“La conservazione metodica del dolore”: a tu per tu con Ivano Porpora

La conservazione metodica del dolore (Einaudi, 2012) è il primo romanzo di Ivano Porpora, un giovane autore che prova, con il suo libro, ad attraversare l’articolato tessuto della sofferenza umana.

L’opera – presentata dalla casa editrice in un’elegante veste grafica arricchita da una meravigliosa tavola in acquerello di Gipi – è un viaggio tanto difficile quanto affascinante nell’animo umano, in cui realtà e sogno, malattia e salvezza, rassegnazione e slancio sono strati diversi di un unico magma che brucia sottopelle e che ci lancia addosso quel senso di miseria che solo la linea sottilissima che divide la vita e la morte può darci.

La storia si può riassumere in un uomo, Benito, che soffre di una delle malattie più “infami”: l’epilessia. Una malattia che ha cancellato una parte della sua storia, circa dieci anni. Ora ha l’occasione della vita, una mostra fotografica che può aiutarlo a riprendere per mano il “presente”.

Tra le molte domande che mi vengono in mente per l’autore, ce n’è una che vorrei fargli in particolare e che gli rivolgo immediatamente.


Se, da quanto ho capito, non c’è nulla di autobiografico in questo libro, dove hai trovato la forza di intraprendere questo “viaggio” nel dolore? Con che parole definiresti questo libro?

La definizione migliore l’ha data finora Andrea Gentile parlando di «letteratura necessaria». Non è che non ci sia nulla di autobiografico: ogni libro, forzosamente, parla del me. In questo caso sono dovuto venire a patti con la mia epilessia, più pietosa di quella di Benito ma non per questo di finzione –; è che a un certo punto ho capito che, volendo investigare a fondo le mie possibilità di scrittura, l’unica strada possibile stava nel setacciare il mio territorio inesplorato. Questo mi ha portato a una sofferenza che non auguro a nessuno, a riscoprire ferite lontane e che sanguinavano ancora, ma anche a nuove possibilità.


Lo stile del libro è ondivago come ondivagaè la narrazione. Tutto sembra realizzato per affondare nello stomaco più che nella testa. Eppure non cadi mai nella tentazione di colpire a effetto. Questo è un merito, lo sai? Il tuo libro, a mio avviso, è una delle opere più complesse (e non complicate, ben intesi) uscite negli ultimi anni.

Che dire? Grazie… Non mi piacciono le opere che colpiscono alla testa. Né mi piacciono i libri facili, i libri che scorrono che è un piacere. Sarò io, ma penso che siamo già in un gran clima di facilità, di sedani sconditi. Mi piace lavorare sul brasato…

Nella tentazione del compiacimento intellettuale, comunque – a onor del vero – son caduto diverse volte; spesso l’editing, spesso il mio stesso lavoro di riscrittura mi hanno fatto lavorare di machete togliendo tutto ciò che mi causava un lieve sorriso. Ecco, diciamo che seguo questa regola: se levo un sopracciglio è un buon segno, se levo un sorriso taglio.

 

A proposito dello stile. Perché questa scelta di mescolare dialetti, poesie, canzoni, filastrocche? Mi permetto di intravedere, con le dovute differenze, qualche rimando in chiave contemporanea di certi andamenti, a volte persino dissociati, di un certo Gadda. In fondo anche lui ha provato a indagare il dolore.

Gadda lo conosco poco; pochissimo. Non me ne faccio un vanto, anzi: credo sia una coglioneria quella del vantarsi di non aver letto i classici. Sto semplicemente seguendo la mia strada, con diversioni e riallacciamenti a un percorso che avrei dovuto/voluto compiere e per mille motivi non ho compiuto. La scelta quindi è meno gaddiana e più, se vogliamo, vicina a scelte linguistiche proprie non solo di una letteratura ma di stili musicali (il rap in particolare), pastiches classici, di un certo tipo di ricerca linguistica (mi vengono in mente le opere teatrali di Giovanni Testori, quelle di Raffaello Baldini, quelle di Emma Dante), una certa iconografia, pure non lineare (da Max Papeschi alle fotografie di Richard Avedon a quelle di David Lachapelle), alla regia di mille registi diversi tra loro.

Sono tutte narrazioni. Se proprio devo citare un nume cui mi ispiro in merito al respiro letterario, parlo di Bohumil Hrabal. Credo che da lui cerco di trarre una commistione tra diversi registri, la capacità di frammentare il discorso e poi riunirlo. Che poi lo stile sia profondamente diverso dipende, appunto, dallo stile che è voce personale.


Famiglia e lavoro, giovinezza ed età adulta, fallimento e successo. In quale dicotomia troviamo il maggiore turbamento?

Più che in una dicotomia, in una sorta di taglio trasversale a queste voci: Famiglia, Giovinezza, Fallimento. Diciamo che le dicotomie indicate sopra son diverse tra loro perché una esprime in realtà un passaggio (giovinezza ed età adulta), una un contrasto di tipo sì/no (fallimento e successo), una la necessità di una negoziazione (famiglia e lavoro). Se mi si chiede però quale di questi settori attira il mio interesse, direi senza ombra di dubbio la prima coppia. La famiglia come luogo di fallimenti, violenze, ricordi, speranze, affetti, vincoli e doveri; il lavoro come frustrazione, guadagno, possibilità, ruolo. A ben vedere lì c’è già (quasi) tutto.


Tra flash, feedback e continue dislocazioni temporali a volte il lettore si perde per poi essere riacciuffato per i capelli quando meno se lo aspetta. I personaggi, alcuni strampalati e persino grotteschi, sembrano usciti da una certa cinematografia italiana anni Settanta. Dove hai pescato per dipingere quest’affresco così variegato?

Dalla mia testa. Ne esce sempre qualcosa di nuovo; scelgo – per capire se questo nuovo è buono – la massima secondo cui ciò che cammina coi propri piedi e segue una sua direzione (non necessariamente omogenea con quella della narrazione, ma nemmeno troppo laterale) è buono. Ci sono tanti personaggi della Conservazione che sono stati scartati perché sviavano la narrazione ma erano buoni (Fobèn e la ragazza indiana su tutti), altri che erano nella narrazione ma non erano buoni (un agente di commercio che aveva un ruolo più importante); altri che invece, proprio per il loro spessore, valicano quelle pagine (Mario e Severo su tutti).

È un po’ come un atto di equilibrismo, scrivere, un po’ come il passare sul filo del francese Philippe Petit; esiste il filo e più nulla, a un certo punto, e se quel nulla prende corpo e diventa il precipizio tra le due torri rischi di cadere.

Tornando alla cinematografia, direi che da alcuni attori e registi il libro dipende, più che prendere forza. Senza Tognazzi o Fellini, Scola o Mastroianni, la Melato o Ferreri, Olmi o Manfredi, e poi ancora Wertmüller e Vitti e Giannini e Pasolini e Noiret e Monicelli e lo stesso Gigio Alberti – su cui il fisico di Benito poggia – il libro non sarebbe, o non sarebbe così.


C’è qualche autore che senti di prendere come punto di partenza o di riferimento?

Autori ce ne sono eccome, e non solo letterari. Quindi faccio il gioco di castrarmi e prenderne solo dieci – sotto perderebbe di senso, il gioco. Per la letteratura dico Hrabal, Dostoevskij, Collodi e lo scorrimento logico/illogico di Murakami; per il teatro Nekrošius; per la fluidità di parola Frankie HI-NRG MC e Caparezza; per i giochi di parole Sergio Caputo; per il cinema Michel Gondry; per la musica Tchaikovsky. Ne ho puniti troppi e ne è venuto fuori un clima in parte falsato (non so nulla di musica classica, per dire, né ho nominato Ascanio Celestini o gli Zebda, o Neruda, o ecc.), ma va bene così.


Ormai è qualche mese che è uscito il libro. Sei soddisfatto di come sta andando? Come hanno risposto critica e pubblico? Quali sono stati l’apprezzamento che più ti ha colpito e la stroncatura, se c’è stata, che più ti ha fatto arrabbiare?

Sulle vendite non so nulla. Detto questo, le critiche sono state spesso molto positive, e questo mi fa piacere, e sempre contestualizzate, e questo è un bene. Preferisco qualcuno che mi faccia notare un problema a qualcun altro che mi dica: «Tutto perfetto». Anche perché, prendendo in mano La conservazione e Moby Dick, non ci vuole un genio per vedere dove stia il “tutto perfetto”…

La domanda che mi pongo spesso è: Dove voglio andare? E visto che so dove voglio andare, le critiche contestualizzate sono come pane per gli uccellini, qui da me. Per quanto concerne le stroncature, ne ho avuta solo una. Un’altra – più sul metodo che sul libro in sé – è diventata un’interessantissima conversazione con Giorgia Tolfo.

L’unica volta in cui ho avuto una critica a mio vedere pretestuosa – il lettore si è fermato a una frase della prima pagina, per poi chiudere il libro – ho scritto al critico, ringraziandolo comunque per l’attenzione e sperando, in futuro, in un ripensamento. Non ho ricevuto risposta.


Perché questo titolo? Chi ha proposto la copertina? Entrambe le scelte risultano davvero efficaci.

Il titolo è opera di mia moglie – segno che al contrario di quanto spesso dichiaro qualcosa di autobiografico c’è. Un giorno mi urlò, durante una discussione, che racchiudere i miei ricordi in due scatole e lì lasciarli non fosse altro che creare una conservazione metodica del dolore. Ho pensato fosse il titolo migliore per un romanzo ancora senza chiusa.

Il merito sulla copertina, invece, è tutto mio. Sono appassionato di fumetto, della concezione artistica di Gipi, mi piace leggerlo e sentirlo parlare. Da lì a contattarlo il passo è stato breve – e, concordo, molto convincente.


Ti ringrazio per l’intervista, rinnovo i complimenti personali per questo libro e ti auguro un sincero in bocca al lupo per il prosieguo della promozione.

Grazie a voi, e in bocca al lupo!

 

(Ivano Porpora, La conservazione metodica del dolore, Einaudi, 2012, pp. 328, euro 18)

“Paradiso amaro” di Tatamkhulu Afrika

«Mi tocco la cicatrice sulla guancia, che pulsa, come se la pelle, morta da tempo, fosse improvvisamente risorta. […] È tutto un abbaglio della mia mente? Sto attribuendo a un fantasma un potere che è soltanto mio? Che importanza hanno una guerra che il tempo ha domato, relegandola alla banalità di qualsiasi altra guerra, e la stranezza di un amore che è meglio non riportare alla luce? […] E abbasso il viso nel vuoto delle mie mani».

Dopo cinquant’anni la vita placida e composta di Tom è scossa dall’arrivo di due lettere e un pacchetto provenienti dall’Inghilterra. L’Inghilterra è Danny, è il paradiso amaro dei tre anni vissuti nei campi di prigionia per soldati alleati, trasportati dal Nordafrica all’Italia e infine in Germania. Il campo di concentramento divenuto in quegli anni il loro mondo, la loro realtà organizzata secondo quel microcosmo fatto di espedienti e di equilibrio precario, dove, afferma Tom, «la morte per fame è uno spettro non più lontano della faccia del mio vicino, e il suo alito sa di cadavere». Ma l’essere umano è un animale sorprendente che sa trovare nell’indigenza la forza per creare una stufa dal nulla, per dedicarsi al teatro, alla cultura e soprattutto non smette mai di generare e provare emozioni.

Paradiso amaro di Tatamkhulu Afrika, edito da Playground nel 2006 e ristampato nei primi mesi del 2013, nasce dall’esperienza realmente vissuta dall’autore sudafricano, ancor prima di trascorrere undici anni nello stesso carcere di Nelson Mandela.

Tatamkhulu Afrika è un poeta ed è evidente dalla sua scrittura. Inizialmente si è colti da una sorta di stupore, interdetti forse dalla commistione insolita di crudo realismo e dolcezza, poi si inizia ad apprezzare e ammirare questa lingua intensa e precisa (evidentemente molto ben tradotta da Monica Pavani). Non divaga inutilmente e all’improvviso esplode in un’immagine terribile di pazzia o di orrore o ti avvolge in un’intima atmosfera di pelle nuda e tenerezza. Queste contrapposizioni sono presenti in tutto il libro a partire dal titolo, e il rapporto tra i due protagonisti, Tom e Danny, s’innesta in quest’equilibrio delicato. La loro intesa immediata cresce tra dialoghi ruvidi e fragili sorrisi, diventando amore profondo manifestato nella più semplice quotidianità di un sostegno reciproco. È forza straordinaria per sopravvivere.

Paradiso amaro ha il coraggio di andare oltre le convenzioni con naturalezza e di affidarci la carne nuda dell’uomo, privo delle maschere sociali. Finito questo libro ci si sente svuotati e ricchi insieme, per un po’ sospesi a chiedersi: che cosa leggerò stanotte?


(Tatamkhulu Afrika, Paradiso Amaro, trad. di Monica Pavani, Playground, 2013, pp. 218, euro 15)

Amici di fabbrica

Eravamo cresciuti nella stessa zona ma mai ci eravamo incrociati. Diceva di essere stata reclusa in casa fino alla maggiore età e forse anche di più. Io ho sempre pensato che fosse stata reclusa da un destino molto più faticoso del mio. Quando la vidi per la prima volta mi diede subito il “senso” della fiducia, quella carezza che si sdraia sulle vene e ti lascia, per pochi secondi, inebetito.
La fabbrica fu la nostra stretta di mano, il piacere di vedere uno sguardo “amico”su cui affogare il tetto che copriva i nostri lunghi sbuffi, le pause strette di minuti senza retromarcia. E intanto gli anni passavano. Da un reparto all’altro il rumore dei torni si faceva più ricco, più colorato.
I brividi dell’inverno si mescolavano al sudore delle stagioni calde. Poi, d’incanto, quel concerto cadenzato cessò, e iniziò una pausa chiamata cassa integrazione. La natura ebbe tutto il tempo per fare il suo corso.
Lei si fece confortare da un bacio sulla bocca per mettere al mondo “l’acuto” più importante della sua vita. E in questo l’aiutò la metà a cui teneva di più e un miracolo di cui solo a Dio si può rendere merito.
Tommaso fu ramo aggrappato a una quercia ancora molto giovane, i pianti nelle notti buie e senza luna, le mani tese dell’amore all’amore. I suoi respiri s’intrecciavano ai sorrisi della madre, passi svelti di una vita vissuta con impazienza. Tra un sospiro e un altro, all’alba di una nuova primavera, ritornò in fabbrica. Ritornò dopo anni di esilio e dopo che la cassa integrazione andò a scagliarsi contro la volontà di uno Stato pagliaccio. La solita pelle chiara, magra, i capelli lunghi, castani, ormai pezzo unico con la spina dorsale. Spostata di reparto, lontana anni luce ma vicina nei saluti, nei sorrisi, più alti dell’odore del ferro, più densi di un sole che cominciava, stancamente, a riscaldare.
Riprendemmo a confessarci senza regole, senza un orario stabilito, in disparte, lasciando la parte pari dell’officina ai nostri colleghi zuppi di olio e passioni insignificanti.
«Ho paura», mi disse un giorno a voce lenta, «paura che mio figlio possa campare della sua ombra. E magari ripercorrere le stesse mie strade. Strade tristi e già solcate».
Non le risposi subito, presi il tempo per la coda e guardai a lungo l’infinito, facendomi sbirciare le mani da una virgola di vento.
Mi ricordai di quando aveva visto le mie lacrime, lacrime di padre appena pronunciato, impaurito davanti al mondo pitturato di “nuovo”. Le aveva rette con forza, le aveva asciugate prima che diventassero acqua marcia da posare sulle guance di un viso scimunito. Mi aveva detto: «Il figlio è un taglio nel cuore, una ferita che non guarisce, una costola che vivrà di te ma non per te». Schiarì quella tristezza, sciolse quel nodo ancorato alla gola, accennando un sorriso. Un sorriso che ora non sapevo restituirle.
«Sarai una madre buona». Lo dissi con un filo di voce, dando a quell’aggettivo una forza inaspettata di lucida sacralità. Anche lei, quel giorno, aveva urgenza di qualcosa che spegnesse la sua tristezza.
Fu lo scatto a colpirmi, il taglio del suo viso intatto, come quando la vidi, per la prima volta, davanti ai cancelli della fabbrica.
Accolsi quel gesto con la gratitudine di un attore di teatro che ha terminato la sua recita. E, come al solito, non seppi risarcirla di nulla.

“Starry night”: a tu per tu con Federico Leoni

Non è mai facile parlare degli adolescenti. Dei loro turbamenti, dei loro sogni, delle loro paure. Non è mai facile farlo senza cadere nel banale. Come altrettanto complesso è raccontare le storie e le vite di una città come Roma. Descriverla in maniera profonda, cercando di coglierne l’essenza. Federico Leoni ha fuso il tutto in una riuscita impresa narrativa: il romanzo Starry night (Ensemble, 2013). L’autore e giornalista compone, capitolo dopo capitolo, un’opera in cui le vicende criminali e sentimentali del diciottenne Filippo sono spesso il tramite per raccontare di qualcosa di più grande e complesso, quasi come in un quadro di Van Gogh. Quasi come in una Starry night.


Starry night può essere definito un romanzo di formazione contemporaneo?

Direi di sì. Non amo molto le definizioni, ma mi rendo conto che sono necessarie e spesso inevitabili. C’è chi ha scritto che leggere Starry night è un po’ come leggere il nuovo libro di Roberto Saviano in forma di Bildungsroman, di romanzo di formazione, appunto. Un lettore mi ha detto di averci visto addirittura qualcosa di Tom Sawyer. Sono paragoni lusinghieri, ovviamente. Io credo di aver affrontato problemi tipici dell’adolescenza declinandoli in chiave contemporanea. I miei diciottenni romani, moderni adolescenti, sono ruvidi e romantici. Maneggiano troppa realtà, per così dire.


Nel tratteggiare i personaggi di Starry night, quanto ha influito la cronaca dei giorni nostri?

Non molto. Quando ho iniziato a scrivere il libro mi sono messo in cerca di spunti di cronaca che potessero arricchire l’intreccio, ma alla fine ho lasciato perdere le agenzie di stampa e i ritagli di giornale, basandomi solo su quello che avevo visto o vissuto anni fa a Roma, quando ero più giovane, e su racconti ascoltati più di recente in giro per la città. Alla fine, paradossalmente, invece di inseguire la cronaca ho finito per essere inseguito dalla cronaca: mi è capitato almeno in un paio di occasioni di ritrovare sui giornali fatti molto simili a quelli che avevo descritto nel romanzo. Questo se non altro mi ha fatto capire che la strada era giusta.


Roma si può senz’altro considerare come un’ulteriore protagonista del libro…

Sicuramente. Non volevo necessariamente scrivere un libro su Roma, ma sapevo fin dall’inizio che la città avrebbe reclamato un ruolo da protagonista. Roma non accetta di rimanere sullo sfondo: partecipa, consola, abbandona e tradisce. Vive, in definitiva. Non volevo una città da cartolina e anche se nel libro si parla del Tevere, di San Pietro e di altri luoghi noti ho preferito toccare anche zone meno conosciute e turistiche. Roma nel libro ha una coscienza divisa, quasi da psicanalisi. Credo sia così anche nella realtà, ma questa non è una città che si discute. Roma è un po’ come una madre, magari snaturata, ma pur sempre una madre.


Durante la lettura, si scorgono l’assenza e le lacune dei genitori e delle autorità che dovrebbero salvaguardare i giovani…

Molti lettori hanno sottolineato questo aspetto, quasi come se il romanzo avesse anche un intento di denuncia sociale. Io in realtà non avevo questo intento e non metterei troppo precipitosamente la croce sulle spalle dei genitori. La realtà è che c’è un’età in cui i ragazzi vogliono costruire un mondo tutto loro, e l’ultima cosa che vorrebbero è far entrare i propri genitori in questo mondo. Quando i figli attraversano questa fase i genitori, anche per ragioni anagrafiche, sono spesso presi da altri problemi: lavoro, soldi, problemi di coppia e crisi di mezza età. È molto difficile per loro forzare il muro eretto dai ragazzi, anche quando vorrebbero farlo.


Starry night tratta il mondo dei giovani con una consapevolezza e una maturità che si riflettono anche nello stile. Quali sono stati – se ci sono stati – i modelli e i riferimenti letterari durante la stesura del romanzo?

Non ci sono modelli diretti, ma io sono un lettore vorace e il mio pantheon letterario è piuttosto affollato. Non ho scritto il romanzo ispirandomi direttamente a qualche autore del passato, ma è probabile che i miei gusti di lettore traspaiano in quello che scrivo. Alcuni dei miei autori preferiti sono esplicitamente citati nel romanzo, altri riferimenti sono più impliciti. Sono un appassionato di letteratura nordamericana, da Melville a Philip Roth, passando per Hemingway, Faulkner e Paul Auster, e mi sarebbe piaciuto utilizzare uno stile statunitense, per così dire, applicandolo a una trama italiana. Alla fine, però, credo le mie origini abbiano avuto il sopravvento e che il mio stile sia abbastanza chiaramente “latino”. All’inizio del libro, non a caso, cito lo spagnolo Javier Marías, un altro dei miei autori prediletti, accanto a John Ashbery, rappresentante di spicco della così detta scuola poetica di New York: americanissimo.


Se dovessi scrivere un seguito, cosa pensi racconterebbero ai propri figli i protagonisti di Starry night?

I ragazzi di Starry night imparano una cosa e la imparano a prezzo di enormi sacrifici: alla fine quello che conta sono i sentimenti. Non si tratta di ricoprire la realtà con una patina “rosa”, ma di rendersi conto che più dei fatti conta il modo in cui li viviamo e ce li raccontiamo: la narrazione è probabilmente la maniera più autentica in cui gli esseri umani riescono a vivere la loro vita.
Un ipotetico seguito del romanzo (che non scriverò) partirebbe proprio da queste premesse. I protagonisti cercherebbero di spiegare proprio questo ai loro figli.

(Federico Leoni, Starry night, Edizioni Ensemble, 2013, pp. 296, euro 15)

“Holy Motors” di Leos Carax

Dopo essere stato accolto lo scorso anno al Festival di Cannes come opera rivoluzionaria e geniale (e senza ricevere alcun premio dalla giuria guidata da Nanni Moretti), arriva finalmente in Italia Holy Motors di Leos Carax, già inserito al primo posto nella nostra classifica dei migliori dei film prodotti nel 2012.

Ventiquattro ore nella vita di un uomo, o meglio, nelle vite. Perché Monsieur Oscar saluta la famiglia una mattina come le altre per andare a lavoro. Quella però non è la sua famiglia, non è la sua casa, non è il suo lavoro. Ad attenderlo sul sedile della limousine bianca guidata dall’autista, assistente e amica Céline è il dossier del primo appuntamento della giornata. Oscar lo legge con attenzione, mentre l’auto gira per le strade di Parigi, poi inizia il rituale della vestizione. La limousine diventa un camerino affollato di bauli e parrucche, lui un’anziana mendicante piegata dalla gobba lasciata in un angolo della strada a chiedere l’elemosina. È solo la prima trasformazione della giornata. Ogni appuntamento una nuova identità, così Oscar diventa uno stunt-man per riprese computerizzate, un mostro onnivoro e ultra-tabagista che vive nelle fogne, un killer e la sua stessa vittima, un padre alle prese con le insicurezze di una figlia adolescente, un anziano moribondo assistito dalla nipote, il tutto prima di tornare la sera a casa, un’altra, da una nuova famiglia.

Alexandre Oscar Dupont, in arte Leos Carax, ex enfant prodige del cinema francese esploso con Rosso sangue (1986) e il travagliato Gli amanti di Pont-Neuf (1992), non dirigeva un film da Pola X del 1999, se si esclude l’episodio nel trittico Tokyo! del 2008, da cui recupera il personaggio di Monsieur Merde. Il suo ritorno con Holy Motors, di cui è anche sceneggiatore è una decostruzione celebrativa del cinema, del suo linguaggio e delle sue illusioni.

È il regista stesso a condurci dietro le quinte della pellicola nell’incipit onirico e metafilmico, trovando una porta nascosta nella scenografia («Nel mio appartamento c’è una porta che fino ad ora non avevo mai notato», ha scritto Kafka) e in se stesso la chiave per aprirla per entrare in una sala in cui tutti assistono, immobili e a occhi chiusi, alla proiezione delle riprese pioneristiche di Etienne-Jules Marey.

Le varie vite di Oscar sono momenti della storia del cinema, piccole trame che si accennano e si compiono passando da un genere all’altro, muovendosi avanti e indietro lungo l’asse del tempo. Carax gioca con la cinefilia, sua e di chi è in grado di coglierla, cogliendo, omaggiando, autocitandosi, rimpiangendo un tempo in cui la finzione e l’illusione del cinema era evidente, non nascosta, quando le macchine da presa si vedevano, come Oscar dice a Michel Piccoli, apparso misteriosamente nella sua limousine, quando il gesto si trasformava in espressione filmica, non veniva filtrato dalla realtà digitalizzata come nella motion-capture della seconda incarnazione di Oscar.

Il confine tra reale e finzione si fa via via più labile in ogni sequenza. La rappresentazione si radicalizza a favore di un pubblico ulteriore rispetto a quello in sala. Oscar non interpreta più dei ruoli in mezzo ad altre vite normali, recita la sua parte in un contesto in cui tutto è messa in scena, come nei panni dell’anziano che muore vegliato dalla nipote, anche lei attrice e collega di Oscar, mentre interprete e personaggio si confondono nell’incontro con Jean, amore del passato, anche lei in giro in limousine nella notte parigina.

Il rischio del solipsismo autoriferito è in agguato, ma Carax sa come distrarre lo spettatore e confonderlo nel modo giusto.

Nei (molteplici) panni di Oscar, Denis Lavant, fedelissimo del regista dalla prima ora, è straordinario, per limitare il giudizio a una sola parola. Si trasforma e si annulla nelle incarnazioni di Oscar, si rigenera e rinasce come donna, come mostro, come padre, così come si trasforma e si rigenera lo stile di Carax in ogni sequenza.

Brevi apparizioni di Eva Mendes e Kylie Minogue (che canta), oltre a Piccoli.

Almeno due momenti da ricordare: le riprese acrobatiche in motion-capture e il piano sequenza dell’intervallo musicale.

 

(Holy Motors, di Leos Carax, 2012, drammatico, 110’)

 

“Le colpe dei padri” di Alessandro Perissinotto

Come accade con la Storia, è attraverso un cammino a ritroso che si riesce a portare alla luce il profilo completo del presente. Mentre l’adesso inesorabile si compie e delinea l’aspetto del vero, è il dettaglio ciò che viene lasciato senza voce, sacrificato insieme a migliaia di pezzi di realtà obliati quasi sotto il peso di certezze come «io sono qui».

È questo il movimento che anima Le colpe dei padri di Alessandro Perissinotto (Piemme, 2013): dal presente verso l’oblio, attraversando parallelamente una vita e una città che racconta se stessa partendo dagli angoli più nascosti e senza storia, vivi ancora ma soltanto nella memoria. Sotto l’immagine compiuta e di ferro di Torino e di Guido Marchisio – città e uomo come coprotagonisti del romanzo – può infatti esserci un volto sconosciuto che fatica a riconoscersi allo specchio, ma che da dentro preme per uscire allo scoperto e dire «esisto».

Le colpe dei padri entra in medias res nella storia in cui viviamo, smantellando e riedificando quella dei suoi protagonisti: la Torino di oggi, «matrigna» di figli posti dentro e fuori la sua industria, delle case in cui si concretizzano dinamiche sociali che nel passato trovano una continuità e un’attualità innegabile; e Guido, quarantenne direttore aziendale sbattuto da una parte all’altra delle «barriere» che formano e dividono la città, l’Italia e la vita politica degli ultimi quarant’anni.

Ciò che unisce queste due entità è l’attualità, o meglio, la vertigine che essa crea quando si incontra con la vita vissuta e carica di tutta la sua sostanza di quotidiano, pronta però a essere messa in discussione grazie a ciò che non appare, perché non lo si conosce o perché è stato nascosto. Un gioco di reminiscenze che fanno sprofondare lo sguardo nelle pagine del romanzo come si fa nel buio alla ricerca dell’interruttore che illumini una stanza sconosciuta.

Presente e passato rappresentano, come figure ideali, processi sempre in moto, come la crisi e il rinnovamento, l’azione e l’inerzia, e allo stesso modo spiegano e contraddicono una realtà urbana, sociale e umana che non può quindi riconoscersi in se stessa, ma solo interrogarsi. E mentre Torino cerca la sua identità spiegando il suo essere e confrontandosi con un declino innegabile, Guido distrugge e ricrea se stesso grazie all’insinuazione dell’altro sé, che come uno specchio riflette e capovolge; un doppio che, materializzatosi nella sua vita, spinge e rivendica la sua esistenza fino al punto di far cadere ogni certezza, lasciando soltanto un’immagine che non può essere che la stessa, estranea e intima come quell’altra nello specchio.

Con leggerezza e una scrittura ricca di rimandi, contaminazioni, ma anche qualche frase un po’ usurata, Perissinotto dà forma al suo personaggio compiendo un giro antiorario nella costruzione dell’uomo, con l’obiettivo di giungere al suo stato primordiale per poi riguardarlo consapevolmente: «Prima che una mano pietosa le ripassi con l’aerografo caricato a vernice rosa, di umano le statue di cera non hanno che la forma e per quanto il loro creatore si sforzi di dare a esse una postura dinamica, il giallo smorto della cera solidificata le riporta impietosamente alla loro natura cadaverica». Senza memoria l’uomo arriva a smarrire la sua anima e può allora essere chiunque, come una statua di cera pronta ad assumere le sembianze scelte dal suo creatore. Come l’Émile di Rousseau, Guido cresce costretto da quelle fasce che gli hanno reso un’immagine sociale e umana che si dimostra essere nient’altro che un qualcosa di imposto, costringendolo a rivedere il suo concetto di memoria e al tempo stesso di identità.

Le colpe dei padri lavora sul concetto e sulla sostanza della memoria, considerandola come punto di partenza per ciò che siamo o che saremo, investendola del valore di mezzo per raggiungere oggi una consapevolezza che supera il confine personale e arriva a investirci concretamente sul piano della riflessione sociale.

Gira intorno al concetto di Storia e la problematizza mostrandola, ma al tempo stesso mettendo al centro l’arbitrarietà, vista come una delle caratteristiche del genere umano, quanto la sua incompletezza, marcando nelle pagine uno sguardo e una riflessione calibrata sul contemporaneo e le sue dinamiche tanto politiche quanto esistenziali.

Con i temi che arriva a proporre attraverso una storia che inquisisce la realtà e certe trame dell’uomo, Perissinotto giunge di diritto tra i primi dodici selezionati dell’ultima edizione del Premio Strega, lasciando all’Italia, in attesa del verdetto finale della manifestazione, un pezzo di se stessa da leggere e su cui riflettere e, all’uomo, uno sguardo sulla profondità di se stesso.


(Alessandro Perissinotto, Le colpe dei padri, Piemme, 2013, pp. 316, euro 17,50)

[IlLive] Green Day @Rock in Roma, 5 giugno 2013

Avete presente quando basta un attimo per far crollare pregiudizi e supposizioni? Quando il fuoco dell’entusiasmo spazza via timore e preconcetto? Bene. È successo al sottoscritto durante i primi istanti del live dei Green Day, tenutosi il 5 giugno al Rock in Roma.

Essendo dell’86, come molti della mia generazione – e non solo – sono cresciuto con “Basket Case”, “When I Come Around” e “Good Riddance (Time of your Life)”. Dei Green Day ho vissuto in diretta la fase non proprio felicissima di Warning e soprattutto l’epocale boom di American Idiot. Ho ignorato completamente 21st Century Breakdown e viste le critiche positive da contesti autorevoli, ho ascoltato la recentissima e straripante trilogia Uno!, Dos! e Tré!. Ci sarebbero anche le polemiche sulla salute e sulle ultime uscite del leader del gruppo, ma meglio sorvolare.

Questo per dirvi che varcate le soglie dell’Ippodromo delle Capannelle non sapevo bene nemmeno io cosa aspettarmi dalla band californiana. La piega commerciale/Mtv intrapresa è palesata dalla presenza di ragazzini con IPad in mano, impegnati a fare foto e condividerle su Facebook. Poi però parte “99 Revolutions” e ti concentri sul palco. Apri bene le orecchie e sgomberi la mente. E ti accorgi della potenza e delle genuinità del rock. Non puoi distogliere gli occhi da Billie Joe Armstrong. Un vero dominatore di folle. Carisma e grinta. Qualche verso, una schitarrata, e poi di corsa da una parte all’altra del palco, a chiedere un urlo, un’alzata di mani al cielo.

“Know your Enemy” prosegue il trend positivo, ma è con la doppietta da brividi “Holiday” e “Boulevard of Broken Dreams” che le remore crollano e ci si può abbandonare al piacere urlato e ballato di un live del genere. Anche perché ormai il grezzo punk degli esordi è diventato un punk-nazionalpopolare, accompagnato degnamente dai musicisti di supporto, tra cui spicca il sassofonista Jason Freese.

Intanto Armostrong – supportato dalla furia live di Dirnt e Cool – continua a incitare la marea di fan. Le dichiarazioni d’amore in italiano si sprecano. Parte anche una bestemmia. Un fan dalle prime file lancia una bandiera italiana: lui non perde un attimo a indossarla come mantello. Altri supporter, ben più fortunati, verranno fatti addirittura salire sul palco: chi per cantare una canzone, chi per suonare la chitarra. Puri sogni di rock and roll. Che il pubblico ama vivere e applaudire, confermando una regola non scritta: quando il concerto è bello, molto spesso è merito soprattutto del pubblico.

Euforici, i Green Day martellano per ben due ore e mezza filate. A un tratto il concerto diventa una festa folle: tra maschere e conigli rosa, parte un clamoroso mash-up di cover: “Shout”, “Satisfaction” e “Hey Jude”.

Dai recenti successi “Oh Love” e “Stray Heart”, ai boati che accolgono “Basket Case” e “Minority”, i Green Day infuocano il pubblico romano con una scaletta perfetta, che si chiude all’apice con i bis di “Jesus of Suburbia” e il capolavoro – suonato in acustico e in solitaria da Billie Joe – di “Good Riddance”.

Giunge così la mezzanotte. E come nelle migliori fiabe, il sogno finisce. Mentre invece, l’estate rock romana è appena in iniziata. Nel migliore dei modi.

“Binario morto” di Andrea De Benedetti e Luca Rastello

È da quasi vent’anni che in Italia si discute e ci si scontra sull’alta velocità; sul tratto di ferrovia che andrà a collegare Torino a Lione scavando e cementificando, distruggendo e inquinando. Ma, come ogni persona di buon senso sa, il fine giustifica i mezzi e alla fine l’Italia avrà a disposizione una linea capace di garantirle grandi benefici economici e la possibilità di collegarsi a un’Europa che altrimenti la lascerebbe fuori dalla porta. Ne siamo sicuri? È quasi vent’anni, dicevo, che si discute, ma mai nessuno, prima dei giornalisti Andrea De Benedetti e Luca Rastello, autori di Binario morto (Chiarelettere, 2013), era effettivamente andato a scoprire cos’è veramente la Tav europea, il Corridoio 5 – o Corridoio mediterraneo – che, nei piani dell’UE, dovrebbe collegare la penisola iberica all’Ucraina, passando appunto per Val Susa.

Binario morto è il racconto del viaggio che ha portato i due giornalisti da Lisbona alla Spagna, per poi proseguire in Francia, Italia, Slovenia, Ungheria e Ucraina. I capitoli del libro accompagnano il lettore, non senza ironia e colore, alla scoperta di una realtà non solo europea, ma anche italiana, che i media, le amministrazioni e gli imprenditori si sono “dimenticati” di presentare ai cittadini. È un libro importante non solo per chi voglia capire cos’è la Tav e quali sono gli equivoci a essa legati (lo sapevate che si parla di merci e non di passeggeri?!), ma anche per aprire lo sguardo su un’«Europa senza identità né visione comune del futuro, che annette pezzi di sé stessa tramite una ferrovia che interessa pochi»; un’Europa che non riesce a fare i conti con «dispetti, priorità, ripicche e rappresaglie» da parte dei suoi stati. Una divisione che non manca di farsi sentire nella realizzazione del Corridoio mediterraneo, minato dal rifiuto del Portogallo, dal mancato collegamento italo-sloveno e dalla scelta dell’asfalto rispetto alle rotaie in Ungheria: pezzi di un puzzle che lasciano in bocca il gusto amaro di chi si sente truffato, di chi scopre che, dopotutto, se non si fa tutto il Corridoio, perde senso anche il tratto italiano.

Un viaggio alla scoperta delle contraddizioni dell’Unione Europea, ma anche di cosa sia la Tav, di quali siano i costi (economici, ambientali, paesaggistici), i benefici, le previsioni e gli studi, il tutto senza scadere nella pesantezza di una scheda tecnica, anzi. È un libro che si legge d’un fiato ma che lascia dietro di sé una scia considerevole. Il lettore scoprirà, infatti, che i benefici della tratta italiana si faranno sentire solo dopo il 2073, quando probabilmente avremo inventato «le automobili alimentate a saliva e gli aerei a salsa di soia». Sempre, ovviamente, che i dati su cui si basano i progetti non siano stati “gonfiati” per ottenerne l’approvazione. Una Tav a beneficio di chi, quindi? Dei politici, che basano il proprio consenso sui cantieri che porteranno lavoro e sviluppo nella propria zona, ma anche dagli imprenditori che si occuperanno delle costruzioni. Leggendo le pagine di Binario morto si scopre che la Tav in Italia si ridurrà a essere un «Momendol economico», come le Olimpiadi, che creano sviluppo immediato e soprattutto per pochi, ma che, dopo qualche anno, si sgonfiano senza portare molto altro.

Il sociologo Thomas Ericksen, commentando il Tgv francese, scrisse: «Può sembrare un progresso, e tanto più indiscutibile poiché la possibilità di viaggiare veramente è via via impedita da altri progressi della stessa specie. Quel che rimane della campagna, da cui è stato astratto tutto ciò che non si identifica secondo le categorie dell’economia e dove non restano che bistecche a quattro zampe, ettari di prati bonificati e quote di mammelle, non merita più che essere attraversato a grande velocità». Chissà che il lettore, trovandosi davanti l’opera compiuta tra una ventina d’anni, non penserà poi la stessa cosa.


(Andrea De Benedetti, Luca Rastello, Binario morto, Chiarelettere, 2013, pp. 203, euro 12,90)

“Il bambino scambiato” di Kenzaburō Ōe

Kenzaburō Ōe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, torna in libreria con Il bambino scambiato (Garzanti, 2013), un romanzo che racconta una particolare cognizione del dolore, l’elaborazione di un lutto, l’amara presa di coscienza della morte, volontaria, di una persona cara e fortemente amata.

È mattino. Il sole inonda di riflessi dorati lo studio di Kogito, sprofondato in un sonno ristoratore dopo una lunga notte insonne ad ascoltare la voce di Gorō, amico fraterno e cognato, proveniente da un vecchio registratore. Chikashi, sua moglie, irrompe in quel silenzio portando con sé l’orrore di una notizia esiziale: Gorōsi è tolto la vita gettandosi dal balcone. Un gesto estremo e violento, nato non si sa da quale logica o dolore, che condurrà da quel preciso momento lo stesso Kogito a riesaminare e dissotterrare avvenimenti passati di cui lui e Gorōsi erano resi protagonisti, alla ricerca di una spiegazione che possa dargli pace. Subito cercherà le risposte tanto desiderate nell’ascolto compulsivo e metodico delle cassette registrate per lui da Gorō, in un rituale che si perpetuerà sera dopo sera, ossessivo, e che lo porterà a rinchiudersi sempre più in se stesso, in un autistico mutismo esistenziale.

L’elemento autobiografico (sempre presente nello scrittore) qui diventa assoluto e, nonostante l’utilizzo della terza persona – cosa non comune in Ōe – che vorrebbe esprimere il suo distacco dalla materia, si fa sentire con tutto il peso del dolore di cui l’animo di chi scrive è pregno. Anche il tempo narrativo, che procede a singhiozzi con continui flashbacke salti temporali, perfino da un paragrafo all’altro, sembra vivere la difficoltà dello scrittore di fare luce su un avvenimento incomprensibile come può essere il suicidio di una persona cara, apparentemente serena e professionalmente appagata. Non sarà quindi difficile riconoscere nel personaggio di Kogito, anziano scrittore di successo, lo stesso Kenzaburō, e in quello di Gorō, il regista e attore cinematografico Jûzô Itami, di cui Ōe aveva sposato la sorella (Chikashi, nel libro), morto suicida appena tre anni prima della stesura del romanzo. E, come già nel libro precedente (La vergine eterna, Garzanti, 2011), anche ne Il bambino scambiato lo scrittore avrà modo di parlare di un argomento a lui tanto caro: il confronto tra linguaggio letterario e linguaggio cinematografico. Ma, mentre La vergine eterna sembrava sottintendere che il secondo avesse una capacità maggiore, rispetto al primo, di saper cogliere e imprigionare l’attimo in un eterno poetico, qui quella convinzione appare svanita e non più sufficiente ad appagare la continua sete di ricerca dell’autore.

Come già accadeva nel romanzo precedente, anche Il bambino scambiato tratta una “rimozione”: una vicenda che da poco più che adolescenti aveva sconvolto la vita dei due protagonisti, Gorō e Kogito, segnandoli entrambi in maniera indelebile. Pare che nessuno dei due avesse mai più parlato di «quella cosa» all’altro, come se ne fossero allo stesso tempo sopraffatti e impauriti, ma anche completamente affascinati. Durante tutto il romanzo si fa continuamente riferimento a quell’avvenimento, e solo verso la fine scopriamo che da parte di entrambi esiste il desiderio di superarlo, sublimandolo attraverso l’atto poetico: un film che ne parli, sceneggiato da Kogito e diretto da Gorō. Ancora una volta lo scrittore affida al cinema e alla letteratura una valenza terapeutica, un espediente attraverso cui guarire le ferite più profonde che lacerano l’animo umano. Tuttavia, questa guarigione non avverrà mai: Gorō si toglierà la vita, e Kogito continuerà a tormentarsi fino all’ultimo, incapace di liberarsi del suo stesso pressante, melanconico e superomistico “io”.

Solo a Chikashi, moglie di Kogito e sorella di Gorō, custode della loro amicizia e del loro segreto, sarà data la possibilità di redimere entrambi. Nell’ultima parte del romanzo, quando tutto sembra ormai ineluttabile, e Kogito non ha trovato una soluzione all’estremo gesto dell’amico, Ōe sposta il punto di vista dalla parte della donna, che con un pittoresco e poetico colpo di coda trova una soluzione al dolore, lasciando dietro di sé i due uomini incapaci di andare avanti. Uno “scambio”, un changeling, che una volta aveva già tentato inconsapevolmente con la nascita del suo primo figlio, Ikari, diverrà adesso possibile attraverso la presa di coscienza di sé e di una nuova vita che puntualmente le si parerà davanti.


(Kenzaburō Ōe, Il bambino scambiato, trad. di Gianluca Coci, Garzanti, 2013, pp. 448, euro 24)

“La conta delle lentiggini” di Flavia Ganzenua

Premessa: rispetto all’inevitabile trionfo del digitale, l’amatissimo libro cartaceo ha probabilmente una sola possibilità di futuro: consistere come oggetto a suo modo “artistico”. Naturalmente non pensiamo a un modo truffaldino per sopperire alla trascurabilità del testo scritto con una grafica accattivante (non sarebbe una novità), ma a qualcosa di più significativo della mera gradevolezza: un progetto estetico pensato nei dettagli che faccia a gara con il testo per aspirare a una qualche memorabilità. Come prova a fare CaratteriMobili con la collana di letteratura italiana contemporanea “Gli incendiati”, la cui seconda uscita è La conta delle lentiggini di Flavia Ganzenua.

Se c’è un orizzonte privilegiato entro il quale guardare il suo materiale narrativo direi che è quello biologico: dell’indistinto remoto (ma qui in una prospettiva rovesciata) di cui prese a vagheggiare a un certo punto della sua vita il contino di Recanati. Che intuì – genio italico senza paragoni della modernità – che solo nella mera vita biologica poteva accamparsi un residuo non proprio di felicità ma almeno di sottrazione del dolore. I personaggi di Ganzenua non aspirano a tanto; anzi, paiono persino cercarseli certi acuti supplizi (fisici e non). Eppure.

Lo scacco di Leopardi indizia – va da sé – una tregua dal carattere agonistico che presto o tardi lo (ci) farà soccombere; qui invece la spinta verso l’indistinto preculturale non è acquisizione razionale – e nemmeno supponiamo deliberata scelta poetica dell’autrice – ma un più o meno inconsapevole quanto cercato, e persino accanito, destino di corpi che confliggono (e a volte si confondono) con la pelle altrui: la desiderano e la combattono insieme ma – ed è questo che conta – ciò accade senza filtri o convenzioni. Sono corpi vivi, segnati spesso da ferite e cicatrici, tutt’altro che pronti al sonno profondo che la fisiologia leopardiana richiama come esito agognato. Qui casomai interferisce ancora la spuma del sogno: non nettamente separabile dalla “realtà” e, come ognun sa, ancora desiderio. E però si tratta di un desiderio senza steccati e nemmeno separa deciso lo spazio del piacere da quello del dolore. L’indifferenziazione ancestrale appare come una pulsione, l’istinto di far saltare qualsiasi confine alla vita del corpo. Esso si lega a quello altrui in una pasta di odori e secrezioni che sembra cercare nella “realtà” quello che Siti chiamerebbe l’impossibile. E che trova un omologo letterario in queste storie dove i pronomi personali e le voci narranti si confondono, non a caso, in un’osmosi sensoriale nervosa, drammatica, così come si aggroviglia la linea del tempo, lo spazio immaginato e quello dei “fatti”. Rispetto a tutto ciò, uno scarto tagliente getta una luce obliqua sui personaggi del libro (perlopiù femminili): la percezione di uno scollamento che in certi casi smembra corpo e psiche, li costringe a una nostalgia mai sdilinquita e nemmeno esibita ma sotterraneamente irriducibile. Verso cosa? Verso un’unità che non può pascersi nelle ragioni del bene e del male, perché orchi cattivi e fate turchine convivono nello stesso impasto originario.

(Flavia Ganzenua, La conta delle lentiggini, CaratteriMobili, 2013, pp. 72, euro 10) 

ISBN Edizioni: un’idea di purezza

Si passano in cassa e il primo lettore che incontrano è quello ottico, che tossisce l’assenso di farli pagare. Al pari di un vassoio, una spazzola o un centrotavola. Che poi raccontino più del loro perimetro questa è un’altra storia. Ma ogni libro, oltre alla trama e al dorso di pagine, ha il suo codice a barre, chiamato in questo caso ISBN (International Standard Book Number). Perché ogni articolo sia identificabile e quindi vendibile.

Scegliere questa sigla come nome di una casa editrice, quindi, rivela già molto. Ed è proprio della ISBN Edizioni che ci occupiamo questo mese.

Nata a Milano nel 2004 a opera di Luca Formenton (presidente del gruppo editoriale Il Saggiatore), Giacomo Papi e Massimo Coppola. Nata consapevole. Nata con addosso la coscienza che da anni e sempre di più i consumi culturali siano un parco giochi spaesante, una foresta di specchi in cui è facile smarrirsi tra le alternative. I nostri desideri spesso sono un bottino troppo magro per le legioni di stimoli pronti a sbranarli.

Così apprendiamo dal loro stesso sito: «Oggi il libro compete non solo contro altri libri, ma soprattutto contro i quiz, i telefonini, le scarpe da ginnastica e ogni altra merce» tecnicamente appetibile. Chi pubblica deve destreggiarsi tra sciami di altri concorrenti, rammentando che «il tempo è vettoriale» e «la prassi è marketing». Editare per distinguersi. Anche a colpo d’occhio.

Dalle parole dello stesso Coppola, attualmente unico della triade originaria: «Per me fu molto divertente fare qualcosa in cui non mi ero mai cimentato, non avere pratiche consolidate e riferimenti vincolanti a cui rispondere. Ricordo l’impatto delle nostre colonne di libri in libreria: in un mare di bianco che era il taglio dei libri vedevi i nostri tagli giallo rosso e blu, mentre dall’alto in un’orgia di colore spiccava il nostro bianco. Senza afflati nostalgici volevamo tornare un po’ alla capacità d’immaginazione tipica dell’editoria degli anni Sessanta. Un’idea di purezza che sottolineasse quanto in realtà un libro fosse fatto di parole. Fu una scelta che ci aiutò a imporci e che considero ancora più vincente oggi nell’era dell’ebook».

La copertina è un biglietto da visita, una vetrina e una mappa genetica. Un prodotto accattivante, una distesa immacolata dove spicca a seconda delle varie esigenze grafiche la medaglia cifrata definita barcode. E in più anche toccare i libri ISBN è un’esperienza ruvida e porosa, grazie all’impiego della carta constellation snow, in cui le dita quasi s’impigliano. La selezione dei titoli indica una precisa ricerca di qualità, che però non vuole avidamente ricacciarsi nella nicchia.

I primi testi sono Accusare dello stesso Giacomo Papi e Trilobiti di Breece D’J Pancake, dimostrazioni concrete di volersi porre non solo come editori, ma come produttori di idee coltivate e realizzate al proprio interno.

Nel 2009 arriva l’indipendenza, una conquista importante e quasi indolore, anche economicamente. Fondamentale perché «se il tuo progetto di produzione è totalmente libero e creativo credo che tu debba avere in mano tutte le fila della gestione, senza alcuna rete protettiva».

ISBN annovera nella propria scuderia autori di varie nazionalità, tra cui principalmente americani (come Douglas Coupland, James Cain e Kurt Vonnegut), inglesi (come Paul Murray e Simon Reynolds). Il catalogo, che conta una trentina di titoli l’anno, si compone di dieci collane:

– Narrativa;

– Saggistica;

– Special Books, narrativa straniera dal formato più piccolo con il testo a rilievo sulla copertina (tra gli altri, Il libro segreto delle cose sacre, di Torsten Krol, e il recente Alta definizione, di Adam Wilson);

– Reprints, con le ristampe dei propri best-seller;

– Varia;

– Illustrati e fotografici (tra cui il celebre libro a fumetti La vita secondo Woody Allen di Stuart Hample);

– Libri/DVD;

– Novecento italiano;

– Vinili, spuntata nell’ottobre 2012 e provvista di un brillante stile grafico, in cui ogni copia di uno stesso titolo ha una grafica di copertina diversa dalle altre.

– Superspecial.

Il sito web, rinnovato di recente, si presenta come una dichiarazione d’intenti, l’amplificatore migliore della mission(e) editoriale: snello, dinamico e di rapida consultazione, ospitando al suo interno oltre al catalogo anche altri progetti e collaborazioni, tra cui segnaliamo l’associazione di promozione sociale no profit Girls and Boys, fondata alla fine del 2011 allo scopo di valorizzare una narrazione di utilità sociale, che miri all’inclusione e al rifiuto di ogni discriminazione, perché far parte di un racconto significa essere compresi tra le braccia di ogni storia.

E ora, come sempre, è il momento della selezione, del menu di titoli che ci è piaciuto cogliere e suggerire, per farvi annusare un po’ di ISBN:

American Dust, di Richard Brautigan. Un’infanzia che fa presto rima con la morte, costretta a scegliere tra fame e proiettili, dentro una guerra appena spenta e un’altra che non potrà finire;

Retromania, di Simon Reynolds. Una disamina lenticolare e acuta della cultura pop degli anni Zero;

I Simpson e la filosofia, di autori vari. Diciotto saggi geniali, diciotto possibili percorsi interpretativi che offrono letture originali dei personaggi, dei linguaggi e della scorrettezza politica della serie. Uno dei primi grandi esempi di filosofia pop.

E ora che il tour è terminato, il vostro viaggio può cominiciare.

“Pieno giorno” di J.R. Moehringer

«Stasera il nostro servizio di apertura riguarda Willie Sutton, il più attivo rapinatore di banche della storia americana. Sutton è stato rilasciato oggi dal penitenziario di Attica, con una decisione a sorpresa del governatore Nelson Rockfeller».

Pieno giorno, di J.R. Moehringer (Piemme, 2013), ci racconta proprio la storia di Willie Sutton, o meglio: Willie il postino, Willie il fattorino, Willie il falegname, Willie il poliziotto, Willie l’artigiano… «Willie l’Attore», ma anche Willie la leggenda vivente, il mito, Willie l’eroe.

Eroe? Un ladro? Sì, eroe, perché l’America, in realtà, ama i rapinatori di banche. Se poi sono pure non violenti come Sutton tanto meglio. Il motivo? A Willie e Happy, lo spiega il comune amico Eddie, quando i tre sono ancora poco più che adolescenti, molto prima della crisi del ’29: «È questo sistema del cazzo, ogni dieci o quindici anni crolla. Ma non c’è nessun sistema, questo è il problema. È soltanto ognuno per sé, cazzo. […] Pensate al crac del 1893. Il mio vecchio ha visto persone in mezzo alla strada che piangevano come bambini. Sul lastrico, rovinati. Ma i banchieri si sono fatti un po’ di galera? Neanche per sogno – si sono fatti più soldi. Ah, e il governo ha promesso che non sarebbe capitato mai più. Solo che è successo ancora […] E quando le banche sono fallite, quando il mercato è andato giù a picco, non è forse vero che i banchieri l’hanno fatta franca un’altra volta?»

Così, al giornalista che lo intervista il giorno dopo il suo rilascio, nel Natale del 1969, e che gli chiede se si sia mai soffermato a pensare che in fondo non era giusto quello che faceva, Willie risponde senza esitazione: «Non è che lo pensavo, che non era giusto. Lo sapevo che non era giusto. Ma non era neanche giusto che io fossi affamato […] Non era giusto che metà del nostro cazzo di paese non avesse uno straccio di lavoro […] L’America è un gran posto se sei un vincente, ma è il fondo dell’inferno per un perdente».

Un giorno. Ecco il tempo che hanno a disposizione un giornalista e un fotografo per seguire Sutton per i luoghi della sua vita, dei suoi amori e delle sue azioni criminali. Insomma, poche ore per conoscere la sua vera storia. E luoghi cui li porterà Willie dovranno essere percorsi in ordine cronologico. Perché altrimenti non avrebbe senso: «Non ti posso parlare di Bess se prima non ti ho detto di Eddie. E non posso dirti della signora Adams se prima non ti ho parlato di Bess». Pazienza quindi se l’episodio che più interessa al giornale è proprio l’ultima tappa del tour. Prendere o lasciare.  Ma che storia racconterà Willie? Anni dopo il giornalista, nel frattempo divenuto amico di Sutton, dovrà ammettere fra sé e sé che il cosiddetto “attore” pare aver vissuto tre vite separate. Quella che ricordava lui, quella di cui parlava agli altri e quella vera. Fino a che punto queste vite si siano sovrapposte rimane un mistero.

Pieno Giorno è l’ultima magistrale prova del premio Pulitzer J.R. Moehringer, dopo l’esordio con il pluripremiato Il bar delle grandi speranze, in cui l’autore racconta i primi anni della sua vita fino al raggiungimento dell’età adulta, a cui è seguito dopo quattro anni il suo fortunato lavoro di ghostwriter in Open, l’acclamata autobiografia di Andre Agassi. Tre storie diversissime, eppure, al tempo stesso, così legate. Tre splendidi romanzi di formazione in cui i protagonisti recitano un ruolo nella vita: il giovane J.R., cresciuto senza un padre, che cerca in ogni figura maschile incontrata al Dickens bar un modello, prendendo qualcosa da ogni uomo, diventando sarcastico come Cager, teppista come Joey D., solido come Bob il poliziotto, freddo come Colt, tanto da trasformarsi alla fine in un ladro di identità; così Agassi che finge per anni di amare il tennis, che recita di fronte ai giornalisti, dicendo loro quello che in realtà vogliono sentirsi dire, che gioca in campo con un parrucchino per nascondere la sua calvizie. E che dire infine di Sutton? Be’ il suo soprannome, «Willie l’Attore», dice tutto.

Non si può non essere d’accordo con Baricco quando afferma che «J.R. Moehringer è di una bravura mostruosa».

(J.R. Moehringer, Pieno giorno, trad. di Giovanni Zucca, Piemme, 2013, pp. 476, euro 19,50)