“80mg” di Riccardo Pessione

Il titolo breve, un numero, un’unità di misura, quella buona per pesare le piccolissime quantità; poi un buco strettissimo e spesso introvabile, attraverso il quale Riccardo Pessione ci conduce al suo interno, varcandolo in prima persona e noi con lui, a seguirlo, circospetti. 80mg (Miraggi edizioni, 2013) è il titolo dato a quest’opera prima, è la quantità di metadone concessa dallo Stato come ultima spiaggia, come estrema possibilità di ritornar fra i “normali” e smettere così d’essere uno zombie.

Gianni Cheni ha poco più di vent’anni, JK per gli amici, che siano essi veri o presunti tali, e vive nelle periferie di Torino, sorte su dal boom industriale tutte d’un fiato, veloci e asettiche, «un brutto sogno in cemento», fatte di caseggiati di stampo democristiano e lande desolate. Pessione, qui alla sua prima prova di romanziere, subito ci immerge nel vortice dei dannati, delle anime in pena e dei corpi lacerati dalle droghe.

Tutto appare da subito sbiadito, invernale, e la nebbia e l’aria del mattino sembrano rendere tutto impercettibile. La tossicodipendenza appiattisce ogni cosa, e la vita ha un solo fine, quello di trovare una “spada” il prima possibile.

E quando la crisi d’astinenza avanza, si è disposti a tutto, e sembra quasi dar ragione al nostro protagonista nel leggere delle lenzuola sudate, dei crampi, del puzzo di piscio e di merda che accompagna il tossico, nel tempo sempre più lungo, tra una botta di eroina e un’altra. Come nelle più classiche delle storie di droga, se la donna può racimolare qualcosa prostituendosi, l’uomo diventa predatore, e impugna le pistole, per tentare così un assalto disperato a una banca, a un ufficio postale.

I guai, quelli veri, arrivano di seguito, e il vortice si fa sempre più forte, e così la fuga, dall’Italia rampante degli anni ’80, che esalta gli yuppie e dimentica tutti gli altri. Nel frattempo JK lascia dietro di sé pure l’amore, Laura, unica possibilità di un futuro tranquillo, reale e possibile, alternativa a tutto il resto, per rifugiarsi in quella che era, ancora più di adesso, La Mecca di ogni tossicodipendente, Amsterdam. Il viaggio del dannato ha così inizio, un continuo scendere verso gironi sempre più cupi e lontani. La fauna che popola le sue giornate olandesi, rende quindi, sempre più esagitata e disperata la sua fuga, perso tra coffe shop, pusher e vampiri. Il racconto si fa macabro, splatter, ricordando la migliore letteratura sul genere, e l’incontro con Mister Fifty Fifty sarebbe facilmente trasportabile in una pellicola pulp; anche se in questo caso si sta dalla parte della preda, molto meno comico e sempre più drammatico. Il protagonista sembra alla ricerca di qualcosa di definitivo, come spesso accade per le anime in pena, qualcosa o qualcuno che ponga un punto ai suoi passi sciagurati. Si arriva come a un bivio, da una parte la morte e dall’altra la vita, il carcere, che viene a riprenderlo e a riportarlo in Italia. C’è tempo dunque per la rinascita, per dar spazio poi alle successive ricadute, e così ancora a riprendersi, per poco, per far finta di star bene per un anno o due, per poi essere nuovamente risucchiati, oltre che dalle droghe, dall’alcol, dalla depressione. Mentre nel frattempo ci si sposa e si mette al mondo un figlio. E così via, senza mai trovare pace, in bilico, a cercare comunque di sopravvivere, come sempre.

Con coraggio, Pessione, butta giù su carta i suoi peggiori anni, senza remore, né autocensure. Ed è l’aspetto ovviamente umano e autobiografico ciò che più colpisce, una vita allo stremo, affannata. In ultimo, quasi assolve ciò che lo ha spinto sino ad accarezzare la morte senza però mai ucciderlo: «In un certo senso, l’eroina mi ha salvato la vita. Me l’ha resa sopportabile. È stata una soluzione». Rimane un ultimo piccolo appunto: il racconto soffre a volte di alcune lungaggini, concentrate soprattutto nella trasposizione di alcune situazioni che si ripetono, e che Pessione sembra voler farci rivivere ogni volta, sempre uguali per noi, sempre diverse per lui.


(Riccardo Pessione, 80mg, Miraggi edizioni, 2013, pp. 314, euro 14,90)

“Il gabinetto del dottor Kafka” di Francesco Permunian

Il gabinetto del dottor Kafka di Francesco Permunian (Nutrimenti, 2013) non è l’antro caleidoscopico di un’ossessione, come accade nel manifesto del cinema espressionista Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1920), ma più prosaicamente un bagno alla turca della stazione di Desenzano sul Garda in cui l’autore del Processo ha lasciato a inizio Novecento un enigmatico graffito.

Questo è il centro del nuovo romanzo di Francesco Permunian, che si auto-elegge custode di una memoria letteraria e culturale intesa come liberazione dalle scorie di un progresso scorsoio. Nelle pagine della sua ultima invenzione, romanzo-diario-memoriale, si incontrano alla rinfusa i  personaggi che hanno innamorato il secolo scorso con il loro charme intellettuale, Robert Walser è rinchiuso in sanatorio in preda ad allucinazioni spaventose, Pasolini viene sbattuto in carcere per un malinteso e Franco Fortini parla di sé in terza persona come Giulio Cesare. Accanto ai grandi una messe di personaggi minori e ignoti, che si alternano con la spudoratezza della loro presenza scomoda e ingombrante. Sono prostitute in compunto ritegno al ricevimento di una scrittrice femminista, preti spretati che fanno a gara di ateismo e amiche d’infanzia convinte di essere le amanti del demonio.    

Filo conduttore di questo puzzle di storie apparentemente diseguali sono la miseria e la letteratura, per non dire la miseria della letteratura. Senza troppi complimenti Permunian prende le distanze con altero ritegno plebeo dagli scrittori di oggi e dal loro baraccone, preferendo una compagnia molto più equivoca ma reale. Questo vecchio brontolone delle lettere d’oggi si aggira per le stanze degradate della modernità editoriale scuotendo tristemente la testa, diviso fra slanci d’amore per i vecchi amici di una stagione e l’ingombro dei nuovi inquilini. In mezzo, fiume sotterraneo, scorre imperterrita la vita, triste alternativa a un’esistenza di carta.

Per leggere Il gabinetto del dottor Kafka con la migliore disposizione d’animo, bisogna essere drogati di letteratura. Questo libro parla più forte a chi abbia o abbia avuto velleità letterarie fallite, come sono sempre le velleità. Volontariamente, la bellezza di questa pagine si ritrarrà invece al lettore che cerchi una storia (qui una storia non c’è, semmai una storiella) che ammansisca un senso estetico sofisticato, aggiornato, superficiale. Starsene al bar delle lettere con Permunian è solo per vecchi alcoolizzati della ribellione e della fragilità.

Il regalo più bello di queste pagine sta infine nell’impressione di uno stile impreciso, affrettato. L’affabulazione, tenuta sottotraccia da questo autore mefistofelico, viene esaltata dalle inesattezze di una narrazione che farà storcere il naso al lettore abituato all’omogeneizzato editoriale che le grandi redazioni nazionali distribuiscono a piene mani in pagine precise e imbalsamate, tenendo l’etichetta “romanzo” su dei mostri sotto spirito. Dietro la voce di Permunian c’è invece la sua faccia, il disegno delle sue rughe, una storia che forse non interessa a nessuno. Ma forse sì.

(Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka, Nutrimenti, 2013, pp. 186, euro 15)

[Amarcord] “Akira” di Katsuhiro Otomo

Per celebrare il venticinquesimo anniversario dell’uscita in Giappone torna nelle sale italiane, per un solo giorno, Akira, l’anime di Katsuhiro Otomo che ha lasciato un’impronta profondissima nel cinema fantascientifico mondiale.

Il 16 luglio del 1988 una violenta esplosione ha distrutto Tokyo scatenando la Terza Guerra Mondiale. Sono passati trentuno anni da quel giorno, la guerra è finita ma ancora non sono note le cause dello scoppio: una bomba, un attacco, un incidente. La città è stata ricostruita completamente. Nella nuova metropoli, però, regnano il caos e la violenza. Mentre i governi cadono fragili privi del sostegno della popolazione, i militari del colonnello Shikishima controllano con l’autorità le strade in cui gli scontri di gruppi armati terroristici rivoluzionari si alternano alle battaglie tra bande di motociclisti. Kaneda guida una di queste gang di poco più che adolescenti. I suoi lo seguono con rispetto, incluso Tetsuo, il più giovane del gruppo, che unisce all’ammirazione un’invidia prepotente per il carisma dell’amico. Proprio Tetsuo rimane ferito durante uno scontro con una banda rivale, quando la sua moto salta in aria nel tentativo di evitare uno strano bambino apparso d’improvviso sulla strada. L’esercito di Shikishima arriverà sul luogo dell’incidente portando via il bambino e Tetsuo. Kaneda inizierà a cercarlo trovandosi coinvolto in Akira, misterioso progetto del governo collegato all’esplosione che rase al suolo Tokyo.

Quando Akira arrivò nei cinema occidentali, a circa due anni dalla sua uscita in Giappone, l’impatto fu quasi devastante. La scoperta che attraverso l’animazione si potessero costruire storie complesse, suggestive, colte, ha aperto la strada all’evoluzione della moderna cinematografia a cartoni animati verso il pubblico adulto e verso la possibilità di un’espressione rivolta non solo all’infanzia. La traccia che il capolavoro di Otomo ha lasciato nella fantascienza è indelebile e ancora si può scorgere in produzioni recentissime (il rainmaker di Looper; Chronicle, nel rapporto tra i due protagonisti).

Frutto di una gestazione lunga e impegnativa, che ha visti impegnati 1.300 tra tecnici e disegnatori e che ha richiesto la nascita di un consorzio tra le più importanti case cinematografiche giapponesi, l’Akira Commettee, per raccogliere il miliardo di yen necessario alla realizzazione dell’anime, Akira parte dal manga dello stesso Otomo riducendone i sei volumi originali in poco più di due ore di film che hanno innovato, anche sul piano della tecnica, l’animazione cinematografica, introducendo novità, quali l’uso della computer-generated imagery e il doppiaggio pre-recorded (registrare, cioè, i dialoghi sulla base di bozzetti animati per adattare poi i movimenti delle labbra e del volto dei personaggi alla pronuncia dei doppiatori), immediatamente recepite dalla Disney. Assimilando in sé la tradizione cinematografica occidentale e l’immaginario giapponese, Otomo ha creato un cinema nuovo: ambientazione distopica e cupa alla Blade Runner, momenti di silenzio siderale, di esplosioni di colore che sfiorano 2001: Odissea nello spazio che si fondono con il bio-horror della tradizione manga per andare oltre, per sganciarsi dall’action e raggiungere l’indagine socio-politica.

 

 

Perché Akira è in primo luogo una riflessione sul potere e sulle conseguenze di una sua cattiva gestione, sul distacco tra politica e società, sull’uso incontrollato di un’energia devastatrice in cui si sente l’eco della cicatrice nucleare di Hiroshima e Nagasaki. È stato l’esercito a radere al suolo Tokyo con il progetto Akira, è di nuovo l’esercito a mettere a rischio la città con Tetsuo, ragazzino fragile e insicuro, che si inebria del potere immenso che lo investe e finisce per esserne distrutto lui stesso.

È il tema dell’amicizia, però, ad attraversare il film come filo conduttore. Tetsuo cerca di superare il mito di Kaneda in un conflitto quasi edipico. Vuole sostituirsi a lui al vertice della banda, godere dei privilegi della sua posizione ed essere riconosciuto come libero e autonomo. Non vuole più essere il protetto del capo, di quell’amico che ha iniziato a prendersi cura di lui quando era solo un bambino spaventato in una nuova scuola. Kaneda si impegna sempre per salvarlo, cerca di ricondurlo a ragione, poi lo contrasta quando capisce quanto in là si sia spinto. Non teme la sua forza rabbiosa, continua a vederlo come il debole ragazzino a cui deve badare e a cui è chiamato a dare una lezione quando esagera. Tetsuo non vuole essere il Messia che gli abitanti di Nuova Tokyo attendono. Lui vuole solo essere il nuovo Kaneda, prenderne la moto e quindi l’autorità, liberandosi di un fratello/padre ingombrante e perfetto cui però torna ad appellarsi, quando capisce che tutto è perduto, che tutto sta morendo, nel finale, carico di un simbolismo oscuro e memorabile, in cui si scontra, corpo trasformato fino alla deformazione da un potere troppo grande, con il risorto Akira, energia pura e salvifica che assorbe in sé tutta forza distruttrice dell’uomo e la annulla in un unico punto di luce, una scintilla che Kaneda accoglie tra le mani con dolorosa speranza.

Nel 2008 la Warner Bros e la Appian Way, la casa di produzione di Leonardo Di Caprio, annunciarono l’intenzione di realizzare un live action dal manga di Otomo. Sono seguiti vari progetti, hanno iniziato a circolare nomi per la sceneggiatura, per la regia, per i protagonisti. Ogni volta il cantiere si è fermato prima di nascere. Confrontarsi con un cult come Akira in una nuova versione potrebbe essere una scelta rischiosa e sbagliata alle fondamenta. Pur con i progressi che la tecnologia ha compiuto in questi venticinque anni, la potenza immaginifica, a tratti ridondante e barocca (si pensi sempre al finale, alla mutazione di Tetsuo, alla splendida esplosione), di Akira non può in alcun modo essere replicata in un film reale. Sarebbe necessario un abuso di computer grafica che renderebbe il film troppo simile a un cartone. E il cartone, per fortuna, esiste già.

 

(Akira, di Katsuhiro Otomo, 1988, fantascienza, 124’)

 

“The Walking Dead”, la terza stagione

«Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla Terra».

1978. Il padre degli zombie, George Romero – supervisionato da Dario Argento – presenta al mondo Dawn of the Dead (in italiano semplicemente Zombie): il seguito di The Night of the Dead, ovvero La notte dei morti viventi, uno degli horror più belli e importanti della storia del cinema. Ora, a più di trent’anni di distanza abbiamo una certezza: all’inferno non c’è più posto. E come gli zombie si aggirino sulla Terra ce lo racconta una serie ormai cult: The Walking Dead.

Tratta dall’altrettanto magnifico fumetto firmato da quel genio di Robert Kirkman, la serie targata AMC, oltre ad aver dato nuova linfa al filone zombie (al quale a breve dedicheremo un approfondimento), è riuscita a conquistare anche gli spettatori estranei e prevenuti. Merito del successo, l’ambientazione apocalittica, il ritmo e i frenetici colpi di scena. Ma soprattutto – e questo è l’aspetto che più ha influito – la profonda tensione drammatica dei personaggi, le complessità dei rapporti tra vari archetipi come moglie-marito, padre-figlio, fratelli e innamorati. Lampante in tale ambito, la mano di Frank Darabont, celebre registra di classici come Il miglio verde e The Mist.

Che la parte drammatica, i sentimenti e i contrasti tra i nostri beniamini avessero preso il sopravvento sul plot era palese nella staticità della seconda stagione, forse troppo bloccata nel ranch dei Greene. A risollevare le sorti e gli entusiasmi, la produzione ha chiamato una garanzia come Glen Mazzara, affermato sceneggiatore di The Shield, Life, Crash: i sedici episodi della terza stagione di Walking Dead sono l’ennesima dimostrazione del suo talento nell’incollare lo spettatore alla poltrona.

Dopo la fuga dalla fattoria di Hershel e il lungo peregrinaggio, il gruppo capitanato da Rick sembra aver trovato in una prigione un lido sicuro. Ovviamente, dovranno fare i conti con i residenti. Vivi e morti. In contemporanea, si fa la conoscenza di due new entry favolose: la prima, Michonne, è colei che salva la vita ad Andrea durante l’epilogo della seconda serie, con tanto di zombie amputati al guinzaglio. Nella terza puntata, “Benvenuti a Woodbury”,le due superstiti conosceranno la seconda new entry, nonché il villain per eccellenza della stagione (e il forse il cattivo per eccellenza di questa annata di serie): il Governatore. Complesso e affascinante, la sua entrata in scena garantirà agli spettatori quella scintilla in più che nella stagione passata era mancata. Aggiungeteci il ritorno di una vecchia – e monca – conoscenza, e il quadro è completo.

Rinnovando i suoi punti di forza con azzeccati cambiamenti e proseguendo sulla via segnata dal fumetto, la terza stagione di The Walking Dead è senza ombra di dubbio una della serie più belle e coinvolgenti della stagione 2013. Sperando che, prima o poi, all’inferno si liberi un po’ di spazio.

 

[Flanerí night #6] A tu per tu con WrongOnYou e Pure

Intervistiamo i leader dei WrongOnYou e dei Pure, Marco Zitelli ed Emiliano Dattilo. I due gruppi si esibiranno giovedì 30 maggio 2013, al Contestaccio, per la penultima Flanerí night dell’anno!


WrongOnYou:
Perché un musicista italiano che canta in inglese dovrebbe rimanere in Italia?

Un musicista non dovrebbe restare in Italia! Quello a cui infatti puntiamo noi è andare all’estero, tanto che a fine giugno andiamo a Oxford a registrare il nostro primo disco, nello studio dove i Radiohead registrarono il loro primo demo, sperando che porti bene, e lì cercheremo di trovare contatti. La musica indipendente in Italia se non aiutata da chi di dovere è a un punto morto.


Particolari motivi per cui hai scelto di fare la cover di “Get Lucky” dei Daft Punk?

Mah, sinceramente no, non è stata né una mossa di mercato né un omaggio specifico al gruppo. Me ne stavo in camera mia senza fare niente mentre ascoltavo la radio e per l’ennesima volta passano “Get Lucky” così mi sono chiesto come avrebbe suonato arrangiata nel nostro stile: mi sono messo a suonare, mi è piaciuta e nello stesso giorno è stata registrata e messa online.

Puoi raccontarci l’esperienza del primo maggio dei Castelli?

Una bellissima esperienza, a parte la pioggia: un’idea fantastica che ha dato spazio a tutti i gruppi che hanno suonato, aiutati dai tecnici, professionali e sempre disponibili. Per noi, poi, suonare all’aperto con un'amplificazione del genere è stato davvero molto bello.

Mai pensato di inserire altre persone all’interno del gruppo, o va bene così?

Mi sono sempre detto in passato che il tre è il numero perfetto, un trio è quello che ci vuole, ma oggi dico con molto piacere che il numero perfetto è il due, si acquisisce un rapporto fraterno con l’altro, io  e Daniele De Sapio siamo ormai una cosa sola sul palco e il fatto che ci rispettiamo e vogliamo bene a vicenda aiuta noi, ma più che altro mantiene viva l’essenza che i WrongOnYou vogliono trasmettere!


Pure:
Chi sono, in Italia, musicalmente parlando, le voci più autorevoli della nuova generazione?

Per quanto riguarda a livello nazionale non ci sono artisti o band che mi entusiasmano… se però estendiamo il discorso alla scena indie, sicuramente Verdena, The Niro (che è un amico tra l’altro) e i Blastema; poi ci sono alcune band che magari non sono conosciute ma che stimo tantissimo tra cui Almanoir, Moseek e appunto i WrongOnYou che ho avuto il piacere di invitare per questo evento.


Domanda fatta anche ai WrongOnYou: com’è stata l’esperienza del primo maggio dei Castelli?

Primo maggio fantastico e intenso, abbiamo avuto modo di farci conoscere da un pubblico molto attento e amante della musica.
Esperienza sicuramente da ripetere. Inoltre è da sottolineare l’impegno degli organizzatori che hanno creduto in un evento cosi grande dando fiducia a gruppi più o meno emergenti.


Potendo scegliere, a chi fareste da spalla per un concerto?

Farei da spalla ai Radiohead, poi Sigur Ros e 30 second to mars.

Flanerí night #6
giovedì 30 maggio 2013
Contestaccio
via di Monte Testaccio, 65/B
Roma

Per informazioni:
info@flaneri.com

“Il peso” di Liz Moore

Se venisse chiesto a uno studente di letteratura di analizzare forma e contenuto del secondo romanzo di Liz Moore, Il peso (Neri Pozza, 2012), si troverebbe di fronte a una fitta serie di spunti interessanti da cui partire. Allo stesso tempo, avrebbe difficoltà a scomporre le parti di un “tutto” così ben confezionato e indagare su quali siano le più significative o quelle più funzionali al sorprendente effetto finale che produce nel lettore. Non siamo a scuola, ma possiamo ipotizzare che, probabilmente, una delle prime cose che direbbe dopo averlo letto – si tende sempre a partire da quelle più evidenti e condivisibili – è che il titolo ha una duplice allusione: in effetti, la coppia di parole che danno un nome a queste pagine fa riferimento sia all’eccessivo peso corporeo di Arthur Opp, un ex-professore di Brooklyn che da più di dieci anni vive in solitudine senza mai uscire dall’elegante casa ereditata dai suoi, sia al «peso della vita» che su di lui, e non solo su di lui, grava.

Riflessione apparentemente banale, ma a seconda analisi fondamentale per inquadrare lo stile comunicativo dell’autrice. Chiunque potrebbe essere tentato di partire da una considerazione di questo tipo per raccontare la voce franca e toccante di questa giovane scrittrice-musicista di Philadelphia. Heft nell’originale, Il peso nella traduzione italiana di Ada Arduini, è un titolo essenziale e diretto, che con poco suggerisce molto. Liz Moore chiama le cose con il loro nome ed è per questo che le sue parole rimbombano anche dopo averle lette e ci avvolgono come una calda coperta dalla quale non riusciamo più a staccarci. È la spontaneità, l’onestà, per certi versi sconcertante, nella voce dei suoi personaggi, è percepire come se fossimo fisicamente vicino a loro quello che pensano e sentono, dalla minima sensazione fisica alla più intima paura o insicurezza nascosta, ciò che permette all’autrice di irrompere nelle vite drammatiche dei due protagonisti del romanzo, come il primo piano di una telecamera, senza lasciarci il tempo di sconvolgerci o provare commiserazione per loro. Al contrario, siamo chiamati immediatamente a prendere parte al loro destino, nel momento in cui viene stravolto e li porta, infine, a incontrarsi.

Liz Moore ci catapulta fin dalle prime pagine nei pensieri di Arthur, un uomo solo e fragile che, oltre ad accusare la fatica e il dolore di convivere con un corpo sformato e affaticato dall’obesità e da un rapporto morboso con il cibo, convive ogni giorno con il vuoto della sua vita dopo aver perso, uno dopo l’altro e senza riuscire a evitarlo, la famiglia, il lavoro e gli affetti. L’unica consolazione che gli resta e che lo fa andare avanti è lo scambio di lettere che da anni ha continuato a mantenere con la dolce e giovane Charlene, un tempo sua alunna con la quale instaurò un profondo legame di amicizia e poi di amore a distanza, oggi una donna distrutta dalla malattia e dal vizio dell’alcool. Uno degli aspetti più interessanti del romanzo è che il punto di vista di Arthur viene dopo poco alternato con quello dell’altro grande protagonista della storia, il secondo Arthur, conosciuto da tutti come Kel Keller, giovane studente di liceo e aspirante giocatore di baseball, ma soprattutto, figlio di Charlene. Nella dinamica oscillazione delle voci dei due Arthur, diversi ma, in fondo, fortemente e inconsapevolmente legati, il romanzo scorre sotto ai nostri occhi nei cinque capitoli che alternano agilmente la narrazione tra le due diverse prospettive dei protagonisti e tra momenti appartenenti al presente e al passato delle loro vite, oltre che di quella della donna che lega i loro destini.

Stati d’animo ed emozioni trasferiscono l’immagine di due uomini diametralmente opposti, ma accomunati dalle loro fragilità, dal senso di isolamento, dalle ferite mai chiuse causate dall’essere figli di famiglie spezzate, logorate dalla lontananza e dall’assenza di un amore paterno.

Tuttavia, Liz Moore decide di non lasciarci cadere nel baratro della commiserazione e dell’impotenza di fronte al dolore di queste due esistenze. Alla fine, lascia trionfare la speranza, quella che può nascere dalla più piccola e inaspettata casualità, dal sentimento di umanità e amore che non per forza deve vincolarsi ai legami familiari, ma che a volte semplicemente capita, anche grazie all’allegria e al tenero affetto di una giovanissima donna delle pulizie come Yolanda che, inaspettatamente, riesce a togliere la polvere dove proprio sembrava impossibile toglierla, dal desiderio di provarci e di cambiare il nostro destino quando sembra ormai impossibile farlo.

(Liz Moore, Il peso, trad. di Ada Arduini, Neri Pozza, 2012, pp. 352, euro 17)

“Clausura” di Domenico Romeo alla 999Contemporary Gallery

«Questo è il mio alfabeto. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio.

Il mio alfabeto è il mio migliore amico. È la mia vita.
Devo dominarlo come domino la mia vita.

Il mio alfabeto, senza di me, è inutile.
Senza il mio alfabeto, io sono inutile.
Devo scrivere bene il mio alfabeto.
Devo scrivere meglio del mio nemico.

Il mio alfabeto è umano, come me, poiché è la mia vita, pertanto, imparerò a conoscerlo come un fratello.
Imparerò i suoi punti deboli, i suoi punti di forza, le sue parti, i suoi accessori. Lo proteggerò da ciò che potrebbe danneggiarlo, come farei con le mie gambe, le mie braccia, gli occhi ed il cuore.
Terrò il mio alfabeto pulito ed in ordine.
Diverremo una sola cosa».

Con questa poesia Domenico Romeo si presenta ai visitatori. Nella tradizionale e suggestiva cornice del quartiere Testaccio, fino al 30 maggio si può visitare Clausura, ospitata nella piccola ed emergente 999Contemporary Gallery.

Domenico Romeo è un giovane ragazzo trasferitosi a Roma dalla provincia calabrese per studiare giurisprudenza. Presto lascia i panni di avvocato e focalizza il suo studio e la sua attenzione su quelle che prima erano semplici passioni: il disegno, l’incisione e il design. Il suo mondo si svela nella sua prima personale.

Appena entrati ci accoglie un emblematico e molto rappresentativo cerchio bianco su sfondo nero, formato da caratteri sconosciuti, obliquamente tagliato da un lunghissimo raggio dorato che prosegue fino al termine della quinta (inserita in galleria per l’occasione).

La mostra ospita la rappresentazione dei “suoi caratteri”: un alfabeto volutamente nascosto a metà tra gotico e arabo. Disposto in un ordine labirintico circondato da un susseguirsi di cerchi e linee, che si proiettano in un’alternanza di spinte opposte, come due forze contrastanti.

 

 

A partire dal titolo, Clausura, la mostra racchiude al suo interno diversi paradossi. Il primo, e il più evidente, nasce dal titolo che in sé non vuole né spiegare o svelare, ma semplicemente esplicitare l’impossibilità della comunicazione. L’esigenza di coinvolgere lo spettatore, attraendolo in un percorso di lettere e segni, nasce dalla volontà di condividere con lui un percorso di ricerca.

L’artista, anche se non vuole svelare il significato più intimo delle sue opere e quindi del suo alfabeto, lascia le chiavi di lettura in alcune lettere, chiavi che lo spettatore dovrà cercare di decodificare.

Questa mostra rappresenta la fase zero dell’artista: l’alfabeto con cui crea le sue opere. L’eleganza e la quasi sacralità del lettering e della calligrafia producono un effetto emotivo che non lascia indifferente lo spettatore, rapito dai giochi geometrici che creano un collante tra tutte le opere.

Sulle due pareti laterali all’entrata troviamo quattro opere di “Sonniloqui”, le sue prime creazioni che lo fecero conoscere per la sua particolare dedizione per le geometrie e per le forme. Queste tavole create con i suoi geroglifici rappresentano animali diversi, come gufi, pesci e lupi.

 

 

Al suo interno la galleria nasconde, come un prezioso scrigno, un piccolo cortile, dove una grande tavola prosegue nella rappresentazione delle sue emblematiche e potenti lettere. Per finire, la mostra prosegue su via Galvani, dove l’artista ha dipinto un lungo muro, anche questo, come il resto della mostra, imperdibile e molto suggestivo, un tuffo in un minuzioso universo segreto e calligrafico.

 

 

Domenico Romeo, Clausura
999Contemporary Gallery, via Alessandro Volta 48, Roma
20 aprile-30 maggio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.999gallery.com

“Due zebre sulla trentesima strada” di Marc Michel-Amadry

Marc Michel-Amadry esordisce in Italia con il romanzo Due zebre sulla trentesima strada (Elliot, 2012).

Mathieu, Mila, James, Jana e Mahmoud sono i cinque personaggi che coabitano questa storia in cui risulta difficile individuare un protagonista, dal momento che l’autore ha saputo dare a tutti egual spessore.

Nella narrazione non vi sono buoni e cattivi. Ogni personaggio ha una propria personale missione da portare a compimento. L’elemento comune è la capacità di mettersi in gioco e superare i propri limiti. Il benessere che ne deriva per il singolo diviene talmente appagante che non può essere contenuto in un solo corpo, va diffuso, condiviso, diventa capitale da reinvestire nel rapporto con l’altro, che rappresenta allo stesso tempo uno specchio e l’ignoto.

Mila cerca, nella realizzazione di una nuova opera d’arte, la svolta. Acquisito negli ultimi anni un suo stile personale fresco e plastico, la cui bellezza è stata riconosciuta in diverse gallerie che vendono piuttosto bene i suoi lavori, ora vuole di più. Nonostante abbia chiesto spazio e sia partita per New York, Mila si sente arricchita dall’incontro con Mathieu e desidera immortalare sulla tela quella donna nuova che sente di voler diventare.

Anche Jana si trova a New York, dove, passeggiando per Manhattan, sente crescere dentro sé un desiderio di maternità e voglia di condividere con il proprio uomo, James, il suo sguardo sulle cose.

Tutti i protagonisti hanno il desiderio di superare se stessi, ed è proprio dal superamento di sé che sparisce l’ego e che si dà spazio ad altro, in questo caso all’altro.

Da una parte, l’estasi per la vastità delle possibilità, dall’altra l’esitazione davanti all’ostacolo.

Mahmoud, come risposta pacifica alla violenza, ha dipinto a strisce due asini, pur di non far sentire al suo zoo sulla Striscia di Gaza, «lo zoo della gioia», la mancanza delle zebre morte di fame in seguito ad un’offensiva israeliana.

«Modificare le apparenze per influenzare e cambiare il mondo… e scardinare le certezze che troppo spesso irrigidiscono l’animo umano […] Senza la magia la vita non è niente. Senza utopia, vince il cinismo».

Per James quelle due zebre sono riuscite ad annullare il tempo e lo spazio, in un luogo dove ha toccato un fondo da cui risollevarsi gli sembrava impossibile: per questo vorrebbe che tutto il mondo le vedesse, per l’energia e il messaggio positivo che veicolano.

È così che la narrazione del percorso personale di ognuno confluisce nel racconto di un’impresa.

In Due zebre sulla trentesima strada, Marc Michel-Amadry invia un messaggio importante, quello di credere nelle proprie possibilità e nella capacità di poterle impiegarle per qualcosa di stupefacente per se stessi e per gli altri.

Una piacevole iniezione di ottimismo, caratterizzata però da uno stile narrativo a tratti troppo infantile: parlare di magia non implica necessariamente il dover utilizzare un linguaggio poco accattivante per un pubblico adulto.

(Marc Michel-Amadry, Due zebre sulla trentesima strada, trad. di David Santoro, Elliot, 2012, pp. 92, euro 12,50)

“Dove sono gli uomini?” di Simone Perotti

Non è una puntata di Sex and the city. Non c’è Carrie Bradshaw appollaiata davanti al pc, mentre impugna un bicchiere di rosso e le sue migliori massime sull’eterna tenzone tra uomo e donna.

Questo è un libro signori, un saggio di attualità, senza nessuna velleità di fiction. Per quanto anche quella, se ben cesellata, non possa esimersi dall’inchiodare il tempo sulle sue stesse impronte.

E non si può sfuggire, a partire dal titolo, mascherato da domanda solo per non negarci il carnevale di risposte. Lo trovate senza affanno, che troneggia beatamente accanto all’istant book su Andreotti o all’estremo distillato sulla decrescita felice. Perché quello di cui tratta è una tematica sociale di una certa urgenza. Sincopata in diciassette lettere. Dove sono gli uomini?  (Chiarelettere, 2013).

Se lo chiede l’autore, Simone Perotti, giornalista e scrittore già noto per altri casi editoriali, come Adesso basta (Chiarelettere, 2009) e Ufficio di scollocamento (Chiarelettere, 2012).

Ma in realtà il coro somiglia a quello del Nabucco.

Possente, vigoroso, sfaccettato eppure unanime. Dentro sono confluiti pareri, prospettive, narrazioni di donne diversissime. Per età, interessi, ceto sociale, topografie estetiche. Insomma, c’è un mondo intero a galleggiare tra le pagine. Tessere lontane che compongono un mosaico omogeneo. Latitudini opposte di aspettative disattese, slanci sgonfiati, futuri amputati in un presente molto indicativo.

Troppo per restare zitte. È un collage di storie quello montato da Perotti, un plotone di racconti che partono da punti irraggiungibili e diventano in fretta affluenti dello stesso fiume: la solitudine.

C’è Barbara, che dopo vent’anni di matrimonio vuole virare altrove, che è stanca di fare mente e braccia della sua stessa coppia. Stanca di capitanare l’azienda di famiglia come fa con la sua casa, con l’equilibrio di cristallo di ogni singola scelta. Stanca di sapere che senza di lei crollerebbe tutto. Desiderosa per questo di sottrarsi al gioco, di vedere se davvero frana. Barbara che rivendica un perimetro di pace, un giardino di giorni innaffiati soltanto per lei. E il marito non capisce. Non può, non è in grado di assecondarla, perché non conosce altri modi di sopravvivere, se non aggrappandosi a sua moglie.

C’è Laura, che s’innamora di Giorgio e della loro intesa, della magia indefinita sgorgata così, da un minuto qualunque. Finché lui, che non rivela mai abbastanza di sé, non inizia a dileguarsi, vaporizzandosi come un deodorante per ambiente, lasciandole annusare messaggi sempre più flebili. Fin quando il silenzio non si apparecchia per bene, tra le candele di Capodanno e una cena già avariata ancor prima di finire in gola.

Giorgio è risucchiato dall’azzardo, dalla voglia di scommettere su tutto, tranne che sul suo cuore.

C’è chi si accontenta di un uomo a metà con un’altra, piuttosto che un mezzo uomo tutto per sé. Perché tanto il quotidiano irromperebbe con richieste smodate, bollette impoetiche, sforzi soffusi che è meglio evitare, lasciandoli in carico a chi è già condannato da un “sì”. E dice “no” a tutto il resto.

E poi ci sono Lorenza, Berenice, Bianca, firmamenti di donne a cui nessuno riscalda le spalle. Donne nuclearizzate, con una sola poltrona, un solo calice destinato a non scontrarsi con un suo simile. Donne inscatolate in quella dimensione, perché l’uomo non c’è. O meglio, come nei migliori sondaggi Doxa, non sa/non risponde. Troppo impegnato a trovarsi, con tutto che oggi i tom tom non scarseggiano affatto.

Troppo incentrato sui capelli da stirare, il suo petto da imbottire di muscoli e steroidi, le sue rughe da notte sbavata da levigare alla svelta, con una cura che anche Liz Taylor avrebbe trovato leggermente vanesia.

Uomini che colonizzano il bagno per ere glaciali, sperimentando sugli zigomi fermenti lattici e principi attivi brevettati dalla Nasa, mentre lei è già pronta da un’ora, malgrado non abbia improvvisato né trucco né abbinamenti cromatici. Uomini che rabbrividiscono davanti a un film horror, che non offrono la cena perché tanto ormai «le ragazze si sono emancipate» e pertanto benedicono la scusa evoluzionistica per risparmiare una quota e comprarsi un bel giochino della Playstation. Uomini che non sanno corteggiare, perché tanto non c’è bisogno, c’è una pletora così folta e impazzita di donne libere e belle che faticare non vale la pena.

Il tempo dell’attesa, quello analogico dei corridoi e dei telefoni col filo, non ha più gran senso nell’era del clic. Dove tutto principia da un “Mi Piace”, per sconfinare in un “Mi piaci” e culminare in fretta in un “Anche basta, grazie”. Quando le strutture mutano così radicalmente, però, sarebbe sciocco imputare la colpa (se di colpa si tratta) a un soggetto soltanto. E Perotti ce lo dimostra ampiamente. Il suo scopo è quello di ascoltare, capire, illuminare zone grigie senza puntare il dito contro un carnefice unico. Il patto si stipula in due. E quindi, se da una parte l’uomo ha paura e fa dietrofront, forse il contraltare è una donna che ha conquistato una centralità complicata da gestire. Che le scivola di mano. Dove per la carriera si rinuncia alla famiglia, dove incontrarsi è uno spazio tra parentesi. Dove il maschio soffre la retroguardia, perché per sentirsi qualcuno è stato sempre abituato a non essere eclissato, ad avere qualcuno accanto che si facesse piccolo per renderlo grande e degno di nota.

Tutto vero, tutto giusto. Un libro che semina amarezza tra i sorrisi e speranza tra le rese. Tutto da leggere per condividere. Al di là di un video su Facebook. Come si fa con un bagaglio unico da portare in due, una sola valigia che pesa parecchio, perché dentro c’è abbastanza stoffa per coprire entrambi.

(Simone Perotti, Dove sono gli uomini?, Chiarelettere, 2013, pp. 208, euro 13,90)

“Trouble Will Find Me” dei National

I National sono così bravi da metterti in difficoltà. Anche stavolta, con l’uscita del loro ultimo album, Trouble Will Find Me, uno cerca di trovare un difetto, qualcosa che non torni, eppure niente. Scorrendo autorevoli articoli di critica musicale, ho notato con piacere come anche i più intransigenti – di fronte a tale bellezza – sorvolassero persino sull’aspetto più dibattuto degli ultimi National, da Boxer in poi, ovvero l’essersi “adagiati” su una posizione vincente. Se High Violet rendeva ancora più lampanti e mirabili i pregi della più importante indie band del mondo, con Trouble Will Find Me siamo sempre in quei paraggi. L’ultima fatica del gruppo è un lavoro di mestiere, fermamente saldo nelle capacità dei musicisti, capace ancora una volta di produrre una lista di canzoni davvero stupende. Più che sperimentare o scegliere nuovi percorsi compositivi, i cinque dell’Ohio hanno confermato a pieno il loro sound. Se questo scontenta qualcuno, pace: dinanzi a questa bellezza, ci si sente in armonia con il mondo.

Ci sono sicuramente degli aspetti interessanti da notare in Trouble Will Find Me, molti dei quali ruotano attorno al leader Matt Berninger. Mai come in questo disco (il cui titolo è già un indizio) la sua voce baritonale ed emotiva suona colloquiale, dimessa, quasi depressa. I suoi testi, arrivati in passato a livelli poetici notevoli, adesso sono più una confessione, una chiacchierata confidenziale fatta con l’amico-ascoltatore. Una sottotrama di ossessione e di rimpianti lega e scalfisce le canzoni. Dai demoni della seconda traccia, alla Jenny che appare in più di un brano. L’eventuale tormento di Berninger non toglie nulla a livello qualitativo, anzi, rende le canzoni una perla unica. Come l’apertura di “I Should Live in the Salt” e il ritornello della successiva “Demons”: «Io rimango giù, con i miei demoni».

Di seguito, una inedita drum machine e gli archi sostengono la magnifica “Don’t Swallow The Cup”. Dopo la lenta e dolente “Fireproof”, ecco un uno-due che ti fa capire la grandezza dei National: “Sea of Love”, coinvolgente e irresistibile (correte subito a vedere il video!), e la struggente “Havenfaced”, dove i toni di Berninger arrivano direttamente al cuore dell’ascoltatore. Cosa che avviene per tutti gli altri brani, del resto: dalla commuovente “I Need My Girl” a “Pink Rabbits”, passando per “Slipped”, che all’interno contiene il verso capitale di Trouble Will Find Me: «I got a trouble in my skin / I try to keep my skeletons in».

Trouble Will Find Me è l’ennesimo grande disco di quella che ormai da qualche anno è la miglior band in circolazione. Per i cambiamenti o i rinnovamenti c’è tempo (o forse no, viste le ultime dichiarazioni di Berninger), ma alla luce dei fatti, criticare una musica così bella è un crimine.


(The National, Trouble Will Find Me, 2013, 4AD)


 

“In questa luce” di Daniele Del Giudice

Aveva ragione Leopardi quando diceva che la felicità consiste nell’aspettazione di essa: lo sanno bene gli appassionati lettori di Daniele Del Giudice, docente universitario e scrittore emblematico della nostra letteratura contemporanea che ha pubblicato “solo” sette opere in vent’anni. Questa volta, però, non si tratta di un altro romanzo come Lo stadio di Wimbledon e Atlante occidentale, né di racconti come quelli di Mania e Staccando l’ombra da terra. In questa luce (Einaudi, 2013) è una sorta di diario di bordo (utilizzando una metafora legata al mare di conradiana memoria) sulla scrittura, biografia intellettuale che comprende testi editi, pubblicati su riviste o scritti per conferenze, e inediti. Uno squisito pastiche letterario di temi, stili e linguaggi.

La “luce” a cui lo scrittore allude nel titolo riguarda il cambiamento subito dagli oggetti attraverso i quali comunichiamo con gli altri e definiamo, quindi, il nostro modo di essere individui pensanti. Un tempo erano di pietra, legno, ferro, e ci parlavano dell’agire diretto dell’uomo. Oggi sono fatti di luce (come la televisione, il computer, il telefonino), ci appaiono strumenti ostici e non portano più a una diretta e “fisica” comunicazione. L’azione primaria dell’uomo ora è guardare, trasformando il proprio cogito ergo sum in immagini. L’umanità sta vivendo una grande rivoluzione antropologica, forse la più potente degli ultimi tempi: la difficoltà, secondo Del Giudice, consiste nello stabilire un sentimento di appartenenza e contemporaneità con questo tempo.

E proprio quest’ultimo rientra nelle tematiche che l’autore affronta con ampi voli pindarici: dalla passione per la scrittura, alle arti, ai “libri degli altri”, fino ai linguaggi tecnici – il volo in primis, inteso come ciò che ci insegna (e che ci fa) volare con la mente o col corpo. In questo variegato panorama si scorge anche la genealogia letteraria dello scrittore (tra i tanti: Calvino, Gadda, Stevenson e, sopra tutto e tutti, l’amato Conrad).

Il saggio “Sulla traduzione” (forse uno dei più brillanti e interessanti dell’intera opera) è ricco di curiosità e citazioni su grandi autori del Novecento europeo che si sono cimentati in quello che Steiner descriveva come «l’antidoto o l’anticorpo di Babele poiché apre le lingue le une alle altre». Tra gli aneddoti imperdibili cito un Gide traduttore dalle non poche difficoltà, grande amico di Conrad; Artaud traduttore di Carroll, per non parlare delle vicissitudini intercorse per la traduzione di Queneau con Calvino, prima, e Levi, poi.

Anche nei capitoli “Televisione” e “Cinema” le riflessioni dell’autore assumono una poetica genuinità, grazie alla loro vena autobiografica: nel primo, Del Giudice non racconta la televisione dal punto di visita sociologico (cosa ha rappresentato e rappresenta tuttora nella nostra cultura), bensì come oggetto in quanto tale. Ricorda gli anni in cui la prima tv entrò in casa sua, quando era ancora bambino. Descrive lo stupore infantile, e quindi accecante, per «quella scatola quadrata, ingombrante che, solo a determinate ore del giorno, produceva immagini, cioè realtà, mentre per il resto del tempo riposava immota in se stessa, al più mostrando tanti puntini luminosi, una specie di nebbiolina sonora, oltre che visuale, foriera di chissà quali abracadabra». Nel testo sul cinema, invece, l’autore ci accompagna per mano nelle emozioni che la settima arte concedeva alla gente comune negli anni Cinquanta, con divinità sacre come Alida Valli, Grace Kelly e Katharine Hepburn; sullo sfondo, inquadrature di film come Il pianeta proibito e Tutti a casa si mescolano a immagini di un’Italia piccoloborghese. E, a proposito di paesaggi, anche le città assumono un ruolo fondamentale in questo saggio autobiografico: la descrizione di una passeggiata notturna a Venezia (città in cui Del Giudice vive) vi parrà intimista e piacevolmente malinconica, e poi Rabat, Treviso, Stavanger.

La lettura e la comprensione dei pensieri più arzigogolati e contorti di Del Giudice richiede a volte uno sforzo quasi eccessivo, anche a causa di noiosi tecnicismi e sofismi di non facile presa: piccole cadute di stile che si perdonano facilmente a uno scrittore e studioso del suo calibro.

(Daniele Del Giudice, In questa luce, Einaudi, 2013, pp. 200, euro 18,50)

“Doppio sogno” di Arthur Schnitzler

Vienna. Anni Venti. Carnevale.
Protagonisti di Doppio sogno, romanzo psicologico di Arthur Schnitzler, definito più volte dalla critica il «Freud della Letteratura», nonché amico dello stesso, sono la coppia borghese Fridolin e sua moglie Albertine. Il romanzo, che si snoda nel tempo cronologico di due giorni, si apre con il ritorno a casa da un ballo in maschera serale di Fridolin, giovane e affermato medico, e della bella moglie.

La coppia è eccitata: durante il veglione di Carnevale, infatti, entrambi hanno incontrato ambigue e misteriose figure mascherate che hanno risvegliato in loro strane emozioni, una nuova libertà e una forte attrazione verso il proibito, incentivo per amarsi, durante la notte, con una passione ritrovata ma piena di rancore. Il giorno successivo, infatti, aneddoti del passato accentuano la gelosia già scaturita tra i due.

Nonostante l’esercizio di una professione che lo vede e lo vuole sicuro, freddo, determinato, il giovane medico nasconde un’indole e una personalità molto fragili e insicure: il fatto che l’amata Albertine possa anche solo aver pensato di tradirlo, causa nella sua parte più nascosta un forte scompenso che lo porterà a peregrinare alla ricerca di una sorta di vendetta personale.

Fridolin inizia così il suo vagare per le strade notturne di Vienna, metafora di un vagare dentro se stesso; la tentazione e la seduzione sembrano continuare a incrociare la sua corsa sottoforma di donne, fanciulle, giovani prostitute da cui viene continuamente ammaliato.

Seduto al tavolo di un piccolo bar, il medico incontra un vecchio compagno di università: Nachtigall. L’amico, musicista strampalato non professionista mai divenuto medico, suona il pianoforte nei locali più disparati e, ultimamente, anche durante ricevimenti misteriosi che si svolgono in luoghi segretissimi, feste dal sapore noir e che profumano di pericolo. Qui, rivela, suona bendato ma, appunto, forse non a sufficienza da non poter sbirciare lo “spettacolo” che si svolge sulle note del suo pianoforte. Il giovane medico, tentato dal desiderio di prendere parte a una di queste feste, convince l’amico a farsi portare con sé, nonostante il rischio di essere scoperto come infiltrato.

Alla festa, le forme voluttuose di un’ignota ma incantevole donna lo rapiscono totalmente e il gioco si fa pericoloso, troppo per poter continuare. Il medico viene scoperto. La pena? Nessuna per lui, essendo riscattata la sua vita con il suicidio della bella misteriosa.

Mentre Fridolin vive questo tormento interiore tradotto nel desiderio, mai appagato, di tradimento, parallelamente la moglie sogna di tradirlo senza freni e pudore e, come se non bastasse, anche di assistere alla sua crocifissione.

Le esperienze della coppia, reali o sognate, rendono ancora più fragile la loro situazione, rispecchiano il disagio insito nel loro intimo, distruggono il già inconsistente ordine precostituito della stessa.

Ma, dopo il racconto del sogno della moglie e dopo il suicidio della bella e avvenente sconosciuta morta per redimerlo, Fridolin comprende che la sua fuga verso l’ignoto e il misterioso deve comunque terminare: insieme alla donna è infatti morta la notte trascorsa, con i suoi dubbi, fantasmi e tentazioni. Per tutto il tempo il medico, ha costantemente avuto davanti a sé l’immagine di lei, di Albertine che, apparentemente rimossa, in realtà non lo ha mai abbandonato durante la sua disperata corsa e in tutte le donne anelate non vedeva altre se non che lei, identificandola in colei che cercava.

Non resta ai due, quindi, di ritrovarsi e «[…] ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure…da quelle vere e da quelle sognate».

Il romanzo vede realtà e sogno confondersi continuamente: Schnitzler utilizza la dimensione onirica come veicolo di desideri repressi e nascosti ma anche e soprattutto come mezzo catartico per riscattare i protagonisti dalla realtà e togliere loro dalla condizione di alienazione simboleggiata per tutta l’opera dal travestimento e dalla maschera.

L’opera ci fa immedesimare ora nell’uno ora nell’altro membro della coppia, costringendoci in qualche modo a “guardarci dentro” e a interrogarci sui concetti di vero/onirico e sulla fragilità della condizione umana.

Il romanzo di Schnitzler ha ispirato la pellicola Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, film del 1999 interpretato dall’allora coppia anche nella realtà Tom Crouis e Nicole Kidman. Ma questa è un’altra storia. Forse.


(Arthur Schnitzler, Doppio Sogno, 1926)