre cinquant’anni: dai film di Romero alla serie di Frank Darabont gli zombie non sono mai invecchiati. Tutti noi abbiamo in mente un’immagine classica, quegli erranti con la pelle bianca e gli occhi iniettati di sangue persi nel vuoto, in perenne movimento in cerca di un altro pasto da consumare, noncuranti del fatto che le loro vittime siano altri essere umani. Un quadro squisitamente d’oltreoceano come il film 28 giorni dopo l’ha modificata solo in un aspetto: la lenta avanzata dei non morti si è trasformata in una marcia veloce per rendere la minaccia più letale e il ritmo più incalzante.

Ma se gli Stati Uniti non hanno azzardato in alcun campo, in Europa qualcuno si è voluto spingere oltre costruendo un’immagine nuova per gli zombie. È Fabrice Gobert il primo a sperimentare qualcosa di nuovo. Nel 2012 ha fatto il suo esordio su Canal+ Les Revenants, uno dei primi lavori – certamente la prima serie televisiva – a stravolgere le idee classiche sui non morti. Gobert si è preso un grande rischio, sia per essersi spinto dove in pochi avevano voluto azzardare, sia perché, inutile negarlo, dal punto di vista televisivo i francesi non sono mai stati visti con particolare calore e ammirazione. L’ombra del fallimento era dietro l’angolo. Questa volta la diffidenza lascia dopo pochi minuti lo spazio alla curiosità. I fantasmi di Gobert (per rimanere vicini al titolo originale) sono dei veri e propri individui ricomparsi nel luogo della loro morte dopo mesi, anni o decenni dalla loro scomparsa. Eppure, nessun lembo di pelle mancante, nessuno sguardo minaccioso, niente di anomalo. Un parente o un amico che torna a casa dopo tante lacrime versate è una sfida anche più ardua da affrontare. Se poi aggiungiamo un velo di mistero sovrannaturale legato a misteriosi avvenimenti successivi alla loro apparizione il gioco è fatto. Les Revenants è da considerarsi a tutti gli effetti la prima alternativa, almeno in ambito televisivo, a una concezione dei morti viventi rimasta troppo a lungo statica e immutabile agli occhi del pubblico.

Nei primi mesi del 2013 la Gran Bretagna ha rilanciato presentando addirittura una terza via. La premessa è d’obbligo: gli zombie di In The Flesh sono anatomicamente quasi identici a quelli classici, ma non è nella loro fisionomia che vanno ricercate le differenze meritevoli di menzione. La sindrome da morte parziale presente nella serie inglese è a tutti gli effetti una malattia curabile, e chiunque venga trattato si ritrova costretto a convivere con i terribili ricordi delle atrocità commesse prima del trattamento. Una sorte dolorosa come quella dei cittadini di Roarton, il piccolo borgo in cui sono ambientati tutti gli episodi, eroi della resistenza contro i non-morti e pronti a difendersi dagli invasori, anche se qualche medico li ha definiti guariti. Non è difficile capire il punto di vista di chi ha perso un amico in battaglia o si è visto portare via i suoi cari per colpa di qualche malato. Gli zombie, per come li conosciamo noi, scompaiono dopo poco per diventare cittadini emarginati. Quando un mostro diventa il proprio vicino di casa la tutto cambia totalmente di significato, la paura lascia il posto alla diffidenza e la lotta per la sopravvivenza si trasforma nella più classica xenofobia. I non-morti, da persecutori e minaccia, diventano ufficialmente vittime e prede, ribaltando completamente i ruoli immaginati fino a ora.

Entrambi gli show non hanno fatto breccia nei cuori di tutti gli spettatori, nonostante Les Revenants sia stato più largamente apprezzato, ma rompere il muro della conformità rimane senza alcun dubbio un loro grande merito. Se anche voi amate gli zombie per come siamo sempre stati abituati a vederli non c’è di che preoccuparsi, non siamo certo di fronte alla rivoluzione imminente. Se però siete dei curiosi in cerca di un nuovo punto di vista da apprezzare, allora incrocerete le dita come me nella speranza di vedere sempre più Les Revenants e In The Flesh convivere con The Walking Dead

“Una stessa notte” di Leopoldo Brizuela

Una stessa notte (Ponte alle Grazie, 2013), dell’argentino Leopoldo Brizuela, ripercorre il periodo della dittatura militare argentina iniziata con il golpe del ’76, cercando di indagare il peso che il ricordo di tali avvenimenti ha ancora oggi nella vita di chi ne è stato testimone.

Leonardo Diego Bazán è uno scrittore sulla quarantina, che da circa sei anni vive di nuovo nella casa dei genitori per occuparsi della madre anziana. Alcuni avvenimenti nel quartiere – in particolare un furto in casa dei vicini, nella notte, che pare essere perfettamente organizzato e spalleggiato dalla polizia scientifica – fanno riaffiorare in lui i ricordi di trent’anni prima, quando Bazán era poco più di un bambino, e una squadriglia di militari fece incursione a casa sua, una notte, alla ricerca di informazioni. L’obiettivo dei militari era proprio la sua vicina dell’epoca, Diana Kuperman, in seguito desaparecida. Sembra incredibile che le stesse dinamiche siano in atto più di trent’anni dopo, e che le persone toccate dal terrore reagiscano allo stesso modo. «Sono entrati», si ripetono i vicini, senza specificare chi, né perché, proprio come all’epoca della giunta militare: quasi una rivisitazione di “Casa occupata” di Cortázar, con la stessa forza data dalla reiterazione, la stessa inquietudine generata dall’insensatezza di quegli avvenimenti.

La descrizione della contemporaneità e dell’angoscia che questi fatti – fin troppo simili alle notti dell’ottobre 1976 – scatenano nel quartiere, si alterna con gli appunti che lo scrittore prende nell’intenzione di scrivere un romanzo proprio su quel periodo, o meglio, su quei venti minuti di terrore in cui un ragazzino di soli dodici anni, una madre e un padre vennero interrogati e minacciati dai militari. La scrittura diventa l’unica possibilità di affrontare quei ricordi, di non perdersi nell’oblio, l’unico modo per capire veramente quella notte, per tollerarla. Non è però impresa facile, richiederà vari tentativi da parte di Bazán: «Per proteggermi da quel ricordo io avevo preso le parti delle vittime. Volevo riuscire a imparare un abbecedario che alla fine, un giorno, mi aiutasse a raccontarmelo, in maniera tollerabile», da qui la scelta di numerare i capitoli con le lettere dell’alfabeto.

Così, alle quattro parti del romanzo corrispondono quattro approssimazioni successive agli stessi eventi, che prendono forma poco a poco nella mente del protagonista. I capitoli ambientati nel ’76 raccontano, da vari punti di vista e sempre più approfonditamente, le stesse vicende (la stessa notte del titolo, in fondo): la storia della desaparición di Diana Kuperman, segretaria di Jaime Goldenberg, il braccio destro di David Graiver, noto imprenditore e banchiere argentino. È così che nella narrazione entrano personaggi e avvenimenti reali che hanno sconvolto il paese: il caso Graiver e le sue implicazioni con Montoneros, la vendita di Papel Prensa, ma soprattutto i luoghi e le modalità di tortura, il timore e la vergogna di coloro che non avevano subito torture fisiche ma erano stati costretti ad ascoltarle, chiusi in cubicoli, al buio e senza cibo per giorni. Parallelamente, assistiamo all’evolversi dei ricordi dello scrittore che, oltre a documentarsi su quel periodo, acquista una maggiore consapevolezza di come la dittatura fosse in realtà da definirsi “civile-militare”, e non semplicemente “militare”: qual è il confine tra la paura, la difesa e il collaborazionismo? Ed ecco che i quesiti sulla responsabilità e la partecipazione di ognuno a quell’orrore – e soprattutto su un’apparente collaborazione del padre stesso di Bazán con i militari – si fanno sempre più presenti, quasi sfiorando l’ossessione.

È così che elementi meta-letterari – la scrittura come catarsi, l’importanza delle singole parole: «È sufficiente chiamarci usando nomi diversi affinché si modifichi tutta la narrazione, e soprattutto il giudizio del lettore» – e autobiografici – lo scrittore protagonista, oltre ad avere le stesse iniziali dell’autore, ne condivide età, provenienza geografica, estrazione sociale e orientamento sessuale – si fondono con la documentazione giornalistica che ha ritratto il paese negli anni della dittatura e in seguito, per dare vita a un romanzo crudo e coinvolgente, meritato vincitore del Premio Alfaguara 2012.

(Leopoldo Brizuela, Una stessa notte, trad. di Chiara Tana, Ponte alle Grazie, 2013, pp. 296, euro 16)

“Atti mancati” di Matteo Marchesini

Ogni atto mancato ha un senso. Episodi delle nostre vite che apparentemente risultano casuali e involontari dipendono, in realtà, dalle nostre intenzioni inconsapevoli e sono solo un modo per dimostrare quella che è la reale volontà nascosta dietro ai nostri gesti, spesso opposta a quella che viene mostrata apertamente. Lezioni di psicoanalisi a parte, in Atti mancati (Voland, 2013) lo scrittore e giornalista Matteo Marchesini racconta come “il non detto”, o “il non fatto”, possa avere conseguenze notevoli e irrimediabili, anche a distanza di tempo, nella vita di una persona. Selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega 2013, Atti mancati è un libro che parla di un romanzo mancato, di una storia d’amore mancata, di un’amicizia mancata, insomma di tutto quello che poteva essere, ma non è più: la vita di Marco Molinari.

Scrittore e giornalista bolognese di modeste origini, il protagonista della storia ha trentatré anni, un «troncone di romanzo sempre ripreso e mai finito, trasferito negli anni su almeno tre computer», una ex-ragazza che ricompare improvvisamente dopo averlo lasciato cinque anni prima senza troppe spiegazioni e il ricordo di un migliore amico, anch’esso aspirante romanziere, morto in un incidente d’auto. Poi c’è Bernardo Pagi, un maestro per lui fin dai tempi dell’università, «una specie di guru a cui ispirarsi nella vita quotidiana».

Il giorno in cui viene incaricato dal suo direttore di scrivere un pezzo sulla consegna del Bolognino d’oro a Pagi, il giovane Molinari rivede a distanza di tempo il suo punto di riferimento professionale, ma non solo. Anche Lucia, inaspettatamente, è lì. Di ritorno dopo qualche anno da un’esperienza di lavoro in Ucraina, adesso lavora a Trastevere per la fondazione di una ricca fotografa e s’interessa di alimentazione biologica: si definisce una bio-nerd. Stranamente, questa volta si ferma più del solito a Bologna e, cosa ancora più incomprensibile e inquietante, se non addirittura irritante per Marco, è tornata facendo irruzione nella sua vita in modo strano, coinvolgendolo in maniera piuttosto sfacciata in un processo apparentemente meccanico e forzato di recupero di una serie di momenti, luoghi di Bologna e della Bassa e persone che ci sono ancora e che non ci sono più. È Lucia che insiste nel chiedere a Marco di ricordare quei giorni passati a scrivere e discutere insieme all’amico Ernesto, che morì proprio dopo aver lasciato a Marco una prima parte del suo manoscritto chiedendogli di consegnarlo a Pagi…

Tutti gli atti che sono venuti a mancare nella loro vita hanno ormai acquisito un peso e una consistenza tangibile e si traducono continuamente in un silenzio troppo lungo o in un gesto rifuggito da parte dell’uno o dell’altra, ma soprattutto di Lucia, la quale però non esita a rinfacciare a Marco le sue mancanze, paure o superficialità di un tempo, lasciando a lui la responsabilità di tirare le fila di una storia dolorosa e commovente che non era riuscito a interpretare fino a questo momento.

In un ritmo quasi incessante di dialoghi, a cui si alternano le profonde e colte riflessioni del protagonista, forse una sorta di alter-ego dell’autore, Atti mancati ci insegna che a tutto c’è una spiegazione, anche quando non abbiamo abbastanza fiducia per crederlo o determinazione per scoprirlo. Spesso, si tratta solo di trovare il coraggio di andare fino in fondo.

(Matteo Marchesini, Atti mancati, Voland, 2013, pp. 128, euro 13)

“Gaspar van Wittel: i disegni”: la collezione della Biblioteca Nazionale

Dal 17 aprile è in corso presso la Biblioteca Nazionale di Roma la mostra curata da Margherita Breccia Fratadocchi e Paola Puglisi, dedicata alla produzione grafica dell’artista Gaspar van Wittel, indagata attraverso 52 disegni di sua mano che costituiscono una delle più prestigiose raccolte della Sezione Stampe e Disegni dell’istituto romano.

All’acquisizione dei preziosi fogli risalente al 1893 e alla personalità dell’allora direttore Domenico Gnoli, che se ne occupò, è dedicata una prima parte introduttiva al percorso espositivo, che non manca di accennare anche a Giuliano Briganti e al suo fondamentale studio monografico del 1966 sull’operato del pittore olandese. Ed è proprio rifacendosi all’impostazione del lavoro di Briganti che l’esposizione sceglie di presentare il materiale suddividendolo in quattro sezioni, “Vedute di Roma”, “Vedute dei dintorni di Roma”, “Vedute di altre città” e “Vedute diverse o ideate”, proponendo talvolta, accanto ai disegni, olii e tempere dell’artista concessi per l’occasione da numerose strutture tra cui l’Accademia di San Luca, alla quale van Wittel fu ammesso nel 1711.

 

 

Il celebre pittore nasce ad Amersfoort nel 1653 e giunge in Italia vent’anni dopo, al seguito di un ingegnere idraulico suo connazionale, per eseguire dei rilievi topografici sul corso del Tevere, nel contesto di un progetto finalizzato a renderne navigabili le acque. Da questo momento il soggetto ricorrerà frequentemente nei dipinti di van Wittel, che nel frattempo passa dalle ricerche topografiche alle vedute che ritraggono appunto le rive del fiume, ma anche i ponti, i palazzi, le ville, i monumenti e le vaste distese di Roma, e non solo. I disegni in mostra raccontano i suoi numerosi viaggi lungo la penisola; attraversa la campagna romana fissando sul foglio e successivamente sulla tela i giardini della Villa Aldobrandini di Frascati e i suoi campi, l’abbazia di Grottaferrata, la vista della cittadina di Marino da Villa Colonna, e poi Venezia, Bologna, Firenze e Napoli, lungo uno dei tanti percorsi possibili agli albori del Grand Tour.

 

 

Inoltre, questi disegni raccontano la nascita delle pitture, permettendo di spiare i tratti indecisi, le idee per i colori da utilizzare fissate negli appunti veloci presi a margine, la costruzione proporzionale con la quadrettatura, necessaria per il passaggio dal disegno al dipinto.

L’evento offre la possibilità di conoscere il lato più inconsueto dell’operato di uno dei padri del vedutismo, che in Italia guadagnò vasto spazio nell’ambito della produzione pittorica del Settecento, soprattutto tra i veneti, sfiorando la tematica molto dibattuta ed estremamente significativa dell’influenza dell’arte nordica più peculiarmente descrittiva sul contesto italiano.

 

 

Fino al 13 luglio sarà quindi disponibile al pubblico, completamente gratuita, una delle più interessanti collezioni della biblioteca romana, esposta per la prima volta nella sua interezza, affiancata inoltre da una riproduzione su computer dei disegni, volta a consentire una più accurata osservazione dei dettagli grafici.

Gaspar van Wittel: i disegni. La collezione della Biblioteca Nazionale di Roma.
Biblioteca Nazionale di Roma, viale Castro Pretorio 105
17 aprile – 13 luglio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.bncrm.librari.beniculturali.it/

[iVideo] A tu per tu con Ernesto Bassignano (prima parte)

Ci sono vari modi per sapere e conoscere le cose. Leggendo un libro, sfogliando una rivista, cercando su internet. Tutto legittimo. Secondo noi però, il modo migliore è andare a chiedere queste cose a chi le ha vissute. A chi c’era. Per questo abbiamo deciso di fare quattro chiacchiere con Ernesto Bassignano. Fondatore dello storico Folk Studio con Venditti e De Gregori, cantautore, giornalista, una vita passata in radio (attualmente conduce Rodeo su Radio Città Futura), con trasmissioni cult come Ho perso il trend. Una vera enciclopedia vivente, che ha conosciuto e collaborato con i nomi più importanti della storia artistica italiana recente. Insomma, la persona giusta per parlare di musica e non solo. Perché pochi come lui, qui in Italia, l’hanno vissuta così. Fino in fondo.

 

A tu per tu con Ernesto Bassignano (prima parte)
intervista di Alessio Belli e Simone Mercurio
riprese di Diego Ortuso e Andrea Stige
montaggio di Diego Ortuso
 

La seconda parte dell’intervista qui.
 

Flanerí si dichiara disponibile a rimuovere eventuali immagini di repertorio coperte da copyright.