“Le cose brutte non esistono”: a tu per tu con Riccardo Romani

Un protagonista senza nome che compie un viaggio dalla provincia italiana a sconfinate praterie americane in cui piovono frammenti dello shuttle appena esploso in cielo. Un viaggio verso un luogo, ma soprattutto verso la scoperta della storia della propria famiglia e di se stessi.

Le cose brutte non esistono (66thand2nd, 2013) è questo e molto di più, e ce l’ha raccontato benissimo l’autore, Riccardo Romani, nell'intervista che ci ha rilasciato durante il Salone del Libro di Torino.

Le cose brutte non esistono racconta, tra le altre cose, storie di guerre e di disperazione, in un filone che conduce dai reportage e dai documentari alla stesura di un libro. Un romanzo che è soprattutto un viaggio, senz’altro negli Stati Uniti, la Bosnia, l’Argentina e la provincia italiana, ma anche un viaggio dentro se stessi e attraverso la propria storia. Quanto c’è del tuo passato da scrittore di reportage, e di te stesso, nel romanzo?

Guarda, è chiaro che, con il lavoro che faccio, per anni ho accumulato immagini, emozioni e le ho messe via, le ho conservate in un archivio personale, sperando che un giorno mi tornassero buone. Quello che ho sempre pensato, fin dai primi anni, è che una cosa che accade dall’altra parte del mondo spesso ha delle conseguenze in un posto molto lontano, sempre di più nel mondo in cui viviamo oggi, soprattutto con le guerre e i conflitti. Quindi mi piaceva l’idea di portare della realtà, del realismo, all’interno di un intreccio fatto di amori, di passioni, di tristezza, di sofferenza. E questa credo sia la parte che ovviamente il reporter si porta dietro del libro. Il libro inizia con un evento che io ho vissuto veramente, l’esplosione dello shuttle [l’esplosione dello Space Shuttle Columbia, nel febbraio del 2003, che creò una pioggia di resti e detriti nel cielo sopra il Texas, ndr], una cosa surreale, e ovviamente poi c’è la Bosnia che è stato il mio primo viaggio in un teatro di guerra.
Quindi, esatto, nel libro c’è molto di me stesso pur non essendoci niente di propriamente autobiografico – anche in Argentina per esempio ho vissuto per un periodo –, ripeto, ci sono tante cose da cui non potevo esimermi, e sono in gran parte realistiche. E poi c’è invece tutta una parte che invece è puramente fictional, di fantasia.


Un altro aspetto che mi ha colpito, è che si tratta in fondo della storia di una complicata situazione familiare nella piccola provincia italiana. Una storia di genitori assenti, padri fedifraghi e di madri succubi e accondiscendenti: una realtà molto spesso sviscerata nei romanzi contemporanei. Perché sono storie che vale la pena ancora raccontare?

Perché è una microfotografia che è sempre e comunque connessa con la mondialità. È quello che dicevo prima, nel romanzo, ciò che succede a Greto, che è un paesino in provincia di Ferrara, ha delle ramificazioni che poi vanno appunto fino all’America, per esempio. Secondo me, il tentativo – riuscito o meno non lo so, ed è una valutazione che faccio dopo, a posteriori, perché prima non me ne sono mai reso conto – è quello proprio di abbattere tutta questa barriera: la provincia, piuttosto che la grande città, l’America, che non è l’America delle città, ma è un’America dove il sogno americano non viene neppure lambito, cioè viene visto solo in lontananza. È un’America poco raccontata, oppure raccontata solo per immagini.
Ecco, si tratta di questo: c’è molta più comunanza a volte tra la provincia italiana e la provincia americana di quanto noi crediamo. In fondo, un piccolo paese in provincia di Ferrara può meritare attenzione, non solo perché ci è andato a vivere uno che ha un’esperienza di un certo tipo, ma perché le dinamiche sono le stesse rispetto a un piccolo paese nel cuore del Texas, ci racconta una storia che non è proprio ingabbiata in quei determinati connotati o cliché che noi ci aspettiamo abbia la provincia italiana. Al di là delle aspettative, invece, a Greto vive un colonnello che operava in zone di guerra con generali ad alto livello, e che non è mai finito nelle breaking news – questo era il suo lavoro in realtà, non finire nelle breaking news, ovviamente. Quindi, se le basi sono queste, perché non raccontare la provincia italiana?

Mi è piaciuto molto il personaggio di Alfonso Duro (o di Javier, se preferisci), che è decisamente un personaggio atipico, come non se ne trovano molti. La mia impressione è che sia una metafora che rispecchia, credo, la parte nascosta che esiste dentro tutti noi, quella ricerca all’interno di sé che anche il protagonista deve compiere. Si tratta di una semplice suggestione o c’è qualcosa di vero?

No, è quello che io dico adesso ai lettori che ho incontrato e sto incontrando un po’ in giro per l’Italia alle varie presentazioni: c’è un Alfonso Duro anche nella tua vita, e c’è sicuramente, avrà un nome, avrà una forma; è così. Alfonso Duro è un ideale di qualcosa che noi forse nell’età dell’illusione coltiviamo, ma che poi insomma quando si cresce siamo tutti poi costretti a vedere per quello che è, è un po’ il passaggio all’età adulta.
Non lo so, lo dico adesso per la prima volta. Le cose brutte non esistono è il mio primo romanzo, quindi scopro cose nuove in continuazione, probabilmente ti sto per dire delle cose che non avrei detto un mese fa. Però Alfonso Duro sta prendendo sempre più questa forma, la forma di qualcosa di importante che io ho messo lì con una funzione che sul momento non capivo, però mi piaceva, anche perché ne ho incontrati nei miei viaggi di personaggi del genere, sfuggenti, che non capivi mai cosa facessero. E io, curioso come sono, cercavo sempre di informarmi sulle loro storie, mi per esempio è capitato di incontrare personaggi elegantissimi, non so, a Kabul, dove tutti sono impolverati, e che cosa ci fa qui questo? «No, sono qui di passaggio, sto andando a Dubai perché poi vado a Singapore». «Ma cosa fai nella vita?» «Mah, lavoro…»
Ecco, sono ideali, Alfonso Duro è un ideale che deve rimanere tale, ed è quello che forse il libro vuole comunicare, perché poi quando andiamo a scoprire gli altarini, quasi sempre avremmo voluto non cercare di capire nulla. Nel libro a un certo punto infatti si dice che la verità, in fondo, è la realtà che ci conviene, no? Spesso la verità sarebbe meglio tenerla a distanza.

Parliamo di donne. Le donne di questo libro, dalla madre del protagonista, a Senida, fino ai ruoli molto particolari di Barida e Morena, attrice americana…

Morena esiste, è un’attrice famosa, adesso ancora abbastanza famosa in Italia. Quando io l’ho conosciuta e quando lei mi ha invitato a fare quest’esperienza non lo era, perché quella era una serie televisiva dall’audience molto bassa, ma comunque abbastanza conosciuta in America, al punto da poter radunare così tanti fan. Ecco, questo lo posso rivelare, chi è non lo rivelerei mai, ma esiste, è un personaggio reale.

Si tratta comunque di donne che apparentemente molto distaccate, prive di sentimenti, caratterizzate da una freddezza che all’inizio lascia piuttosto perplessi. Tutte però nascondono qualcosa che si è spezzato dentro di loro. Cosa? E perché ha deciso di raccontare questo tipo di mondo femminile?

Dunque, principalmente perché ne ho incontrate tante, e adesso ad esempio il tema del femminicidio è anche un argomento piuttosto in auge, purtroppo, anche in Italia, se ne parla molto. Però, anche in questo caso, si tratta di un meccanismo inconscio: nei teatri di guerra le donne sono senz’altro le prime a soffrire, le prime a essere utilizzate, sono merce di scambio. E il fatto di raccontare storie di donne che hanno avuto la forza e la fortuna di uscire da quel mondo e ricostruirsi mi affascinava. Il problema è che sono donne che, appunto, come hai detto tu, sono “spezzate” in qualche modo, e in questo caso vale sempre il discorso che facevamo all’inizio, quello che è successo in Bosnia dieci anni fa non si può chiudere con una riconciliazione pubblica, con un perdono pubblico: ci sono delle conseguenze inaudite che le persone, gli esseri umani si portano appresso, e che poi causano altre conseguenze nelle persone che loro incontreranno, come in questo libro.
A volte si tratta di conseguenze inattese, per esempio Barida – che a me piace tantissimo, ne sono anche un po’ innamorato, perché è sfuggente, e mi piacciono sempre le persone sfuggenti – è una donna che tu speri che alla fine si lasci andare, ma non può, perché ha qualcosa dentro di interrotto. Il mondo è pieno di persone così e, a volte, scoprire il loro passato serve proprio a dare un senso al nostro.
E poi sono tutte donne che amo fisicamente, è ovvio, perché non le posso avere.

Un’altra curiosità, qualcosa che senz’altro ti chiederanno tutti, perché il protagonista del libro non ha un nome?

Con l’editor, Leonardo Luccone di 66thand2nd, ci abbiamo pensato a lungo, abbiamo discusso, ci siamo fatti domande. Non ho sentito il bisogno di dargli un nome. Non ho sentito quel bisogno perché un po’ i nomi mi fanno paura, e poi perché forse è una voce che volevo che rimanesse in qualche modo sollevata dal resto dei personaggi, insomma, e in definitiva perché questo è un personaggio che subisce la presenza di tutti gli altri nel corso della storia, e quindi è un po’ nella sua natura. È un personaggio che è cresciuto con un’infanzia distaccata dalla realtà, un personaggio che non sa come sia fatto il mondo finché non lo affronta, con le conseguenze che chi legge il libro, speriamo, vedrà.
Non era necessario. E poi, appunto, incuriosisce anche il fatto che non abbia un nome in fondo, non era così importante. E forse, cosa che quando racconto sciocca un po’ tutti, è anche perché in fondo non sono riuscito a trovare un nome, una connotazione idiomatica, che fosse più forte rispetto a lasciarlo senza nome.
Non sono io, comunque, questa è una cosa che mi chiedono tutti: no, non è autobiografico, non sono io.

A proposito del protagonista, mi ha colpito molto il fatto che, da uomo che subiva tutto ciò che gli accadeva, tutta la sua storia, a un certo punto durante il viaggio si trasforma: è come se non respingesse più i suoi istinti, anzi, arriva a un usare violenza su una ragazzina, quasi si trattasse di un’eredità nociva lasciatagli dal padre. Cosa scatta dentro quest’uomo per far sì che a un certo punto si compia una trasformazione del genere? E soprattutto, il fischio che lo perseguita potrebbe essere interpretato come una giustificazione metaforica di tutto ciò che compie?

Brava, tu mi hai dato una lezione, un collegamento che non avevo mai fatto, mi fa molto piacere, è questo il bello di condividere il libro con altre persone. Sì, quest’ultima cosa che hai detto è una possibilità, il fischio è una condanna, è una malattia molto seria, che io ho studiato con un caro amico che purtroppo ne è stato colpito, e lui arriva al punto di, forse usare violenza è un’esagerazione, ma comunque approfittare in maniera laida di questa ragazzina che in fondo è lì a sua disposizione, forse anche per quello. Se tu ci pensi, arriva un momento del libro in cui lui ha perso completamente le speranze, si rende conto che tutti quelli che doveva cercare non erano in realtà dove dovevano essere, e non sa più chi andare a cercare. E questa è una lettura molto umana, no? Quando tutti se ne vanno ti senti disperato e quindi in qualche modo autorizzato a fare delle cose che sono bieche.
Ma la cosa più conscia che io ho pensato, invece, è che non volevo eroi: c’era una purezza in lui che non gli apparteneva, ed è inevitabile che quando uno abbandona un luogo ovattato, come sono l’adolescenza e la gioventù, per entrare in un luogo un po’ più contaminato, com’è l’età adulta senza avere un’esperienza di vita, è inevitabile che faccia delle cose brutte, anche solo per provare come ci si sente. E poi, ricordiamolo, il padre era veramente un poco di buono, quindi forse c’è anche una questione genetica. In ogni caso, non ci sono eroi, questo è il concetto che più mi stava a cuore.

Per concludere: è vero che, come asseriva il padre del protagonista per giustificare e mitigare tutto ciò che era capace di fare, le cose brutte non esistono, e il giudizio dipende solo dagli occhi di chi le guarda? Speriamo, no?

«Spero» è l’ultima parola del libro, quindi sì, anche se il libro si è concluso così dopo tutto un lungo processo che non ricordo neanche più.
L’idea del fatto che le cose brutte non esistono, sì, è una sorte di chiave di lettura, la frase appare due volte nel libro: è una frase che il padre diceva al figlio per coprirgli gli occhi di fronte a un brutto spettacolo, che era appunto quando lui portava queste ragazze, queste sue amanti a fare certe cose, non proprio per quell’epoca lecite.
E alla fine, lui che forse rifuggiva questa visione, lui che non voleva credere a quel tipo di realtà, finisce per rifugiarcisi. Ed è una forma di sopravvivenza, in cui il fischio, questa malattia insopportabile, diventa il minore dei mali, no? Se tu riesci a credere che le cose brutte non esistono anche il fischio alla fine diventa un compagno di viaggio: dipende da noi, dipende da come vogliamo leggere le cose e da come si vuol leggere questo libro. Il mio obiettivo era il libro trasmettesse anche dell’ironia, nonostante i fatti narrati che sono molto crudi, e soprattutto speranza, perché in fondo io sono uno che la speranza ce l’ha.

 

 

(Riccardo Romani, Le cose brutte non esistono, 66thand2nd, pp. 224, euro 15)

“Genesi”, le fotografie di Sebastião Salgado all’Ara Pacis

«Ho scoperto che un’enorme parte del pianeta è ancora come il giorno della sua origine».

Sebastião Salgado ha compiuto il suo viaggio nel mondo per riscoprire i luoghi della genesi, quelle parti originali della Terra che mantengono il loro stato primordiale e che conservano una purezza che si contrappone al degrado ambientale causato dall’uomo. Esistono ancora molti angoli incontaminati che riconducono a una condizione di essenzialità totale, a una verità esistenziale che ormai percepiamo lontana e preistorica, relegata solo a un passato ormai estinto.

Genesi. Fotografie di Sebastião Salgado è una mostra, ospitata all’Ara Pacis di Roma fino al 15 Settembre 2013, che riporta agli albori attuali un mondo ancora incorrotto. L’esposizione si suddivide in cinque sezioni che corrispondono a grandi aree continentali: Il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, L’Africa, Il grande Nord, L’Amazzonia e Il Pantanàl (la pianura alluvionale del centro del Sudamerica, la più grande zona umida esistente). Salgado ha trascorso gli ultimi otto anni a percorrere il mondo alla ricerca di questi luoghi puri, raccogliendo scatti di una bellezza magica: Genesi, curata da Lélia Wanick Salgado, moglie e compagna di viaggio dell’artista, ospita più di 200 fotografie in bianco e nero, di grande formato, che ripropongono le tappe di un itinerario che va dal sud del mondo ai luoghi gelidi dell’Alaska e della Siberia, dall’Africa all’Amazzonia. Tutto è pervaso da un senso mistico e spirituale: le distese, le popolazioni e gli animali raffigurati trasportano l’osservatore in un’altra dimensione, che non sembra nemmeno essere di questo pianeta, per quanto risulta sconosciuta e lontana.

 

 

Il fotografo non è nuovo a questi lunghi viaggi da cui derivano reportage di una limpidezza rara: si ricorda per esempio “Other Americans” e “La mano dell’uomo”, grande ritratto dei lavoratori di tutto il mondo. Tuttavia, quest’ultima avventura lo ha condotto in luoghi dove sembra impossibile addentrarsi, a stretto contatto con la natura: tutto è iniziato dall’incontro incredibile con una gigantesca tartaruga delle Galapagos. È stato in quel momento che ha compreso l’importanza di fotografare gli animali, per capire davvero le proprie origini di essere umano, animale esso stesso. Questo scatto è esemplare, indica il contatto con la vita animale colto in un particolare: l’occhio della tartaruga che osserva il fotografo mentre questo incuriosito gli si avvicina.

 

 

Il senso di rispetto che emerge da questo scatto è ciò che contraddistingue il legame tra uomo e natura e che caratterizza la vita di alcune popolazioni del pianeta: Salgado fotografa i Nenets, abitanti del nord della Siberia, e attraverso loro scopre il senso dell’essenzialità: tutto quello che possiedono corrisponde al minimo, conta sopravvivere dedicandosi alle cose fondamentali, come la cura dei figli e l’essere felici. Questa felicità la si può raggiungere con poco e va difesa.

 

 

Genesi è un tributo, un ritratto della Terra fatto in suo onore, ma è anche un monito su quello che va salvaguardato e protetto. Tra paesaggi sublimi e una fauna variegata ci si perde camminando tra i vari spazi della mostra, ricca ed elegante. Ci si ferma a contemplare un iceberg millenario, che tanto appare fantastico nella sua forma da sembrare opera di un architetto, passando al Grand Canyon, alle foreste amazzoniche, al Mato Grosso, per seguire poi elefanti, giaguari, pinguini e iguane. Un lavoro immenso e illuminante con cui Salgado intende «testimoniare com’era la natura senza uomini e donne, e come l’umanità e la natura per lungo tempo siano coesistite in quello che oggi definiamo equilibrio ambientale».

 

 

GENESI. Fotografie di Sebastião Salgado
Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta
15 maggio – 15 settembre 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.arapacis.it

“Un romanzetto lumpen” di Roberto Bolaño

Quando penso alla letteratura di Roberto Bolaño, penso a un cosmo. Un sistema solare di opere letterarie. Allineato e coerente, con un ordine – in greco kósmos, per l’appunto. Un sistema in cui il sole è 2666 – tra i due o tre lavori narrativi contemporanei più importanti – e poi tutti gli altri pianeti: I detective selvaggi, Stella distante, Puttane assassine, Il gaucho insostenibile. Ai bordi di questa galassia, c’è Una novelita lumpen: in italiano Un romanzetto lumpen (Adelphi, 2013), dove lumpen può essere tradotto anche – vista l’ambientazione che a breve affronteremo – con “popolare”, proletariamente parlando (la prima edizione italiana, pubblicata da Sellerio nel 2003, è uscita invece con il titolo Un romanzetto canaglia). Ai confini del cosmo-Bolaño, non per scarsa importanza o valenza, ma per ordine cronologico: il libro è l’ultima opera pubblicata dall’autore cileno prima della precoce dipartita avvenuta nel 2003.

Un romanzetto lumpen viene classificato come romanzo breve, ma vista la mole dei racconti pubblicati da Bolaño, conviene considerarlo un racconto lungo. Un racconto capace di attirare immediatamente il lettore nostrano per l’ambientazione. Siamo in Italia, nello specifico a Roma, in una zona periferica non specificata. Qui abitano i due protagonisti senza nome. Fratello e sorella, da poco orfani, dopo l’incidente stradale sulla Salerno-Reggio Calabria in cui hanno perso i genitori. A raccontarcelo è la protagonista femminile. L’assegno di mantenimento, l’assistente sociale, le difficoltà economiche, la scuola abbandonata, il lavoro, il complesso rapporto con il fratello. Nel frattempo, nel suo giovane corpo avviene una trasformazione. Forse dovuta al trauma, forse ai cattivi pensieri: riesce a vedere nell’oscurità. Nel buio. Viene rapita dal biancore della luna e osserva nel pieno della notte tutta la luce che c’è. Poi, all’improvviso, nella disastrata vita degli orfani entrano due amici del fratello, chiamati dalla ragazza semplicemente “Il Bolognese” e “Il Libanese”. Amici di palestra del fratello. Poco a poco, i due entreranno nella camera da letto dell’adolescente protagonista e proporranno una svolta criminale alla loro esistenza. Intanto, la depressione aumenta e il pensiero del futuro sembra qualcosa di offensivo.

Del romanzetto (Bolaño stesso ironizza sulla mole cartacea dell’opera, ma non su quella contenutistica) colpisce la capacità dell’autore di concentrare il flusso di pensieri della ragazza in una trama esigua dipanata su poche pagine. La narrazione e la scrittura sono talmente colloquiali, fluide, coinvolgenti che sembra di essere accanto alla ragazza mentre tutto il caos della sua vita esplode. Anche i momenti più traumatici e dolorosi, sembrano normali, quasi scontati. In un continuo procedere oscuro, che solo nel finale, dopo gli ultimi avvenimenti, lascia uno spiraglio di luce: quella vera, quella del giorno, non più quella della notte. Quella del futuro, della speranza.

È confortante vedere come uno dei sommi narratori contemporanei riesca a esprimere e comunicare tali messaggi anche nelle opere meno citate e blasonate. Forte dell’ambientazione neorealistica alla Pasolini, Un romanzetto lumpen è l’ennesimo libro imperdibile di Bolaño. L’ennesimo pianeta da visitare, in quel cosmo immenso e mirabile che è la sua letteratura, e che l’autore adesso può permettersi di abitare a tempo pieno.

(Roberto Bolaño, Un romanzetto lumpen, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2013, pp. 119, euro 14)

“Paulette” di Jérôme Enrico

Campione d’incassi in Francia, arriva Paulette di Jérôme Enrico, commedia scorretta sulle nuove realtà di povertà in Francia e sui modi ingegnosi, non sempre legali, per porvi rimedio.

Paulette è una vecchia acida e razzista che vive in un quartiere degradato e multietnico della periferia di Parigi. La sua vita è fatta di lotte al mercato per strappare le giacenze, salti mortali per campare con la pensione sociale, insulti a denti stretti ai figli della Francia post-coloniale, peccati e reati confessati al parroco di colore – così bravo che «si meriterebbe di essere bianco» – e conversazioni private con la foto del marito defunto in cui rimpiange i bei tempi in cui avevano una boutique gastronomica e vincevano premi per le loro torte. Ha una figlia a cui non riesce a perdonare il matrimonio con un poliziotto d’origine africana e un nipotino mulatto a cui bada senza amore, con risentimento, quando la figlia è costretta a fare gli straordinari a lavoro. Per il resto gioca a carte con tre amiche e guarda la televisione. Un giorno le vengono a pignorare i mobili per i debiti accumulati, incluso l’amato televisore. Paulette si deve inventare qualcosa per sopravvivere. Osservando i ragazzi del quartiere capisce che vendono hashish e decide di provare. Diventa spacciatrice, prima in strada, poi unisce la sua esperienza di pasticciera al nuovo affare e diviene una celebrità. Con la nuova attività troverà il modo di cambiare idea su tante cose della sua vita, partendo dal nipotino Leo.

L’idea di Paulette è venuta, leggendo la notizia di cronaca di un’anziana coinvolta in un traffico di cannabis perché non riusciva ad arrivare a fine mese, a una studentessa del corso di sceneggiatura che Enrico tiene in una scuola di cinema. Partendo dallo spunto dell’attualità Enrico e i suoi sceneggiatori hanno sviluppato una commedia politicamente scorretta in cui si riesce a ridere della miseria, del razzismo, delle persone costrette a vivere sulla soglia di povertà, della recessione economica (tra l’altro il film è uscito oltralpe nella stessa settimana in cui Standard and Poor’s toglieva a Parigi la tripla A).

Viene in mente subito L’erba di Grace (2000), e non può essere altrimenti. I due film sono quasi identici nella premessa della donna anziana e sola che contrasta le difficoltà economiche reinventandosi spacciatrice. A cambiare tra le due pellicole è il punto di vista. Nel film di Nigel Cole, la ristrettezza di Grace è assolutamente personale, legata alla morte del marito e ai suoi segreti, Paulette invece allarga il proprio orizzonte per comprendere anche la realtà sociale di Parigi, e della Francia, di questi primi anni dieci, con le difficoltà dell’integrazione, il multiculturalismo e la globalizzazione che tolgono gli abituali riferimenti culturali. Lo fa senza insistere sulla leva sociologia, ma con una carica di ironia feroce che conquista in fretta con battute e trovate a ripetizione.

La terribile Paulette di Bernadette Lafont (che ha lavorato, tra gli altri, con Truffaut, Costa-Gravas e, soprattutto, Chabrol) è irresistibile nel suo essere spietatamente xenofoba, ottusamente razzista, sostanzialmente stronza. Lafont si libera degli stracci iniziali di Paulette accompagnando l’evoluzione morale del personaggio con un addolcimento graduale dei tratti e dei modi, incarnando una specie di romanzo di formazione della terza età. Le sue compagne di avventura, le tre amiche delle carte che diventano aiuto-cuoche, sono uno splendido coro di ingenuo entusiasmo nell’affrontare criminali e giustizia, in particolare la malata di Alzheimer Renée di Françoise Bertin, ma Dominique Lavanant e la almodovariana Carmen Maura non sono da meno.

Peccato per il sentimentalismo che esplode nella riconciliazione con il nipotino e per il finale, eccessivamente lieto, a cui si arriva attraverso un’improbabile e frettolosa svolta verso l’azione, con tanto di stallo alla messicana con le vecchiette armi in pugno contro gli spacciatori.

Un po’ troppo. Anche solo per riderci su.

(Paulette, di Jérôme Enrico, commedia, 2012, 87’)

 

“Hiroshima e il nostro senso morale” di Paolo Agnoli

Qualche settimana fa, complice la presenza sui quotidiani di tutto il mondo di alcune (quantomeno) avventate dichiarazioni di esponenti dell'esercito del Nord e di alcune (presunte) indiscrezioni da fonti militari del Sud, era tornata d’attualità, per mano di Kim Jong-un o di chi realmente tira i fili nell’imperscrutabile regime nordcoreano, la minaccia nucleare, vero e proprio spauracchio del secolo passato. A prescindere dagli sviluppi della questione asiatica, e senza pretese divinatorie, con Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica (Guerini e Associati, 2012) Paolo Agnoli risale all’origine della paura nucleare per esaminare il contesto in cui per la prima e unica volta è stata usata in un conflitto bellico la bomba atomica.

In particolare Agnoli vuole andare a fondo nel dilemma etico che ha circondato la decisione di utilizzare la bomba e che a distanza di decine di anni è ancora motivo di discussioni. È stato giusto progettare, costruire e usare quel tipo di arma, nell’unico fronte aperto rimasto, il Pacifico, col fine di terminare la guerra mondiale, pur essendo consapevoli della portata di un tale ordigno? Il concetto di etica utilizzato nel libro per rispondere al quesito lega il valore morale alle ragioni che le persone responsabilmente coinvolte sentono di poter approvare; è un’etica non vincolata a una proprietà intrinseca degli atti stessi ma che collega il grado di moralità ai motivi che i soggetti interessati in quel determinato tempo e spazio possono coscienziosamente approvare e giustificare.

Sostanzialmente la tesi di Agnoli è che, nonostante sia ritenuta quasi all’unanimità una fra le decisioni più aberranti di sempre, la scelta drammatica del presidente americano Truman di ordinare l’attacco nucleare alla città giapponese di Hiroshima il 6 agosto 1945 e poi tre giorni più tardi a quella di Nagasaki sia tutto sommato difendibile, in misura almeno maggiore rispetto ad altre decisioni prese durante lo stesso conflitto, come per esempio il bombardamento al fosforo da parte alleata di Dresda. Ferma restando la convinzione dell’autore che sia la guerra in sé il vero elemento da prevenire e condannare, la sua è un’argomentazione ordinata e ragionata che dimostra come, in caso di proseguimento della guerra nel Pacifico con i metodi utilizzati fino a quel momento, il bilancio dei morti del secondo conflitto mondiale (per via di una a quel punto probabile invasione americana del Giappone) sarebbe risultato maggiore rispetto al già enorme numero di perdite che si possono contare oggi.

Dopo un capitolo iniziale forse troppo tecnico sulla radioattività e sulla fissione nucleare, e superato lo scoglio di un sistema di rimandi bibliografici ibrido che non facilita ma appesantisce la lettura, il saggio affronta col giusto rigore e in modo sufficientemente esauriente i presupposti della realizzazione della bomba (interessante il capitolo che pone l’accento sui fisici coinvolti nel progetto) e le posizioni degli attori durante l’ultima fase del conflitto (nonostante una presentazione del nemico, i giapponesi, troppo stereotipata, tanto che il chiarimento con cui nella nota di chiusura l’autore tiene a sottolineare la civiltà e tolleranza che caratterizzano oggi il paese del Sol Levante rispetto all’aggressività e al militarismo dei primi decenni del ventesimo secolo ha il sapore dell’excusatio non petita), prima di arrivare alle riflessioni finali. Si tratta di un saggio scritto da un occidentale per occidentali, ma non per questo le conclusioni ne risultano inficiate: l’argomentazione è chiara e semplice da seguire, il peso è distribuito adeguatamente sulle varie parti e la logica guidata del contesto specifico, la vera impronta data sin dal principio al lavoro, viene seguita dall’inizio alla fine.

La penisola di Corea si affaccia proprio di fronte all’arcipelago giapponese, ma la situazione geopolitica e militare è tale che difficilmente una vuota prova di forza sarebbe giustificabile da qualsivoglia senso morale.


(Paolo Agnoli, Hiroshima e il nostro senso morale, Guerini e Associati, 2012, pp. 262, euro 21,50)

“Still Smiling” di Teho Teardo & Blixa Bargeld

Negli ultimi decenni la musica è diventata uno spazio molteplice, continuamente mutata e mutante, un grande contenitore all’interno del quale la libertà espressiva degli artisti si sta sempre più dedicando a scomporre e ricomporre la realtà con intenti cubisti. Gli oggetti della composizione risultano liberi da gabbie precostituite e i rapporti alterati modificano la percezione tra persone, cose e idee. La contaminazione è diventata ormai l’elemento dominante. Una contaminazione che si tinge di temi crepuscolari in questo nuovo Still Smiling (Specula Records, 2013), firmato da due personaggi decisamente affascinanti. Blixa Bargeld, vecchio terrorista sonoro trasformatosi in filosofo gentiluomo in giacca, panciotto e cravatta, e Teho Teardo, compositore molteplice che fa convivere nelle sue opere musica colta e distorsione effettistica, divagazioni industriali e contrappunti classicheggianti.

Ritroviamo in queste dodici tracce una cinematografia sentimentale fatta di primi piani, inquadrature tagliate, ritmi, dinamismi e salti temporali che compongono un acquerello onirico e vorticista, un canto orfico sconnesso a metà tra il sogno e la veglia, tra il ricordo e la speranza, tra ironia e malinconia, frutto di uno sguardo laterale sulla società contemporanea. Teardo è un maestro dell’obliquo, costruisce edifici sbilenchi con quartetti d’archi, pulsioni elettroniche e chitarra baritona i quali, proprio quando sembrano sul punto di implodere e rovinare rumorosamente al suolo, trovano invece inattesi punti di equilibrio, costruiti principalmente intorno al centro di gravità rappresentato dalla voce di Blixa, ancora una volta in una performance musico-teatrale visionaria e inimitabile. La simbiosi risulta così perfetta sotto i cieli per una volta simili di Roma e Berlino. Voce e musica si accompagnano vivendo l’una dell’altra in un rapporto dove le due individualità giungono a una sintesi ideale.

L’apertura è affidata a “Mi scusi”, cantata in un italiano dichiaratamente zoppicante e che mette in scena una ironica riflessione meta-linguistica e culturale sulle capacità comunicative delle lingue parlate, ripresa poi nella seconda parte del disco con “What if…”, dove anche il Paradiso diventa un errore di traduzione. Si prosegue perdendosi negli sterminati orizzonti onirici di “Come up and see me”, dove gli archi volteggiano in crescendo appesi a malinconiche nuvole gonfie di neve, all’interno della quale trova luogo anche un’inattesa stoccata al potente di turno. Comincia così la composizione di una tela ampia, che abbraccia tutto l’orizzonte e lo riempie di suoni e colori, figure materiche e paesaggi nebbiosi. Un’impermeabilità che si frantuma qua e là, come nel meccanico nervosismo steam-punk di “Axolotl”, dove un metallurgico basso continuo introduce famelici balbettii futuristi e autoritari contrappunti d’archi. Si respirano atmosfere sognanti, invece, in “Nocturnalia”, in una rivisitata versione di “A Quiet Life” – perché, come afferma Teardo, non ci si stanca mai di lavorare su un brano – , e infine in “Still Smiling”, una piccola gemma malinconica che culla ricordi e sofferenze passate affermando che tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili. Il tutto viene declinato lungo percorsi difformi, che non corrono tuttavia paralleli ma si intersecano per andare a comporre una figura intertestuale inedita e originale. È come se i due artisti avessero preso le tessere di puzzle diversi e con un certosino lavoro di limatura fossero riusciti a metterle tutte insieme, componendo una nuova vivissima e frankesteiniana creatura.

I testi di questi canti soffocati riflettono il gusto per il collage che Bargeld aveva già sperimentato, in forma più esplicita e totale, nell’esperimento neubauteniano di The Jewel (Potomak, 2008) di qualche anno fa. Viene quindi recuperato ancora una volta il gioco surrealista del cadavere eccellente, dove l’obiettivo finale non consiste nel comporre un testo coeso e portatore di un unico senso. L’attenzione si sposta più sul caso, sull’inconscio, sul gioco umoristico della sorpresa e degli incroci paradossali, che si riflettono nei diversi brani rendendoli caleidoscopici contenitori portatori di una pluralità di significati. Il risultato è quindi più simile a un disegno cubista o a un collage nonsense. Preso nel suo insieme questo disco di suoni, parole, lingue e linguaggi diversi esprime emozioni profonde che descrivono alla perfezione l’idea di un’Europa post-industriale che si specchia sorridendo con disprezzo nei tristi e maestosi cieli grigi che sovrastano le sue grandi metropoli, stanche e annoiate. È una nuova epoca pre-vittoriana di luci al neon e treni ad alta velocità, di sfarzo e malinconia. Eleganza e decadenza, come già cantavano i Kraftwerk in “Europe Endless” nel 1977.

Rimane aperta la questione se questa è solamente la visione autoreferenziale di due artisti di nicchia o se in queste pulsioni sonore ci sia un qualcosa di più, che parla di tutti noi a un livello sotterraneo, profondo e per questo più strutturale. Un qualcosa che sembra volerci avvisare, con un ironico connubio di avanguardie artistiche e suggestioni marxiane, che prima o poi anche tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Riaffiora alla mente, così, il vecchio interrogativo di Victor Hugo: fino a che punto il canto appartiene alla voce, e la poesia ai poeti?


(Teho Teardo & Blixa Bargeld, Still Smiling, Specula Records, 2013)
 

“Santa Evita” di Tomás Eloy Martínez

Altruista e populista, rivoluzionaria e reazionaria, santa, martire e cagna: tutte queste dicotomie riassumono la controversa figura di Eva Duarte de Perón, amata quanto odiata, pericolosa da viva quanto da morta. Santa Evita di Tomás Eloy Martínez (Edizioni SUR, 2013) è un successo editoriale molto particolare, forse addirittura unico, che occupa una posizione centrale a metà tra il romanzo storico e il saggio e che cerca di ricostruire la figura della leader spirituale dell’Argentina a partire – ebbene sì – dalla sua morte. La storia di Evita, infatti, non si ferma al 26 luglio del 1952, quando è vinta dal cancro dopo aver raggiunto una posizione di estremo rilievo nel panorama politico argentino, ma prosegue: il corpo, imbalsamato dal medico spagnolo Pedro Ara, diventa oggetto di venerazione da parte dei descamisados, ovvero di tutto quel popolo cui lei si era dedicata con opere di carità che ancora oggi si fatica a comprendere a fondo – sono il risultato di uno spiccato senso di altruismo, di un populismo senza uguali o della brama di diventare a tutti gli effetti la donna più amata del paese?

Il corpo, trattato con miscele chimiche particolari, raggiunge l’immortalità: più bello che negli ultimi mesi di vita grazie al complesso lavoro di Ara, che infaticabile continua a prestargli le necessarie cure, giace magnificamente insepolto all’interno di un edificio militare di Buenos Aires fino alla caduta di Perón. Il mito della «madre degli argentini» persiste, e ancora oggi il suo nome non lascia del tutto indifferenti sebbene, nel tempo, le voci che acclamavano alla sua santità siano state in parte coperte da quelle dei detrattori. Tra la trascrizione di un’intervista, il costante approfondimento delle fonti e la ricerca dei protagonisti della storia pubblica e privata di Evita, Eloy Martínez sa intrigare il lettore, spingendolo a voler sapere di più su questa figura così carismatica e sui suoi viaggi post-mortem.

Per quanto surreali possano sembrare le vicissitudini del cadavere, quasi tutto ciò che viene narrato all’interno del libro è materiale documentato, pochissimo è lasciato alla licenza poetica: il nuovo governo istituitosi dopo la caduta del “tiranno” incarica il colonello Carlos Eugenio de Moori Koenig, oppositore dei Perón, di sbarazzarsi del corpo e di seppellirlo, con l’aiuto di una limitata squadra di militari. Lo stretto contatto del gruppetto con il corpo di Evita porta a conclusioni inattese: stremati dai ripetuti spostamenti del feretro, costantemente seguito da candele e fiori che appaiono come per mistero, nonostante la segretezza con cui vengono condotte le operazioni, i membri del team si trovano al centro di situazioni ingestibili e ben presto riconoscono di avere davanti un nemico troppo grande da combattere: «quel corpo è l’intera Argentina», è tutto ciò che rappresenta, anni di malgoverno ma anche anni di amore incondizionato nei confronti della madre del popolo, che dal popolo ora viene difesa con forza e minacce. Il piano del governo va a buon fine: crea copie del cadavere che vengono sepolte in segretezza in varie parti del mondo al solo scopo di non dare ai peronisti una qualsiasi sepoltura da ergere a mausoleo e a potenziale focolaio di rivolta. La vera Evita riposa per anni sotto falso nome al Cimitero Monumentale di Milano: tornerà nella sua Buenos Aires solo negli anni Settanta, portando con sé un carico morale da cui anni di peregrinazione non sono ancora riusciti a liberarla.

L’eternità «inquieta e instabile» del cadavere è senza dubbio il focus narrativo, ma non è la morbosità il target dell’autore: il suo proposito sembra piuttosto essere quello di mettere davanti ai nostri occhi fatti e testimonianze da lui raccolti in prima persona per portarci ad avere una visione il più possibile oggettiva della figura della più famosa first lady argentina e a crearci un’opinione nostra. Da un lato narra delle enormi opere caritatevoli di Evita, dall’altro, per esempio, investe un intero capitolo a parlare di un certo Astorga che, nelle tre sfortunate occasioni in cui ha avuto a che fare con Evita, non ha ottenuto nulla, se non propaganda e frasi fatte. Se da un lato ci narra di persone che hanno visto la Perón avvolta dalla luce librarsi a un metro da terra durante uno dei suoi celebratissimi discorsi, dall’altra ce la descrive con gli occhi di Moori Koenig: «una donna rozza, quasi analfabeta, arrampicatrice, una serva scappata dal pollaio».

Sessant’anni non bastano a definire una figura così complessa, ancora oggi infinitamente amata e infinitamente odiata, ancora oggi oggetto di segreti. Questo libro, però, ci aiuta a farlo, e molto bene.


(Tomás Eloy Martínez, Santa Evita, trad. di Silvia Meucci, Edizioni SUR, 2013, pp. 433, euro 16)

“Nel regno dell’Ade”: a tu per tu con Edoardo Vitale

Nel regno dell’Ade (Ensemble, 2013) è la raccolta di poesie di un esordiente, Edoardo Vitale, che potete incontrare nelle sue prove narrative e giornalistiche, su concimalatesta.it.

Come in un momento di trance, di improvvisa rabbia o perdizione, l’autore ri-versa le sue parole sulla pagina, officina bianca. Difficile si rivela il rapporto con la parola che, nel tentativo di significare esattamente, si deforma e diviene monstrum: la parola diventa un centauro. Forse deriva da un sentimento di sfiducia verso le sue potenzialità, questo balbettare. Oppure ha ragione Lacan, laddove dice che solo quando balbettiamo siamo autenticamente noi stessi.

Tuttavia, la poesia di Vitale non è un mero gioco linguistico. Annunciato fin dal titolo è il tema della distruzione che troviamo, per esempio, nel componimento che dà il titolo alla raccolta, dove aggregazione, collisione e disgregazione si intrecciano con un riferimento di stampo lucreziano piuttosto vago. Tuttavia, nei versi 16 e 17 della stessa poesia, possiamo interpretare «collisione», che significa etimologicamente «disgregarsi insieme», anche come una felice metafora amorosa. Infatti, a differenza di quel che fa intendere il titolo, Nel regno dell’Ade, il tema centrale del libro non è la morte, ma l’amore: amore come tensione universale, forza creatrice, alma Venus, e come sensualità, attaccamento rapace ai sensi. Nel libro si sente un’eco ancestrale, un sapore dolceamaro che nasce dalla commistione di antico e moderno. È straniante, infatti, il puntuale riferirsi a varie divinità: agli dèi in generale, per giunta con la lettera maiuscola, a Inanna, dea della femminilità sumera, a Hi’iaka e Namaka, figure della mitologia hawaiiana.

Abbiamo approfondito il discorso in compagnia dell’autore:


Edoardo, nel tuo libro è come se l’antico fosse traghettato nella contemporaneità della tua poesia, che non tratta certamente temi antiquati né ha forme classiche.

È vero. Ho cercato di metterlo nelle mie poesie. Per me è una regola di vita riferirmi al mondo classico. Oggi, infatti, si commette un errore: o si è tutti proiettati verso il futuro, rinnegando anche le cose buone del passato, o si resta tutti chiusi nel classico e nelle vecchie dinamiche, non solo a livello poetico, ma anche in molti aspetti della società di oggi. I classici devono essere dei punti di riferimento, ma poi bisogna interpretarli, conviverci parallelamente, non riprenderli così come sono.


Nel libro c’è molto paganesimo: al di là del titolo, Dafne, i miti hawaiani, la Venere sumera, Inanna. Sei un neopagano?  

No. La mia non è una visione solo pagana né solo cristiana, è eterogenea: prendo il buono da tutto. Poi certo, non sono un fan della Chiesa.


Perché? Qual è il tuo rapporto con il cristianesimo?

Non mi sento cristiano, mi sento occidentale. Essendo occidentale, non posso non essere stato influenzato dal cristianesimo. Ma questo non ha niente a che fare con la Chiesa e il suo valore politico. Il cristianesimo che oggi ha preso una certa piega (quella delle manifestazioni a favore della famiglia, ad esempio) non mi piace; poi certo, penso che la figura di Cristo sia molto importante.


Nei ringraziamenti si legge il nome di Adele, «senza la quale nulla sarebbe stato possibile». C’è un legame tra questa persona a te cara e il titolo del tuo lavoro, con cui sembra sia assonante, Nel regno dell’Ade?

Sì, «Ade» vuol essere anche l’abbreviazione del nome di Adele. Adele è una persona importante nella mia vita, che ha dato una secchiata di benzina su questo fuoco che è la mia passione per la scrittura. Con il suo nome ho voluto giocare proprio perché molto di quello che c’è scritto nelle poesie è dedicato a lei o ispirato da lei.


Infatti il libro è percorso da una tensione amorosa molto forte, a dispetto di quello che potrebbe indicare il titolotout court. Si tratta di un amore particolare, sensuale, ma anche di amore inteso come impulso universale.

L’aspetto erotico è molto marcato, perché nell’Ade ci va chi ha commesso gravi peccati e, nel mio discorso, sono proprio peccati d’amore. Questo aspetto non va visto solo come una questione di coppia, di rapporto sessuale, ma anche come un’interpretazione della vita: tutti siamo mossi da certi istinti che sono legati alla sessualità.


Nel libro c’è un impulso verso l’amore, ma anche verso la distruzione. Nella biografia di quarta di copertina si legge che sei «con un piede nella realtà e con uno nello sconforto causato da quest’ultima». Il regno dell’Ade è anche la quotidianità?

Lo è eccome, grazie della domanda. Questo è un punto molto importante. Io sono molto critico e sconfortato verso il genere umano: con questo libro volevo che, in qualche modo, trapelasse.

La nostra è una generazione che non ha nulla. Abbiamo molti input a livello musicale e letterario, ad esempio, ma che durano una settimana e poi svaniscono. Penso davvero che questo sia il regno dell’Ade, perché non c’è più nulla. Ad esempio, si dice che siamo la prima generazione che non avrà i privilegi di quella precedente; è una sfortuna, certo, ma noi ce ne stiamo approfittando tantissimo: siamo sfortunati, poveri noi, non troviamo lavoro, quindi abbiamo una scusa per non fare niente. Al massimo, ci buttiamo in discoteca. Nel regno dell’Ade noi un po’ ci sguazziamo.


Come epigrafe al libro c’è un brano tratto da Un uomo che dorme di Georges Perec. C’è legame tra il protagonista di Perec che, sfiduciato, fa esercizi di atarassia, e questo tuo discorso?

Ci sono giorni in cui sono come quel personaggio, atarattico, cinico, sfiduciato verso il mondo, e c’è un lato di me che invece resiste e spera, che porta avanti degli ideali: ad esempio sono vegetariano. Non potrei mai rinunciare a nessuno dei miei due aspetti. Diciamo che tiro i remi in barca a giorni alterni.


Ci sono tre poesie dedicate a Bologna. Perché proprio questa città? Inoltre, in una c’è il riferimento alle scosse sismiche: è un ricordo dell’ultimo, devastante terremoto dell’Emilia?

Ho scritto queste poesie tra Roma e Bologna. A Bologna non ero mai stato prima e ho provato nei suoi confronti un sentimento di amore e odio, che in realtà caratterizza tutti i miei veri amori.

All’inizio mi sembrava una gabbia dorata, un cliché vivente, e anche il simbolo di una sconfitta. Restavano i vecchi luoghi comuni degli anni Sessanta e Settanta, che oggi non ci sono più e che spesso ci ostiniamo a voler ritrovare. Ma poi mi sono ricreduto ed è stata una città che ho vissuto e che ricordo con amore.

Il terremoto presente in una poesia, a dire il vero, fu una scossa precedente a quelle grandi che hanno causato la tragedia dell’anno scorso, quando ero ormai già tornato a Roma. Ho voluto tenerla perché è come se in quella poesia avessi anticipato eventi che poi sarebbero diventati più catastrofici.


Il tuo rapporto con la parola è difficile: sembra che la parola nel tentativo di dire, si deformi, ripiegandosi in se stessa, senza forze. Questo rende la tua scrittura molto oscura.

In realtà quando mi metto a scrivere mi viene spontaneo buttarla sul flusso di coscienza, perché sono un appassionato di esistenzialismo. E poi, come posso pretendere io che non sono nessuno, di riuscire a cogliere il bersaglio in pieno e a dire esattamente quello che sento?


Quindi c’è una sfiducia nei confronti della parola?

No, in realtà c’è un grande amore. C’è un senso di affetto come quando vuoi anche un po’ tutelarla, la parola. Non le chiederei mai di sottoporsi a uno stress eccessivo, dandole tutta la responsabilità di rendere un’immagine o un concetto. Certo la parola ce la può fare. Ma è un sacrificio. I grandi sacrificano la parola. Io preferisco di no.


Il lavoro sulla punteggiatura mette in evidenza il diverso significato che assumono i versi che si susseguono. È come se volessi sottolineare la precarietà dei significati, attraverso gli slittamenti semantici dei versi, come colto da lapsus.

In effetti è proprio così. Sono un appassionato della glitch art, tecnica che consiste nell’alterazione digitale dei bit di immagini e fotografie; nasce nella musica elettronica sperimentale e poi è portata nella fotografia, nei video. Sembrano degli errori, foto venute male, distorte.

Inoltre, soffro di attacchi di panico e di stati d’ansia più o meno profondi che sono stati anche molto forti nel periodo in cui ho scritto il libro. Quando sprofondavo nelle crisi subivo una distorsione dei sensi: all’improvviso mi mancava l’udito, non ci vedevo più. Anche per le mie poesie è così: vedi le immagini, ma le vedi distorte; si capisce il soggetto, ma è molto vago perché la voce che racconta è disturbata. Ecco, le mie poesie sono come un attacco di panico.
 

 

(Edoardo Vitale, Nel regno dell’Ade, Edizioni Ensemble, 2013, pp. 54, euro 10)

Playground: a tu per tu con Andrea Bergamini

Concludiamo la nostra panoramica sulla casa editrice del mese intervistando il fondatore e attuale direttore editoriale di Playground, Andrea Bergamini.


Se penso alla parola inglese playground, mi vengono in mente i campi da basket di strada che si incontrano nelle grandi metropoli americane. Perché la scelta di questo nome per una casa editrice? Che significato ha per te questa parola?

Sono molto legato alle metafore sportive. Le vite, le esperienze, persino i gesti tecnici dello sport mi sembrano incarnare e rappresentare con immediatezza le difficoltà e le euforie delle nostre vite. E il playground, cioè il campo di basket di strada dove i ragazzini americani giocano fin da bambini, è un luogo di competizione ma anche di amicizia, dove le squadre si mescolano con il trascorrere delle ore, dove a volte le regole sono forzate, dove si comincia a sognare in grande, così come molti di noi hanno cominciato a fare sui campetti di calcio, da bambini. Mi sembra insomma esprimere l’imprevedibilità e la ricchezza di vita che è tipica della narrativa: ci si incontra, si gioca, ma nulla è deciso prima. Per questo ho scelto questo nome per la casa editrice. A questa ragione aggiungerei anche la consapevolezza che avrei pubblicato soprattutto narrativa nordamericana, e quindi la volontà da subito di evocare quell’universo culturale di riferimento.  


La casa editrice, chiaramente di progetto, nasce con l’intento di diffondere la letteratura gay. Intento che negli ultimi anni è rimasto invariato per la collana High School – pensata per i giovani adolescenti alle prese con le difficoltà di riconoscersi e di essere riconosciuti omosessuali – mentre sembra assopito per la collana principale, che da qualche tempo ospita anche autori e personaggi etero. Qual era la volontà iniziale e quali gli scopi? E riguardo alla collana principale, cosa ha portato a questo cambiamento, se tale può essere definito?

Per letteratura gay di solito si intende narrativa prodotta da gay e indirizzata esclusivamente a gay. Penso che del nostro catalogo solo la collana High School coincida con questa definizione. Parliamo di una collana indirizzata soprattutto agli adolescenti gay, con storie ambientate nei licei. Sono libri senza particolari ambizioni letterarie, che hanno scopi anche pratici, come quello di alimentare l’autostima nei ragazzi gay che magari vivono l’adolescenza con difficoltà.

Penso, invece, che nessun libro della collana principale di Playground risponda alla definizione che di solito si dà di letteratura gay. Lo stesso Edmund White, presente nel nostro catalogo e considerato il padre della letteratura omosessuale moderna, e che come tutti gli autori americani non ha alcun timore snobistico di appartenere a minoranze culturali, non avendo una concezione universalistica della letteratura, è ben lontano dal rivolgersi a lettori esclusivamente gay. Dal dialogo con i colleghi americani di White e con i suoi lettori, anche italiani, mi sono accorto che della sua narrativa colpisce soprattutto la stupefacente vocazione alla verità unita allo stile. È questo che spinge autori come John Irving o Joyce Carol Oates a leggere con ossessiva costanza White, e non solo quindi l’interesse, che pure c’è, per un segmento di storie e di vite americane legate alla comunità gay.


I libri Playground si differenziano per cura grafica – la copertina pulita e le pagine interne tendenti al color sabbia – e per la qualità dei contenuti – tra gli autori pubblicati spiccano Edmund White, Allan Gurganus e Gilberto Severini. Come scegli i libri da pubblicare? Quanto conta la politica del recupero?

Io credo naturalmente, senza forzature teoriche, in quello che la nouvelle vague aveva definito come «politica degli autori». Truffaut, di fronte alle stroncature spocchiose di film di grandi registi, ricordava che i film, più o meno riusciti, di autori autentici sono ipotesi di bellezza più interessanti, esprimono visioni del mondo e dell’arte meno convenzionali, di film cosiddetti riusciti di registi mediocri.

Per questo noi non siamo ossessionati dalla “novità” e amiamo pubblicare anche titoli datati di autori che consideriamo rilevanti.

La politica del “recupero” consente tra l’altro il vantaggio di stabilire con maggiore serenità il valore di un’opera. Il tempo non è un fattore decisivo, ma può aiutare a comprendere pregi e qualità dell’opera. Il libro “dimenticato” permette di avvicinarlo con più lucidità, senza l’ansia dell’agente letterario che ti impone scadenze o della competizione fondata su tempismo e denaro. È chiaro che il lavoro del direttore editoriale si svolge anche nella dimensione di un presente frenetico, ma il libro ha tempi e durate che spesso sono più lunghi ed è bene non dimenticarlo.


Con la pubblicazione di Emidio Clementi e di Tijana Djerković – autrice serba che però scrive in italiano –, che si vanno ad aggiungere  al nome di Gilberto Severini, è possibile dire che Playground ha iniziato a guardare anche alla narrativa italiana, finora poco considerata?

Sì, credo si possa dire, ma con grandi cautele. 


Con DietroLeQuarte proviamo a entrare in maniera più approfondita all’interno di una casa editrice, cercando di capirne il progetto, i diversi ruoli, le persone che con il loro lavoro quotidiano “fabbricano” i libri. Come è strutturata Playground? Chi ti affianca, aiutandoti nel difficile compito di “dare vita” ai libri?

La casa editrice conserva “modi di produzione” artigianali. Io svolgo il ruolo sia di amministratore che di direttore editoriale, e partecipo a tutti i processi in cui è coinvolta la produzione e cura del libro. Da ragazzo ero rimasto molto colpito dallo scoprire che, unico tra i grandi registi, Ermanno Olmi continuava a fare l’operatore dei suoi film, oltre che il regista e il montatore. Per Olmi era essenziale esercitare quelle forme di controllo, e credo che lo sia anche per me nel lavoro di editore. Nel mio caso c’è anche una ragione pratica (oltre a quella editoriale ed estetica) che è data dai minori costi. Mi faccio comunque affiancare sempre da un correttore di bozze, e nel processo di comunicazione dei libri da un ufficio stampa. Poi c’è l’art director, Federico Borghi.

Insomma, una struttura leggera e ridotta.


Per concludere una domanda canonica: ci puoi indicare i tre titoli Playground che hai amato di più in questi nove anni da editore?

Impossibile. Credo di avere sbagliato qualche titolo, nel senso che con il passare del tempo mi è sembrato meno rilevante, ma sono tantissimi i titoli del mio catalogo che continuo ad amare quasi allo spasimo. Sceglierne tre non mi è davvero possibile. Mi piace però ricordare un titolo che trovo di una bellezza inaudita e che non ha avuto la fortuna che meritava. Si tratta di una raccolta di racconti dello scrittore irlandese Desmond Hogan, dal titolo L’ultima volta (traduzione di Gaja Cenciarelli). Ho ancora netto il ricordo del piacere e dell’emozione provati mentre li leggevo in originale. Desmond Hogan è considerato uno dei riferimenti principali della letteratura contemporanea irlandese. È venerato come un maestro da Colm Tóibín e Colum McCann, oltre che dallo scrittore-regista Neil Jordan. I suoi racconti delineano un’Irlanda non convenzionale, spesso violenta, ma che si riscatta con scorci di paesaggio originalissimi e raccontati con stile autenticamente lirico. Secondo me ogni “lettore forte” dovrebbe confrontarsi con questo autore.

“Non gioco più, me ne vado” di Gianni Mura

Gianni Mura è, senza dubbio, il più grande giornalista sportivo in Italia. La definizione, per quanto encomiastica, non può che essere limitativa. Nei suoi articoli c’è molto oltre lo sport, una capacità di raccontare la vita e la storia attraverso partite o tappe in bicicletta, di scolpire eroi quotidiani nel marmo dello spandex e delle scarpette di gomma dura. Non gioco più, me ne vado – come cantava Mina – pubblicato da ilSaggiatore (2013), ne è un’ulteriore, qualora fosse stata necessaria, prova: una raccolta di quanto Mura ha scritto dal 1965 a oggi, da quando, appena ventenne, venne mandato come inviato a seguito del Giro d’Italia per la Gazzetta dello Sport. Da lì in poi è andato avanti per quasi cinquant’anni, e va ancora avanti su La Repubblica, a raccontare l’Italia e il mondo attraverso i protagonisti dello sport, del calcio, del ciclismo.

Capita così di tornare a seguire con la stessa emozione l’avventura italiana negli Stati Uniti del 1994, in quel Mondiale perso dal dischetto per un rigore mandato troppo in alto, di tornare a tifare quella Nazionale che inizia negli articoli di Mura come «la più brutta del 1994», pronta però a riscattarsi con il cuore nel vincere 1-0 contro la Norvegia in dieci e a uscire «a testa alta» con l’argento al collo. È il primo capitolo di Non gioco più, me ne vado, quello intitolato “Il gol non è tutto, o quasi”, quello dedicato alle squadre belle da vedere ma che non riescono a vincere mai, alle formazioni che sanno faticare e difendersi, ai campioni del calcio, a Ronaldo e a Maradona. E ci trova spazio il sinestetico paragone alla Rimbaud tra calciatori, colori e vini, altra enorme passione di Mura, comparso su La Repubblica all’indomani della vittoria contro la Germania al Mondiale del 2006, in cui Buffon diventa fucsia e Totti un Franciacorta rosé, in attesa di vincere la quarta Coppa del Mondo pochi giorni dopo.

Il ciclismo diventa invece «un quadro d’epoca» negli articoli del giovanissimo Mura del periodo 1965-1969, dove già si delineava chiaro il gusto per l’erudizione e la contaminazione culturale, dove per Franco Bitossi si chiama in causa, con Brera, Little Tony (“Cuorematto”, per la tachicardia) e Goldoni, e si torna a leggere di Merckx, di Gimondi e quella «piccola storia» di quando nel ’69, in pieno Giro d’Italia, la maglia rosa passò per la sua natale Sedrina, vicino Bergamo, e in strada non c’era nessuno a salutarlo, solo poche persone e in generale il silenzio.

E poi ancora calcio, alto e basso, con il Casale che è «come la Juve» nelle parole di un giovane tifoso, quando nell’86 ha «girato» a 26 punti il girone di andata, come la squadra degli Agnelli, loro in Serie A, però, il Casale in Interregionale, e poi altre biciclette, quelle forse più famose di tutte, di Coppi e Bartali, ricordando nel 2000 Gino scomparso e i suoi duelli e la sua amicizia con Fausto, di Pantani e delle sue ali che si aprono nei trionfi e si chiudono mentre precipita.

Non bisogna amare il calcio o il ciclismo per apprezzare Non gioco più, me ne vado. Non è necessario neanche amare lo sport. Dalle pagine di Gianni Mura trasuda storia, il senso vero dell’evento sportivo come momento e fotografia sociale, come immagine generale del Paese che si specchia in se stesso osservando lo sforzo di campioni più o meno grandi, riconoscendosi nelle fatiche più misere, nelle battaglie più improbabili, affidando speranze di riscatto e sogni di gioia all’attesa di un risultato, di un verdetto. Non serve neanche aver vissuto le epoche che si attraversano, o conoscerle. Bastano poche parole, poche righe, e l’Italia del Boom si costruisce sulla pagina, un riferimento appena accennato ed è il 1994 mentre Berlusconi scende in campo.

«La vita è un letto sfatto», continuava la canzone di Mina. Mura prende quel che trova e lascia quel che prende, dietro di sé, e fortunatamente non se ne va, ma continua a giocare.


(Gianni Mura, Non gioco più, me ne vado, ilSaggiatore, 2013, pp. 504, euro 17)

[Flanerí night #6] “Daév”: a tu per tu con Daev

Daev, al secolo Davide Fusaro, ha aperto il concerto live della sesta Flanerí night al Contestaccio di Roma, presentando il suo primo Ep – Daév. Lo abbiamo intervistato alla fine della serata.


Torni a suonare… Cos’è cambiato dall’ultima volta?

Quello di novembre è stato un live molto emozionante per quanto mi riguarda. È difficile “metterci la faccia”! Questo peso l’ho sentito molto durante l’esibizione, nonostante sia piuttosto avvezzo alla performance.
A questo live ci sono arrivato con questa consapevolezza, intanto.
Un altro fattore importante di cambiamento sta dentro la parola release e non mi riferisco solo al fatto che questa volta ho presentato il mio disco… di fatto sto “liberando” le mie canzoni, sto lasciando che si affaccino al mondo senza la mia presenza diretta. Affronto un po’ lo stesso complesso di Novecento, il protagonista de La leggenda del pianista sull’oceano, a volte si è restii ad accettare l’idea che la propria musica vada dove non siamo fisicamente. Lo faccio, perché è un passaggio necessario in quest’epoca. Ingoio il rospo.
A livello esteriore poi, ho potuto presentare molti brani accompagnato dalla band (Damiano Bianchi, Alex Di Nunzio e Andrea Di Nunzio) con cui ho cominciato a lavorare proprio in funzione di questo evento. Dopo tanti live in acustico, ci voleva!


Quali sono state le difficoltà che hai avuto durante la produzione di Daév?

È stato un lavoro piuttosto lungo. La difficoltà più grande è stata trovare, insieme al mio grande amico, e altrettanto grande chitarrista e arrangiatore Damiano Bianchi, una chiave di lettura per le mie composizioni. Le mie influenze artistiche sono abbastanza trasversali, abbracciano tante cose molto diverse tra loro per epoca, genere e popolarità. Tessere filo per filo il vestito di ogni canzone è stato faticoso, ma fondamentale. Passavamo giorni interi in studio a discutere su un disegno di batteria, su un suono di chitarra, su una singola nota di violino, un riverbero… E a mangiare insalate preconfezionate del Tuodì di via del Pigneto.


Quanto il discorso tribute ti è servito per Daév?

I tributi, i Muscle Museum su tutti, mi hanno dato la possibilità di fare tantissima esperienza live, in Italia e all’estero! Hanno sicuramente arricchito il mio bagaglio personale. Quello dei tributi è un fenomeno piuttosto recente, a volte un po’ malato, soprattutto quando sfocia nella ricerca di somiglianza estetica oltre che musicale. Tuttavia, escludendo i suddetti casi, la vedo come un’evoluzione della classica gavetta che tutti gli artisti degni di questo nome hanno sempre fatto. Insomma, quando non sei nessuno, ma hai una voglia matta di suonare, qualcosa ti devi inventare!
E poi sono secoli che le più importanti orchestre del mondo fanno tributi a Bach, Beethoven, Mozart, Ravel, Chopin, Schumann, Vivaldi… Non sarà che anche la musica moderna sia in declino?


Scrivere in inglese… Scelta o necessità?

Non ho scelta! Scrivo in inglese perché sono i suoni che ho in mente. Sono i suoni che ho in mente perché la maggior parte della musica che ho sempre ascoltato è estera. Le parole sono suoni! Le lingue sono strumenti musicali! Io posso suonare la chitarra o la batteria, ma se la chitarra mi dà più possibilità espressive, cosa dovrebbe spingermi a suonare la batteria?


Rimanere in Italia o emigrare?

È chiaro che questo progetto artistico tende a mondi distanti rispetto al luogo in cui è nato, non solo per la lingua inglese, ma proprio per alcune scelte strutturali a livello compositivo e di arrangiamento che, in alcuni brani, sarebbero difficilmente adattabili e comunque poco fruibili nel contesto italiano.
Emigrare è una possibilità che tengo sicuramente in considerazione, ma non è detto sia l’unica.


Rapporto coi social network?

I social network sono i pronipoti del telegrafo e gli antenati del teletrasporto!
Sono il “mantello magico” della nostra epoca e noi siamo un esercito di Faust.
Credo che racchiudano un potere immenso, sia in bene che in male. Io, da bravo Jedi, cerco di utilizzare il lato chiaro della forza!


Progetti un Lp?

In realtà sono partito direttamente da questa idea. In seguito abbiamo ritenuto, insieme ad Alex Di Nunzio, il produttore esecutivo di questo lavoro, più saggio e opportuno partire da qualcosa di meno impegnativo e più efficace in questa prima fase. Un lavoro agile, volto alla creazione di una base di partenza solida, alla presentazione di questo progetto ed alla ricerca di un’etichetta interessata.


Artisti senza i quali Daev non sarebbe tale:

Riduco al minimo: Jeff Buckley, Radiohead, Damien Rice, Sting, Björk, Led Zeppelin, Kurt Cobain, Eddie Vedder, Lauryn Hill, Stevie Wonder, Police e Beatles.


Quale musicista oggi è la voce della nuova generazione?

Difficile da dire. Ci sono tanti artisti interessanti, ma sono pochi quelli che riescono a conciliare le esigenze popolari con le orecchie sempre più sofisticate del sempre più numeroso popolo di musicisti. È difficile trovare approvazione da entrambi e quindi sentenziare una “voce della nuova generazione” mi risulta complicato.
A mio avviso Gotye ha dato un ottimo spunto con il suo splendido Making Mirrors e il relativo singolo “Somebody That I Used to Know”. Credo che anche le strade intraprese da Bon Iver e dai Mumford&Sons siano degne di nota, ma non credo riescano a rappresentare una generazione.


Come si fa a vivere di sola musica? Secondo te bisogna scendere per forza a compromessi?

Penso che se uno ha le ali, non ha bisogno di prendere l’aereo, deve solo imparare a usarle!
Questo è valido in tutti gli ambiti!
Anzi, a pensarci bene avrei potuto rispondere così a tutte le altre domande, sarei andato a letto prima e avrei evitato di scrivere castronerie!
Grazie mille ragazzi!
È stato un piacere e un onore!

“In territorio nemico” di SIC (Scrittura Industriale Collettiva)

In territorio nemico è uno dei romanzi più attesi del catalogo minimum fax. Si tratta di un’opera nata con il metodo SIC (Scrittura Industriale Collettiva). Ideato da Gregorio Magini e Vanni Santoni, il progetto rispolvera l’idea di scrittura come lavoro artigianale, rivisitata in chiave industriale: una catena di montaggio in cui ognuno dei 115 autori è un anello senza il quale il romanzo non prenderebbe forma. La presenza di tante mani è bilanciata e ne deriva uno stile peculiare e omogeneo.

Ma sperimentale è anche la scelta dell’argomento, la storia della resistenza italiana, perché interpretato da chi ne è lontano almeno due generazioni. Nell’arco temporale che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, le vicende di tre personaggi si intrecciano con la storia collettiva. Matteo è un ufficiale della Regia marina che abbandona l’esercito e percorre l’Italia dal sud verso Milano dove vive la sorella Adele, sposa di Aldo.

I due coniugi appartengono all’alta borghesia, ma le vicende storiche irrompono nelle loro vite allontanandole. Aldo si rifugia in una casa isolata ed è ingurgitato da un vortice di terrore e ossessione; il contatto con sé stesso è così nevrotico da trasformarsi in patologia. Adele abbandona la posizione di signora ed entra nelle fabbriche come operaia per poi vivere il ruolo di una partigiana attiva (gappista). Matteo è la spina dorsale del libro perché rappresenta una linea temporale su cui si dipana la storia italiana.

Le vite dei protagonisti corrispondono a blocchi narrativi differenti che tendono a unirsi solo verso la fine del libro. Se per i due fratelli la partecipazione alla storia comporta una maturazione (e quindi nel romanzo storico prende vita un romanzo di formazione che ha come punto d’arrivo l’ideale dell’antifascismo), per l’ingegnere Aldo l’autoesclusione dalle vicende storiche conduce al baratro. La morale vien da sé.

Eppure il testo non cade nella retorica e scorre fluido e credibile, grazie alle ricerche storiche e memorialistiche che sottostanno alla genesi del romanzo e grazie a un’accurata ricerca linguistica sui dialetti.

Nell’intervista di Wu Ming, Magini e Santoni pongono un interrogativo che sta alla base del progetto: come trovare «i giusti vettori di avvicinamento» a un’esperienza storica lontana. Dato che quell’esperienza è sedimentata dentro di noi, nonostante la distanza anagrafica, vi è «una vicinanza emotiva e morale, mantenuta finora viva e forte dai racconti dei reduci».

La questione però non è risolta stilisticamente. A volte la descrizione dello scenario storico si trasforma in evocazione di atmosfere ed è proprio lì, in quella transizione, che la distanza temporale si fa insanabile: per ricordare ciò che non si è vissuto in prima persona è necessario inventarlo scegliendo tra le soluzioni più disperate. La scelta dei 115 autori è di appoggiarsi alle stampelle, ai cliché linguistici privi di potenza, ottenendo un risultato con soluzioni lessicali pigre e trite.

La prospettiva con cui approcciare il libro non è dunque quella (o solo quella) dell’originalità metodologica, né tanto meno dell’innovazione stilistica, ma piuttosto è da ricercare nel valore delle testimonianze. E come recupero memorialistico funziona.


(SIC, In territorio nemico, minimum fax, 2013, pp. 310, euro 15)