“Quando l’imperatore era un dio” di Julie Otsuka

Pubblicato negli Stati Uniti nel 2002, Quando l’imperatore era un dio (Bollati Boringhieri, 2013), seguito ideale di Venivamo tutte per mare, edito nel nostro paese lo scorso anno, racconta una pagina sconosciuta della storia americana, ovvero le vicende della prigionia della popolazione giapponese e nippo-americana dopo l’attacco di Pearl Harbor avvenuto il 7 dicembre del 1941.

Se leggenda vuole che l’Europa abbia brindato all’attacco giapponese che ha definitivamente convinto gli Stati Uniti a entrare in guerra contro il Terzo Reich, Otsuka ci ricorda con delicatezza che quando gli stati combattono tra loro macinano negli ingranaggi della guerra anche tante piccole storie individuali, e che non sono solo le bombe a fare le vittime.

La prima di queste vittime, nella piccola storia che si dipana nelle 153 pagine del romanzo, è un padre. Arrivano di notte a strapparlo alla pace della villetta in cui abita e lo portano via, ancora in pantofole, gettando la famiglia nell’orrore dell’ignoranza della sua sorte. Qualche tempo dopo arrivano le notizie, ma non sono buone notizie, il padre viene condotto in un campo di concentramento, poi in un altro, poi in un altro ancora. Le altre vittime vengono mietute all’apparire dell’Ordine di evacuazione firmato dal presidente Roosevelt, a seguito del quale la madre è costretta a preparare i bagagli per sé e per i figli e a impacchettare con cura la sua vita per consegnarsi a una lunga prigionia presso un campo nel deserto dello Utah dominato da sole, vento e polvere.

La madre, il padre, il bambino e la bambina sono contemporaneamente le vittime di tutte le guerre e i protagonisti a tutti gli effetti di una vicenda assolutamente unica. Da un lato, infatti, sono individui senza nome, spersonalizzati e universali, dall’altro, l’autrice li descrive attentamente calandoli in maniera precisa nel loro proprio contesto e cesellandone dettagliatamente i gesti e le abitudini. Il linguaggio di Otsuka, che si declina in maniera differente a seconda che il punto di vista sia quello della madre, del padre, dei bambini o di un più generico “noi”, è semplice e diretto come i pensieri dei protagonisti quando vengono evocati da dettagliapparentemente insignificanti. Non per questo, però, questo racconto, apparentemente freddo e distaccato, manca di pathos, anzi, il lettore ne è avvinto per effetto di una irresistibile forza debole che consente di compatire i personaggi senza aver bisogno di evocare atrocità, come quando, attraverso la lente familiare, ci viene raccontato il senso di colpa per avere il viso del nemico, o quando ci viene spiegato, attraverso la nostalgia degli alberi e delle limonate, l’orrore della segregazione.

Nel 1988 il governo statunitense ha chiesto scusa offrendo ventimila dollari come risarcimento agli internati, «ma la memoria è importante, io scrivo per difenderla», spiega Otsuka, che in un’intervista a Newsweek racconta che anche sua madre, che allora aveva dieci anni, suo zio e sua nonna hanno avuto esperienza del «campo recintato» e della squallida baracca descritti in questo romanzo.

Quando l’imperatore era un dio è un libro che vale sicuramente la pena di leggere, un po’ per restituire alle vittime della storia la consolazione della memoria, un po’ per riconoscere che, nei ricorsi della storia, potrebbe capitare a chiunque di indossare oggi o domani, senza saperlo e senza volerlo, il volto del «sabotatore fra i cespugli […] lo sconosciuto davanti al cancello […] il traditore nel vostro giardino».


(Julie Otsuka, Quando l’imperatore era un dio, trad. di Silvia Pareschi, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 153, euro 13)

“Raudo” dei Gazebo Penguins

Ogni mattina per arrivare in facoltà prendo la metropolitana e poi l’autobus. Ci metto tra i venti minuti e la mezz’ora, a seconda di quella grande incognita che è l’Atac Roma. Da un po’ di giorni la mattina ascolto i 26 minuti e 24 secondi di Raudo dei Gazebo Penguins. E se arrivo prima cammino più lentamente, e se arrivo dopo mi ascolto un’altra volta quel pezzo che a questo giro mi è piaciuto di più. In genere adoro i dischi che posso mettere in play e lasciar scorrere perché durano tanto quanto mi serve. Ma questo non è l’unico motivo per cui dovreste dare almeno un ascolto a Raudo.

Poi, cosa volete che c’entri la mezz’ora della mia metropolitana con la mezz’ora del nuovo dei Gazebo Penguins? Il fatto è che è lo stesso campo da gioco, quello della quotidianità, un percorso che gli emiliani seguono dal loro precedente disco in italiano, Legna, sempre per To Lose La Track del 2011, una bomba nel panorama underground che ha portato i Gazebo Penguins a consolidarsi una folta schiera di ascoltatori che li seguono quando e dove possibile ai loro concerti. La dimensione live è preminente nella musica del gruppo di Correggio («come Ligabue» dicono loro): ascoltando alcuni dei pezzi di Raudo te lo chiedi come saranno dal vivo, ma te lo chiedi per poco perché la risposta la sai già. Saranno pezzoni.

Il disco è un conglomerato di post punk rapido e divertente, dai testi che definirei contemporanei e quotidiani: prese di coscienza, ricordi nostalgici, scelte, calendari, traslochi e caffè che finiscono.

“È finito il caffè”, singolo che apre il disco, è un’epifania solitaria davanti a un’inezia, appunto a colazione; “Mio nonno” è una furia hardcore di un paio di minuti su una Resistenza continua, la resistenza di chi ha vinto ma non ha mai vinto; “Piuttosto bene”, l’ultimo pezzo, è una traccia atipica ma una chiusa perfetta.

La differenza che potrebbe sentirsi – e lo indicano anche i Gazebo Penguins stessi nel loro comunicato – dal precedente Legna è solo che mentre prima avevano registrato i pezzi che già avevano composto, per Raudo si sono trovati in marzo per inventarsi e registrare dieci pezzi tutti nuovi. E Legna era un gran disco, quindi fate i dovuti conti.

Se proprio volete un’ulteriore motivazione, anche deprecabile, è che è tutto gratis: sul bandcamp del gruppo il disco è in free download, come tutti i loro dischi, se poi vi piace lo comprate. O, se volete provarli dal vivo, il 26 maggio saranno a Pisa e il 31 a Genova.


(Gazebo Penguins, Raudo, To Lose La Track, 2013)
 

“Suicide Tuesday” di Francesco Leto

Sabato è troppo euforico, domenica troppo stordita, lunedì ancora incredulo e ingessato. E martedì è perfetto. Per voler morire. Lucido al punto opportuno per specchiarci il proprio torpore e capire che quando si è dissolto non resta più niente. In Inghilterra l’hanno battezzato Suicide Tuesday, ed è il titolo del primo romanzo di Francesco Leto (Perrone, 2013).

Sette giorni per chiamare il tempo. Per distinguere un sole dall’altro e fare un giro completo di fiato.

Un binario impastato di turni, scadenze, consegne, che allarga un sorriso solo guardando alle ultime fermate, quelle marchiate “weekend”. Perché il protocollo prevede che a partire dal venerdì sera si abbia il diritto di sterzare forte lontano dal dovere. Solo che a volte si eccede. Solo che a volte è il divertimento a diventare un obbligo. E deragliare è meno di un attimo.

Un calendario di storie innescate e seguite in parallelo: quella di Sergio, architetto quarantenne che in una mattina mimetizzata tra le altre sente dire «cancro» accanto al suo nome, e impara presto a comprendere che quegli edifici tracciati su un foglio o addosso a uno schermo dentro di lui inizieranno a sparire. Caselle di organi sbriciolate alla svelta, nel crollo di un domino in cui finirà tutta la sua vita: i progetti, le linee, le smorfie di sua figlia e la slavina di domande a cui è bello spesso non saper rispondere.

Poi c’è Giulia, la sua laurea freschissima e il burrone di futuro su cui dovrà affacciarsi. Andarsene o restare? Resistere o abdicare? Quanta ragione dover dare a sua madre che non si fida di quella strada che neanche lei sa definire?

Infine c’è Matteo, il fotografo che raccoglierà i loro volti dentro uno scatto. Sergio e Giulia saranno i suoi modelli, per motivi diversissimi. Per fermare la pelle prima che si accartocci, prima di sembrare a tutti solo una lapide ambulante. Oppure, nel caso di Giulia, per fare un regalo a un ragazzo sconosciuto, che sa appoggiarsi tra le crepe di quei momenti così soli.

Ma ovviamente anche Matteo, il personaggio collante dei vari percorsi, è più di un occhio dietro un obiettivo. È un bambino cresciuto con un padre incolore, morto all’improvviso dentro la sua macchina, come a sancire una distanza ricamata da sempre. È un adulto con un fardello di nodi da spennare, di cose da chiedergli ancora, attraverso delle mail che tornano al mittente. Mentre delle altre, indirizzate all’amico Robert, sanno ogni volta restituirgli un valore. Il senso di un abbraccio, un pensiero volatile e presente, che alla svelta diviene un’esigenza. Perché dietro ciascuno c’è un’ombra: più o meno spessa, più o meno nota, più o meno innominata, un tormento che rosicchia i nostri spazi, che siano cellule o parole.

Dentro ciascuno scorrono giorni di segreti che tendiamo ad annacquare e non sappiamo condividere. Neanche o soprattutto con chi ci affianca per anni. Non lo fa Sergio con sua moglie, Matteo con suo padre, Giulia con Enrico. E allora forse c’è bisogno di osservarsi attraverso altre pupille, raccontarsi in un’immagine grazie a chi non ci conosce e sa coglierci davvero. Lo fa Matteo con sue foto, dentro una camera oscura in cui le verità per emergere aspettano il buio completo. Lo fa un romanzo con la sua voglia di portare a galla graffi e bruciature, isolamenti liquefatti nei nostri mari di contatti sempre accesi, sempre possibili.

Nel mondo di WhatsApp, in cui parlare a chiunque non costa nulla e ci soffochiamo senza sosta di commenti e saluti, sappiamo realmente dirci qualcosa?

Leto non s’incarica di pronunciarsi a nome del XXI secolo, facendone d’altronde visceralmente parte, ma ci offre un profilo, uno spaccato secco e trasparente di tre abitanti dei nostri confini. Una storia ben scritta, un linguaggio chirurgico e disincantato, un martedì comune in cui l’iniziale sfilacciamento delle trame trova un palco su cui confrontarsi. Una serie di scatti che in coda sa svilupparsi come una foto di gruppo.

Una posa senza ri-scatto. Perché mercoledì ci attende dietro l’angolo.


(Francesco Leto, Suicide Tuesday, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 208, euro 13)

“Il Grande Gatsby” di Baz Luhrmann

Dopo l’attesa presentazione al Festival di Cannes arriva Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, nuovo adattamento del classico del novecento di Francis Scott Fitzgerald con Leonardo Di Caprio nei (sontuosi) panni di Gatsby.

1922, New York. Il giovane e agiato Nick Carraway, dopo aver deciso di accantonare le sue velleità di scrittore, arriva in città da Chicago per avviare un’attività di broker a Wall Street. Trova alloggio in un modesto cottage a West Egg, centro dei nuovi, e volgari, ricchi, accanto a una villa fastosa e perennemente illuminata in cui ogni notte vede arrivare fiumi di automobili attratte dalla musica. È la residenza di Gatsby, misterioso magnate di cui nessuno sa nulla e con cui Carraway finisce per intrecciare un’inattesa amicizia. Scopre così che il milionario aveva conosciuto anni prima sua cugina Daisy, che vive dall’altro lato della baia con il marito fedifrago Tom, ex campione di polo, e con lei aveva condiviso un amore. Carraway si ritrova a tramare per farli incontrare di nuovo, mentre lo spirito delle feste e dell’alcol iniziano a prendere il sopravvento sul suo carattere mite e temperato.

Dell’enormità letteraria de Il Grande Gatsby non è qui spazio per parlare. La complessità di una scrittura apparentemente semplice che somma in sé la critica del sogno americano, il confronto che diventa contrasto tra vecchie e nuove élite, la decadenza morale di un impero prossimo al crollo all’alba della crisi del ventinove: un materiale maestoso, da storia delle letteratura, ma con cui non si riesce a fare la storia del cinema. Un primo tentativo di trasposizione, muto, risale al 1926, a un anno di distanza dalla pubblicazione del libro, a firma di Werner Baxter. Nel 1949 un nuovo adattamento a cura di Elliot Nuggent non ha lasciato il segno, ma è la versione del ’74 la più nota, fino a oggi. Scritto da Francis Ford Coppola, diretto da Jack Clayton, il Gatsby interpretato da Robert Redford con Mia Farrow come Daisy si è guadagnato anche riconoscimenti e nomination, ma non ha guizzi, intuizioni, segue il testo in maniera didascalica risultando rigido e freddo.

A distanza di quasi quarant’anni ci riprova Baz Luhrmann con un Gatsby colorato e frenetico, pop in tutte le sue espressioni, pieno di contaminazioni ultracontemporanee, dalla colonna sonora a firma Jay-Z, allo sfarzo e devasto delle feste in villa che alternano momenti degni di Ibiza a suggestioni mutuate dalla Fantasia disneyana. In qualche modo, il regista australiano compie un’operazione uguale e contraria a quella fatta con Romeo+Giulietta: se lì immergeva Shakespeare nella realtà dell'immaginaria Verona Beach anni novanta, creando contrasto tra l’ambientazione moderna e il parlare in versi, qui invece filma i ruggenti anni venti con un’estetica ipermoderna che rende un’immagine contemporanea della frenesia jazz di quella New York e di quegli Stati Uniti.

La scelta stilistica – o piuttosto il nome stesso di Luhrmann – è stata oggetto di critiche prima ancora dell’uscita del film. L’approccio, che si attendeva irriverente, a un classico della letteratura alta da parte di un autore votato allo spettacolarità più che alla contemplazione lasciava presagire il peggio. In verità c’è da dire che l’esperienza del regista di Ballroom nel filmare scene corali e coreografiche garantisce una prima parte divertente e frenetica, a tratti spettacolare. L’eccesso e la magnificenza ricordano da vicino Moulin Rouge, il precedente ingombrante da cui Luhrmann non riesce a liberarsi. Perché da Moulin Rouge viene ripreso anche il modo della narrazione, con Carraway (interpretato da Tobey Maguire) banalizzato a scrittore febbrile e sofferente che batte a macchina la storia di Gatsby in un’inutile e inventata cornice in un sanatorio mentale che rende i due film praticamente sovrapponibili nella prima mezz’ora.

Proprio la voce sofferta di Carraway nella ricostruzione della vicenda finisce per semplificare la mostra di quei sentimenti e di quella nota di malinconia che nel libro sono accennati piuttosto che esplicitati. Così, è nel momento in cui si spengono le infinite luci di casa Gatsby che Luhrmann mostra le sue debolezze. Sorretta comunque da un Di Caprio, ancora una volta, magistrale nel rendere il sogno e l’immaginazione del suo personaggio, la seconda parte del film, quella in cui risorge, cresce e muore l’amore con Daisy, non ha spessore, profondità, finisce per annoiare. Il contrasto tra il primo tempo di musica e fuochi d’artificio e la decostruzione di un amore del secondo è troppo marcato, poco omogeneo.

Un Gatsby cinematografico all’altezza del libro è ancora lontano da essere realizzato.

 

(Il Grande Gatsby, di Baz Luhrmann, 2013, drammatico, 142’)

La collana principale di Playground

Per il secondo appuntamento di DietroLeQuarte del mese di maggio, dedicato a Playground, vogliamo soffermarci sulla collana principale che, con il nome coincidente a quello della casa editrice, dichiara la sua volontà di manifestare le scelte, gli obiettivi e le storie degli autori che sono diventati il fiore all’occhiello di questa piccola ma singolare realtà.

La collana si compone di quarantanove titoli e inizia il suo percorso nel 2004 con Bloody Europe! Racconti, appunti, cartoline dall’Europa gay, una raccolta di testimonianze, ricordi, avventure e luoghi che hanno protagonisti omosessuali che si incrociano per strada, nei locali, nei festival. Non è un caso. Con Bloody Europe! Playground prende parola e una posizione precisa, dichiara la sua sensibilità che, partendo dal mondo gay, si apre a storie di quotidiana tragicità (pensiamo al thriller Mimì di Sébastien Marnier), ma anche rivolte al passato e agli avvenimenti della storia europea più recente (l’ultimissimo Inclini all’amore della belgradese Tijana M. Djerkovic ripercorre le trasformazioni, le difficoltà, le contraddizioni della Jugoslavia socialista).

Tematiche forti quindi, attuali, realtà stridenti che non avremmo conosciuto altrimenti.

Scegliere di pubblicare nove libri l’anno, come Barbara Alberti ci ha ricordato, significa curare ogni copia con attenzione e senza tralasciare alcun dettaglio, come dimostrano le bellissime copertine (basti ricordare Il giardino perduto di Helen Humphreys e A cosa servono gli amori infelici di Gilberto Severini), le traduzioni, ma soprattutto la ricerca e la selezione di autori, italiani e stranieri, ancora poco conosciuti nel nostro paese, ma le cui storie hanno colpito e ricevuto importanti riconoscimenti.
 

Tra questi, come sempre, ci preme consigliarvi tre titoli:
 

  • Un giovane americano, di Edmund White (2012), primo volume della straordinaria teatralogia autobiografica di uno dei più grandi scrittori americani viventi. Un romanzo di formazione efficace e diretto dove a una scrittura accurata è accompagnato un commovente realismo;
  • Il quaderno nero, di Michel Tremblay (2012), una storia appassionante e imprevedibile ambientata in Québec, con un improvviso colpo di scena che rivelarlo rovinerebbe la lettura del romanzo;
  • Inclini all'amore, di Tijana Djerković (2013), romanzo scritto e pensato in italiano, la seconda lingua madre della scrittrice jugoslava Tijana Djerkivić. Arianna Vukovic, grazie alla sua inclinazione all'amore e all'arte dell'affabulazione ereditata dal padre poeta, ricostruisce la genealogia di una famiglia tutta al maschile.

“Alta definizione” di Adam Wilson

Adam Wilson, nuova voce della narrativa ebraica americana, ci regala con la sua opera prima, Alta definizione (ISBN, 2013), una sorta di romanzo di (non)formazione. Eli Schwartz ha vent’anni, un fratello semiperfetto, due genitori divorziati, una madre depressa, e qualche chilo di troppo. Ed è un perdente: niente college, niente lavoro, niente ragazza, nemmeno la patente. Le sue giornate trascorrono davanti a tv e computer, sui cui schermi si alternano film, social network, programmi di intrattenimento e una buona dose di video porno. Una routine invariata, sedata, che lo sprofonda piano piano in un abisso di inerzia post-adolescenziale, in cui l’impressionante quantità di informazioni che accumula ogni giorno si rivela pressoché inutile, poiché non fa che trincerarlo in una realtà parallela fatta di schermi piatti, droga e pornografia, in netto distacco dal reale e dal quotidiano.

A smuovere questa situazione di stallo, nel bene o nel male, è l’incontro con un ex divo del cinema ormai ridotto in carrozzella, Seymour Kahn, nuovo acquirente della casa ormai troppo grande e costosa per Eli e la madre: «Si parla di una casa, bisognerebbe cominciare da lì, e sarà lì che tutto andrà a finire, non prima che un mucchio di fucili, droga, spogliarelliste e altri capisaldi della vita suburbana contemporanea si siano uniti al cocktail come spuma rossa, dando all’acqua un bel color sangue e un sapore dolciastro, vomitevole».

Con un esilarante uso della narrazione in prima persona, Wilson ci racconta attraverso lo sguardo ironico di Eli l’ingresso trionfale di Kahn nella vita del ventenne, con ciò che di positivo e negativo comporta: lezioni di vita ambigue – ma pur sempre tali –, Viagra, droghe sintetiche, una pallottola in una gamba, e soprattutto una vera e propria iniezione di realtà. È così che il ragazzetto sovrappeso che viveva semisepolto nel seminterrato della madre torna gradualmente alla luce e si lancia in una maldestra educazione sentimentale: da Jenny – inarrivabile sogno erotico – ad Alison – con cui Eli sembra condividere, almeno per un attimo, piaceri e delusioni generazionali –, passando per la madre piacente di un’ex compagna di classe e l’ex moglie lesbica dello stesso Kahn, Eli si imbatte in una serie di figure femminili in bilico tra l’essere oggetti del desiderio e surrogati di una madre assente di cui lui sente ancora troppo la mancanza.

L’esordio di Wilson è caratterizzato da un’ironia impietosa, che riesce nel giro di poche righe a far ridere di gusto e a far sinceramente commuovere il lettore. Il linguaggio colloquiale di Eli non è immune dall’essere a tratti poetico, e la forza e l’immediatezza della scrittura ci proiettano istantaneamente in uno stato di tragicomica empatia con il protagonista. È quasi impossibile non affezionarsi a Eli, alla sua goffaggine, che nasconde una mente brillante, alla sua passione per la cucina, all’imbronciata tenerezza con cui in fondo gestisce tutti i rapporti umani.

Tuttavia, ci accorgiamo ben presto che la trama del romanzo si regge di fatto su pochi contenuti e su alcune situazioni e personaggi che, per quanto l’autore si dimostri in grado di utilizzarli al meglio, non si possono che definire stereotipati. La storia di Eli è quella di un qualunque adolescente benestante cresciuto a Internet, pasticche e serie tv: la ferita della separazione dei genitori ancora da rimarginare, il rapporto problematico con un fratello perfetto solo in apparenza, una vita sentimentale e sessuale tutta da definire, un futuro nebuloso, privo di coordinate tanto quanto di ambizioni. Due, se vogliamo, i punti deboli di Alta definizione. Il grande potenziale della folta galleria di personaggi che popola il romanzo resta talvolta inespresso: i personaggi secondari sono appena tratteggiati, e spesso sembrano togliere spazio a figure come quella di Kahn, tra le più complesse e riuscite. Inoltre, la seconda parte del romanzo è intervallata da diciannove finali possibili – che Eli ricostruisce sulla linea di vecchi film e scenari da copione – che, per quanto aspri e divertenti, hanno l’effetto di creare un’aspettativa eccessiva sulla vera conclusione della storia.

Nonostante gli alti e bassi, Wilson riesce a dosare sapientemente comicità e amarezza offrendoci un romanzo scorrevole e spassoso, nonché uno sguardo lucido e un po’ malinconico su una porzione della contemporaneità, americana e non solo.


(Adam Wilson, Alta definizione, trad. di Lorenzo Bertolucci, ISBN edizioni, 2013, pp. 426, euro 17,90)

“L’ultima fuggitiva” di Tracy Chevalier

Tracy Chevalier è tutt’altro che sconosciuta al grande pubblico della narrativa contemporanea. Di certo in molti si ricorderanno di lei per il best-seller La ragazza con l’orecchino di perla (1999), da cui è stato poi tratto l’omonimo film. Ora, a tre anni dalla pubblicazione del suo precedente libro, Strane creature, la Chevalier torna con L’ultima fuggitiva (Neri Pozza, 2013).

La scrittrice americana ci ha ormai abituato a una serie di suoi topoi peculiari: il protagonismo delle donne anzitutto (e volutamente non le definiamo eroine, espressione secondo noi non solo restrittiva, ma anche, in questo caso, inadeguata), l’attenzione a particolari scorci della storia dell’umanità, colti dall’autrice secondo punti di vista assolutamente originali, e infine il suo stile: piano, scorrevole, in un certo senso rassicurante.

L’ultima fuggitiva è una storia ambientata nell’America degli anni ’50 dell’800, gli anni fervidi ma più che mai duri del tramonto dello schiavismo e delle lotte abolizioniste. Su questo sfondo in divenire si muove la figura esile e incerta di Honor Bright, giovane quacchera inglese di Bridport che, trascinata dalla più inquieta e temeraria sorella, decide di imbarcarsi per l’America, desiderosa di porre tra lei e il suo passato scialbo e indefinito quanti più chilometri possibile. Terribile si rivela per la protagonista il viaggio attraverso l’oceano, che, costringendola a settimane di reclusione e malessere, le dà subito la misura dell’avventatezza della scelta fatta: ora sa per certo che non potrà più tornare indietro. Ma le brutte sorprese per lei non sono finite. Infatti, appena toccata la terraferma, Honor si troverà a dover affrontare la morte della sorella, che la priverà, in un sol colpo, dell’unico motivo per cui aveva intrapreso il viaggio e della garanzia di trovare appoggio presso quello che doveva essere il promesso sposo di lei. In cambio però avrà l’opportunità unica di cambiare radicalmente la sua vita, trovando se stessa e la sua strada.

La terra in cui è approdata le appare immediatamente l’opposto di tutto ciò a cui era abituata: sconfinata, piena di pericoli, un luogo in cui persino i boschi hanno un aspetto più minaccioso, dove la gente ha modi rudi e schietti. Degli americani impara però pian piano ad apprezzare la positività, il loro senso pratico e soprattutto la capacità di saper vivere.

Mentre è intenta a ricrearsi una vita sociale, qualcosa torna a turbare il suo equilibrio: la casa nella quale vive si trova lungo il crocevia di fuga degli schiavi che, verso il Nord, inseguono il sogno di libertà. I loro occhi, il grido di pietà che emana la loro persona, non lasciano indifferente l’europea e quacchera Honor, che scopre così l’esistenza di princìpi che travalicano di gran lunga il quieto vivere, le leggi o le convenzioni sociali. Trovando un coraggio a lei prima sconosciuto, inizia allora la sua personale e silenziosa guerra alla schiavitù, fra mille rischi e non pochi dubbi e turbamenti, incarnati da un particolare personaggio, Donovan, cacciatore di schiavi, tanto attraente quanto sfrontato e senza scrupoli, di cui Honor si invaghisce.

«Il giovane annuì e le sorrise, scoprendo i denti bianchissimi, e per un attimo Honor ebbe la sensazione che stessero giocando a nascondino, in mezzo al bosco, come due bambini. Intenerita ricambiò il sorriso e rimase a guardarlo mentre correva fra gli alberi, verso il Nord e la libertà. […] Inspirò a fondo e si addentrò con Dorcas nella selva, in cerca del ruscello di cui aveva parlato il fuggiasco. […] Avanzava con passo deciso fra gli arbusti , calpestando il terreno muschioso, incurante dei graffi delle spine e del bruciore dell’ortica. Si accorse, con sorpresa, che il bosco non le faceva più così paura, né era fitto come sembrava da fuori».

L’autrice racconta una storia molto coinvolgente, di cui affascinano le descrizioni della vita in un’America ancora tutta da scoprire, delle profonde tensioni che scuotono dalle fondamenta una terra in cui confluiscono mille popoli e culture, aspettative e volontà diverse di cui vediamo nel libro profilarsi la lenta e difficile fusione. Bisogna rendere merito alla Chevalier e alle sue indiscusse doti di narratrice, capace di calare il lettore nella Storia senza ricorrere a date o grandi eventi, ma semplicemente ritraendo lo scorrere quotidiano delle cose, senza mai per questo mancare di puntualità e puntiglio storico. Così dunque le passioni travolgenti e gli amori rassicuranti, i duri inverni dell’Ohio e le giornate trascorse a preparare scorte alimentari, il raccoglimento religioso dei quaccheri, la sofferenza senza fine di un popolo, quello nero e una democrazia che a poco a poco si dipana, così come gli splendidi quilt, le tipiche trapunte inglesi, vengono fuori da quello che sembra solo un groviglio caotico di fili e stoffe. Quasi con un montaliano correlativo oggettivo, la Chevalier riesce a trovare il particolare attraverso cui lasciare impronta dell’universale: nel libro i quilt appunto, intorno a cui si stringono le donne per infilare prima al dritto e poi al rovescio i punti di generazioni e generazioni di taciti sacrifici, di mute testimonianze dell’inesorabile farsi della Storia.


(Tracy Chevalier, L’ultima fuggitiva, trad. di Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2013, pp. 311, euro 18)

“La ragazza” di Angelika Klüssendorf

Se un vostro amico appassionato di Greimas vi raccontasse la trama del romanzo di Angelika Klüssendorf, delineandone soltanto le figure attanziali, vi sembrerebbe di trovarvi di fronte a un nuovo romanzo della Kristof. Soggetto, Adiuvante, Opponente, Destinatario, sono tutti elementi presenti sotto forma di personaggi terribili ne La ragazza (L’orma Editore, 2013), terribili e autentici come soltanto la Kristof potrebbe immaginarli.

Una madre alcolizzata che desiderava il vostro aborto e ve lo descrive in maniera così dettagliata da renderlo retroattivamente reale, un padre fantasma che con i suoi viavai rende la vostra esistenza ancora più instabile, un fratello semiautistico la cui compagnia ricorda sempre più un’assenza, una realtà spigolosa e monotona, in cui soltanto rubare le caramelle al negozio all’angolo può donare un briciolo di vitalità. Figure senza nome proprio, personaggi emblematici, attori di una pièce di provincia un po’ squallida e raffazzonata.

Ma, per quanto il vostro amico possa essere un appassionato di Greimas, sa bene che un consiglio di lettura infarcito di interpretazioni strutturaliste può rendere poca giustizia al libro in questione. La ragazza è, infatti, ben più di un collage di personaggi ben costruiti, efficacemente cattivi, come solo l’età adulta agli occhi di un bambino può esserlo.

È prima di tutto una storia di formazione al femminile, o, piuttosto, una storia che prende in prestito i codici del romanzo di formazione per rappresentare la resistenza spietata di una ragazza a una realtà che, nel migliore dei casi, le si mostra indifferente.

«Merda che vola per aria, sfiora i rami di un tiglio, colpisce il tetto di un autobus in corsa, plana sul cappello di paglia di una giovane donna, si spiaccica sul marciapiede.La gente per strada si ferma e guarda in alto. Il sole picchia giallo come zolfo, e piove merda, ma non cade dal cielo».

La «merda che cade, non cade del cielo» è la prima, fulminante, immagine che apre il romanzo della Klüssendorf e che racchiude in sé il senso della ragazza e della sua resistenza: chiusa da giorni con il fratello in un palazzo fatiscente di un’imprecisata zona della Germania dell’est, negli ultimi, agonizzanti anni della DDR, la ragazza con «un braccio bianco prende lo slancio» a costo di inzaccherare il cappello di una passante, destando così l’attenzione della polizia di quartiere, non ce la fa a tenerla dentro, la rigetta fuori dalla finestra, lancia la sua sfida al mondo.

Sono cinque gli anni che vengono raccontati, e il lettore li segue da lontano, così come l’autrice ce li presenta. Del romanzo di formazione ritroviamo soltanto le vesti; ancora una volta, seguendo l’esempio dell’autrice ungherese, la Klüssendorf decide di non permettere al lettore di allentare la presa, di rilassarsi, di “entrare” nella lettura. «Viene costretta», «le arriva», «entra a fatica», «cerca di capire»: i verbi al presente dominano nel romanzo, creando una sorta di cronaca anti-descrittiva; le azioni della ragazza ci sono raccontate come può raccontare un’azione la didascalia di un quadro. Abbastanza chiara da mostrarci l’azione nitida e concreta e, allo stesso tempo, abbastanza elusiva da non permetterci di renderla nostra. La storia della ragazza deve conservare il suo status di autonomia letteraria, non è una storia in cerca di lettori empatici e commossi, quanto piuttosto di testimoni, di ascoltatori.

«Nell’istituto c’è un silenzio inconsueto, va ai bagni comuni e apre le docce. Non la vede nessuno e nessuno può prenderla in giro, saltella da una parte all’altra, le piccole, dure gocce d’acqua le rimbalzano sulla pelle fino a farle male. Si mette davanti al grande specchio e non riesce a valutare che cosa le mostri: non è più una bambina, ma non è nemmeno altro, una non bambina, una non ragazza, una cosina magra stecchita; si avvicina al vetro, ci preme il naso contro e si dà un bacio».

Essere un’adolescente in una famiglia ai margini, in una società descritta senza orpelli, cruda e crudele, è essere doppiamente reietti, rifiutati in un paese di rifiuti. Eppure la ragazza riesce a perdonarsi, bacia la sua immagine allo specchio che non è più una bambina né ancora altro. Ed è forse questa l’unica cosa che sembra chiederci: ascoltare la sua storia e non sentenziare nulla, immaginare assieme a lei di «andar giù fino a toccare il fondo del mare, poi […] scattare nell’acqua fino in superficie, riemergere, come nuova, come se non fosse mai successo niente».


(Angelika Klüssendorf, La ragazza, trad. di Matteo Galli, L’orma Editore, 2013, pp. 168, euro 16)

“Utopia” di Dennis Kelly

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie inedita in Italia]

Inutile nascondere quanti di noi siano affascinati dal mondo dei fumetti, che ci trasporta in situazioni (se non mondi) lontane e improbabili in cui possiamo immergerci e dare sfogo alla nostra immaginazione. Probabilmente in molti qualche volta ci siamo posti la stesse domande: e se avessi avuto quel potere? E se quella cosa fosse successa a me?

Spesso si può immaginare cosa potrebbe succedere se quanto leggiamo diventasse realtà. Ma se qualcuno avesse nascosto scioccanti verità tra le pagine dei suoi lavori? Cominciamo a conoscere così Utopia, il titolo della creazione di Dennis Kelly per Channel 4 nonché della graphic novel su cui si basa la vicenda: scritto nel 1986, il testo sembra in grado di prevedere, almeno apparentemente, alcuni eventi più o meno tragici del futuro, come ad esempio l’esplosione del morbo della mucca pazza. Nella storia, ambientata ai giorni nostri, un nutrito gruppo di fan sembra attratto da questo manoscritto, chi per pura passione o curiosità come Ian (interpretato da Nathan Stewart-Jarret, già incontrato in Misfits nei panni di Curtis), chi per traumi passati come Becky, che dopo aver perso la madre è rimasta orfana anche di suo padre a causa di una misteriosa malattia legata in qualche modo alle cospirazioni disegnate in Utopia.

Dall’altre parte della barricata il misterioso “Network”, un’associazione segreta alla ricerca di queste pagine perdute per motivi apparentemente sconosciuti, e una domanda chiara fin da subito che scandirà la narrazione per una buona parte della serie: «Where is Jessica Hyde?». Tra rivelazioni da interpretare, segreti mai svelati, un’organizzazione in grado di conoscere praticamente ogni mossa dei propri obiettivi, i protagonisti della nostra storia capiranno in brevissimo tempo di essere entrati in contatto con qualcosa decisamente più grande di loro. Impossibile a questo punto uscirne e dimenticare tutto.

Va sottolineato come una trama apparentemente non unica nel suo genere (manoscritto in grado di prevedere disastri futuri, agenti segreti all’inseguimento dei protagonisti e sedicenti complotti nascosti) si riveli una storia quanto mai appassionante e in grado di stupire puntata dopo puntata fino alla fine dei sei episodi, in un susseguirsi di colpi di scena spesso più imprevedibili di quanto si possa immaginare. Tutta la storia viene poi accompagnata da una colonna sonora decisamente azzeccata in grado di trasmettere ulteriore inquietudine e tensione agli spettatori, non ce ne fosse già abbastanza.

A differenza di tante altre serie, Utopia è stata in grado anche di regalare un finale degno di tal nome ai propri fan, in modo da dare risposta alle vicende più importanti della prima stagione, ma lasciando una serie di porte aperte per la seconda (già annunciata ufficialmente per il prossimo anno) in modo tale da non lasciare l’amaro in bocca troppo spesso assaporato negli ultimi tempi. Come avevamo accennato qualche settimana fa, la Gran Bretagna indubbiamente ha colpito ancora una volta nel segno, regalandoci probabilmente la novità più accattivante di questa stagione televisiva a tratti piuttosto deludente. Dopo MisfitsBlack Mirror A Young Doctor’s Notebook (annunciato pochissimi giorni fa da Sky Arte) incrociamo le dita e speriamo che un altro colpaccio made in UK possa arrivare presto sui nostri schermi televisivi.
 

“La rivoluzione della luna” di Andrea Camilleri

Con La rivoluzione della luna (Sellerio, 2013), Andrea Camilleri torna al romanzo storico.

«In tutte le cronologie dei Vicerè di Spagna in Sicilia, fatta eccezione di una sola, arrivati al 1677, si trova puntualmente scritto che in quell’anno muore a Palermo il Vicerè don Angel de Guzmán e che succede alla sua carica il cardinale Luis Fernando de Portocarrero». Nessuno sa, invece, che viene omesso un piccolo ma importantissimo dettaglio, inspiegabilmente o troppo furbescamente, viene nascosta una storia. Non viene raccontato che tra la morte di Don Angel e l’ascesa al potere di Portocarrero, il defunto regnante lasciava un testamento al Consiglio Regio: l’inizio di un cambiamento. Capitava spesso, e non era la prima volta, che un Vicerè, in punto di morte, nominasse come successore un suo congiunto. La vedova italo-spagnola Eleonora di Mora fu l’unica donna al mondo in quell’epoca ad assurgere a un così alto incarico politico e amministrativo.

Romanzo che esce dagli schemi della serie tanto acclamata di Montalbano e delle sue avventure, La rivoluzione della luna è una fabula di nicchia, una storia non-ricordata negli archivi politici e che solo la meticolosità e la curiosità dell’autore siciliano hanno portato alla luce. Sono state spolverate carte e scartoffie, cercando il nodo centrale di una storia che molti preferiscono non vedere.

Il moto di rivoluzione della luna dura ventotto giorni, gli stessi rappresentati in questo romanzo breve. Giorni che creano scompiglio, confusione, che capovolgono il naturale corso del potere. Romantica e scellerata,la storia narrata da Camilleri parla del futuro e del presente, di politica e di donne, di ingiustizia e di sopraffazione.

L’ambientazione seicentesca lascia spazio a una storia teatralizzata in cui accadono eventi mirabili, in un contesto di malaffare e correità. La splendida neoregnante, «na fimmina àvuta, slanciata, tutta vistuta di nìvuro, la facci ammucciata un vilu nìvuro spisso», viene a presentarsi nella sala del Gran Consiglio sconvolgendo non solo l’occhio ma anche il cuore dei Consiglieri. «’Sta cosa è pejo di ’na rivoluzioni!», afferma uno di loro; e di lì a poco, una ventata di fresco e di rinnovamento sovverte l’ordine costituito: vengono arrestati ecclesiastici pedofili e corruttori, viene fatto abbassare il costo del pane, la dote regale viene utilizzata per il bene comune. Un sottilissimo filo che lega ieri e oggi, un giro di boa che si conclude con la vittoria del Bene e del vivere civile.

Dietro a questo importante cambiamento ci sono i pregiudizi di un popolo maschilista e retrogrado, ci sono le malelingue che si sfogano su una donna «così messa bene, la quali, è cosa cognita, vali meno assà di un omo. E certe vote, meno ancora d’una bona vestia. E se putacaso si metti ’n testa che lei vale chiossà, abbisogna subito rimittirla a posto».

«Li fimmini sunno bone sulo a lettu», si dice delle donne, e in particolare di un’eroina di cui l’autore va fiero.

Un racconto fuori dalle righe, preso dallo scaffale delle storie, da quella «biblioteca dei racconti da narrare da cui tutti gli scrittori attingono». L’impasto linguistico, in cui il lettore si deve calare lentamente, è dovuto alla presenza bipolare di siciliano, “camillerese”, come viene definito dall’autore stesso, e italo-spagnolo; il ritmo frizzante viene accentuato dai notevoli cambi di scena; il tutto corredato dalla penna di uno scrittore profondamente calato nel proprio territorio.

«È da anni che dico di fare un passo indietro, provando a imitare il governo di Le donne al parlamento di Aristofane, per riflettere. Sarò considerato un rinunciatario ma voglio dire una cosa fondamentale: il coraggio delle donne, enorme rispetto al sesso “forte”, è lo stesso coraggio che le porta a generare vita e ad averne fiducia», così Camilleri, con un tono quasi commosso, parla del suo ultimo romanzo.

Un giallo imprevedibile ma ordinato, coerente e scottante, che lancia un messaggio potente e lascia intravedere le delusioni dell’attuale politica corrotta e malandata, che si rinnova nel tempo, ma anche le speranze di chi nella rivoluzione crede ancora.

(Andrea Camilleri, La rivoluzione della luna, Sellerio, 2013, pp. 288, euro 14)

“Nove storie storiche” di Cesare De Marchi

C’è un’ambiguità nel termine italiano storia, che designa tanto la “narrazione” a diverso grado di sfrenatezza inventiva, quanto il racconto, sulla base di dati laboriosamente ricostruiti su dei documenti, di “fatti” che si sa, comunque, effettivamente accaduti (non succede altrettanto nelle lingue germaniche: in inglese, story non è la stessa cosa di history, come in tedesco Erzählung è altro da Geschichte).

Sopra questa ambivalenza semantica gioca il titolo dell’ultima raccolta di racconti di Cesare De Marchi, Nove storie storiche (Il Saggiatore, 2013). Perché, certo, di narrazioni si tratta: tutte ugualmente “inventate”, con la più fine, letteraria auscultazione dei moti intimi di chi vi è coinvolto e, più ancora, con la cristallina nitidezza del tocco descrittivo, la pregnanza poetica di metafore (per non dirne che una, «un pesante volo di uccelli bruni» i sassi degli insorti) e aggettivazione. Eppure, quest’invenzione di vicende umane, di una quasi programmatica quotidianità (c’è, ad esempio, iterato in più racconti, un preciso gesto fisiologico nettamente “basso”, per quanto vitale…), è sempre inquadrata sullo sfondo dell’altra storia, quella, come si usa dire, con la maiuscola, la Geschichte.

Il lettore così passa dalla fallita congiura dei Fieschi (1547), al bombardamento voluto da un imperialistico Lugi XIV (1684), all’insurrezione antiaustriaca del piuttosto scolorito, storicamente, Balilla (1746), e ancora all’ambiente dei patrioti italiani intorno al 1827, a un meno connotato anno dell’emigrazione ottocentesca verso l’Argentina, all’anno di Caporetto, e, con decrescente determinazione cronologica, ad anni fra il ’40 e il ’50, a quelli “di piombo”, e, in ultimo, a quello “di Mani Pulite” (posto che si debba parlare di un unico anno, per questa costante del recente Zeitgeist italiota…). Va detto anche che praticamente tutti i racconti rimandano, con accorti agganci onomastici, benché senza intenerimenti di nostalgia, al luogo geografico di nascita di De Marchi stesso, da anni, per altro, vivente a Stoccarda, e cioè Genova.

Quello che le nove vicende costruite da De Marchi hanno in comune, in questo approccio, sempre tangenziale, sbieco, alla “grande Storia”, è però – tranne, forse, per la quinta, il cui giovane protagonista si attesta in un suo darwiniano puntiglio di struggle for life – il tema, invero molto novecentesco, della sconfitta, della frustrazione: dalla congiura della prima storia, fallita banalmente, per uno scivolare dell’eroe e affogare, gravato dall’armatura, nel fango (anche se con il virtuosistico scarto narrativo che ne venga informato, sì, il lettore, dalla nota in fondo al volume, ma non lo straniato protagonista del racconto: svegliato da clamori e incendi del colpo di stato, non farà che tornarsene a letto, a dormire), fino alla mancata ammissione di un volontario al carnaio della Grande Guerra, alla fideistica attesa di marxiane palingenesi nel giovane dalla borghesissima erre moscia che prova vanamente a vendere qualche copia di Lotta operaia, ma sprofonda poi nella morbidezza del rimpianto per una quasi proustiana colazione assaggiata insieme a nonna Nene, da bambino; e così all’apparatcik dell’ultima storia, il quale, colto dai carabinieri con ancora la mazzetta fra le mani, non riesce, per disfarsene, ad altro che a intasare il water…

Pagine, dunque, di maliosa, appagante letteratura; ma anche, come così di frequente in De Marchi, di un agrume (Par., XII, 117) morale, non scevro di pigmentazioni sarcastiche, e di un disincantato affondo di bisturi alle radici di uno scacco che non è semplicemente quello di poche dramatis personae.


(Cesare De Marchi, Nove storie storiche, Il Saggiatore, 2013, pp. 169, euro 13)
 

“A Lady in Paris” di Ilmar Raag

Vincitore del Premio Ecumenico all’ultima edizione del festival di Locarno arriva in Italia A Lady in Paris, opera seconda dell’estone Ilmar Raag (già in evidenza con il crudo Klass del 2007) interpretato da una straordinaria Jeanne Moreau.

Anne ha un ex marito alcolizzato che continua a girarle intorno, due figli ormai grandi che studiano e lavorano all’estero e una madre malata a cui ha dedicato gli ultimi anni della sua vita, rinunciando al suo impiego come badante. Quando la donna muore, Anne si ritrova con la minaccia del vuoto a riempirle i giorni. Una telefonata la scuote; un’offerta di lavoro lontano da casa e da tutto. Decide di accettare, così prende le sue cose e parte dall’Estonia per raggiungere Parigi dove dovrà prendersi cura di Frida, un’anziana estone arrivata in Francia molti anni prima. I primi tempi non saranno facili: la signora non vuole essere aiutata, non collabora, si oppone con infantile ostinazione ad Anne distendendosi solo quando c’è Stéphane, un suo ex amante molto più giovane che continua a farle visita e si preoccupa di sostituire le cameriere che Frida caccia una dopo l’altra. Lentamente, Anne riuscirà a diventare amica di Frida ritrovando anche il piacere di occuparsi di se stessa.

Premiando A Lady in Paris, la giuria di Locarno ha motivato la scelta rimarcando la capacità di mostrare «le difficoltà di vita e di comunicazione tra due persone che appartengono alla stessa cultura ma a diversi strati sociali». Non è tanto il divario sociale a tenere lontane Anna e Frida. Non c’è snobismo o arroganza borghese. Frida non maltratta Anne perché è la sua badante ma perché le ricorda un passato che non vuole più come memoria, una patria, non solo geografica, lasciata anni prima e con cui non sente di avere più nulla a che spartire, perché divenuta una vraie parisienne. Non c’è più spazio nel suo presente per i ricordi, per quegli anni che si rifiuta di riconoscere come andati: accettare il tempo trascorso vorrebbe ammettere che quello con Stéphane è un amore morto e rinato come un affetto quasi filiale, vorrebbe dire precludersi l’ultima speranza di vederlo tornare un giorno per rimanere. Per questo Frida non esce più di casa, vive rintanata rifiutando la verità del tempo. Per questo guarda con dispetto le tradizioni estoni di Anne, le zuppe a colazione, le scarpe tolte appena si entra in casa.

Il punto d’incontro tra le due è a metà strada, come sempre. Così, Frida insegna ad Anne dove comprare i croissant la mattina, le passa i suoi vestiti da signora di salotto, le fa riassaporare il gusto di sentirsi donna, una donna di Parigi, mentre Anne convince Frida a conciliarsi con il passato, a parlare dei suoi ricordi in Francia e in Estonia, a raggiungere Stéphane al caffè che gestisce come faceva quando era una signora ammirata in tutta Parigi.

Se non tutto della memoria si può recuperare, come i rapporti con la comunità estone a Parigi da cui Frida è stata cacciata per il suo stile di vita scandaloso e irriverente, c’è sempre un modo per trovare un compromesso tra il passato e il presente, e per costruire un futuro. Così, Anne rinuncia all’elegante tacco alto per il più pratico stivaletto che l’aveva portata a Parigi mentre passeggia in un’alba parigina consumando il suo primo cornetto caldo sotto la Tour Eiffel. Così, Frida impara ad accettare l’altro come un’esigenza e un amore che non sia passione.

Ispirandosi alla storia vera di sua madre, andata a lavorare a Parigi ormai cinquantenne, Ilmar Raag confeziona un film delicato e poetico sulla solitudine della vecchiaia, di chi ha perso qualcuno, di chi lavora lontano da casa. Jeanne Moreau, ottantacinque anni, interpreta magnificamente Frida muovendosi sul filo di un divismo arrogante e irriverente, con una forte carica di ironia che va oltre il personaggio e si incrocia con la sua carriera («Non sono mai andata al Louvre in vita mia, forse una volta, tanti anni fa» dice strizzando l’occhio alla celebre corsa di Jules e Jim).

Attraverso Jeanne Moreau, Raag rende omaggio a Parigi e a tutto il cinema francese, inserendosi in quell’ampio filone di registi stranieri che, da Casablanca a Midnight in Paris, passando per Bertolucci e Ioseliani, si sono confrontati con la Ville Lumière e il suo indiscusso fascino cinematografico.

(A Lady in Paris, di Ilmar Raag, 2012, commedia drammatica, 94’)