Chi era Vittorio Sereni?

Negli ultimi tempi la poesia italiana si aggira nei corridoi della lirica senza sapere bene dove andare. La nostra vecchierella nazionale, come spesso accade ai vecchierelli, si sente scoraggiata, inutile e poco compresa. Ma per fortuna a consolarla ci sono i vecchi amici, come Vittorio Sereni (1913-1983), che, se fosse ancora in vita, tra pochi mesi compirebbe cento anni.    

Nato a Luino sulle sponde del Lago Maggiore vicino al confine svizzero, Sereni esordisce nel ‘40 con la sua prima raccolta di versi, Frontiera. Sono quadri dipinti con colori tenui in cui i toni dell’azzurro e del verde vengono animati da qualche raggio di sole pallido, scorci di città, momenti di vita sognata, presenze anonime che attraversano la vita come in un film muto e rallentato. Eppure in queste immagini prima e dopo il movimento, si intuisce qualcosa oltre l’inquadratura, fine o inizio che sia. È l’addio alla giovinezza vissuta con la malinconia degli ultimi giorni di vacanza, e il benvenuto a una condizione di maturità che coincide con la laurea, il dolore per la scomparsa di alcuni amici di gioventù (la poetessa Antonia Pozzi) e soprattutto l’avvicinarsi di una guerra già presentita.


Piazza

Assorto nell’ombra che approssima e fa vana
questa che mi chiude d’una sera,
anche più vano
di questi specchi già ciechi,
io non so, giovinezza, sopportare
il tuo sguardo d’addio.

Ma della piazza, a mezza sera,
vince i deboli lumi
la falce d’aprile in ascesa.

Sei salva e già lunare?
Che trepida grazia,
la tua figura che va


Chiamato sul fronte tunisino, il giovane Sereni è fatto prigioniero in Sicilia e passerà gli anni dal 1943 al 1945 in vari campi di prigionia algerini, lontano da tutto. Mancherà gli appuntamenti fondamentali che la sua generazione e tutta l’Europa stanno compiendo proprio in quegli anni, Liberazione e Resistenza comprese. Da qui nasce un sentimento di uno scoraggiato straniamento, di destino diviso. Nel frattempo tiene un piccolo taccuino di guerra, che sistemerà e pubblicherà subito dopo il conflitto, Diario d’Algeria. È un libro enigmatico, profondo e torbido che lascia sottilmente sgomenti già i primi lettori. Nonostante la giovane età Vittorio Sereni è già un poeta affermato.


Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alla costa di Francia.

Ho risposto nel sonno: – È il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta –.

Campo ospedale 127, giugno 1944


Rientrato in Italia si impiega prima presso l’ufficio pubblicitario della Pirelli e poi presso la Mondadori. Sono gli anni del dopoguerra e il conflitto continua, entro i confini nazionali, a lacerare il tessuto politico e sociale. Sereni, come tutti, ha un doloroso conto aperto con il passato che cerca di colmare con la poesia, uno sguardo di rimando. Nel 1965 esce il suo terzo lavoro, Gli strumenti umani. I sensi di colpa continuano a chiamare, e può succedere che finiscano per infilarsi nella vita di tutti i giorni calando sulla vacuità delle cose un velo d’angoscia che diventa ossessione.


La spiaggia

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, sputa: – Non torneranno più –.

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.

                                                   Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.


Siamo ormai nella piena maturità, Sereni ha condotto una brillante carriera aziendale ed è diventato il direttore editoriale Mondadori, un poeta funzionario di altri poeti che ha ridotto al minimo il proprio ingombro di scrittore e si è messo al servizio di alcuni dei nomi più roboanti del nostro secondo Novecento. Il vizio della poesia rimane a guardarsi allo specchio e in sé riconosce il (non?)senso di una vita intera dedicata alla testimonianza individuale e collettiva. Il limite che regola la realtà dei vivi è ormai solo una soglia posticcia.


Sarà la noia

dei giorni lunghi e torridi
ma oggi la piccola
Laura è fastidiosa proprio.
Smettila – dico – se no…
con repressa ferocia
torcendole piano il braccino.

Non mi fai male non mi fai
male, mi sfida in cantilena
guardandomi da sotto in su
petulante ma già
in punta di lagrime,
non piango nemmeno vedi.

Vedo. Ma è l’angelo
nero dello sterminio
quello che adesso vedo
lucente nelle sue bardature
di morte
e a lui rivolto in estasi
il bambinetto ebreo
invitandolo al gioco
del massacro.

“Città distrutte. Sei biografie infedeli” di Davide Orecchio

Non sempre la lettura si identifica con la ricerca della verità. Capita spesso, al contrario, che si preferisca trovarvi elementi da essa alienanti, che non siano però necessariamente frutto dell’altrui fantasia. A volte, infatti, è bello sentirsi raccontare qualcosa che sia quasi vero, qualcosa che potrebbe essere. Ed è quello che fa Davide Orecchio nel suo romanzo d’esordio, Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi, 2012), creando un complesso e coinvolgente gioco capace di proiettarci nelle vite, nei pensieri e nei fallimenti dei protagonisti delle sue biografie fittizie. O meglio, come recita il titolo, infedeli. Perché non si tratta solo di invenzione: ci ritroviamo a riconoscere in ognuna delle parti del romanzo una personalità, un carattere, un tratto che da qualche parte abbiamo già visto.

Una ragazza argentina che con coraggio affronta gli anni della dittatura, un bracciante molisano e la povertà della sua terra, un regista sovietico che si ritrova in Italia a fare i conti con la propria solitudine, un giornalista siciliano combattuto tra fascismo e comunismo, un diplomatico tedesco che riscopre la sua indole di filosofo, una poetessa infelice, sono questi i sei ritratti dietro cui si cela, o potrebbe celarsi, un personaggio reale.

Le esistenze dei sei personaggi sono ricostruite con un’impeccabile precisione attraverso la citazione di lettere, documenti, materiali d’archivio, ma anche grazie a una ricostruzione estremamente precisa di un sostrato emotivo e psicologico che ci permette di conoscere a fondo le passioni e le sconfitte personali di ognuno di loro. Sconfitte, appunto. Perché, non dimentichiamolo, parliamo di “città distrutte”, luoghi la cui esistenza è scandita da guerre, repressioni, morte.

Tutto ciò è simulacro dell’esistenza umana, delle sue illusioni infrante e della sua volontà di ricostruzione, proprio come la storia stessa. Ed è proprio a uno dei personaggi, la poetessa Betta Rauch, che dobbiamo il titolo del romanzo: «Spesso mi dici che sono un rudere con un tono che mi fa impressione. Io spero di no. Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite».

Una frase in cui potrebbe identificarsi ognuno di questi personaggi di cui, in queste pagine, arriviamo a conoscere le più impercettibili (e forse trascurabili, potrebbe pensare qualcuno), sfaccettature. Nessuno di loro ha lasciato una traccia indelebile nella storia come la conosciamo noi. Eppure ognuna delle biografie composte da Orecchio è forse più fedele alla realtà di quanto non lo sia il paragrafo di un manuale.

L’autore ha saputo unire la precisione biografica a un’appassionata letteratura, in un connubio innaturale eppure estremamente poetico.

Un libro di storia deve per forza essere un’immagine della realtà più attendibile di una biografia “infedele”? Forse, pensandoci bene, non è così importante saperlo.

(Davide Orecchio, Città distrutte. Sei biografie infedeli, Gaffi Editore, 2012, pp. 238, 15,50 euro)

“Lapubblicaquiete” degli Stanley Rubik

Stanley Rubik. Già solo dietro al loro nome si potrebbe discutere a fondo. I due richiami sono fortissimi e unici nel loro genere: da una parte il genio del regista Stanley Kubrick, una personalità che non ha certo bisogno di presentazioni, e dall’altra il gioco in grado di mettere alla prova abilità e pazienza di più generazioni, il famosissimo cubo di Rubik.

Ma tutto questo è più di una scelta di stile. Il gruppo romano, formato nel 2011, svela i suoi intenti e la sua anima dietro questa scelta originale. Dal regista americano arriva il gusto per il velato sarcasmo di fondo, per la ricerca di testi in grado di favorire molteplici chiavi di lettura dietro a un linguaggio spesso metaforico. Dall’altra parte la fragilità e la complessità degli uomini, nascosti dietro la loro apparente tranquillità ma intenti a lottare con i loro conflitti interni e le loro ossessioni; spesso, quando la soluzione sembra a portata di mano, una mossa sbagliata ci mette in difficoltà e ci costringe a ripartire.

In ambito musicale tutto questo si riflette in uno stile rock fortemente contaminato da influenze elettroniche, in cui armonie spesso dissonanti fanno da cornice al lamento e al disagio espressi a parole. In tutte e tre le tracce del loro EP Lapubblicaquiete, edito da Cosecomuni con la co-produzione artistica dei Velvet e pubblicato il 29 marzo, quanto detto fino ad ora diventa molto più evidente, ma sono necessari anche più ascolti per riuscire a cogliere sempre più sfaccettature di quanto vogliono intendere i quattro ragazzi romani. Se il consiglio rimane quello di ascoltare con attenzione tutti e tre i brani per rendersi conto in prima persona di quanto ho provato a spiegare, la band stessa potrà farci capire qualcosa in più nell’intervista che segue.


La prima domanda è probabilmente scontata ma quasi d’obbligo. Il vostro nome richiama il celeberrimo cubo ma soprattutto un regista entrato nella storia del cinema: quanto contano le opere di Kubrick nei testi degli Stanley Rubik?

A tutti noi piace il cinema di Kubrick, diciamo che il nome nasce ovviamente da un gioco di parole, quasi per scherzo. Di Kubrick ci piace il suo essere visionario, la sua ossessione maniacale per le inquadrature, la sua doppia chiave di lettura e ovviamente il suo essere fuori dagli schemi, soprattutto quelli hollywoodiani, basti pensare che uno dei suoi film più conosciuti, Arancia Meccanica, cosa mai accaduta nella storia del cinema, è stato ritirato dalle sale anche se stava riscuotendo un notevole successo! Quello che ci piace riportare di Kubrick nella maggior parte dei nostri testi è la sua duplice chiave di lettura, vedi “Pornografia” in particolare.


Il vostro sound è particolarmente originale, contaminate il rock con l’elettronica e con armonie volutamente dissonanti. Si è dovuti arrivare a un compromesso o le quattro anime del gruppo si sono trovate da subito sulla stessa lunghezza d’onda?

Abbiamo trovato sicuramente un punto comune, abbiamo tutti e quattro un background musicale molto differente, d'altra parte il nostro sound si regge proprio su questo delicato equilibrio. Si discute molto in fase compositiva ma quando chiudiamo un pezzo usciamo tutti dallo studio con un ghigno di soddisfazione.


I testi delle tre tracce del vostro EP Lapubblicaquiete richiamano fortemente, seppur per immagini metaforiche, la crisi interiore e tutte le ansie e ossessioni con cui combattiamo anche nella nostra normalità. Ma quanto c’è di autobiografico dentro tutto questo?

Penso che in quasi tutti i testi ci sia qualcosa di autobiografico, semplicemente il modo di raccontarlo è un elemento del tutto personale. In generale comunque in questo EP abbiamo scelto dei brani dove è presente una duplice chiave di lettura, tornando al discorso di Kubrick, ci piaceva questa atmosfera sospesa di fondo.


Non nascondo quanto, almeno in parte, nel 2013 ancora possa sorprendere la decisione da parte di una band di scrivere testi in italiano. Molti artisti o gruppi si spingono verso l’inglese anche sperando in eventuali successi esteri. Voi ancora non ci pensate o vi sentite più legati alla nostra lingua?

Noi abbiamo fatto un ragionamento al contrario, su questo ci siamo trovati molto concordi, ci sembrava assurdo il contrario. La sensazione che ho è che a volte ci si nasconda dietro l'inglese. Dire, affermare, pensare ed esporsi attraverso l'italiano ci denuda e ci pone direttamente in contatto con il nostro vissuto, il nostro sistema culturale e le nostre emozioni quotidiane. Noi volevamo proprio questo tipo di contatto. Adoro le band che cantano in inglese, non fraintendere, ma, a volte, vi leggo un meccanismo di mascheramento che non comprendo, ascolto un gruppo fortissimo dal vivo e quando scopro che cantano in inglese mi chiedo sempre la stessa cosa: ma non sarebbe più originale in italiano? Penso che nel 2013 la gente sia pronta per ascoltare proposte nuove, c'è una fortissima scena underground a cui non manca nulla, solo la giusta visibilità.


Tra i gusti musicali c’è un artista o una band in grado di accomunarvi come ha fatto Kubrick o vi ritenete complementari l’uno con l’altro?

Di solito non discutiamo mai quando si parla di Puscifer e NIN!


Volevo chiudere chiedendovi prima dove suonerete le prossime settimane, poi quanto stiate già pensando magari a un album completo da dare in pasto ai vostri fan.

Suoneremo sicuramente il 30 maggio al Traffic e sicuramente faremo qualche live in alcune radio della capitale, sui quali aggiorneremo attraverso la pagina Facebook e il sito internet. In questo periodo stiamo proprio lavorando sul nuovo materiale che sicuramente andrà a far parte di un prossimo full album.

 

“Ogni maledetto lunedì su due” di Zerocalcare

Stando a quanto scritto sulla homepage del loro sito web, forse non se l’aspettavano, quelli di BAO Publishing, che il terzo libro di Zerocalcare sarebbe letteralmente svanito dalle fumetterie e dalle librerie italiane solo pochi giorni dopo l’uscita, entrando a pieno titolo in svariate classifiche dei libri più venduti della settimana. Forse non si aspettavano che, insieme alla sesta ristampa de La profezia dell’armadillo (luglio 2012) e alla quinta di Un polpo alla gola (luglio 2012), avrebbero dovuto ordinare di gran corsa anche la prima ristampa di Ogni maledetto lunedì su due, disponibile dal 3 maggio e di cui abbiamo ricevuto subito (a questo punto possiamo dirlo) preziosa copia.

Non se lo aspettavano perché, come molti di voi già sapranno e come si intuisce facilmente dal titolo, Ogni maledetto lunedì su due raccoglie le strisce che sono state pubblicate ogni due lunedì (o quasi) a partire dal 9 dicembre 2011 e sono ancora online sul blog di Zerocalcare.

Delle strisce vi avevamo già parlato qui, e tuttavia, il successo del libro è chiara dimostrazione del fatto che un volume quando è di carta e puoi sfogliarlo veramente è un’altra cosa, anche se si tratta di «storielle» e «disegnetti», come Michele Rech (vero nome del fumettista tosco-romano) è solito ricordare nelle sue presentazioni. Con la faccia imbarazzata e incredula di uno che non ha ancora capito dove si trova e perché, Zerocalcare risponde con spontaneità e ironia a decine e decine di domande, curiosità e appunti divertenti di un pubblico numerosissimo e appassionato che dimostra conoscenza enciclopedica di tutte le sue vignette. Per poi, come di consueto, prestarsi per ore intere a disegnare un personaggio a scelta sulle copie dei libri acquistati da centinaia di presenti con il buon numeretto da salumeria in mano che, nell’attesa, non resistono e iniziano a leggere. («Fino a 10 ore consecutive sono rodato»,  ci ha raccontato Michele in un’intervista).

L’antologia presenta però un’esclusiva: tra le 213 pagine ne sono state inserite quasi cinquanta inedite e bellissime, colorate da Sara Basilotta. Si inizia proprio dall’input che ci dà la copertina, con Zerocalcare e il suo inseparabile amico immaginario/alter-ego/consigliere armadillo invisibili nel buio e aggrappati a un pezzo di legno a mo’ di Jack e Rose dopo l’affondamento del Titanic.

 

 

A rompere la monotonia di un’attesa ironicamente brechtiana intervengono i ricordi della vita sulla nave improvvisamente interrotta, ma che è presente e protagonista anche quando si è nel bel mezzo di un naufragio, con quel sapore nostalgico e agrodolce a cui le strisce del lunedì, raccolte nell’antologia, ci hanno abituato.

Con la sua vita da «trentenne che non può dirsi trentenne», infatti, Zerocalcare si fa portavoce geniale di un gruppo molto ampio di giovani insoddisfatti e senza punti di riferimento, condannati al ricordo di un tempo meraviglioso in cui si condividevano gli auricolari per ascoltare la musica in treno, uno ciascuno, e in cui film e cartoni animati creavano aspettative su futuri eroici in cui avrebbero trionfato giustizia, saggezza e temperanza.

 

 

Ci sono le bollette da pagare, il corridoio freddo e senza termosifoni, i viaggi in treno, lunghi e insopportabili, Internet, croce e delizia delle nostre giornate, le lavatrici da stendere, i genitori al telefono, l’incubo della pensione che non avremo mai. E poi ci sono Falkor, Bruce Harper, fedele amico di Holly e Benji, Dawson Leery, Lady Cocca di Robin Hood, la piccola Annette di Là sui monti con Annette, Kurt Cobain, l’intramontabile Maestro Yoda e un’urlante Margaret Thatcher, simbolo del dovere e del rigore.

Personaggi recuperati dai mondi più disparati vengono di volta in volta scelti per rappresentare un amico, un conoscente, una comparsa della storia o – ed è questa la caratteristica più spiccata dello stile di Zerocalcare – una sensazione, uno stato d’animo o un particolare valore che viene trasmesso efficacemente proprio perché diventa un’apparizione quasi fantasmagorica che si materializza accanto al povero protagonista.

Il corredo di simboli si costruisce e fa leva sui ricordi e le sensazioni che hanno fatto parte dell’infanzia e dell’adolescenza di tutti i nati negli anni Ottanta e che, proprio contrapposti al fiume di informazioni fulminee ed evanescenti che siamo abituati a ricevere oggi, continuano a essere mostri sacri e intoccabili e continuano a regalarci momenti esilaranti.

 

 

(Zerocalcare, Ogni maledetto lunedì su due, BAO Publishing, 2013, pp. 216, euro 16)

“Trash Express” dei Teatri delle Sguelfe

Trash Express dei Teatri delle Sguelfe è l’ultimo appuntamento della rassegna Radici, ideata da Valeria Impagliazzo con l’intento di portare il teatro sperimentale in provincia, in questo caso nella città di Scafati, in provincia di Salerno. Una rassegna che ha conosciuto, per fortuna, un discreto successo. Trash Express dei Teatri delle Sguelfe, scritto e diretto da Luigi Cesarano, è un esperimento tecnicamente interessante e si avvale della presenza di un cast di attori di spessore. Protagonista assoluto è il rifiuto, trash, ed è il collante delle vicende che si susseguono nel corso dello spettacolo.

Cesarano rappresenta delle vite di scarto, citando Bauman, rifiuti umani inconsapevoli, personaggi beckettiani fuori dal tempo storico. Pone, infatti, al centro della narrazione, una famiglia che vive con la fabbrica del riciclo, denominata «Spazza-tour», eredità di due anziani coniugi.

Una ragazza, sua madre e sua zia, tre caricature del contemporaneo al limite tra astrazione e realtà. Un quadro antropologico post-moderno che si interroga non sulle vicende economiche che dominano il mercato dei rifiuti ma punta il dito proprio sulla banalità del male, sul potere economico dell’uomo sull’uomo.

Eppure qualcosa non va in questo spettacolo, c’è troppa distanza tra la bravura degli attori, capaci di incarnare alla perfezione il doppio umano attraverso le maschere della Commedia dell’Arte, e un testo, troppo spesso, involontariamente banale. I meccanismi comici funzionano, alcuni scambi verbali sono irresistibili ma il tutto sfocia, irrimediabilmente, verso una prevista pochade che, sul finale, proprio quando il regista vira verso il reale, diventa ingestibile.

La regia, infatti, è sfilacciata, disomogenea, tra una sequenza e l’altra ci sono pause troppo lunghe e l’intero spettacolo regge solo grazie alla corposità e alla presenza scenica di Cinzia Annunziata, Eduardo Di Pietro, Valeria Impagliazzo e Adelaide Oliano.

Sicuramente questo collettivo è da tenere d’occhio e Trash Express, con alcuni accorgimenti registici e un decisivo rimaneggiamento del testo, può essere potenzialmente uno spettacolo pregevole.

 

Trash Express
di
Teatri delle Sguelfe
con Cinzia Annunziata, Eduardo Di Pietro, Valeria Impagliazzo, Adelaide Oliano
testi e regia di Luigi Cesarano

Andato in scena al Teatrosanfrancesco di Scafati il 17 maggio 2013.

“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino

In concorso ufficiale al 66° Festival de Cannes arriva il nuovo film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, viaggio a piedi nella Roma dei salotti salutato dalla stampa internazionale come capolavoro.

Jep Gambardella ha scritto un solo, acclamato, romanzo in gioventù, L’apparato umano, poi non è più riuscito a scrivere nulla, «perché Roma distrae». Tutti però lo ricordano e lo lodano come scrittore, anche adesso che ha sessantacinque anni e scrive di ogni cosa possibile su un giornale che ha «uno zoccolo duro di lettori colti». È la firma di punta, l’opinione che decide, lo sguardo che influenza.

Quando arrivò nella Capitale, a ventisei anni, era in cerca di fortuna e pensava di trovarla frequentando l’alta società del centro e delle feste in terrazza. Adesso ha il potere di farle fallire, le feste. Beve e fuma molto, va a letto quando gli altri vanno a lavorare, è diventato un grosso giornalista di costume e stravede per una spogliarellista di nome Ramona.

Il mondo che abita è fermo a una superficialità che prova a spacciarsi per profonda, che confonde l’ostentazione di cultura con l’erudizione, mescola Proust e Ammaniti e in cui tutti sono artistici e possono scrivere un romanzo o dirigere un film.

La morte di un amore di giovinezza porta Gambardella a cercare segni del se stesso che non è diventato. Rintraccia un amico che non vedeva da trent’anni, pensa di riprendere a scrivere, rigurgita, per un momento, il nulla bilioso in cui vive denunciando il vuoto degli altri, trova il coraggio di andar via da Roma per osservare il naufragio della Concordia al Giglio come la sua direttrice gli chiedeva da tempo. Intanto la Città Eterna mastica e ingoia tutto, sputando via i più deboli, come l’amico Romano, sensibile drammaturgo incapace che torna nella patria Nepi dopo quarant’anni di nausea, mentre tutto continua ad andare, come i trenini delle feste di Jep, senza arrivare da nessuna parte.

Prima ancora di vedere il trailer di La grande bellezza si è iniziato a parlarne come di un La dolce vita del duemila. Gli elementi in comune non sono pochi (il giornalismo, la mondanità, Roma pigra e silente in sottofondo, la struttura a episodi discontinui), ma le differenze li allontanano immediatamente. Gambardella attraversa a piedi la città in solitaria spiandone i dettagli più piccoli, un dialogo rubato, una suora che coglie le arance, e con essi compone il suo mosaico di una Roma parziale, deserta, tutta chiusa nel suo centro, fatta di chiese e monumenti. Mastroianni copre tutto il territorio urbano in elicottero, in macchina nel traffico, a piedi. Visita le periferie più degradate, ogni tipo di realtà umana. La vita dolce che racconta il suo personaggio è quella della mondanità pubblica, dei locali dove si appostano i fotografi, lo spazio di Gambardella e Sorrentino è invece quello esclusivamente privato di un’aristocrazia borghese chiusa in se stessa che non esce dagli attici e dalle ville. Se in Fellini c’era indulgenza e bonarietà nel guardare i vari tipi di miseria rappresentati, La grande bellezza che mostra Sorrentino è invece una galleria di povertà morale e intellettuale orribile in cui nessuno si salva e con cui empatizzare è impossibile.

Qui emerge quello che è il difetto più grande del film di Sorrentino e che lo allontana dal capolavoro. A volte, la rappresentazione del banale rischia di confondersi con la banalità della rappresentazione. Il regista si conferma autore con uno stile riconoscibile e potente. La qualità della messa in scena è elevatissima, grazie anche alla fotografia di Luca Bigazzi, ma la scrittura non sempre riesce ad esserne all’altezza. Sembra puntare più alla letteratura che alla sceneggiatura, riempiendo i dialoghi di citazioni da Flaubert, Bellow, di monologhi e di considerazioni che dovrebbero risultare alte ma finiscono, a volte, per mostrare più del necessario (Romano che spiega perché va via da Roma, la preparazione e l’esecuzione del funerale, l’insistenza sul tema della finzione e del trucco). Gli attori, pur bravissimi, hanno uno spazio di movimento limitato, incombe su di loro uno script troppo dettagliato che li imprigiona senza libertà di sfumare, di sottendere. Sorprendono interpreti comunemente associati al cinema popolare: Ferilli, credibilissima Ramona, stripper con Wojtila tatuato in spalla, Verdone come Romano, coscienza semplice e pura, Buccirosso volgarissimo e ipocrita giocattolaio.

Toni Servillo aggiunge un nuovo ritratto alla sua galleria di perditori che inseguono un riscatto, un orgoglio, uno stile, nel ballo mascherato della società, celandosi dietro il conforto di una maschera pubblica. Jep Gambardella è La grande bellezza del film di Sorrentino.

(La grande bellezza, di Paolo Sorrentino, 2013, drammatico, 150’)

 

“In the Flesh” di Dominic Mitchell

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie ancora inedita in Italia]

Questa non è un’altra serie sugli zombie. Certe cose vanno messe subito in chiaro, perché sarebbe riduttivo bollare così superficialmente alcuni show meritevoli di qualcosa di più rispetto a una semplice etichetta. Ma andiamo per gradi.

In Gran Bretagna, la popolazione morta nel 2009 si è risvegliata infestando il paese e terrorizzando la popolazione. Una grande epidemia durata per anni ha trovato la sua conclusione, ma non in una sanguinosa battaglia. Il nuovo punto di vista di In the Flesh è questo: la presentazione degli zombie come soggetti affetti da «sindrome da decesso parziale», una vera e propria malattia. Dalla quale si può guarire.

In centri specializzati migliaia di pazienti si sottopongono a cure mediche e psichiatriche per arrivare a una guarigione completa e poter fare il loro rientro in società. Tra questi Kieren Walker, un giovane in attesa di riabbracciare la sua famiglia dopo la lunga separazione. Tuttavia, se è complicato riabbracciare un figlio deceduto anni prima, molto più difficile sarà il suo ritorno a casa nella cittadina di Roarton, piccolo centro abitato in cui è nata la fondazione dei volontari umani, una sorta di esercito formato da semplici cittadini durante l’epidemia, che ha combattuto gli zombie in assenza delle vere forze militari britanniche, impiegate su un terreno troppo vasto per aiutare l’intera popolazione.

In una comunità così piccola, in cui tutti conoscono tutti e in cui la lotta ai non-morti è stata un esempio per il resto del paese, l’inserimento di individui affetti dalla sindrome da decesso parziale non è ben vista. Anzi, non è vista in alcun modo. Per i cittadini la lotta non è mai finita, e così In the Flesh – più che sulla malattia stessa, sulle sue cause o sulle origini della cura – concentra i suoi sforzi sul pregiudizio nei confronti di chi ha ucciso i propri cari, ha combattuto contro i vivi e ora pretende di tornare come vittima tra i propri concittadini. Difficoltà che ricordano gli anni successivi alla fine della guerra di secessione americana, in cui un immenso paese in battaglia per anni si è trovato “costretto” a convivere sotto la stessa bandiera.

L’accento della serie si sposta quindi sulla lotta per l’integrazione, ponendo una certa attenzione sulle turbe psicologiche di tutti i protagonisti, dai dubbi di Kieren sempre più pesce fuor d’acqua costretto a nascondersi per evitare ritorsioni, alla sorella Gem, irrequieta e arruolata nell’esercito volontario, fino ad arrivare ai genitori commossi nel vedere un figlio tornare dopo il suo decesso, ma combattuti nel ricordo di quella morte che destabilizzò l’intera famiglia.

Con soli tre episodi da un’ora ciascuno e una conclusione ben delineata (seppur con diversi punti lasciati colpevolmente in sospeso che hanno fatto storcere il naso a diversi critici) la serie si pone quasi più come un lungo film da gustare a cuor leggero senza troppe aspettative. In the Flesh non sarà probabilmente il capolavoro di questa stagione televisiva, e dati gli ascolti la conferma da parte della BBC per una seconda stagione non è affatto scontata, ma è sicuramente un’alternativa più che dignitosa se siete rimasti orfani di The Walking Dead fino al prossimo autunno, oppure apprezzate una piacevole variazione su di un tema ormai fortemente inflazionato.

 

“Il nido dei bastardi” di Mauro Anelli

Prendete Ammaniti, iscrivetelo alla Summer School di Alex DeLarge e costringetelo a stare in stanza con Palahniuk durante la stesura di Fight Club: Il nido dei bastardi di Mauro Anelli (zero91, 2012) è ciò che troverete quando andrete a riprenderlo.

Nibbio, Struzzo e Iena vivono a Nido, un paesino del centro Italia dove non c’è molto da fare. Per riempire certi pomeriggi afosi, per provare a dare un senso alle proprie vite, non essendo in grado di incanalare certe pulsioni se non nella violenza, che è apparentemente l’unico modo per stare in pace con il mondo, i tre sono protagonisti di pestaggi, risse, stupri, omicidi.

A scandire il tempo, dalla pre-adolescenza alla post-adolescenza, i parroci che vanno e che vengono dal paese, e l’odio viscerale che i tre nutrono nei loro confronti: «I preti, si sa, sono una brutta razza, ma quelli di paese lo sono ancora di più», fino all’arrivo di Don Michele, che piomba sulle loro vite come una sorta di deus ex machina.

Tutt’attorno la realtà di paese, la solitudine, le donne pie, la perpetua, il cieco nato, la gelosia degli uomini nei confronti dei nuovi parroci, che diventano l’attrazione principale di Nido distraendo le mogli dai propri compiti, e il tentativo da parte dei Nostri, volontario o involontario – sicuramente balordo, con intenzioni quasi estetiche –, di stupire i compaesani, assopiti dall’infinita riproposizione dell’identico delle loro vite. Stupire con qualcosa che desti scalpore e orrore, come l’idea di proporre, migliorandola, una nuova versione del massacro del Circeo, lasciando due ragazze pestate a sangue all’interno di un’auto al centro della piazza principale del paese. Come fosse un’installazione artistica, come se Nido fosse un museo, e loro tre, contemporaneamente, artisti, espositori, organizzatori.   

Secondo romanzo di Mauro Anelli, Il nido dei bastardi è un pugno allo stomaco, un compendio della violenza come liberazione, come gioco, come passatempo. Violenza come eccitazione pura.
L’autore sa come gestire certi aspetti dell’essere umano, noi forse no.
Maneggiare con cautela.

(Mauro Anelli, Il nido dei bastardi, Zero91, 2012, pp. 134, euro 10)

The Italian Bookshop: c’è ancora una libreria italiana nel cuore di Londra

«Da oggi una libreria italiana nel cuore di Londra». Era il 21 maggio 1994 e con queste parole il Corriere della Sera salutava l’apertura nei pressi di Leicester Square a Londra del primo Italian Bookshop del Regno Unito, affidato a Flavia Gentili per iniziativa del distributore Messaggerie Musicali. La libreria occupava (sì, oggi dobbiamo usare l’imperfetto) uno spazio su due piani in moquette e parquet al numero 5 di una via dai colori ottocenteschi, piena di librerie antiche, negozi di stampe e botteghe: Cecil Court. In un periodo in cui l’interesse per la lingua e la cultura italiana era decisamente in crescita (ricordiamo che l’italiano è ancora la terza lingua studiata nel Regno Unito), la volontà di riempire una lacuna presente nel mercato editoriale inglese, che riguardava appunto l’offerta di una selezione di titoli italiani e sull’Italia in un unico punto vendita, era diventata qualcosa di più: un luogo in cui respirare un po’ della bellezza del nostro paese proprio attraverso ciò che da sempre, per fortuna, ci rende orgogliosi: la nostra letteratura; un punto d’incontro per gli italiani residenti a Londra, un luogo dove andavano a curiosare gli inglesi che stavano imparando o volevano imparare l’italiano.

Nonostante il passaggio a una società inglese che si occupa della distribuzione di libri europei e alla cura di una libraia da generazioni, Ornella Tarantola, nell’aprile 2012 la libreria ha chiuso i battenti. Chi passava da Londra ogni tanto ed era solito fare un salto a Cecil Court, è rimasto deluso. Ci è venuta voglia di saperne di più.

«Non possiamo nascondere la realtà», ci ha raccontato Ornella Tarantola, «le librerie hanno sofferto e stanno soffrendo anche qui. Negli ultimi anni l’aumento delle tasse universitarie e la crisi sicuramente non hanno invogliato giovani e meno giovani a iscriversi ai corsi d’italiano. Poi è arrivato il rincaro degli affitti. Per me è stato un grande dolore».

 

 

Gli inglesi, però, sono più conservatori, più attenti e rispettosi delle piccole attività. È per questo che molte librerie continuano a esistere, come piccoli tesori da scoprire negli angoli della capitale britannica.

Se cercate su Google, infatti, scoprirete che The Italian Bookshop esiste ancora e si trova oggi in Warwick Street 5, a cinque minuti a piedi dalla vecchia sede e all’interno di un’altra libreria, The European Bookshop. Uno spazio certo meno ampio, ma uno spirito e una voglia di fare che non accennano a diminuire.

«Lo spazio è bello e sono contenta! Abbiamo potuto portare con noi tutte le cose importanti e credo che, nonostante l’assoluta mancanza di una politica di supporto alla lingua italiana, questo posto rimanga una bella vetrina per la nostra editoria».

 

 

E i lettori inglesi sembrano rispondere bene: «Gli inglesi amano avere il libro in mano, sia su Kindle che cartaceo. Sono amanti della Divina Commedia e se dovessi accogliere tutte le traduzioni potrei aprire una libreria dedicata solo a quello. Stanno però scoprendo anche la nuova letteratura italiana e vendiamo Carofiglio, Carlotto, Lucarelli. Anche se il più venduto in assoluto rimane Ammaniti. Il metodo che usiamo per interessarli è raccontare dove sono ambientati i libri. In questo periodo propongo Io che amo solo te di Luca Bianchini (Mondadori, 2013) dicendo che è ambientato in Puglia e gli inglesi ne vanno pazzi. Cercano tra le pagine un po’ dei nostri paesaggi, un po’ delle nostre atmosfere».

Un libraio che lo sia davvero, che sappia consigliare e sia vicino al cliente, infatti, rimane il segreto del successo di una libreria, del piccolo circolo che si crea intorno ai suoi scaffali, della rete di incontri e di ritorni che sfida anche le complesse dinamiche di una metropoli.

 

 

Ma l’Italian Bookshop non è solo questo.

Una vivacissima pagina Facebook con stati e commenti quasi interamente in italiano, un sito ordinato e pieno di rubriche, le presentazioni e gli eventi.

«Se vengo a sapere da un amico che qualche scrittore italiano passa da Londra, che c’è la possibilità di ospitarli e di creare un evento, un’occasione di scambio e di conoscenza io li acchiappo al volo! E i miei eventi sono tutti rigorosamente in italiano».

Proprio Luca Bianchini sarà ospite dell’Italian Bookshop la prima notte d’estate, il 21 giugno, mentre tra qualche settimana, il 4 giugno, arriverà Luciana Littizzetto con il suo Madama Sbatterflay, edito da Mondadori nel 2012.

Quando chiediamo a Ornella di dare un consiglio a tutti i giovani italiani appassionati di libri e di editoria che vogliono provare a fare un’esperienza all’esterno, ci risponde: «Non arrivate qui con un inglese approssimato. La meritocrazia qui funziona ancora, quindi continuate a esserci!».

Se vi trovate a passare da Londra, non dimenticatevi di fare un salto all’Italian Bookshop e di firmare l’ormai mitico poster di Aprile.

 

 

Ringraziamo Ornella Tarantola per la disponibilità e Alessandra Ciriachi per le foto.

 

Per ulteriori informazioni:

The Italian Bookshop

5 Warwick St. London W1B 5LU, Regno Unito

+44 20 7240 1634

italian@esb.co.uk

Sito Web

Pagina Facebook

“I cani abbaiano” di Truman Capote

Stando a I cani abbaiano (Garzanti, 2013), Truman Capote non si è accontentato d’essere uno dei pesi massimi della narrativa del Novecento. No, lui quel secolo l’ha voluto vivere fino in fondo. Oltre a raccontarlo, ha voluto calarsi completamente nel suo tempo e nella storia. Viaggiare, respirare l’aria delle capitali del mondo, seguire i movimenti e le correnti, ascoltare e parlare con gli altri grandi nomi dell’epoca. Un percorso unico e prezioso, tra mondanità e spirito d’inchiesta, giornalismo e passione. I cani abbaiano diventa così il diario-confessione di Capote. L’opportunità e la voglia dell’autore di raccogliere, riscrivere e reimpostare in un apposito libro tutte le esperienze e gli incontri più significativi. Oscilliamo tra l’autobiografia e una visita al backstage. Sicuramente significativa è in particolare una frase della prefazione, in cui si racconta subito l’aneddoto alla base della scelta del titolo: «Tutto quanto si può leggere qui è reale, il che non significa che sia la verità, ma lo è per quanto a me è possibile individuarla».

Dopo la prefazione – in cui volano già da subito nomi e vicende importanti – Capote inizia a raccontare in Colore locale (1946-1950) alcuni momenti della sua vita usando come pretesto e mezzo le città visitate o in cui ha risieduto. Partendo dalla New Orleans «simile a un quadro di De Chirico», alla  venerata New York, passando per i soggiorni italiani e greci. Non solo cronaca e descrizioni, ma arguta finezza nello scorgere i piccoli meccanismi dietro i tanti microcosmi che muovono i paesaggi e le città.

Segue Si sentono le muse (1956), il racconto in presa diretta delle vicende riguardanti la compagnia teatrale dell’opera Porgy and Bess. Questa sezione, vista la lunghezza e alcuni tratti monotoni, può rallentare la fruizione del libro, ma al lettore conviene andare avanti, poiché con Osservazioni (1959) arriva la parte più interessante. Qui si capisce quanto Capote abbia vissuto in maniera viscerale l’arte. Un continuo rapporto d’osmosi. Quasi una missione, in cui è impossibile separare letteratura e vita. Lo dimostra il capitolo riguardante l’opera più significativa dello scrittore: il capolavoro capitale della narrativa contemporanea A sangue freddo. Capote non ci racconta la genesi del libro, bensì la sua presenza sul set durante la trasposizione cinematografica del romanzo. A tale riguardo, offre un’illuminante quanto profonda e complessa riflessione: «Tutta l’arte è composta di particolari scelti: immaginati o, come in A sangue freddo, un distillato della realtà. Per il libro, così come per il film, solo che io avevo tratto i miei particolari dalla vita, mentre Brooks (il regista) aveva ricavato i suoi dal mio libro: la realtà due volta trasposta, e per questo ancora più vera». Una riflessione davvero notevole, che accompagna il regista nel ricordo. Un ricordo che non tralascia i momenti di forti e d’impatto, come quando Capote rimane sbigottito nel vedere la somiglianza tra gli attori scelti e i protagonisti del libro: gli assassini erano tornati in vita!

E come se non bastasse ad appagare il lettore avido di aneddoti e riflessione, ecco la serie di ritratti a star e capisaldi della cultura del Novecento. Memorabili quelli a Gide e Cocteau, come quelli a divi senza tempo del cinema come Bogart e la Monroe. Forse il più bello ha come protagonista Ezra Pound, poiché Capote afferma: «Qualche mese dopo, alla vigilia del processo per tradimento, fu dichiarato pazzo, come potrebbe esserlo qualsiasi poeta in possesso delle sua facoltà artistiche».

Animato dalla verve e l’acume di Capote, I cani abbaiano è un ottimo modo per conoscere al meglio una delle penne più importanti della letteratura contemporanea e, ovviamente, tutta l’arte e la storia che è riuscita a vivere e custodirsi attorno.

(Truman Capote, I cani abbaiano, trad. di Mariapaola Dettore, Paola Francioli e Bruno Tasso, Garzanti, 2013, pp. 408, euro 20)

“Il mio nome era un altro” di Anna Maria Carpi

Due storie distinte, quella di Marek e quella di Anna, compongono il nuovo libro di Anna Maria Carpi: Il mio nome era un altro (Perrone, 2013). Storie a sé stanti e distanti, ma accomunate dalla genuinità dei sentimenti infantili, che non possono fare a meno di trapelare con onestà in qualsiasi situazione.

Marek nasce in Slovacchia nel 2000 e ha sei anni quando viene adottato da una coppia italiana; Anna invece è nata in Russia nel 1901, e benché sia la figlia naturale dei suoi genitori, non sente con loro alcun legame. Entrambi i bambini sono figli dell’Est Europa ed entrambi vivono con difficoltà un ambiente familiare in cui non si sentono a loro agio, in cui non riescono a sentirsi protetti e compresi.

La sofferenza di Marek è inconsapevole, uno stato d’animo che la sua tenera età non sa interpretare; è un senso di smarrimento, di vuoto d’identità che l’amore dei suoi “nuovi” genitori non riesce a colmare del tutto. Marek è un bambino buono, sveglio e recettivo; eppure le sue azioni sono spesso dominate da istinti incontrollabili, che provocano dolorosi rimorsi quando la pallida luce di una coscienza in formazione li svela.

La sofferenza di Anna è invece oltremodo consapevole: unica sopravvissuta di cinque fratelli, vive nell’ombra delle fotografie dei figli scomparsi che i genitori piangono, pregano e ricordano in ogni loro discorso, frase e pensiero. Anna è solitaria, riservata e prova un costante senso di colpa e di rabbia per la sua vita intatta; la sua curiosità, la necessità e la voglia di vivere che appartengono alla sua età la allontanano dal sentirsi parte di una famiglia che vive nell’angoscia e nel dolore. L’unico posto in cui si sente al sicuro è all’interno delle pagine di quei pochi libri che legge con voracità e che la portano lontano dalla tristezza quotidiana in cui rischia di annegare.

È appena iniziato il cammino di Marek e dei suoi genitori verso un equilibrio emotivo e identitario, ed è appena iniziata la scalata di Anna verso il modello di donna che vuole un giorno diventare. Da un lato l’affetto incondizionato di due persone che sanno cosa significa la parola amore, dall’altro la fiducia di chi sa riconoscere la forza vitale dell’ambizione e dell’affermazione sociale, anche in una bambina nata senza la parvenza di alte prospettive per il futuro; i percorsi di Anna e Marek sono iniziati sotto il segno della sconfitta, ma l’autrice apre alla speranza di una rivincita sul destino.

Anna Maria Carpi mette in relazione emotiva le due storie – i due giovani protagonisti alle prese con la vita e con i suoi conflitti di appartenenza e identità – e lascia in sospeso i finali, ma la sua scrittura quanto mai spigolosa e dura, la sua implacabile descrizione di una realtà disagiata e disgraziata, si ammorbidisce nelle ultime battute di ciascun racconto per mostrare il lontano cerchio di luce che si intravede percorrendo anche il tunnel più oscuro.

(Anna Maria Carpi, Il mio nome era un altro. Due bambini dell’Est, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 125, euro 10)

Marc Chagall al Musée du Luxembourg di Parigi

La mostra Chagall entre guerre et paix, che si terrà al Musée du Luxembourg di Parigi fino al 21 luglio, propone un nuovo approccio all’opera pittorica e grafica di Marc Chagall, artista russo di confessione ebraica nato nel 1887 e morto nel 1985. La mostra percorre gli episodi storici più importanti del XX secolo, la rivoluzione russa, le due guerre mondiali, la diaspora negli Stati Uniti, attraverso lo sguardo e la tecnica di un artista indipendente dai movimenti dell’avanguardia del Novecento.

Il percorso espositivo inizia nel 1915, anno in cui Chagall, dopo un breve soggiorno in Francia, torna in Russia, a Vitebsk (la sua città natale, nell’attuale Bielorussia) e sposa Bella Rosenfeld. Sebbene lontano dal fronte di guerra, Chagall restituisce in una tavolozza di chiaroscuri e in disegni al carboncino la violenta realtà dei movimenti delle truppe militari, i soldati feriti, la popolazione ebrea in esilio. Allo stesso tempo, rende con una pittura vicina al cubismo il ricordo melanconico della sua infanzia e il tema a lui caro della sua intimità con Bella nel focoso "Les Amoureux en vert" (1916).

 

 

Nel 1922, il pittore lascia il paesino di Vitebsk per andare a Parigi, nel tentativo di costruirsi una carriera artistica più internazionale. È il periodo delle opere commissionate dal mercante d’arte Ambroise Vollard, per il quale l’artista illustra diversi libri della Bibbia, Le anime morte di Gogol e le Favole de Jean de la Fontaine con guazzi e litografie. In parallelo, Chagall sviluppa il suo immaginario onirico fatto di personaggi ibridi metà animali e metà umani, come l’uomo-gallina o il ballerino-mucca, dando vita al nuovo bestiario chagalliano.

 

 

Nel 1937 le autorità naziste sequestrano le sue opere che vengono esposte alla pubblica accusa nella mostra Arte Degenerata di Monaco. Nel 1941, gli eventi politici obbligano Chagall a esiliarsi negli Stati Uniti insieme a Bella e alla figlia Ida. I quadri del periodo trascorso a New York sono ossessionati da una tonalità tragica che riflette la guerra, le persecuzioni e l’esilio e il tema della crocifissione diventa il simbolo universale della sofferenza umana. La sua visione della realtà mescola il piano onirico con i grandi temi fondatori della sua pittura che sono la sua città natale Vitebsk, la tradizione ebraica, la Bibbia, l’amore coniugale e la famiglia.

Nel dopoguerra Chagall è a Vence, nel sud della Francia, dove incontra Matisse e Picasso: è allora che la sua pittura si rasserena, e volgendosi a temi quali la libertà e la felicità. Il blu intenso del "Paysage Bleu" o il giallo abbagliante della "Danse" irradiano i suoi quadri.

 

 

Il colore diventa un elemento strutturale della sua pittura, che rivisita temi quali la danza, la musica e il circo. Mettendo in contrapposizione dialettica vissuto e fiaba, uomo e animali fantastici, storia collettiva e sentimenti personali, guerra e pace, Chagall racconta la storia del XX secolo attraverso un universo simbolico figurativo fuori dai codici delle correnti pittoriche del pensiero modernista, rappresentato per esempio da cubismo e surrealismo.

La mostra presenta un centinaio di quadri provenienti da musei internazionali – il MoMA di New York, la Galleria Tretiakov di Mosca –, dalla maggior parte dai musei parigini di arte moderna, dal Centre Pompidou e dal Musée National Marc Chagall di Nizza. Le numerose opere grafiche dell’artista, invece, provengono essenzialmente da collezioni private e arricchiscono la mostra di grande originalità. La scenografia, sobria e mai invasiva, mette bene in risalto l’intensità e la profondità delle tele dell’ultimo Chagall.

Chagall entre guerre et paix
Musée du Luxembourg
19 rue Vaurigard, 75006 Paris
Fino al 21 luglio 2013
Per maggiori informazioni consultare il sito: http://www.museeduluxembourg.fr